giovedì 31 maggio 2012

Edilizia. Opere in zona sismica


L’art. 93, d.p.r. 6.6.2001, n. 380, prevede, inoltre, che chi intende realizzare una costruzione in zona sismica debba presentare domanda allo sportello unico per l’edilizia che provvede a trasmetterla al competente ufficio tecnico della regione. (N. Centofanti, Diritto a costruire , 2010, 953).
La denuncia dell’inizio lavori deve contenere il progetto e una relazione sulla fondazione, ai sensi dell’art. 93, d.p.r. 6.6.2001, n. 380, da presentarsi allo sportello unico per l’edilizia.
La giurisprudenza ha precisato che la legge sismica non distingue tra opere che necessitano di permesso di costruire e quelle che possono essere realizzate con semplice denuncia di inizio di attività.
L'obbligo di denunzia dei lavori e di preventiva autorizzazione deve, di conseguenza, essere rispettato per qualsiasi costruzione, riparazione e sopraelevazione.
Ai fini della presentazione del progetto non assume rilievo il carattere precario della costruzione, attesa la natura formale dei relativi reati ed il fine di consentire il controllo preventivo da parte della p.a. su tutte le costruzioni realizzate in zone sismiche. Nella specie è stata ritenuta necessaria la denuncia per opere relative a realizzazione di serre per la floricoltura (Cass. pen., sez. III, 29.5.2002, n. 33158, CP, 2003, 2027).
La ratio della norma in esame, infatti, è quella di tutelare la pubblica incolumità
L’esecuzione di una struttura intelaiata, in sopraelevazione a un fabbricato, è soggetta, nelle zone sismiche, ad autorizzazione preventiva del genio civile.
I poteri del genio civile sono quelli giù definiti dalla l. 2.2.1974, n. 64, come anche dalla l. r. Sicilia 15.11.1982, n. 135. Esse conferiscono all’ufficio del genio civile poteri di controllo, vigilanza e di repressione, fra i quali rientra il potere di sindacare se siano rispettate o meno le norme della legislazione antisismica in sede di progettazione e direzione dei lavori e, se del caso, di negare il proprio assenso ad un particolare progetto mediante la restituzione del medesimo (T.A.R. Lazio, sez. III, 6.2.1987, n. 194, FA, 1987, 1944).
L'esecuzione di siffatti lavori in difetto di autorizzazione è soggetta perciò alle sanzioni previste dall'art. 20 della l. 2.2.1974, n. 64. (Cass. pen., sez. III, 23.2.1990, RP, 1991, 49).
La competenza dei soggetti abilitati all’attività di progettazione va ripartita sulla base delle rispettive competenze, in particolare la competenza professionale del geometra è limitata alle piccole costruzioni.

Le norme procedimentali prevedono che, una volta che sia stata presentata la preventiva denuncia, l’inizio dei lavori possa essere effettuato solo dopo il rilascio dell’autorizzazione da parte degli uffici regionali competenti, ex art. 94, d.p.r. 6.6.2001, n. 380.
La giurisprudenza ha precisato che la preventiva autorizzazione scritta dell'ufficio tecnico della regione o dell'ufficio del genio civile costituisce un requisito necessario per l'esecuzione in località sismiche dell'opera prevista, ma non anche per la sua progettazione.
Essa, inoltre, non occorre nel caso di opere ricadenti in località dichiarate a bassa sismicità, all'uopo indicate nei decreti di attuazione della legge (Cons. St., sez. IV, 26.11.2001, n. 5936, FA, 2001, 2773).
L’autorizzazione deve essere rilasciata entro sessanta giorni dalla data della richiesta.
Qualora tale termine non venga rispettato, avverso il provvedimento di diniego è ammesso il ricorso amministrativo al presidente della giunta regionale che decide con provvedimento definitivo.
L’autorizzazione all’inizio dei avori non sostituisce il titolo abilitativo - che può essere il permesso di costruire o la denuncia di inizio di attività – ma, al contrario, si assomma a detti provvedimenti per consentire il legittimo inizio dei lavori.
Trattandosi di atto necessario alla realizzazione dell’intervento edilizio lo sportello unico per l’edilizia ne deve curare l’acquisizione .
Il permesso di costruire non è di per sé viziato per effetto della violazione della normativa antisismica.
La giurisprudenza ha fissato il principio secondo il quale il permesso di costruire non è atto complesso, in cui confluisca l'osservanza delle normative in materia di edilizia ed urbanistica - la cui cura è rimessa al comune - ed in materia antisismica - che è affidata al genio civile - sì da obbligare il comune all'osservanza anche di quella antisismica.
Al comune è demandato unicamente di verificare d'ufficio la permanente validità del nulla-osta rilasciato dal genio civile (Cass. pen., sez. VI, 21.12.1983).
Il Sindaco, responsabile del governo urbanistico del territorio comunale, prima di rilasciare una concessione edilizia in una località classificata sismica e per la quale è necessaria la preventiva autorizzazione degli uffici competenti, è tenuto ad accertare la regolarità di tale autorizzazione, nei suoi profili di ordine formale, in quanto tali profili si riflettono sul titolo concessorio, invalidandolo se irregolari.
Dal principio affermato dalla giurisprudenza consegue che il comune deve effettuare la verifica della esistenza e validità del nulla osta del genio civile e della rispondenza dello stesso ai grafici progettuali approvati dal comune stesso, in sintesi deve accertare la mera esistenza e regolarità formale dell'assenso dell'ufficio del genio civile.
Al comune non incombe altresì la verifica della rispondenza del progetto alla normativa tecnica per le zone sismiche, in quanto tale accertamento è demandato dalla legge ai competenti organi tecnici degli uffici del genio civile.
L'indagine di conformità alla normativa tecnica antisismica risulta assolutamente ardua ed impraticabile per quanto riguarda la maggior parte delle verifiche imposte dalla normativa in questione, per le quali il comune può anche non disporre del personale in possesso della necessaria qualificazione professionale.

Le sanzioni amministrative consistono nelle misure cautelari e nei procedimenti repressivi.
L’esigenza di salvaguardare l’incolumità delle persone che caratterizza la ratio delle disposizioni non consente procedimenti in sanatoria su iniziativa del privato, ma prevede che sia il giudice penale ad accertare, nel caso di violazioni, se la costruzione debba essere demolita o se sia possibile dettare delle prescrizioni necessarie a fare diventare le opere conformi alle norme.
La vigilanza per l’osservanza delle norme è demandata agli ufficiali di polizia giudiziaria, agli ingegneri e geometri degli uffici del Ministero dei lavori pubblici e degli uffici tecnici regionali, provinciali e comunali, alle guardie doganali e forestali, agli ufficiali e sottufficiali del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e, in generale, a tutti gli agenti giurati a servizio dello Stato, delle province e dei comuni.
Tali soggetti, appena accertato un fatto che costituisca violazione alle norme sismiche, devono compilare processo verbale e trasmetterlo immediatamente all’ufficio tecnico della regione o del genio secondo le competenze.
L’ingegnere capo deve dare notizia alla magistratura dell’accertamento, per consentire di verificare se sussistano reati e, contemporaneamente, ordinare la sospensione dei lavori.
La sospensione dei lavori è notificata, con decreto motivato, a mezzo di messo comunale al proprietario nonché al direttore o appaltatore od esecutore delle opere.
Per l’esecuzione dell’ordine di sospensione può essere richiesto l’intervento della forza pubblica.
Una volta emesso l’ordine di sospensione il procedimento di competenza dell’amministrazione si conclude e nessun altro provvedimento repressivo può essere emanato, ex art. art. 97, d.p.r. 6.6.2001, n. 380.
Spetta all’autorità giudiziaria, con decreto o con sentenza di condanna, ordinare la demolizione o impartire le necessarie prescrizioni per rendere le opere conformi.
In caso di realizzazione di opere edilizie in difformità delle norme previste dalla normativa sulle costruzioni in zone sismiche, o dalle fonti integrative da questa previste, la esecuzione della sanzione amministrativa della demolizione disposta dal giudice con la sentenza di condanna compete all'ufficio tecnico della regione o a quello del genio civile.
La Corte ha nella specie chiarito che non vi può essere una equiparazione con la disciplina del diverso ordine di demolizione di cui all'art. 7, l. 28.2. 1985, n. 47, la cui esecuzione dei provvedimenti adottati dal giudice, pure se applicativi di sanzioni amministrative, deve ritenersi demandata all'autorità giudiziaria, ai sensi degli art. 655 ss., c.p.p., e opera solo ove la legge non disponga altrimenti in modo espresso (Cass. pen., sez. III, 14.12.2001, n. 5674, CP, 2003, 249)
Quando l'ordine di demolizione di opere abusive è stato pronunciato dal giudice penale per violazione della normativa antisismica la sua esecuzione è sottratta al pubblico ministero per essere conferita al competente ufficio tecnico della regione.
Per le questioni relative all’ordine di demolizione di opere abusive per violazione della normativa antisismica, art. 98, 3° co., d.p.r. n. 380 del 2001, difetta la giurisdizione del giudice ordinario in favore di quello amministrativo.
La giurisprudenza ha affermato che costituiscono reato permanente non solo le omissioni penalmente sanzionate concernenti le cosiddette prescrizioni tecniche, nelle quali la permanenza non cessa con l'esaurimento dell'attività edilizia, ma anche quelle riguardanti adempimenti relativi al controllo dell'attività costruttiva, come l'avviso dell'esecuzione dei lavori e la presentazione del relativo progetto al sindaco e all'ufficio tecnico della regione o all'ufficio del genio civile, prescritto dall'art. 17, l. 2.2.1974, n. 64.
La condotta omissiva si protrae, determinando la permanenza del reato, finché l'obbligo non si estingue perché l'adempimento di esso è divenuto definitivamente impossibile per ragioni di diritto - come la prescrizione - o di fatto - ad esempio perché diventato inutile essendone esaurita la finalità (Cass. pen., sez. III, 19.3.1999, n. 7873, CP, 2000, 2763).
Il reato punito dagli artt. 18 e 20, l. 2.2.1974, n. 64 (posti a presidio dello svolgimento dell'attività edilizia in zona sismica) ha natura permanente, ma il carattere della permanenza cessa nel momento in cui le opere non autorizzate siano portate a termine. Anche il reato - di natura contravvenzionale - previsto e punito dall'art. 20, l. 28.2.1985, n. 47, ha natura permanente, ma la permanenza cessa nel momento in cui le opere edilizie, intraprese in assenza di concessione, siano portate a termine. Analogamente, anche il reato di abusiva occupazione del demanio marittimo ha natura di illecito permanente, tuttavia, anche in questo caso, la permanenza cessa nel momento in cui le opere non autorizzate siano completate. (Cass. civ., sez. III, 4.12.2002, n. 17178).
Se il reato è estinto per qualsiasi motivo la competenza a disporre la demolizione o a dettare l’esecuzione di modifiche idonee a rendere conformi le opere alle norme spetta al Presidente della giunta regionale.

Nel caso l’azione del giudice penale sia preclusa dall’estinzione del reato verificatasi per qualsiasi causa, su segnalazione del Genio civile, il Presidente della giunta regionale deve ordinare con provvedimento definitivo, sentito l’organo tecnico consultivo della regione, la demolizione delle opere o delle parti di esse eseguite in violazione delle norme sismiche ovvero di apportare modifiche idonee a renderle conformi alle norme stesse, ex art. 100, d.p.r. 6.6.2001, n. 380.
 Nel caso di inadempienza alle prescrizioni regionali da parte del soggetto passivo si procede d’ufficio.
La giurisprudenza è unanime nel riconoscere che, nel caso di estinzione per qualsiasi causa della contravvenzione antisismica, la competenza ad ordinare la demolizione o le opportune modifiche delle strutture abusive appartiene esclusivamente al Presidente della giunta regionale. L’intervento del Presidente della giunta regionale è obbligatorio.
Il ruolo della amministrazione è un ruolo attivo che si concretizza nella scelta tra i due rimedi: demolizione o modifiche.
Tale scelta non può essere lasciata all’iniziativa del privato che non può produrre alcuna istanza di regolarizzazione.
Il Presidente della giunta regionale deve ordinare delle prescrizioni che consentano la produzione di un progetto che si inserisca sul precedente, prevedendo le necessarie opere integrative che garantiscano la rispondenza ai precetti della normativa sismica.
La legge non indica i contenuti delle prescrizioni che possono essere molto generali, come una semplice autorizzazione al progetto integrativo,
o possono essere di dettaglio, analizzando analiticamente le parti progettuali da modificare.
L’indicazione delle prescrizioni richiede gli accertamenti tecnici necessari per valutare la possibilità di realizzare, a cura del costruttore e sotto la sua responsabilità, le opere necessarie per rendere a norma la costruzione edificata in difformità.
In carenza di tali indicazioni è precluso ogni intervento sul fabbricato.
Il dettato normativo non consente al privato di presentare al Genio Civile un progetto in sanatoria per l’adeguamento delle opere costruite in violazione alla normativa tecnica stabilita dall’art. 83, d.p.r. 6.6.2001, n. 380.
Non è prevista, infatti, la possibilità di produrre richieste di autorizzazione in sanatoria, ex art. 36, d.p.r. 6.6.2001, n. 380.
Il rilascio in sanatoria delle concessioni edilizie, ora permessi di costruire, effettuato ai sensi degli artt. 13 e 22, l. 28.2.1984, n. 47, determina l'estinzione dei soli "reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti" e, quindi, si riferisce esclusivamente alle contravvenzioni concernenti la materia che disciplina l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio.
Ne deriva l'inapplicabilità dell’estinzione a reati che riguardino altri aspetti delle costruzioni ed aventi oggettività giuridica diversa rispetto a quella della mera tutela urbanistica del territorio, come i reati relativi a violazioni di disposizioni dettate dalla l. 2.2.1974, n. 64, in materia di costruzioni in zona sismica (Cass. pen., sez. III, 1.12.1997, n. 1658, CP, 1998, 3397).
Il privato deve aspettare che il Genio Civile rediga il proprio verbale e chieda al Presidente della giunta regionale di impartire le prescrizioni di adeguamento per eseguire i lavori necessari ad eliminare le violazioni alle norme tecniche antisismiche.
E’ richiesto dalla legge un intervento dell’autorità amministrativa che decida se l’opera è da demolire o se la struttura può reggere ad interventi che la pongano in linea con le prescrizioni di legge.
Solo dopo tali indicazioni il privato può presentare il progetto di intervento per adeguare la costruzione ai dettati dell’art. 100, d.p.r. 6.6.2001, n. 380.
Il silenzio dell’amministrazione regionale è impugnabile presso la giustizia amministrativa, ex art. 21 bis, l. 6.12.1971, n. 1034, intr. art. 2, l. 205/2000.
L’opera è soggetta al rilascio del certificato dell’ufficio tecnico della regione attestante la conformità delle opere eseguite alla normativa sismica, ex art. 25, 3° co., lett. b), d.p.r. 6.6.2001, n. 380.
La licenza d’uso viene rilasciata solo dopo che la regione abbia controllato l’edificio riscontrando che i lavori sono stati eseguiti conformemente alla legge, ex art. 62, d.p.r. 6.6.2001, n. 380.

--Messaggio originale----
Da:....domenico@tiscali.it
Data: 04/10/2013 20.13
A: <centofanti_@libero.it>
Ogg: richiesta parere

Gent.mo Avvocato
Ho letto sul suo blog quanto ha scritto in materia di opere in zona sismica e volevo chiederle un riscontro ad un problema che mi si presenta per un cliente.
Premetto che sono un ingegnere che assiste il cliente sotto l'aspetto tecnico. Il cliente realizzava un opera abusiva e quindi oggi è sottoposto a procedimento penale assistito dal suo legale. Il cliente ha prodotto istanza al Comune per l'ottenimento del Permesso in sanatoria presentando il progetto. Il Comune ha rilasciato il parere favorevole e afferma che il Permesso in sanatoria non può essere rilasciato se non vi è a corredo l'autorizzazione del competente ufficio della Provincia (ex Genio Civile) in ottemperanza a quanto legiferato dalla regione Puglia. Ho quindi fatto produrre istanza per l'ottenimento dell'autorizzazione all'ex genio civile; questi dicono che il privato non può chiedere tale autorizzazione in quanto ci deve essere una autorizzazione da parte del giudice. Il genio civile quindi mi rilascia solo un parere favorevole al rilascio dell'autorizzazione. Il giudice non si accontenta dei due pareri favorevoli e si rifiuta di emettere un provvedimento con il quale permettere al privato di chiedere permesso in sanatoria e quindi autorizzazione del genio civile. Il giudice vuole sapere quale legge lo obbliga a consentire ciò oppure secondo quale legge il genjo civile non può rilasciare al privato tale autorizzazione. E' il cane che si morde la coda.
Le sarei grato se mi potesse indicare un riferimento legislativo o giurisprudenziale secondo il quale il giudice deve consentire con provvedimento formale il cittadino a chiedere la sanatoria ovvero il genio civile a pretendere tale richiesta da parte del giudice.
Le sarei davvero grato di una sua risposta
Cordiali saluti
ing. domenico ...........

Risposta
La norma  di riferimento è

L' Art. 98 (L)
Procedimento penale
(legge 3 febbraio 1974, n. 64, art. 23)
1. Se nel corso del procedimento penale il pubblico ministero ravvisa la necessita' di ulteriori accertamenti tecnici, nomina uno o piu' consulenti, scegliendoli fra i componenti del Consiglio superiore dei lavori pubblici o tra tecnici laureati appartenenti ai ruoli del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti o di altre amministrazioni statali.
2. Deve essere in ogni caso citato per il dibattimento il dirigente del competente ufficio tecnico della regione, il quale puo' delegare un funzionario dipendente che sia al corrente dei fatti.
3. Con il decreto o con la sentenza di condanna il giudice ordina la demolizione delle opere o delle parti di esse costruite in difformita' alle norme del presente capo o dei decreti interministeriali di cui agli articoli 52 e 83, ovvero impartisce le prescrizioni necessarie per rendere le opere conformi alle norme stesse, fissando il relativo termine.


sabato 26 maggio 2012

Tributi. Costituzionalità del presupposto dell'imposta in rapporto ai Diritti del contribuente.


Diritto di redigersi la dichiarazione dei redditi ( oggi la dichiarazione non si puiò redigere senza passare da intermediari)
Diritto alla corretta interpretazione delle norme tributarie( sportello unico che risponda a firma di un funzionario ai quesiti del contribuente )
Diritto all’unicità dell’accertamento ( oggi chi rispetta il redditometro subisce accertamenti ulteriori sulla contabilità non giustificati. Deve essere unicamente accertata la veridicità dei parametri)
Diritto di accesso ad internet per la redazione delle dichiarazione( oggi l’accesso è troppo complicato.
Diritto alla unicità dell’imposta ( non si può pagare la tessa del reddito sulla patrimoniale IMU o ICI - quantomeno le imposte pagate devono essere detratte dal reddito imponibile)
Divieto della doppia imposizione( se pago le tasse in un paese europeo non devo pagarle in un altro)
Diritto al rispetto (prima di accertare i redditi al contribuente abituale occorre controllare i redditi della criminalità organizzata anche se è più difficile. In ciò si verifica la credibilità delle istituzioni)

venerdì 25 maggio 2012

Imposta sul valore degli immobili situati all’estero. Deduzioni delle imposte patrimoniali. Base imponibile.


A partire dall’anno d’imposta 2011, è stata istituita l’Imposta sul valore degli immobili situati all’estero posseduti dalle persone fisiche residenti in Italia e destinati a qualsiasi uso, dall’art. 19, comma 13, d.l.201/2011.
Sono tenuti al pagamento dell’imposta i proprietari degli immobili o i titolari di altro diritto reale sugli stessi.
L’imposta è dovuta in misura proporzionale alla quota di possesso e ai mesi dell’anno nei quali si è mantenuto.
L’ammontare dell’imposta è pari allo 0,76% del valore degli immobili. Se non superiore a 200 euro, l’imposta non è dovuta.
Poiché all’estero normalmente si pagano le tasse la nostra imposta contrasta  col divieto di doppia imposizione almeno in ambito Unione Europea e col principio ella libera circolazione dei capitali.
Gli uffici di Bruxelles stanno verificando, secondo quanto riporta la stampa, la compatibilità dell’imposta con i principi che regolano il funzionamento dell’Unione europea.
E’ evidente che il contribuente già alle prese col fisco del paese dell’Unione in cui ha fatto l’investimento se deve anche fare i conti con dichiarazioni ed imposte in Italia sarà invitato a vendere il bene.
Il legislatore consapevole delle contraddizioni su cui regge il presupposto dell’imposta al fine di evitare  la doppia imposizione sullo stesso immobile concede al contribuente la possibilità di dedurre un credito pari all’ammontare dell’eventuale imposta patrimoniale versata nello Stato in cui è situato l’immobile.
Così facendo attribuisce al contribuente il difficile compito di analizzare la natura dell’imposta applicatagli e decidere se la stessa ha natura di imposta patrimoniale.
Nel caso gli uffici ministeriali nel frattempo decideranno diversamente ci sarà fra qualche anno un accertamento con relative sanzioni.
Altro problema è la determinazione della base imponibile.
In tal caso il contribuente ha due possibilità.
Esporre in dichiarazione (modello RM 33) il valore di acquisto o il valore venale del bene.
La scelta è a favore del contribuente che ha a portata di mano i documenti con cui ha acquistato il bene, ma è evidente che se ci sono stati passaggi mortis causa la determinazione si complica.
Quindi anche la determinazione del valore imponibile è sotto vigilanza.
Il bello di questa imposta è che se anche vuoi pagare in ogni caso sbagli a meno che prendi in considerazione i valori più alti e non fai le detrazioni di cui hai diritto.
Ma in questo secondo caso di iper legalismo ti rimane una sola scelta di tipo economico : vendere perché il bene è divenuto troppo costoso, oppure attendere a piè fermo accertamenti e prepararti ad un contenzioso infinito.

giovedì 24 maggio 2012

Grandi derivazioni d’acqua. Competenza Stato per affidamento appalto. Illegittimo affidare a concessionari scelti senza rispettare l’evidenza pubblica.


Il d.lgs. n. 79 del 1999, all’art. 12 afferma che l'amministrazione competente, cinque anni prima dello scadere di una concessione di grande derivazione d'acqua per uso idroelettrico, ove non ritenga sussistere un prevalente interesse pubblico ad un diverso uso delle acque, in tutto o in parte incompatibile con il mantenimento dell'uso a fine idroelettrico, indice una gara ad evidenza pubblica, nel rispetto della normativa vigente e dei principi fondamentali di tutela della concorrenza, liberta' di stabilimento, trasparenza e non discriminazione, per l'attribuzione a titolo oneroso della concessione per un periodo di durata trentennale.
La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14, commi 7, 8, 9 e 10 della L.R. Lombardia n. 19 del 2010.
La Regione Lombardia contrariamente al dettato della legge statale, allo scadere delle concessioni, acquisisce le opere e gli impianti afferenti alle grandi derivazioni idroelettriche e li conferisce a società patrimoniali di scopo, con partecipazione totalitaria di capitale pubblico incedibile.
Tali società patrimoniali metteranno a disposizione del soggetto affidatario, le infrastrutture e gli impianti afferenti alla derivazione.
La normativa regionale censurata viola, nel suo complesso, la competenza legislativa esclusiva.
Il d.lgs. n. 79 del 1999, all’art. 12, comma 2, prevede procedure di gara ad evidenza pubblica, la cui disciplina, è riconducibile in via esclusiva allo Stato (art. 117, secondo comma, lettera e), Cost).
La norma regionale diverge dall’art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 79 del 1999, che affida all’amministrazione competente l’indizione delle gare ad evidenza pubblica.
La norma regionale demanda a società patrimoniali di scopo, all’uopo costituite (il cui ruolo non è ben precisato) la messa a disposizione del soggetto affidatario, delle infrastrutture e degli impianti relativi alla derivazione. L’individuazione del soggetto affidatario si pone in palese contrasto con la normativa statale.
Il d.lgs. n. 79 del 1999, all’art. 12 comma 7 stabilisce che a tale individuazione si farà luogo sia con le procedure di cui ai commi 2 e 8, sia con quella di cui al comma 9.
Però, mentre il comma 2, L.R. Lombardia n. 19 del 2010, prevede l’indizione di gare ad evidenza pubblica, con esplicito rinvio all’art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 79 del 1999, il comma 8 , L.R. Lombardia n. 19 del 2010, dispone che l’esercizio industriale delle infrastrutture e degli impianti afferenti alle grandi derivazioni idroelettriche sia affidato «mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, ovvero direttamente a società a partecipazione mista pubblica e privata, a condizione che siano soddisfatti i requisiti prescritti dalle vigenti direttive comunitarie e norme nazionali».
Il comma 9, , L.R. Lombardia n. 19 del 2010, poi, dispone che, in deroga a quanto previsto nei commi 2 e 8, le concessioni di grande derivazione d’acqua per uso idroelettrico ricadenti in tutto o in parte nelle province montane individuate dal comma stesso, sono affidate direttamente a società a partecipazione mista pubblica e privata partecipate dalle Province interessate, a condizione che siano soddisfatti i requisiti dalla norma medesima previsti per la selezione del socio privato (da effettuare mediante procedure competitive ad evidenza pubblica), per le modalità della relativa gara e per la misura della partecipazione del socio privato.
Il sistema di affidamento delle concessioni mediante gara, risulta essere una semplice opzione del soggetto affidante, il quale però può decidere anche per l’affidamento diretto a società a partecipazione mista pubblica e privata (comma 8 e, per il rinvio al medesimo operato, anche il comma 7), mentre in forza del comma 9 tale modalità è disciplinata come esclusiva, onde è evidente che il disposto dell’art. 12, commi 1 e 2, della legge n. 79 del 1999, non è attuato.


Demanio La cessazione della demanialità. La sdemanializzazione. Procedimento tipico.


Il codice civile contempla la eventualità del passaggio dal demanio pubblico al patrimonio statale o degli enti locali richiedendo, quanto allo Stato, che esso sia dichiarato e che l'atto relativo sia pubblicato nella Gazzetta ufficiale e, quanto agli enti locali, che il provvedimento che lo dichiara sia pubblicato nei modi previsti dai regolamenti degli enti, ex art. 829, c.c.
La dottrina sottolinea che le cause del passaggio da un regime ad un altro possono essere di carattere diverso.
I beni pubblici possono, per fenomeni naturali o per sviluppi tecnici o comunque per vicende storiche, perdere le caratteristiche che li rendevano intrinsecamente pubblici, senza che ciò dipenda dal volere della pubblica amministrazione: una striscia di terreno vicina al mare può cessare di essere lido marino a causa delle dinamiche talassiche, una linea Maginot può cessare di avere qualsiasi rilievo militare per cause storiche o tecniche.
Anche in questo caso il risultato sarà quello del passaggio al regime dei beni patrimoniali disponibili.
Centofanti N., I beni pubblici, 2007,183.
Gli atti in questione sono appunto dichiarativi perché il passaggio da un regime all'altro non è l'effetto giuridico di tali atti, ma è conseguenza comunque dello stato delle cose, che può essere determinato da un accadimento naturale o da un mutamento di destinazione
non stabilito con un atto formale.
La sdemanializzazione tacita può essere accertata autonomamente dal Giudice che deve valutare i comportamenti dell’amministrazione in rapporto al bene che si ritiene passato al regime patrimoniale.
La sdemanializzazione di un bene pubblico, quando non derivi da un provvedimento espresso, deve risultare da altri atti e/o comportamenti univoci della p.a. proprietaria, che siano concludenti e incompatibili con la volontà di quest'ultima di conservare la destinazione del bene stesso all'uso pubblico, oppure da circostanze tali da rendere non configurabile una ipotesi diversa dalla definitiva rinuncia al ripristino della funzione pubblica del bene.
Nel caso di specie si è ritenuto che la sdemanializzazione di una strada non si poteva desumere dal mero fatto che il bene non era più adibito, per un certo tempo, a detto uso. T.A.R. Abruzzo Pescara, 17.10.2005, n. 580.
Detto regime vale anche per le pertinenze dei beni demaniali come ad esempio la casa cantoniera che, in base all'art. 24 del d. lg. 30.4.1992, n. 285, costituisce pertinenza della strada e partecipa, quindi, al suo carattere di demanialità quando la strada stessa appartiene ad un ente pubblico territoriale.
La perdita del carattere demaniale della pertinenza può essere solo l'effetto della perdita dello stesso carattere della cosa principale.
Per costante giurisprudenza la sdemanializzazione può anche verificarsi senza l'adempimento delle formalità previste dalle leggi in materia, ma occorre che essa risulti da atti univoci, concludenti e positivi della pubblica amministrazione, incompatibili con la volontà di conservare la destinazione del bene all'uso pubblico; né il disuso da tempo immemorabile o l'inerzia dell'ente proprietario può essere invocato come elemento indiziario dell'intenzione di far cessare la destinazione, anche potenziale, del bene demaniale all'uso pubblico, poiché a dare di ciò la prova è pur sempre necessario che tali elementi indiziari siano accompagnati da fatti concludenti e da circostanze così significative da rendere impossibile formulare altra ipotesi se non quella che la pubblica amministrazione abbia definitivamente rinunziato al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo.Cass. Civ., sez. II, 30.8.2004, n. 17387
La demanialità è un bene indisponibile da parte della stessa p.a. che può rinunciarvi solo attraverso l'apposito procedimento previsto dalla legge, ma non in via di fatto, al punto che il mancato rinnovo di una concessione demaniale o la mancanza di un provvedimento di sgombero non implicano sdemanializzazione implicita. T.A.R. Sicilia Palermo, sez. II, 20.12.2011, n. 2418.

domenica 20 maggio 2012

Permesso di costruire. Procedimento . Silenzio assenso.


Le innovazioni alla disciplina del rilascio dei provvedimenti edilizi continuano coll’art. 5d.l. sviluppo 70/2011 che velocizza e semplifica anche procedimento di rilascio del permesso di costruire modificando
l’art. 20, d.p.r. 380/2001.
La semplificazione è collegata al fatto che domanda di permesso deve essere accompagnata da una dichiarazione del progettista abilitato che asseveri la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie nel caso in cui la verifica in ordine a tale conformità non comporti valutazioni tecnico-discrezionali, alle norme relative all'efficienza energetica.
La norma aggiorna le sanzioni disposte dall’art. 481, c.p., sanzionando il professionista che  nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni dichiara o attesta falsamente l'esistenza dei requisiti o dei presupposti .Chi commette il reato è punito con la reclusione da uno a tre anni.
Entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento deve curare l'istruttoria, acquisisce i prescritti pareri e formula una proposta di provvedimento.
Il termine può essere interrotto una sola volta esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata.
Non è però il responsabile del procedimento colui che  adotta il provvedimento finale.
Questo è adottato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio, entro il termine di trenta giorni dalla proposta oppure entro quaranta giorni dalla stessa qualora il dirigente o il responsabile del procedimento abbia comunicato all'istante i motivi che ostano all'accoglimento della domanda, ai sensi dell'art. 10-bis della l. 7.8.1990, n. 241.
I termini per il rilascio del provvedimento  sono raddoppiati per i Comuni con più di 100.000 abitanti, nonché per i progetti particolarmente complessi secondo la motivata risoluzione del responsabile del procedimento.
La domanda deve essere obbligatoriamente trasmessa allo sportello unico .
Il permesso è adottato dal dirigente competente entro termini tassativi previsti dalla norma (
Decorso inutilmente il termine per l'adozione del  provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile dell'ufficio non  abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di  costruire  si intende formato il  silenzio-assenso.
Il silenzio assenso vale solo per le opere non soggette a vincolo di tutela.
Qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia, invece, sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine per il rilascio del provvedimento decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, decorso il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-rifiuto. Si ha silenzio rifiuto anche qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela non compete all'amministrazione comunale.
Entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento deve curare l'istruttoria, acquisisce i prescritti pareri e formula una proposta di provvedimento.
Il termine può essere interrotto una sola volta esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata.
Non è però il responsabile del procedimento colui che  adotta il provvedimento finale.
Questo è adottato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio, entro il termine di trenta giorni dalla proposta oppure entro quaranta giorni dalla stessa qualora il dirigente o il responsabile del procedimento abbia comunicato all'istante i motivi che ostano all'accoglimento della domanda, ai sensi dell'art. 10-bis della l. 7 8. 1990, n. 241.
I termini per il rilascio del provvedimento  sono raddoppiati per i Comuni con più di 100.000 abitanti, nonché per i progetti particolarmente complessi secondo la motivata risoluzione del responsabile del procedimento.
La dottrina  sottolinea che il silenzio assenso non può aver altro significato che quello di una misura di semplificazione tesa ad evitare che gli effetti impeditivi riconducibili alla mancata emanazione del provvedimento abilitativo vengano a gravare sul richiedente nella situazioni di patologica inerzia dell’amministrazione.
Per contro, come ribadito dalla Corte cost. 4040/1997,  l’introduzione del silenzio assenso non determina alcun affievolimento e depotenziamento del dovere di provvedere in termini espliciti e tempestivi sulla domanda del richiedente
L’introduzione del silenzio assenso non comporta la trasformazione del dover di provveder in un mero onere che impone la motivazione solo nel caso di diniego.
Né si può considerare il silenzio assenso un dispositivo atto a garantire comunque una definizione del procedimento onde evitare all’amministrazione il rischio di condanne risarcitorie per mancato rispetto dei termini.
L’istituto ha già trovato definizione normativa nell'art. 8, d.l. 23 .1.1982, n. 9, convertito con modificazioni nella l. 25.3. 1982, n. 94, che prevede il formarsi della c.d. concessione edilizia tacita per silenzio assenso, decorso il termine di novanta giorni dalla presentazione della domanda senza che sia intervenuto e comunicato il provvedimento motivato con cui viene negato il rilascio.
La giurisprudenza ha precisato che esso costituisce uno strumento eccezionale rispetto alla disciplina generale e, pertanto, ha un campo di applicazione ben definito ai soli interventi di edilizia residenziale, diretti alla costruzione di abitazione ed al recupero del patrimonio abitativo esistente ed ha avuto in origine carattere transitorio con efficacia temporale, sino all'entrata in vigore della l. 17.2. 1992, n. 179, con la quale la disciplina della concessione tacita è stata definitivamente acquisita nell'ordinamento con norma di regime.
(Cons. St., sez. IV, 13.6.2011, n. 3582, FACDS, 2011, 6, 1899)
Il silenzio assenso vale solo per le opere non soggette a vincolo di tutela.
Qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia, invece, sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine per il rilascio del provvedimento decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, decorso il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-rifiuto. Si ha silenzio rifiuto anche qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela non compete all'amministrazione comunale.
L'art. 2, l. rg.Sicilia n. 17 del 1994 ha introdotto nell'ordinamento regionale l'istituto del silenzio/assenso in relazione alle domande di rilascio di concessione edilizia che non siano esitate negativamente nel termine di centoventi giorni dalla presentazione (Tar Palermo n. 578 del 2006; Tar Sicilia, Catania n. 45 del 2001, n. 1406 del 2003
Per completezza, va precisato che il termine di centoventi giorni è stato recentemente ridotto a settantacinque, con l'art. 19, l. rg. n. 5 del 2011.
Decorso tale termine il richiedente può comunicare l'inizio dei lavori previo versamento degli oneri concessori e previa presentazione della perizia giurata prevista dal comma 7, stesso articolo (che attesti la conformità degli interventi da realizzare alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e sanitarie e l'ammontare del contributo concessorio dovuto).
Dalla comunicazione di avvio dei lavori effettuata sulla base di una concessione edilizia tacita — si apre per l'ente pubblico uno spatium deliberandi di trenta giorni, previsto dal comma 8 dell'articolo in commento, nel quale l'esame della domanda deve essere completato e vengono compiuti gli atti necessari a far valere eventuali responsabilità penali, civili, amministrative e disciplinari.
Se nel corso del predetto termine non viene adottato alcun atto espresso, il silenzio protratto produce l'effetto di «consolidamento» del titolo già assentito; ove invece venga adottato un atto formale questo può essere diretto: 
a) a confermare il provvedimento silenzioso con atto espresso
 b) ad annullarlo attraverso una autotutela «accelerata e semplificata» in ragione del mero riscontro della mancanza dei presupposti di legge necessari al suo rilascio; ossia, al solo scopo di ripristinare la legalità violata (Tar Sicilia, Palermo n. 2363 del 1999, n. 578 del 2006).
 Una volta che sia decorso il suddetto termine di trenta giorni — a cui va riconosciuta natura perentoria (Tar Sicilia, Catania n. 1961 del 2006 e n. 1026 del 2007) — la giurisprudenza è concorde nel ritenere che possano comunque trovare applicazione le ordinarie regole dettate in tema di autotutela amministrativa, al fine di procedere all'annullamento o revoca della concessione tacita, ove ne ricorrano i presupposti (Tar Sicilia, Palermo n. 2363 del 1999, n. 1615 del 2007; Tar Sicilia, Catania n. 1961 del 2006 e n. 1026 del 2007). In particolare, si ritiene che in tale successivo contesto temporale l'amministrazione possa esercitare l'autotutela decisoria ordinariamente prevista dall'art. 21nonies, l. n. 241 del 1990, intervenendo entro un termine che la legge vuole «?ragionevole?», per soddisfare specifiche ragioni di pubblico interesse che dovranno però essere necessariamente evidenziate, e poi comparate e bilanciate con gli interessi medio tempore consolidatisi in capo ai destinatari.
Il duplice regime di annullamento della concessione edilizia tacita che opera nella Regione siciliana si configura nel modo seguente: entro trenta giorni dalla formazione silenziosa del titolo edilizio è possibile disporne l'annullamento sulla base del mero riscontro della mancanza dei requisiti previsti dalla legge per il rilascio; decorso tale termine, invece, il potere di annullamento d'ufficio persiste, ma è soggetto alle ordinarie regole dell'autotutela decisoria, e postula quindi l'espletamento di una più ampia istruttoria che tenga conto sia del lasso di tempo decorso dalla formazione del titolo, che delle ragioni di pubblico interesse che consigliano l'annullamento (diverse dalla mera esigenza di ripristino della legalità), nonché della comparazione fra queste ultime e l'aspettativa maturatasi in capo al privato concessionario. T.A.R.  Catania  Sicilia  sez. I,Data:  13 gennaio 2012,  n. 75,  Foro amm. TAR 2012, 1, 310 


L’intervento sostitutivo regionale.

La precedente  dottrina, quando al silenzio veniva dato il significato di diniego di provvedimento ha ritenuto che in relazione all'organo regionale a cui indirizzare la richiesta dell'intervento sostitutivo, ciascuna regione, ai sensi degli artt. 13 e 21 t. u. edilizia, deciderà in autonomia, privilegiando l'aspetto politico dell'intervento o quello più strettamente amministrativo legato alla mancata adozione di una statuizione espressa sull'istanza dell'interessato, scegliendo il soggetto competente di conseguenza.
In assenza di precisazioni, si potrà immaginare un intervento del Presidente della giunta nella sua qualità di rappresentante dell'ente comunque titolare del potere di vigilanza sullo svolgimento dell'attività edilizia.
Ora con l’introduzione del silenzio assenso la prospettiva cambia  radicalmente ed il ricorso al procedimento sostitutivo diventa eventuale. Le regioni, con proprie leggi, devono determinare forme e modalità per l'eventuale esercizio del potere sostitutivo nei confronti dell'ufficio dell'amministrazione comunale competente per il rilascio del permesso di costruire, art. 20, d.p.r. 380/2001, mod. art. 5, comma 2, lett. a), d.l. 70/2011.
L’intervento sostitutivo diventa necessario solo quando il richiedete vuole ottenere un provvedimento espresso.
Ma c’è da chiedersi se ciò è possibile in carenza di legislazione regionale.
Sicuramente no ed occorrerà semmai agire presso la giustizia amministrativa per avere una sentenza di accertamento.
Non si nascondono possibili dubbi interpretativi poiché di fatto il silenzio assenso produce effetti favorevoli all’istante e l’azione di accertamento, disposta dall’art. 31, d.lg. 104/2010, può essere proposta fintanto che perdura l'inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento.
L’azione di accertamento autonomo dinanzi al giudice amministrativo è consentita fine di sentire pronunziare da questo che non sussistevano i presupposti per svolgere l'attività costruttiva richiesta . Si tratta di una fattispecie in materia di d.i.a. (T.A.R. Campania Salerno, sez. II, 8.2.2010, n. 1291, FATAR, 2010, 2, 615).


Provvedimento Amministrativo. Revoca. Limiti. Indennizzo . Obbligo.


Nel diritto amministrativo la P.A. ha generalmente la possibilità di riesaminare i propri atti e revocarli.
Secondo la definizione più condivisa, la revoca è l’atto di ritiro con effetto non retroattivo che presuppone non un vizio di legittimità, ma una nuova valutazione dell’opportunità del provvedimento ritirato.
La revoca del provvedimento amministrativo è disciplinata dall’art. 21-quinquies l.241/1990, introdotto dalla l.15/2005, secondo cui “per motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina l’inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti”.
In tale disposto normativo viene ripresa l’impostazione giurisprudenziale e dottrinale, attraverso la formulazione di un’ipotesi di caducazione del provvedimento di primo grado che prescinde quindi dall’esistenza di vizi di legittimità e che produce effetti ex nunc, salvaguardando quelli medio tempore prodotti dall’atto revocato. (F.Caringella, Manuale di diritto amministrativo, 2012, p. 1472.).
La revoca, dunque, incide sull’efficacia del provvedimento: il provvedimento amministrativo revocato, pertanto, non viene eliminato retroattivamente, ma non è più ritenuto idoneo a produrre ulteriori effetti in contrasto con l’interesse pubblico
L’art. 21-quinquies ha regolamentato tre presupposti alternativi che legittimano l’adozione del provvedimento di revoca:
a) sopravvenuti motivi di pubblico interesse;
b) mutamento della situazione di fatto;
c) nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.
Dalla norma in esame, la revoca può essere disposta nel caso di sopravvenienze (mutamento della situazione di fatto ovvero sopravvenuti motivi di interesse pubblico) ed in caso di diversa valutazione dell’interesse pubblico originario (jus poenitendi, che comporta una riconsiderazione dell’originaria situazione di fatto).
La ratio di tale istituto è, dunque, l’incompatibilità fra il perdurare degli effetti di un provvedimento già adottato ed interessi ritenuti dalla P.A preminenti.
Perché sia ammissibile, è necessario che il mutamento dello stato materiale delle cose comporti un mutamento della valutazione concreta dell’interesse pubblico. (F.Caringella,op. cit., 2012, 1473)
La revoca è finalizzata alla rivalutazione dell’interesse pubblico: essa è espressione di amministrazione attiva, che si realizza, con effetto ex nunc, modificando un rapporto precedentemente creato attraverso l’emanazione di un atto amministrativo.
Giurisprudenza costante richiede, ai fini della legittimità dei provvedimenti in discorso, l’attualità dell’interesse pubblico alla rimozione degli effetti dell’atto originario.
(T.A.R Campania, Napoli, Sez. III, n.4246/2011; Cons.St.Sez.V, n.2244/2010).
In primo luogo, con riguardo ai sopravvenuti motivi di interesse pubblico, è stata affermata l’illegittimità del provvedimento con il quale sono stati revocati in autotutela il bando e tutti gli atti di gara per sopravvenuti concreti motivi di interesse pubblico, determinati dalla necessità di non incorrere nelle negative conseguenze susseguenti al mancato rispetto del c.d. “patto di stabilità” con la motivazione correlata ai limiti alla attività di spesa, in presenza di indisponibilità sopravvenuta delle risorse finanziarie necessarie (T.A.R Sicilia, Catania, Sez. III, n.2490/2011).
E’ stato, inoltre, dichiarato legittimo il provvedimento di revoca di una gara di appalto - disposta in una fase non ancora definita della procedura concorsuale, ancora prima del consolidarsi delle posizioni delle parti e quando il contratto non è stato ancora concluso - laddove tale provvedimento è motivato con riferimento al risparmio economico che deriverebbe dalla revoca stessa, posto che l'art. 21- quinquies l. n. 241/1990, consente un ripensamento da parte della amministrazione là dove questa ritenga di operare motivatamente una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario. (Cons. Stato, sez. III, n. 2291/2011).
Con particolare riguardo al disposto di cui all'art. 21 quinquies comma 1, l. 7 agosto 1990 n. 241, introdotto dalla l. 11 febbraio 2005 n. 15, per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, il provvedimento di revoca deve essere adeguatamente motivato quando incide su posizioni in precedenza acquisite dal privato, non solo con riferimento ai motivi di interesse pubblico che giustificano il ritiro dell'atto, ma anche in considerazione delle posizioni consolidate in capo al privato e all'affidamento ingenerato nel destinatario dell'atto da revocare (cfr. ex multis Consiglio Stato , sez. V, 18 gennaio 2011 , n. 283).
Nel caso di specie, l'Amministrazione Regionale Calabrese ha revocato il finanziamento di 83.000 euro concesso al progetto del Consorzio Scuola Lavoro Calabria, quale contributo assegnato per un corso di Tecnico specialista in gestione della coltivazione, produzione e trasformazione vitivinicola, destinatario di finanziamento nell'ambito del POR Calabria 2000/2006.
La finalità dei progetti ammessi a finanziamento è quello di realizzare un percorso formativo post-secondario, destinato a creare particolari figure di qualificata professionalità.
La convenzione stipulata dal Consorzio con la Regione ha per oggetto la definizione dei rapporti tra i due enti "allo scopo di determinare un canale di formazione non universitaria denominato "Istruzione Formazione Tecnico Superiore".
Il Consorzio è stato ritenuto idoneo per l'affidamento di n. 1 progetto formativo.
Alla luce di tali circostanze, la revoca totale del finanziamento concesso con decreto del 2002, ai sensi dell'art. 21- quinquies della l. n.241/1990 e ss.mm., per mancata assunzione dei corsisti e mancata produzione di specifica polizza fideiussoria da parte del partner Agricola , è priva di idonea motivazione e carente dei presupposti richiesti per l'esercizio in autotutela, nonché illegittimamente lesiva del legittimo affidamento.
La revoca per sopravvenuti motivi di ordine pubblico, soprattutto qualora adottata a distanza di tempo dall'atto oggetto di revoca ed in presenza, come nel caso di specie, di motivi idonei a creare un legittimo affidamento, con relativa assunzione di spese, necessitava di idonea motivazione che esplicitasse i presupposti di cui all'art. 21- quinquies.
Il provvedimento impugnato, invece, non indica in alcun modo quali siano i sopravvenuti motivi di pubblico interesse, né i mutamenti nella situazione di fatto, né ancora su quali considerazioni si fondi la nuova valutazione dell'interesse pubblico originario sulla cui base è stata disposta la revoca del contributo concesso 7 anni prima.
Ravvisando un pubblico interesse a dare unica ed esclusiva prevalenza alla finalità dell'occupazione, anziché a quella della formazione, l'Amministrazione Regionale ridetermina in radice ed in modo rilevante il contenuto del bando e degli atti attuativi, con mutamento delle stesse finalità dei progetti per i quali erano previste partecipazioni finanziarie delle Stato e di privati.
Come precisato di recente, il principio di tutela del legittimo affidamento "...si traduce in un limite all'adozione di provvedimenti negativi o sfavorevoli emanati a notevole distanza temporale dal verificarsi della fattispecie legittimante, ovvero in presenza di elementi che rendano razionalmente ammissibile la conservazione di effetti prodotti dal provvedimenti illegittimi, ovvero in presenza di un contegno tenuto dall'Amministrazione che sia idoneo a suscitare falsi affidamenti, ovvero ancora in presenza di mutamenti normativi o giurisprudenziali che rendano incerta per il destinatario la validità o l'efficacia di atti emanati dall'Amministrazione" (TAR Puglia, Bari, sez. I, 9 maggio 2011 n. 688. T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez.II, n.149/2012).
In merito al presupposto della nuova valutazione dell’interesse pubblico originario (c.d. jus poenitendi) la revoca di provvedimenti amministrativi è, quindi, consentita non solo in base a sopravvenienze, ma anche per una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario (Cons. Stato, V, 6 ottobre 2010, n. 7334; v., anche Cons. Stato, VI, 17 marzo 2010, n. 1554).
Nel caso di specie, il Comune di Manduria indiceva con bando una gara avente a oggetto i lavori di riqualificazione e ristrutturazione del locale Palazzo Municipale (per un importo a base d'asta di 2.000.000 di euro). La selezione veniva aggiudicata in via provvisoria alla Società Lu. Sa. Impresa di Costruzione s.r.l; i verbali di gara venivano quindi approvati; in seguito l'aggiudicazione dei lavori veniva congelata ed, infine, veniva annullata dalla delibera di Giunta n. 54 dell'11 marzo 2011 per ragioni inerenti a problematiche di tipo finanziario e organizzativo. La motivazione del provvedimento di ritiro era appunto costituita da una nuova valutazione dell'interesse pubblico, posto che l'Amministrazione, preso atto di un proprio disequilibrio di bilancio di circa 1,6 milioni di euro, delle difficoltà logistiche esistenti per il trasferimento degli uffici durante l'esecuzione dei lavori (l'aspetto organizzativo relativo al trasferimento mostra aspetti di criticità in quanto, da una parte, l'appalto non prevede un frazionamento dei lavori e, dall'altro, la mancata propedeutica indagine atta alla individuazione di strutture idonee alla bisogna impedisce, di fatto, un immediato trasloco) e di quelle economiche pure riscontrate (l'onere riveniente dal pagamento di canoni di locazione di immobili di privati non è sostenibile per le casse comunali), mutava il proprio originario indirizzo e si determinava, così, all'annullamento degli atti di gara.
Nell'esercizio dello jus poenitendi l'Amministrazione gode, soprattutto nel caso di scelte aventi carattere di ampio respiro, di significativi margini di discrezionalità: pertanto, la motivazione adottata dal Comune di Manduria può certamente ritenersi idonea a supportare la scelta compiuta. (T.A.R. Puglia, Lecce Sez.III n.139/2012).
Il legislatore con la nuova disciplina positiva data all'istituto della revoca introdotta nel 2005 ha, in definitiva, dilatato la preesistente nozione elaborata dall'insegnamento dottrinario e giurisprudenziale, ricomprendendo in essa anche il potere di rivedere il proprio operato in corso di svolgimento e di modificarlo, perché evidentemente ritenuto affetto da inopportunità, in virtù di una rinnovata diversa valutazione dell'interesse pubblico originario.
Tale potere è stato ulteriormente precisato - può essere esercitato anche per eliminare degli atti amministrativi della serie di evidenza pubblica ed anche in caso di esistenza del contratto, nell'ipotesi, ad esempio, di una diversa scelta organizzativa e gestionale del servizio svolto da privati; e tale scelta, ove congruamente motivata, appartiene alla sfera del merito amministrativo e non è sindacabile dal giudice amministrativo in assenza di profili di sviamento apprezzabili in sede di legittimità (cfr. Cons. St., sez. VI, 6 maggio 2011, n. 2713, e sez. VI, 17 marzo 2010, n. 1554).
In tal caso sorge, per effetto della revoca legittima di cui al predetto art. 21-quinquies, un diritto all'indennizzo derivante dai principi generali sulla tutela dell'affidamento nei rapporti di durata, affidato alla cognizione esclusiva del giudice amministrativo.
(T.A.R. Abruzzo Pescara n.321/2011)
Infine, il presupposto del mutamento della situazione di fatto si verifica, ad esempio, quando il beneficiario di un finanziamento pubblico, finalizzato alla realizzazione di un certo investimento per una produzione da mantenere nel tempo, distoglie le somme dalla destinazione prevista. La revoca del finanziamento sanziona un comportamento illecito, ma è determinata soprattutto da circostanze di fatto sopravvenute incompatibili con gli scopi del provvedimento originario. (G.Corso, Manuale di diritto amministrativo, p. 307)
Va rilevato che sussistono alcuni limiti all’esercizio del potere di revoca con riguardo alle categorie di atti revocabili.
Poiché la revoca incide sull’efficacia del provvedimento, la stessa può avere ad oggetto i soli provvedimenti amministrativi ad efficacia durevole attualmente operante, ancora idonei a proporre effetti nel momento in cui la P.A. provvede a rivalutare l’opportunità del provvedimento, anche a fronte di eventuali sopravvenienze di fatto e di diritto.
Pertanto, non sono revocabili i provvedimenti ad efficacia istantanea ed i provvedimenti che hanno già esaurito i loro effetti nel momento in cui la P.A. potrebbe disporne la revoca, come ad esempio nel caso di ordine già eseguito o di concessione oramai estinta.(R.Chieppa, R.Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, 2011, p.507).

Obbligo d’indennizzo


In ordine alla tutela dell’affidamento, l’art. 21- quinquies, comma 1, l.241/1990, introdotto dalla l.15/2005, prevede che “ove la revoca comporta un pregiudizio in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo. Le controversie in materie di determinazione e corresponsione dell’indennizzo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”.
La P.A. ha il potere di revocare il provvedimento, salvo l’obbligo di corrispondere un indennizzo, se la revoca in autotutela comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati.
Il legislatore ha parametrato l’indennizzo al solo danno emergente, escludendo, invece, il lucro cessante ed ha  specificato che l’indennizzo deve essere quantificato in ordine alla tutela dell’affidamento: ovvero, tenendo conto dell’affidamento che il privato aveva riposto (o poteva ragionevolmente riporre) sull’atto revocato.
La norma dispone che l’indennizzo venga quantificato tenendo conto sia della conoscenza o della conoscibilità da parte del privato della contrarietà dell’atto amministrativo oggetto di revoca all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso del contraente o di terzi nell’erronea valutazione in cui è incorsa la P.A.
L'obbligo di indennizzo gravante sulla Pubblica Amministrazione, come previsto e definito nella sua misura dall'art. 21- quinquies, non presuppone elementi di responsabilità della stessa, ma si fonda su valori puramente equitativi considerati dal legislatore, onde consentire il giusto bilanciamento tra il perseguimento dell'interesse pubblico attuale da parte dell'amministrazione e la sfera patrimoniale del destinatario (incolpevole) dell'atto di revoca, cui non possono essere addossati integralmente i conseguenti sacrifici.
Ricorre, dunque, l'ipotesi che suole definirsi come di responsabilità della Pubblica Amministrazione per attività legittima (forma conosciuta dal nostro ordinamento, come conseguente ad atti leciti, fin dall'art. 46 l. 25 giugno 1865 n. 2359), la quale, lungi dal trovare il proprio presupposto in fatti o atti illeciti ovvero in atti illegittimi imputabili alla stessa amministrazione, più propriamente risponde ad intenti equitativi, e, a stretto rigore, non potrebbe essere definita utilizzando il termine "responsabilità".
Tale ipotesi differisce nettamente da quella risarcitoria, di modo che anche le due azioni devono essere tenute distinte, sia con riferimento alla causa petendi, sia con riferimento al petitum.
La causa petendi, nel giudizio volto ad ottenere l'indennizzo, deve essere ravvisata nella legittimità dell'atto adottato dall'amministrazione, ovvero nella liceità della condotta da questa tenuta, e che ha causato il pregiudizio; mentre nel giudizio risarcitorio, essa consiste nel fatto o nell'atto produttivo del danno.
Quanto al petitum, nel giudizio per responsabilità da atti legittimi o leciti, esso è limitato al pregiudizio immediatamente subito, ed è quindi limitato al cd. danno emergente, mentre nel giudizio risarcitorio esso si estende - fermi, ovviamente, i necessari presupposti probatori - a tutto il pregiudizio (danno emergente e lucro cessante), conseguente all'illegittima violazione della sfera giuridico - patrimoniale del soggetto leso.
Vengono ristorate al destinatario del provvedimento di revoca solo le eventuali spese che abbia sostenuto facendo affidamento sull’efficacia o, nel caso di revoca di un atto ad efficacia durevole, sulla perdurante efficacia, del provvedimento revocato.
Per l’ottenimento del ristoro integrale, anche del lucro cessante, si dovrà dimostrare che la revoca è illegittima e si dovrà richiedere il risarcimento del danno, in conseguenza del fatto illecito compiuto dalla P.A.
Pertanto, il destinatario del provvedimento di revoca non potrà ottenere, a titolo d’indennizzo, il ristoro del guadagno che, grazie al provvedimento revocato, avrebbe potuto conseguire.
Secondo quanto affermato dalla giurisprudenza, presupposto dell’indennizzo è la legittimità della revoca (trattasi di responsabilità per atti legittimi), spettando altrimenti il risarcimento del danno. (Cons. St. Sez. V. n.671/2010).




Illegittimità indennizzo. Risarcimento del danno.

Diversamente da quanto affermato per l'indennizzo, l'obbligazione della pubblica amministrazione per responsabilità extracontrattuale ha natura risarcitoria e si fonda, ai sensi dell’art. 1337 c.c., sulla violazione dei principi di correttezza e buona fede "nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto".
Come ha chiarito anche l'Adunanza Plenaria (dec. 5 settembre 2005 n. 6), l'accertamento della eventuale responsabilità precontrattuale dell'amministrazione non è esclusa dalla dichiarata legittimità del provvedimento (di annullamento o, in particolare, di revoca) assunto in via di autotutela, posto che, se "la revoca dell'aggiudicazione e degli atti della relativa procedura (vale) a porre al riparo l'interesse pubblico dalla stipula di un contratto che l'amministrazione non avrebbe potuto fronteggiare per carenza delle risorse finanziarie occorrenti".
Ai fini della configurabilità della responsabilità precontrattuale della p.a. non si deve tener conto della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo, ma della correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall'Amministrazione durante il corso delle trattative e della formazione del contratto, alla luce dell'obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede ai sensi dell'art. 1337 c.c. (Cons. St., sez. V, 7 settembre 2009 n. 5245).
Può dirsi, infatti, sufficientemente condiviso che la responsabilità precontrattuale comporta obbligo di risarcimento del danno nei limiti del cd. interesse negativo, e cioè dell'interesse del soggetto a non essere leso nell'esercizio della sua libertà negoziale. (laddove l'interesse positivo è interesse all'esecuzione del contratto).
Mentre l'interesse positivo consiste nella perdita che il soggetto avrebbe evitato (danno emergente) e nel vantaggio economico che avrebbe conseguito (lucro cessante) se il contratto fosse stato eseguito, al contrario il danno proprio dell'interesse negativo consiste nel pregiudizio che il soggetto subisce per avere inutilmente confidato nella conclusione e nella validità del contratto ovvero per avere stipulato un contratto che senza l'altrui ingerenza non avrebbe stipulato o avrebbe stipulato a condizioni diverse.
Ne consegue che, nel caso di mancata conclusione del contratto, il soggetto avrà diritto al risarcimento del danno consistente innanzi tutto nelle spese inutilmente sostenute, e consistente inoltre nella perdita di favorevoli occasioni contrattuali, cioè di ulteriori possibilità vantaggiose sfuggite al contraente a causa della trattativa inutilmente intercorsa, ovvero a causa dell'inutile stipulazione del contratto.
A tali voci, ritiene il Collegio che deve essere aggiunto il cd. "danno curriculare", cioè quel danno consistente nell'impossibilità di far valere, nelle future contrattazioni, il requisito economico pari al valore dell'appalto non eseguito.
Quanto alle "voci" del danno risarcibile, esse consistono (Cons. Stato, sez. V, n. 491/2008; sez. VI, n. 2384/2010):
a) nel danno emergente, costituito dalle spese e dai costi sostenuti per la preparazione dell'offerta e per la partecipazione alla procedura (secondo Cons. Stato, sez. VI, 21 maggio 2009 n. 3144, solo in caso di illegittima esclusione dalla gara);
b) nel lucro cessante, determinato nel 10% del valore dell'appalto, precisandosi anche che il lucro cessante è innanzi tutto determinato sulla base dell'offerta economica presentata al seggio di gara (Cons. Stato, sez. V, 6 aprile 2009 n. 2143);
c) una ulteriore percentuale del valore dell'appalto, "a titolo di perdita di chance, legata alla impossibilità di far valere, nelle future contrattazioni, il requisito economico pari al valore dell'appalto non eseguito", cd. "danno curriculare" (in senso conforme,Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2008 n. 2751; sez. V., 23 luglio 2009 n. 4594;
Secondo Cons. Stato, sez. VI, n. 3144/2009, la percentuale del "danno curriculare" va calcolata sulla misura del lucro cessante e non già sull'importo dell'appalto.
d) il danno, equitativamente liquidato, per il mancato ammortamento di attrezzature e macchinari;
e) infine, il danno esistenziale, posto che "il diritto all'immagine, concretizzantesi nella considerazione che un soggetto ha di sé e nella reputazione di cui gode, non può essere considerato appannaggio esclusivo della persona fisica e va anzi riconosciuto anche alle persone giuridiche".
L'esame della sussistenza del danno da perdita di chance interviene:
- o attraverso la constatazione in concreto della sua esistenza, ottenuta attraverso elementi probatori (ad esempio, si è in presenza di un contratto eseguito o in esecuzione, che avrebbe dovuto essere certamente eseguito da una diversa impresa, in luogo di quella beneficiaria di aggiudicazione illegittima);
- o attraverso una articolazione di argomentazioni logiche, che, sulla base di un processo deduttivo rigorosamente sorvegliato, inducono a concludere per la sua sussistenza;
- ovvero ancora attraverso un processo deduttivo secondo il criterio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, del c.d. "più probabile che non" (Cass. civ., n. 22022/2010), e cioè "alla luce di una regola di giudizio che ben può essere integrata dai dati della comune esperienza, evincibili dall'osservazione dei fenomeni sociali" (Cass., sez. III civ., n. 22837/2010).