mercoledì 20 giugno 2012

5 CAPITOLO L’ATTO AMMINISTRATIVO. VIZI.


5 CAPITOLO
L’ATTO AMMINISTRATIVO. VIZI.

1           Atto, provvedimento e procedimento amministrativo.


L’atto amministrativo è qualunque atto imputabile all’amministrazione.
L’atto può non comportare una incisione diretta su posizioni giuridiche di altri soggetti pubblici o privati; in tal caso si definisce mero atto come ad esempio un rapporto interno con il quale l’amministrazione prende conoscenza di un determinato fatto. CENTOFANTI N.,  CENTOFANTI P. e FAVAGROSSA M. , Formulario del diritto amministrativo 2012, 31.
Si definisce, invece, provvedimento l’atto col quale la pubblica amministrazione esprime la sua volontà di incidere su posizione giuridiche di un soggetto che può essere pubblico o privato.
Questa distinzione chiarisce anche gli aspetti della eventuale tutela che è ammessa solo per i provvedimenti che esauriscono, sotto il profilo procedurale, la fase preparatoria. Questa, infatti, non è soggetta ad impugnazione che è possibile solo quando il provvedimento diventa definitivo.
L’azione amministrativa si sviluppa attraverso una serie di atti e/o provvedimenti logicamente coordinati al fine dell’adozione di un provvedimento finale, avente effetti esecutivi, che è espressione della volontà della pubblica amministrazione.
La serie di atti che convergono nel provvedimento amministrativo nella loro fase dinamica costituisce il procedimento amministrativo.
I principi cui deve necessariamente ispirarsi il procedimento sono stati via via definiti dalla giurisprudenza e dalla dottrina.
E’ mancata, infatti, in Italia fino alla L. 241/1990 una legge generale sul procedimento amministrativo.

2           L’autotutela.


La pubblica amministrazione ha la possibilità di riformare i suoi atti, anche senza la richiesta del privato interessato al provvedimento, e può provvedere a risolvere i conflitti che eventualmente sorgono con altri soggetti nell'attuazione dei propri provvedimenti.
Esso è considerato come uno dei poteri della pubblica amministrazione oltre a quelli di autonomia e autarchia. F. BENVENUTI, Disegno dell’amministrazione italiana, 1996, 276.
L'autore ritiene l'autotutela una delle funzioni della pubblica amministrazione.
Egli distingue l’autotutela spontanea - che si manifesta negli atti di annullamento, revoca e abrogazione - da quella necessaria - che comprende gli atti sostitutivi e di approvazione - e da quella contenziosa che si verifica nel caso di ricorso amministrativo.
Altri autori, nel classificare i procedimenti amministrativi, definiscono di secondo grado quelli che hanno ad oggetto altri procedimenti amministrativi.
Nel procedimento di secondo grado l'amministrazione riprende in considerazione i provvedimenti già emanati, per motivi di legittimità (annullamento) o di merito (revoca), ripercorrendo le fasi procedimentali previste a pena di illegittimità e dando, puntualmente, idonea motivazione del pubblico interesse che muove l'amministrazione nell'esercizio del suo potere. M. S. GIANNINI, Diritto amministrativo, 1988, 981.
La L. 15/2005, inserendo nella L. 241/1990 il capo IV bis, definisce normativamente caratteri e situazioni patologiche dell’atto amministrativo che il legislatore ha sempre lasciato, in precedenza, alla costruzione giurisprudenziale e dottrinale.
La normativa non vuole certo essere esaustiva della trattazione dei caratteri dell'atto amministrativo, ma vuole semmai porre dei principi già, peraltro, affermati dalla giurisprudenza.
L’art. 19, L. 241/1990, sost. art. 3, D.L. 35/2005, afferma il potere dell’amministrazione competente di assumere, in via di autotutela, determinazioni di revoca o di annullamento.
Il riferimento espresso agli istituti di autotutela decisoria fa ritenere alla dottrina che il legislatore abbia voluto seguire la teoria che qualifica la DIA come atto abilitativo tacito formatosi a seguito della denuncia del privato. CENTOFANTI N.,  CENTOFANTI P. e FAVAGROSSA M. , Formulario del diritto amministrativo 2012, 62.

3           La nullità.


La dottrina è stata divisa, fino all’entrata in vigore della L. 15/2005, sulle regole da applicare al regime della nullità del provvedimento amministrativo in assenza di una disciplina specifica.
Taluni sostengono che devono applicarsi le regole previste per il contratto, mentre altri, che costituiscono l'indirizzo prevalente, affermano l’autonomia del diritto amministrativo dalle norme privatistiche.
L’art. 21 septies, L. 7 agosto 1990, n. 241, consacra l’esistenza della categoria della nullità del provvedimento amministrativo.
Essa codifica quelli che sono gli indirizzi giurisprudenziali prevalenti.
Il legislatore recepisce l’elaborazione giurisprudenziale in materia di nullità dell’atto amministrativo, codificando tra le cause di nullità la carenza di potere in astratto e quella particolare ipotesi di carenza di potere in concreto data dalla violazione o dalla elusione del giudicato.
Il legislatore riconosce la categoria della nullità strutturale del provvedimento amministrativo annoverando come causa di nullità la mancanza degli elementi essenziali dell’atto.
La nuova norma comprende testualmente fra le cause di nullità il difetto di attribuzione ed il provvedimento adottato in violazione del giudicato, due ipotesi che la dottrina classifica come carenza di potere.
La dottrina nota che il legislatore classifica come nullità ipotesi che sono classificate di norma come inesistenza, nel senso che dette situazioni impediscono la stessa classificazione dell’atto come provvedimento amministrativo.
La giurisprudenza assegna alle norme interne del procedimento il compito di determinare la differenza fra nullità ed irregolarità.
Il verbale è un documento che dà conto di come si è svolta una determinata attività in forme non scritte, per la cui stesura è incaricato un soggetto verbalizzante che assume la qualità di soggetto che rende atti di certezza legale. Pertanto l'unico elemento necessario per l'esistenza dell'atto è la sottoscrizione del soggetto che lo forma, mentre la mancata sottoscrizione degli altri membri componenti la commissione, anche se prevista da norme interne, determina soltanto una irregolarità e non certo la illegittimità dell'atto. Cons. St., sez. IV, 4 maggio 2004, n. 2742, Foro Amm. Cons. St., 2004, 1349.
La giurisprudenza ha precisato che il principio del consolidamento dei provvedimenti non impugnati e della non doverosità dell'attivazione del procedimento di autotutela non viene derogato quando il vizio dedotto è costituito dalla violazione del diritto comunitario.
Nell'ordinamento comunitario la sola illegittimità dell'atto non è elemento sufficiente per giustificare la sua rimozione in via amministrativa, in quanto è necessaria una attenta ponderazione degli altri interessi coinvolti, tra cui quello del destinatario che ha fatto affidamento sul provvedimento illegittimo.
Il provvedimento adottato in violazione del diritto comunitario non comporta la nullità, in quanto l'entrata in vigore dell'art. 21 septies della L. 241/1990 ha codificato le ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo, che costituiscono quindi un numero chiuso e all'interno delle quali non rientra il vizio consistente nella violazione del diritto comunitario.
L’art. 21 septies, L. 7 agosto 1990, n. 241, introduce l’istituto della nullità strutturale che, nell’ottica civilistica, comprende le ipotesi di indeterminatezza, impossibilità ed illiceità del contenuto del provvedimento.
Per contro, la teoria finora dominante - definita autonomistica - ritiene che il provvedimento amministrativo costituisca espressione dell’autonomia dell’amministrazione e che, pertanto, ad esso non siano applicabili le concezioni civiliste relative alla nullità; tale teoria riconduce i difetti nell’alveo delle possibilità di un semplice annullamento del provvedimento al fine di salvaguardare l’esistenza stessa dei provvedimenti. 
Pacifica è invece la giurisprudenza nel ritenere che, una volta annullato il provvedimento amministrativo, sia travolto anche il rapporto contrattuale che lo stesso provvedimento ha originato. L’inefficacia dell'atto amministrativo - ex tunc travolto dall'annullamento giurisdizionale - comporta, infatti, anche la caducazione immediata, non necessitante di pronunce costitutive, degli effetti del negozio sottostante. Cons. St., sez. VI, 19 novembre 2003, n. 7470, Foro Amm. Cons. St., 2003,
Il difetto di attribuzione si manifesta soprattutto nel vizio dell’incompetenza che si realizza quando una amministrazione pubblica esercita un potere che spetta ad altra amministrazione, ex art. 21 septies, L. 7 agosto 1990, n. 241. L’incompetenza può essere relativa o assoluta.
L'incompetenza è relativa quando il vizio discende dalle norme relative al riparto delle funzioni nell’ambito della stessa amministrazione.
Così, ad esempio, è viziato un provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva emanato dal sindaco invece che dal dirigente del servizio.
La fattispecie della incompetenza assoluta, che determina la nullità dell'atto amministrativo, si verifica nei casi di espressa previsione della legge o quando vi è una totale estraneità dell'organo che provvede al plesso organizzativo cui compete l'adozione dell'atto in base alla ripartizione corretta delle attribuzioni.
Si pensi ad una espropriazione effettuata dal comune mentre la competenza per quel procedimento spetta allo Stato.
L’incompetenza relativa comporta l’annullabilità dell’atto.
Essa può essere sanata. La giurisprudenza ritiene che, in base ai principi di conservazione degli atti e di economia dei giudizi, la competenza sopravvenuta sia equiparabile alla convalida quanto ad efficacia sanante. T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 21 febbraio 2002, n. 30, Foro Amm. T.A.R., 2002, 431.
L’incompetenza assoluta comporta la nullità dell’atto.
Un altro caso di nullità per carenza di potere si realizza nel provvedimento in contrasto con il dispositivo contenuto in una sentenza del giudice amministrativo passata in giudicato, ex art. 21 septies, L. 7.8.1990, n. 241.
La giurisprudenza, per ravvisare detta fattispecie, richiede che l’amministrazione ponga in essere la medesima attività ritenuta illegittima con la sentenza passata in giudicato.
Affinché ricorra il vizio di violazione o elusione del giudicato non è sufficiente che la nuova azione amministrativa posta in essere dall'amministrazione dopo la formazione del giudicato alteri l'assetto degli interessi definito dalla pronunzia passata in giudicato; è necessario, invece, che l'amministrazione eserciti nuovamente la medesima potestà pubblica, già illegittimamente esercitata, in contrasto con il puntuale contenuto precettivo del giudicato amministrativo. Cons. St., sez. IV, 6 ottobre 2003, n. 5820, Foro Amm. Cons. St., 2003, 2914, 3693 nota Mancini.
La dottrina ritiene inutile la norma poiché la tutela, in tal caso, avviene attraverso il giudizio di ottemperanza.
La disposizione si limita ad esplicare quanto è già ricavabile aliunde dal regime del giudizio di ottemperanza.
Sul punto la giurisprudenza è pacifica.
Il ricorso per ottemperanza è ammissibile in ogni caso, anche dopo l'adozione di atti esecutivi a contenuto discrezionale, senza necessità di operare la tradizionale dicotomia concettuale tra elusione ovvero violazione del giudicato, qualora il petitum sostanziale del ricorso attenga all'oggetto proprio del giudizio d'ottemperanza, miri cioè a far valere non già la difformità dell'atto sopravvenuto rispetto alla legge sostanziale, bensì la difformità specifica dell'atto stesso rispetto all'obbligo processuale di attenersi esattamente all'accertamento contenuto nella sentenza da eseguire. Cons. St., sez. VI, 10 febbraio 2004, n. 501, Foro Amm. Cons. St., 2004, 481.
Se il giudicato non fissa limiti precisi all’azione dell’amministrazione, l’azione di tutela deve rivolgersi contro l’atto amministrativo ritenuto lesivo con i normali sistemi di impugnazione davanti al giudice amministrativo.


4           La annullabilità.


La pubblica amministrazione ha la possibilità di riformare i suoi atti, anche senza la richiesta del privato interessato al provvedimento, e può provvedere a risolvere i conflitti che eventualmente insorgano con altri soggetti nell'attuazione dei propri provvedimenti. F. BENVENUTI, Appunti di diritto amministrativo, 1959, 152.
L’art. 21 octies, L. 7 agosto1990, n. 241, riafferma il principio che stabilisce l’annullabilità dell’atto amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza. G. CARUSO, Svolta per le regole sull’invalidità formale, in Guida Dir. 2005, 79.

5           Le eccezioni.


L’art. 21 octies, L. 7 agosto 1990, n. 241, introduce due importanti eccezioni al principio dell’annullabilità degli atti amministrativi.
In primo luogo non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
In secondo luogo il provvedimento amministrativo non è annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello che in concreto è stato adottato.
Una parte della dottrina ritiene equivoco il riferimento alla natura vincolata del provvedimento e lo stesso potere del giudice di stabilire se, col rispetto delle norme violate, l’atto avrebbe potuto avere lo stesso contenuto.
Vincolato può essere l’an, se emanare l’atto è atto dovuto a seguito di una corretta valutazione dei presupposti; vincolato può essere il quando, se l’atto deve essere emanato in relazione a determinate circostanze temporali. Lo stesso stabilire il grado del vincolo può essere scelta discrezionale per cui è la medesima amministrazione che deve decidere.
Il potere attribuito al giudice di decidere se, col rispetto delle norme violate, l’atto avrebbe potuto avere lo stesso contenuto significa attribuirgli una potestà che non è sua tipica, ma che peraltro gli è preclusa dalla sua posizione di terzietà rispetto alla domanda di annullamento presentata dal ricorrente.
Conseguente è la censura di incostituzionalità della norma perché trasforma la giustizia amministrativa in una ulteriore fase della azione amministrativa.
Altra dottrina sostiene che dette disposizioni costituiscono applicazione del principio del raggiungimento dello scopo, enunciato dall’art. 156, comma 3, c.p.c.
Esso afferma, infatti, che la nullità non può essere mai pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato.
Altri autori osservano che il legislatore si muove nell’ottica del raggiungimento del risultato e che tale ratio paralizza ogni attività di tutela con evidente lesione dell’art. 113, cost. E. FOLLIERI, L’annullabilità dell’atto amministrativo, in Urb. App., 2005, 625.
Nel diritto amministrativo lo scopo non è quello dell’atto procedimentale o delle formalità omesse, bensì il fine che l’azione amministrativa deve perseguire. Esso è costituito dall’adozione di una decisione provvedimentale legittima.
La dottrina rileva che, nel giudicare fattispecie rientranti nella prima ipotesi relativa alla impossibilità di annullare l’atto redatto in violazione alle norme procedimentali, qualora il suo contenuto dispositivo non possa essere diverso da quello adottato, il giudice è chiamato a cambiare il suo ruolo
Il giudice è chiamato dalla nuova normativa a ricostruire il corretto contenuto dispositivo dei provvedimenti vincolati, a prescindere dall’eventuale presenza di vizi formali e procedimentali, perché i provvedimenti di contenuto corretto raggiungono il loro obiettivo e soddisfano l’interesse pubblico, anche se presentano imperfezioni formali.
Nel caso di mancata acquisizione di un parere l’annullamento non deve essere disposto qualora l’atto sia vincolato.
La giurisprudenza ha affermato che il provvedimento con cui il comune dispone l'annullamento di autorizzazioni commerciali rilasciate sulla base dell'erroneo presupposto dell'iscrizione dei richiedenti al registro degli esercenti il commercio (nella fattispecie, sulla base di una falsa attestazione della sua sussistenza non deve essere preceduto dal parere della commissione comunale prevista dagli artt. 11 e 16, L. 11 giugno 1971, n. 426. Detta interpretazione è fondata sulla considerazione del suo carattere vincolato e, in quanto tale, non implicante alcuna valutazione discrezionale, come si ricava dall'art. 31, L. 426/1971, secondo cui la cancellazione dal registro degli esercenti ha come conseguenza la doverosa revoca dell'autorizzazione.
Ciò anche in conformità al principio di recente introdotto nell'ordinamento dall'art. 21 octies, comma 2, L. 7.8.1990, n. 241, secondo cui l'annullamento di provvedimenti vincolati per vizi formali non può essere pronunciato allorché appaia palese che il loro contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. T.A.R. Lazio Latina, 16 maggio 2005, n. 383.
Ai sensi dell'art. 21 octies, l. n. 241 del 1990, non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. T.A.R. Campania Napoli, sez. II, 30 ottobre 2006, n. 9243, in Foro amm. TAR, 2006, 10, 3292.
Non può individuarsi alcuna violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento nel caso in cui il ricorrente non avrebbe potuto arrecare alcun apporto sostanziale alle scelte dell'Amministrazione.
Detta situazione si verifica quando il quadro normativo di riferimento o convenzionale non presenta margini di incertezza sufficientemente apprezzabili e l'eventuale annullamento del provvedimento finale per accertata violazione dell'obbligo di formale comunicazione non priverebbe l'Amministrazione del potere di adottare un nuovo provvedimento di contenuto analogo. T.A.R. Campania Napoli, sez. VII, 26 ottobre 2006, n. 9127, in Il merito, 2006, 12, 94.
Il giudice deve valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e, quindi, non deve annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del provvedimento impugnato. T.A.R. Puglia Lecce, sez. II, 12 settembre 2006, n. 4412, in Foro amm. TAR, 2006, 9, 3057.
La giurisprudenza afferma che l'amministrazione è tenuta ad esibire nel giudizio una prova tale da introdurre elementi di fatto oggettivamente verificabili, idonei a dimostrare in concreto che in nessun altro modo, non lesivo per la posizione del ricorrente, si sarebbe potuto raggiungere lo scopo. T.A.R. Lazio, sez. II, 25 ottobre 2005, n. 9804.
La norma produce il definitivo ribaltamento del tradizionale principio del cosiddetto divieto di motivazione postuma.
Essa riduce il novero dei vizi patologici a quelli di natura sostanziale e limita la potestà caducatoria del giudice amministrativo.
Si è, infatti, già osservato che una volta ammesso, in termini generali con la L. 21 luglio 2000, n. 205, che anche dall'esercizio dell'attività provvedimentale della p.a. possono scaturire illeciti risarcibili ai sensi dell'art. 2043 c.c., si impone un ripensamento dell'assunto della immodificabilità della motivazione.
La L. 205/2000, con la previsione dei motivi aggiunti, comporta che l'adozione di un ulteriore provvedimento volto ad emendare un vizio dell'atto oggetto del gravame non pone più fine automaticamente al relativo giudizio (oggi strutturato come giudizio sul rapporto), ma abilita l'interessato ad integrare la sua originaria impugnativa.
La giurisprudenza afferma che ogni ricaduta patologica dei vizi attinenti alla forma degli atti amministrativi, o a violazioni procedimentali, è da escludersi alla luce dell'art. 21 octies, L. 241 del 1990, secondo cui non è annullabile (vale a dire, illegittimo) il provvedimento amministrativo adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato; la formula innovativa della legge deve indurre anche al definitivo ribaltamento del tradizionale principio del cd. divieto di motivazione postuma e, riducendo il novero dei vizi patologici a quelli di natura sostanziale, limita la potestà caducatoria del giudice amministrativo.
L'obbligo della comunicazione di avvio del procedimento amministrativo, previsto dal richiamato art. 7, L. n. 241/1990, sussiste quando, in relazione alle ragioni che giustificano l'adozione del provvedimento, e a qualsiasi altro possibile profilo, la comunicazione stessa apporti una qualche utilità all'azione amministrativa, affinché questa, sul piano del merito e della legittimità, riceva arricchimento dalla partecipazione del destinatario del provvedimento. In mancanza della suddetta utilità viene meno l'obbligo di comunicazione. T.A.R. Campania Napoli, sez. VII, 26 ottobre 2006, n. 9127, in Il merito, 2006, 12, 94.


6           L’incompetenza relativa.


La giurisprudenza non è uniforme nel considerare applicabile l’art. 21 octies, comma 2, L. 241/1990 ai provvedimenti viziati da incompetenza.
Secondo un primo orientamento le norme non attributive della competenza sono senz’altro riconducibili alle disposizioni che disciplinano il procedimento amministrativo. Esse sono, infatti, volte ad individuare l’organo indicato a disporre l’emanazione del provvedimento. T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 29 novembre 2005, n. 2484.
Altra giurisprudenza sostiene la tesi opposta escludendo l’incompetenza dall’ambito di applicazione della norma.
Da una lettura combinata del primo e del secondo comma dell'art. 21 octies, L. 241/1990, si desume che, quando è accertata l'incompetenza relativa dell'organo adottante - da non confondere con l'incompetenza assoluta, disciplinata dall'art. 21 septies, comma 1, della L. 241/1990 - il provvedimento deve essere necessariamente annullato, non potendo trovare applicazione la disposizione che ne preclude l'annullamento laddove sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Tale disposizione si riferisce soltanto ai casi in cui il provvedimento sia stato adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma.
Né sembra possibile includere le norme sulla competenza tra le norme sul procedimento amministrativo o tra quelle sulla forma degli atti.
Dal primo comma dell'art. 21 octies, L. 241/1990, si rileva che il legislatore ha inteso confermare la tripartizione dei vizi di legittimità dell'atto amministrativo, in base alla quale la violazione delle norme sulla competenza configura il vizio di incompetenza, mentre la violazione di norme sul procedimento o sulla forma rientra nell'ambito più generale della violazione di legge.
Inoltre, devono ritenersi norme sul procedimento tutte quelle relative al modus operandi dell'Amministrazione ed alla partecipazione procedimentale del destinatario del provvedimento finale, delle altre Amministrazioni interessate e dei soggetti indicati dall'art. 9 della legge n. 241/1990, mentre devono ritenersi norme sulla forma quelle relative ai requisiti formali degli atti endoprocedimentali e del provvedimento finale. T.A.R. Campania, Napoli, sez. IV, 23 marzo 2005, n. 3780, in Guida Dir., n. 27, 2005, 83.


7           L’atto redatto in mancanza di comunicazione dell’avvio del procedimento.


Altre sono le ragioni che consentono all’amministrazione di sanare l’atto qualora esso sia redatto in mancanza di comunicazione dell’avvio del procedimento.
La dottrina rileva che si tratta di una sanatoria processuale tesa a evidenziare che la carenza procedimentale non ha inciso sul contenuto del provvedimento.
La giurisprudenza puntualizza che la carenza di comunicazione di avvio di procedimento non comporta l’annullamento dell’atto se l’atto è a contenuto vincolato e, pertanto, la mancata osservanza degli aspetti formali non provoca modifiche al suo contenuto.
La regola vale tanto più ove detto avviso non viene ad avere nessuna influenza sull'esito finale del procedimento, in conformità al principio di recente introdotto nell'ordinamento dall'art. 21 octies, comma 2, L. 241/1990, introdotto dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, secondo cui l'annullamento di provvedimenti vincolati per vizi formali non può essere pronunciato allorché appaia palese che il loro contenuto dispositivo non può in ogni caso essere diverso da quello in concreto adottato.
Tale innovazione trova supporto in un orientamento giurisprudenziale precedente all’entrata in vigore della L. 15/2005 che è più attento alle forme che alla sostanza; il suddetto indirizzo ritiene non annullabili i provvedimenti nei quali la partecipazione del privato risulti meramente formale tale da non potere incidere sul contenuto del provvedimento.
Il privato, per giungere alla demolizione del provvedimento, deve, pertanto, dimostrare che la sua partecipazione avrebbe potuto cambiare sostanzialmente l’atto.
Parte della dottrina critica questa tendenza che porta ad un diritto amministrativo sempre meno paritario perché le garanzie per il privato diventano mere forme mentre l'azione di tutela del privato rimane soggetta a termini perentori di decadenza.
La giurisprudenza ha, infatti, affermato che l'obbligo della p.a. di provvedere alla comunicazione di avvio del procedimento nei riguardi di quei soggetti sui quali il provvedimento sia destinato a produrre effetti diretti non può che configurarsi in senso sostanziale e non formale.
Detto obbligo, pertanto, è stato ritenuto rispettato ogni qualvolta l'amministrazione, relativamente allo svolgimento di un procedimento amministrativo semplice o complesso prodromico all'adozione di un provvedimento finale, possa effettivamente beneficiare della partecipazione del privato mediante l'acquisizione di un contributo rappresentativo dei suoi interessi e non anche nelle ipotesi in cui il provvedimento sarebbe stato in ogni caso adottato in quanto atto necessitato o vincolato o qualora la comunicazione stessa non avrebbe potuto esplicare alcuna positiva efficacia in relazione alla possibilità del privato di partecipare al procedimento stesso.

8           La mancata comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza.


L’art. 10 bis, L. 241/1990 prevede che nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunichi tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda.
Gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione.
La norma vincola immediatamente le amministrazioni statali e gli enti pubblici nazionali.
La modifica dell’art. 29 della L. 241/1990, proposta dall’art. 7, L. 69/2009, estende l’applicazione della legge anche alle società con prevalente capitale pubblico limitatamente all’esercizio delle funzioni amministrative.
Il provvedimento deve riferire dell’istruttoria effettuata e deve dare conto delle ragioni che, in relazione alla situazione esistente, si frappongono alla domanda del privato.
Una parte della giurisprudenza ritiene che la mancata attuazione della disposizione non consenta di applicare il disposto dell'art. 21 octies, L. 241/1990, non essendo stato dimostrato, in presenza di un provvedimento a natura non vincolata, nemmeno in questa sede, che il contenuto dispositivo del provvedimento impugnato non avrebbe potuto avere diverso contenuto. Qualora l'amministrazione abbia disatteso la disposizione di cui al nuovo art. 10 bis della legge sul procedimento risultata preclusa per la parte interessata la facoltà di presentare osservazioni al diniego con conseguente possibilità di annullare il provvedimento impugnato.
In particolare la giurisprudenza ha precisato che, in tema di rilascio di autorizzazione paesaggistica, la mancata comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento della domanda costituisce rilevante profilo di illegittimità del provvedimento gravato, in quanto l'art. 146, comma 9, D. L.vo 22 gennaio 2004, n. 42, prevede espressamente l'obbligo della comunicazione del preavviso di rigetto di cui all'art. 10 bis, L. 7 agosto 1990, n. 241. T.A.R. Sicilia Palermo, sez. I, 22 giugno 2006, n. 1510, in Foro amm. TAR, 2006, 6, 2223.
La regola partecipativa posta dall'art. 10 bis, L. 7 agosto 1990, n. 241, non può essere intesa in senso meccanico e formalistico, avendo la stessa non già una ragione formale, ma sostanziale ossia dare la possibilità al richiedente in un procedimento amministrativo di venire a conoscenza delle ragioni che impediscono l'accoglimento della sua istanza, prima che il provvedimento negativo sia divenuto definitivo. Pertanto, laddove il destinatario del provvedimento finale abbia avuto modo, nel corso del procedimento, di venire a conoscenza delle ragioni impeditive all'accoglimento della sua istanza ed abbia potuto confutare efficacemente, la riproposizione delle stesse risulta non solo inutile, ma dispendiosa e contraria ai principi di efficacia e buon andamento dell'amministrazione. T.A.R. Puglia Lecce, sez. II, 24 agosto 2006, n. 4281, in Foro amm. TAR, 2006, 7-8, 2679.
La giurisprudenza distingue questa ipotesi partecipativa da quella prevista per i procedimenti di secondo grado. Non sussistono i presupposti per l'applicazione dell'art. 10 bis, L. n. 241 del 1990, che impone la previa comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza quando il provvedimento impugnato non ha ad oggetto la reiezione in via originaria dell'istanza di autorizzazione, ma la caducazione dell'atto favorevole adottato in prime cure.
Tale atto, catalogabile tra i provvedimenti di secondo grado, affida le aspettative partecipative del soggetto interessato al diverso strumento comunicativo di cui all'art. 7, L. n. 241 del 1990. T.A.R. Campania Salerno, sez. II, 3 agosto 2006, n. 1125, in Foro amm. TAR, 2006, 7-8, 2625.
Altra giurisprudenza intende ampliare l’applicazione della regola della non annullabilità.
Questo indirizzo ritiene applicabile l’art. 21 octies, comma 2, L. 241/1990 in detta fattispecie perché - al pari dell’ipotesi di omessa comunicazione dell’avvio del procedimento - anche in questo caso l’amministrazione procedente è tenuta ad iniziare un contraddittorio con il destinatario dell’emanando provvedimento al fine di raccogliere un contributo istruttorio da parte del soggetto passivo del procedimento. T.A.R. Veneto, sez. II, 7 settembre 2005, n. 3421.


9           La annullabilità d’ufficio.


L'annullamento d'ufficio di un atto amministrativo inerisce all'essenza stessa della funzione svolta dalla pubblica amministrazione che è quella del perseguimento del pubblico interesse.
Qualora l'atto non sia conforme a questo obiettivo, l'autorità che l'ha emesso, a prescindere da ogni intervento esterno, ha la possibilità di rimuovere l'atto stesso con efficacia ex tunc, annullandolo.
Tale potere è esercitato dalla amministrazione che ha emanato l'atto, salvo restando il potere degli interessati, sui quali cadono gli effetti dell'atto, di agire in sede amministrativa ovvero in sede giurisdizionale per ottenere dei provvedimenti o delle sentenze che impongano alla amministrazione un diverso comportamento.
Non esistono però dei limiti logicamente precisi che obblighino la pubblica amministrazione a rivedere gli effetti dei suoi atti, per verificare la loro annullabilità, anche perché normalmente gli atti amministrativi, attraverso il procedimento che devono seguire per la loro approvazione - ovvero attraverso il successivo riscontro di un eventuale organo consultivo o di controllo - normalmente dovrebbero garantire il rispetto di ogni requisito di legittimità.
L'eccezionalità è, infatti, il requisito principe caratterizzante detto potere della pubblica amministrazione poiché esso deve manifestarsi solo qualora il procedimento amministrativo originario non abbia sortito gli effetti desiderati.
Dato che l'amministrazione deve agire nel modo più idoneo per perseguire il pubblico interesse, essa deve tutelarsi proprio in quei casi eccezionali in cui i suoi provvedimenti non hanno sortito gli effetti desiderati.
La dottrina, infatti, ritiene che, perché si possa esplicare il potere di autotutela, debbano sussistere due requisiti fondamentali: deve sussistere una illegittimità originaria dell'atto amministrativo e, conseguentemente, deve essere evidente l'interesse pubblico giustificativo dell'atto di autotutela.
La dottrina, peraltro, sostiene che anche la inopportunità dell'atto giustifica la procedura di annullamento d'ufficio. M. S. GIANNINI, Diritto amministrativo, 1988, 1060.
Il legislatore, fortemente condizionato da una politica di risparmio della spesa pubblica, ha introdotto una norma nella finanziaria 2005 che codifica l’annullamento dei provvedimenti di esecuzione che siano ancora in corso limitandone il potere entro i tre anni dal momento in cui il provvedimento abbia acquisito efficacia e con l'indennizzo del danno recato al privato, art. 1, L. 30 dicembre 2004, n. 311.
L’indirizzo è ripreso dalla legge sulle nuove norme per l’azione amministrativa che prevede una espressa disposizione che disciplina l’annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi illegittimi.
In tale caso la norma richiede una idonea motivazione e la valutazione degli interessi dei destinatari, elimina la espressa limitazione temporale, mentre sottace l’obbligo dell’indennizzo, art. 21 nonies, L. 7 agosto 1990, n. 241, intr. art. 14, L. 11 febbraio 2005, n. 15.
La giurisprudenza precedente all’entrata in vigore della L. 15/2005 ha sempre valutato la necessità di un’idonea motivazione dell’interesse pubblico.
L'esercizio del potere di autotutela da parte della p.a. richiede non solo l'esistenza di un vizio dell'atto da rimuovere, ma anche l'esistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione dell'atto, che non si identifica nel mero ripristino della legalità violata, e la sua comparazione con gli interessi privati sacrificati quando, per effetto del provvedimento ritenuto illegittimo, siano sorte posizioni giuridiche qualificate e consolidate nel tempo. T.A.R. Campania Napoli, sez. IV, 9 febbraio 2004, n. 1968, Foro Amm. T.A.R., 2004, 473.
L’interesse pubblico all’annullamento deve essere esplicitato soprattutto quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dall’emanazione del provvedimento che si vuole annullare.
La valutazione del tempo trascorso viene meno qualora si tratti di recuperare somme indebitamente erogate.
La giurisprudenza ha dichiarato legittimi i provvedimenti di autotutela (revoca e annullamento) inerenti a contributi pubblici anche quando adottati a notevole distanza di tempo considerato che, trattandosi di erogazione di pubblico denaro, l'interesse al recupero è intrinseco nella natura stessa del finanziamento e non viene meno per il lungo decorso del tempo, rimanendo impregiudicato il diritto dell'amministrazione di far rientrare nelle proprie casse il denaro non più rispondente allo scopo per il quale era stato erogato. T.A.R. Campania Napoli, sez. V, 18 dicembre 2003, n. 15468.


10       La convalida dei provvedimenti annullabili.


La convalida è l’atto col quale l’amministrazione riconosce un vizio dell'atto amministrativo e consiste in una dichiarazione espressamente diretta ad eliminare il vizio.
Essa provvede a sanare l’illegittimità consentendo all’atto di superare ogni azione di annullamento.
La giurisprudenza ha dichiarato che, per convalidare gli effetti di un provvedimento viziato da sola incompetenza, è sufficiente l'intento dell'organo amministrativo competente di condividere il contenuto dell'atto e i presupposti sottostanti alla sua emanazione, senza reiterare il procedimento o rinnovare la motivazione, che deve essere ricercata nell'atto convalidato. T.A.R. Sardegna, 17 gennaio 2004, n. 15, Foro Amm. T.A.R., 2004, 271.
Un indirizzo della giurisprudenza riconosce la possibilità di convalidare atti viziati anche se gli stessi sono stati ritualmente impugnati presso il giudice amministrativo. T.A.R. Molise, 10 maggio 2004, n. 275.
Altro indirizzo giurisprudenziale nega la convalida di atti viziati per violazione di legge od eccesso di potere impugnati presso il giudice amministrativo.
Poiché solo con riguardo al vizio di incompetenza relativa, di carattere meramente formale, la legge consente la convalida retroattiva in pendenza di giudizio, nel silenzio della legge, con riguardo agli altri vizi deve escludersi la possibilità di convalida in pendenza di giudizio. Viene fatto salvo il potere di autotutela della p.a. nei riguardi dei propri atti, potere che esplica effetti ex nunc e che non viene meno neppure quando l'atto, del cui annullamento si tratta, sia stato impugnato in sede giurisdizionale. T.A.R. Veneto, sez. I, 31 marzo 2003, n. 2174, Foro Amm. T.A.R., 2003, 854.
La giurisprudenza attribuisce anche alla convalida, come all’annullamento di ufficio, efficacia retroattiva ex tunc a partire dal momento dell’emanazione dell’atto.
L’art. 21 nonies, 2 comma, L. 7 agosto 1990, n. 241, ribadisce la possibilità di convalida di provvedimenti annullabili in presenza di ragioni di ordine pubblico ed entro un termine ragionevole, tralasciando ogni coordinamento con la normativa precedente.
La normativa sembra estendere la possibilità per la pubblica amministrazione di addivenire alla convalida dell’atto amministrativo in ogni ipotesi di impugnazione inibendo l’azione di tutela.
La tutela, quindi, è destinata a spostarsi sull’esame dei limiti della possibilità di convalida.


11       La revoca.


Nel potere di autotutela si inquadra anche la revoca del provvedimento.
L’istituto trova la sua diversa ratio nel potere generale dell’amministrazione di rivedere i suoi atti per motivi di merito
Tale potere, che consente all’amministrazione di porre nel nulla con efficacia ex nunc i suoi atti, residuo di quello assoluto del sovrano, è temperato dalla necessità di motivazione e trova limite nelle posizioni giuridiche acquisite dai destinatati dell’atto che si intende revocare.
La giurisprudenza ha affermato, ad esempio, che il provvedimento di declassazione di un albergo a categoria di livello inferiore, in presenza di accertate carenze ravvisabili nelle condizioni generali delle camere e delle zone comuni inferiori agli standard qualitativi richiesti per una struttura classificata a 4 stelle, è un atto di revoca o riforma, fondato su un interesse pubblico attuale, rappresentato in motivazione, costituito dall'esigenza di garantire alla clientela alberghiera l'effettiva sussistenza dei servizi, delle dotazioni e del livello qualitativo corrispondenti alla classe assegnata a quella determinata struttura. T.A.R. Valle d'Aosta, 24 settembre 2004, n. 96.
L’art. 21 quinquies, L. 7 agosto 1990, n. 241, afferma che, per sopravvenuti motivi di pubblico interesse o nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione del provvedimento amministrativo, l’atto può essere revocato.
La norma non contempla la necessità che l’amministrazione valuti e motivi il provvedimento in rapporto all’avvenuto consolidamento delle posizioni dei soggetti passivi come è invece richiesto finora dalla giurisprudenza prevalente.
In particolare la giurisprudenza precedente ha richiesto che l’interesse pubblico alla revoca sia valutato in rapporto al tempo trascorso dall’emanazione del provvedimento.
La deroga all'obbligo di motivazione trova un limite di estensione nel consolidamento dei vantaggi conseguiti dal privato, talché anche nell'ipotesi del ritiro assume rilevanza il tempo trascorso tra il conseguimento del beneficio e l'eliminazione dell'atto che lo aveva attribuito. Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 20 dicembre 2000, n. 496.
La norma afferma, inoltre, che, se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di corrispondere un indennizzo, parallelamente al principio sancito in materia di recesso da accordi procedimentali.
L’art. 21 sexies, L. 7 agosto 990, n. 241, precisa che l’istituto della revoca non è estensibile alla materia di contratti con la pubblica amministrazione.
Le disposizioni sul recesso della pubblica amministrazione non rientrano nella materia dei provvedimenti, ma in quella contrattuale.
Il recesso unilaterale nei contratti è ammesso solo nei casi previsti dalla legge o dal contratto, come ad esempio nel caso di appalto di opere pubbliche.


12       I criteri per la quantificazione dell’indennizzo.


Qualora la revoca di un provvedimento amministrativo incida su rapporti negoziali il legislatore provvede direttamente a definire la quantificazione dell’indennizzo da corrispondere al privato da parte dell'amministrazione.
L'indennizzo deve essere parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell'eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell'atto amministrativo oggetto di revoca all'interesse pubblico, sia dell'eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all'erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l'interesse pubblico, ex art. 21-quinquies, comma 1 bis, L. 7 agosto 1990, n. 241, mod. art. 13, comma 8 duodevicies, D.L. 31 gennaio 2007, n. 7.
La disposizione in esame parametra l’indennizzo al solo danno emergente escludendo il lucro cessante. La norma specifica che l’indennizzo deve essere quantificato tenendo conto dell’affidamento che il privato ha riposto sull’atto revocato.
L’indennizzo deve essere determinato valutando la possibile conoscenza da parte del soggetto privato destinatario del provvedimento del fatto che l’atto amministrativo sia contrario all’interesse pubblico.
Detta conoscenza ridimensiona l’affidamento che il privato può fare sull’atto e quindi giustifica la diminuzione del risarcimento.
Resta però il problema di come provare che il privato era informato di tale contrarietà.
Il destinatario non deve avere concorso a formare un eventuale erroneo convincimento da parte dell’amministrazione di realizzare coll’emanazione del provvedimento un interesse pubblico.
La dottrina evidenzia che la norma non accenna alla rilevanza che acquista nella pratica il tempo trascorso dall’emanazione dell’atto revocato per determinare la decurtazione del risarcimento; tale mancata considerazione porta a riconoscere un sommo potere alla pubblica amministrazione.
Essa potrebbe ad ogni tornata elettorale disconoscere gli atti posti in essere dalla amministrazione precedente.

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