mercoledì 20 giugno 2012

D. A. 26 CAPITOLO ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ.


26 CAPITOLO
ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ.


1.      Il t.u. sull’espropriazione per p.u.


Il consiglio dei ministri, in data 31.5.2001, ha approvato lo schema di d.p.r. portante il t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazioni, dopo avere ricevuto il parere delle commissioni parlamentari competenti e del Consiglio di Stato. CENTOFANTI N.,  L’espropriazione per pubblica utilità 2009, 10.
Il relativo d.p.r. è stato emanato, l’8.6.2001, n. 327, ed è stato pubblicato nel suppl. ord. n. 211/L, della Gazz. Uff. 16.8.2001, n. 189.
Il t.u. ha il proprio fondamento nella delega conferita al governo, ai sensi dell’art. 7, 1° e 2° co., l. 8.3.1999, n. 50, mod. dall’art. 1, l. 24.11.2000, n. 340.
L’all. 1, l. 24.11.2000, n. 340, n. 18, tassativamente prevede fra i procedimenti oggetto di delegificazione quello relativo alle espropriazioni per causa di pubblica utilità e alle altre procedure connesse disciplinate dalle l. 25.6.1865, n. 2359 e l. 22.10 1971, n. 865.
Il criterio da utilizzare da parte del governo nella operazione di semplificazione amministrativa è quello previsto dalla l. 8.3.1999, n. 50 che determina il riordino delle norme legislative e regolamentari.
La legge delega altre volte assegna il solo potere di riordino dei procedimenti per cui la onnicomprensività della dizione del testo legislativo, che prevede il riordino delle norme legislative, è il più ampio.
L’importanza di tale delega è evidente poiché, pur trattandosi della sistemazione in un testo unico – il che deve caratterizzare l’elaborato in senso prevalentemente compilativo del quadro normativo esistente - nondimeno consente la possibilità di innovare il testo legislativo per raggiungere la finalità del riordino.
L’operazione consiste nella riconduzione ad unità organica del materiale normativo disseminato in varie disposizioni di legge in modo da armonizzare tra loro istituti variamente introdotti e disciplinanti la materia delle espropriazioni.
Il sistema ha, quindi, indotto il governo a ripensare la materia secondo lo schema guida dei principi fissati dalla l. 25.6.1865, n. 2359, coordinando con tale testo normativo tutte le altre disposizioni a carattere speciale che disciplinavano il procedimento espropriativo.
Il t.u. definisce un unico procedimento espropriativo anche a favore dei privati relativo a beni immobili o a diritti relativi ad immobili per l’esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità, t.u. art. 1.
La l. 25.6.1865, n. 2359, diversamente demandava al legislatore ordinario la facoltà di emanare dei provvedimenti legislativi per regolamentare la possibilità di espropriare.
Per quanto attiene alla determinazione dell’indennità di espropriazione viene mantenuto il sistema composito introdotto dalla legge per la casa, l. 22.10 1971, n. 865, per le indennità riguardanti le aree agricole, mentre per le aree interne al centro edificato vengono assunti i criteri, peraltro transitori, fissati dall’art. 5 bis, l. 8.8.1992, n. 359.
Il procedimento espropriativo disciplinato dal t.u. è l’unico mezzo per giungere all’espropriazione non essendo più prevista l’occupazione d’urgenza preliminare all’occupazione, residua solo l’occupazione strumentale disciplinata dall’art. 49, n. 1, t.u., o quella caratterizzata dalla massima urgenza come ad esempio nel caso di rottura d’argini e di alluvioni dall’art. 49, n. 5, t.u.
Sono abrogate oltre che la l. 25.6.1865, n. 2359, e il II titolo l. 22.10 1971, n. 865, tutte le norme disciplinanti procedure speciali di esproprio con la dizione espressa del t.u. art. 59, n. 141, che recita: Tutte le altre norme di legge e di regolamento, riguardanti gli atti ed i procedimenti volti alla dichiarazione di pubblica utilità di indifferibilità ed urgenza, all’esproprio o all’occupazione di urgenza, nonché quelle riguardanti la determinazione dell’indennità di espropriazione o di occupazione di urgenza.
Il d.p.r. 8.6.2001, n. 327, all’art. 5, ripropone i principi fissati dall’art. 20, l. 15.3.1997, n. 59, mod. dall’art. 1, 4° co., l. 24.11.2000, n. 340 ribadendo che le disposizioni del t.u. operano direttamente nei riguardi delle regioni a statuto ordinario e a statuto speciale fino a quando esse non si adeguino ai principi e alle norme fondamentali di riforma economico-sociale sanciti da detta disposizione.
Vi è, pertanto, dal momento della sua entrata in vigore una prevalenza automatica delle disposizioni del t.u.

2.      Il principio di legalità nella procedura di esproprio.


Il principio di legalità in una sua prima enunciazione è stato concepito dalla dottrina nel senso che ogni atto od elemento di atto della pubblica amministrazione debba essere previsto tassativamente da una qualche ipotesi normativa.
La norma di azione amministrativa deve quindi fissare le scansioni del procedimento amministrativo dalle quali la pubblica amministrazione non può discostarsi pena l’illegittimità di tutto o parte del procedimento.
Secondo tale concezione l’azione dell’amministrazione viene collegata nel suo svolgersi al dettato normativo, seguendo procedimenti formali predeterminati in contrapposto all’azione del soggetto privato che agisce secondo schemi completamente autonomi lasciati alla sua libera discrezionalità.
La dottrina è concorde nell’affermare che qualsiasi potere amministrativo, imputato a qualsivoglia autorità, produttivo di qualunque tipo di effetti, deve esse sempre previsto dalla legge secondo il principio di tipicità e nominatività dei poteri amministrativi.
Non sussistono, pertanto, poteri atipici, che non siano cioè previsti da alcuna norma legislativa, il cui relativo esercizio dia luogo ad una attività giuridicamente inesistente.
Anche se la dottrina più recente è orientata a configurare il principio di legalità in una accezione meno rigida ciononostante si ritiene che devono essere necessariamente previsti con norme di legge i poteri amministrativi incidenti unilateralmente imperativamente su situazioni soggettive dei terzi come per i procedimenti ablatori.
Per tali procedimenti vale la riserva di legge, disposta dall’art. 23 cost., che afferma come nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.
Per il procedimento ablatorio l’art. 42, 3° co., prevede una ulteriore riserva di legge, sancendo che la proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale.
Il principio di legalità è stato, peraltro, in tema di espropri, ribadito dal legislatore sin dall’art. 1 della legge preunitaria, l. 25.6.1865, n. 2359, che richiede l’osservanza delle disposizioni portate da detto provvedimento per il procedimento ablatorio.
Il d.p.r. 8.6.2001, n. 327, all’art. 2, ribadisce il principio di legalità affermando che l’espropriazione per pubblica utilità può essere disposta solo nei casi previsti da leggi e regolamenti ed, inoltre, introduce nuovi criteri a cui deve ispirarsi il procedimento ablatorio che deve seguire i seguenti principi:
- di economicità: quindi il responsabile del procedimento deve evitare che l’illegalità procedimentale comporti maggiori oneri all’amministrazione;
- di efficacia: col raggiungimento dello scopo arrivando al decreto di esproprio in tempi brevi;
- di efficienza: evitando contrasti con altre amministrazioni qualora l’autorità procedente sia diversa da quella comunale, ad esempio verificando il rispetto della corretta pianificazione urbanistica;
- di pubblicità: consentendo l’accesso al procedimento da parte dell’espropriante;
- di semplificazione dell’attività amministrativa: evitando, ad esempio, il procedimento dell’occupazione preliminare.


3.      La competenza all’emanazione degli atti di esproprio.


L’attuazione dell’ordinamento regionale ha comportato che il prefetto permane titolare del potere espropriativo, attribuitogli da ultimo dall’art. 13 della l. 865/1971, soltanto in pochi casi.
L’espropriazione, pur non essendo espressamente contemplata come materia trasferita dall’art. 117 cost., è stata considerata parte integrante d’altre funzioni quali l’urbanistica o i lavori pubblici che sono di competenza regionale.
L’attribuzione della titolarità dei poteri al prefetto nel regime del procedimento espropriativo previgente era considerata una garanzia procedimentale per i soggetti passivi del procedimento.
Il prefetto, infatti, quale organo estraneo all’amministrazione locale e, in ogni modo, non appartenente all’organizzazione centrale dello Stato preposta al procedimento ablatorio, assicura certamente una posizione del tutto imparziale al soggetto, sia esso pubblico o privato, che subisce la privazione della proprietà.
La Corte costituzionale, investita della questione di legittimità della nuova procedura, che attribuiva ad organi - sicuramente parti del procedimento - la funzione espropriativa, ha ritenuto che essa rispettasse il principio di imparzialità della funzione amministrativa affermato dall’art. 97 cost., dichiarando manifestamente infondata la questione. Corte cost., 21.12.1985, n. 355, in Giur. Cost., 1985.
L’art. 106 del d.p.r. 616/1977 ha trasferito alle regioni la potestà espropriativa in tutte le materie oggetto di trasferimento o di delega, riservando allo Stato la competenza solo per le opere pubbliche di sua spettanza.
Agli enti locali, in particolare, sono attribuite le competenze concernenti le opere o gli interventi per la cui esecuzione l’espropriazione è strumentale, ex art. 106, d.p.r. 616/1977.
La legislazione regionale ha provveduto ad attribuire la funzione espropriativa ai comuni ed agli altri enti locali.
La giurisprudenza ha posto il problema della legittimità delle norme che stabiliscono quali siano gli organi comunali competenti ad emanare atti delle procedure espropriative essendo esse in contrasto con l'art. 128 cost.
La corte ha stabilito che il precetto costituzionale sottrae al potere legislativo delle regioni a statuto ordinario la disciplina dell'organizzazione degli enti territoriali, che è affidata esclusivamente al potere legislativo statale, ma non vieta alle regioni stesse di precisare quali, fra gli organi comunali previsti dall'ordinamento dello Stato, siano competenti a provvedere in ordine a materie delegate ai comuni.
La Corte, pur ammettendo che l’art. 128 cost. sottrae al potere legislativo delle regioni a statuto ordinario la disciplina dell’organizzazione degli enti territoriali, che è di competenza dello Stato, ha fondato la propria decisione sulla considerazione che la delega disposta con legge regionale non altera la tipologia dell’organizzazione comunale.
Anzi le leggi regionali in questione, in aderenza al disposto dell’art. 118, 3° co., hanno consentito alle regioni di esercitare le loro funzioni amministrative delegandole agli enti minori o valendosi dei loro uffici. Corte cost. 20.10.1983, n. 319, in Riv. Giur. Ed., 1984, 821.
La dottrina è contraria condividendo la tesi delle decisioni di remissione. Si osserva, infatti, che se vi è delega non può la regione scegliere l’organo delegato, ma deve limitarsi ad attribuire i poteri all’ente, essendo la materia dell’individuazione delle funzioni degli organi comunali di pertinenza della legge statale
E’ stata, del pari, ritenuta infondata la censura relativa al fatto che siano accentrate nella figura del sindaco interessato al procedimento ablatorio più funzioni. T.A.R. Emilia Romagna, sez. I, Bologna, 15.11.1994, n. 829, in T.A.R., 1995, 1969.
Le regioni hanno emanato norme legislative per quanto riguarda l’organizzazione e la spesa, nonché norme di attuazione sulla base dell’art. 7 del d.p.r. 616/1977 che ammette la competenza delle regioni nelle materie delegate e non solo in quelle trasferite.
In particolare, l’art. 7, 2° co., del d.p.r. 616/1977, ammette la possibilità di subdelegare a province, comuni ed altri enti locali l’esercizio delegato di funzioni amministrative dello Stato.
L’art. 106, d.p.r. 616/1977 precisa che sono attribuite ai comuni sia le funzioni amministrative concernenti le occupazioni temporanee e d’urgenza sia i relativi atti preparatori, attinenti ad opere pubbliche o di pubblica utilità, la cui esecuzione è di loro spettanza.
In questo quadro legislativo nazionale le regioni hanno provveduto ad assegnare le funzioni relative al procedimento di occupazione ed a quello di espropriazione: alcune hanno delegato i singoli comuni interessati agli interventi, come ad esempio l’Emilia Romagna, altre, come la Lombardia, hanno ripartito le competenze a seconda del tipo di opera.
Le opere di competenza regionale sono attribuite al presidente della giunta regionale, le opere di competenza di alcuni enti pubblici spettano ai presidenti delle comunità montane e delle province, le opere di competenza dei comuni o dei consorzi spettano ai comuni.
Tralasciamo di esaminare specificamente la legislazione regionale, che si frantuma in ulteriori distinzioni per tipo di opere.
Il problema delle competenze dell’organo comunale, qualora la funzione sia genericamente attribuita al comune, è risolta dalla giurisprudenza nel senso che la competenza del consiglio comunale in materia di espropriazione di beni immobili può essere delegata dal consiglio stesso al sindaco ed alla giunta.
Tale delega, rimane valida ed efficace sino alla sua revoca espressa Cons. St., sez. IV, 2.2.1998, n. 147, in Foro Amm., 1998, 332.
Alcune sentenze richiedono che la delega debba, però, essere supportata da una previsione normativa, ritenendo che la norma - di cui all'art. 106, 3° co., d.p.r. n. 616/1977 - che attribuisce al consiglio comunale il potere di adozione del decreto di occupazione d'urgenza, non trovi applicazione se sussistono leggi regionali che assegnano al sindaco la competenza a provvedere. Cons. St., sez. IV, 11.6.1996, n. 795, in Riv. Giur. Ed., 1996, 950. T.A.R. Calabria, sez. Catanzaro, 5.9.1997, n. 540, in T.A.R., 1997, 4154. N. CENTOFANTI, L’espropriazione per pubblica utilità, 1999, 38.
L’art. 6, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, consacra il principio che il procedimento di espropriazione rientra nella competenza dell’autorità che deve realizzare l’opera pubblica, essendo definitivamente superato il problema di una eventuale parzialità di detto intervento.
E’ prevista l’istituzione di un ufficio per le espropriazioni nelle amministrazioni statali regionali provinciali e comunali, ove non ne sussista uno a cui attribuire i relativi poteri.
E’ il comune l’ente centrale per la realizzazione del procedimento espropriativo, ex art. 7, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, esso, infatti, può espropriare:
- le aree, individuate dal piano regolatore generale, inedificate o su cui vi siano costruzioni in contrasto con le destinazioni di zona o che abbiano carattere provvisorio e quelle di espansione, secondo quanto già previsto dall’art. 18, L.U.
In tal caso deve essere dichiarata la pubblica utilità dell’opera non espressa nel provvedimento di approvazione del p.r.g.
- gli immobili ai quali va incorporata un’area inserita in un piano particolareggiato e non utilizzata quando il suo proprietario non intenda farne uso dopo l’avviso del dirigente dell’ufficio espropriazioni.
In tal caso non deve essere dichiarata la pubblica utilità dell’opera implicita nel provvedimento di approvazione del p.p.
L’esproprio deve essere effettuato nel termine decennale di validità del piano.

4.      L’ufficio per le espropriazioni: il dirigente ed il responsabile del procedimento loro competenze.


La L. 241/1990 fa obbligo alle amministrazioni di indicare un responsabile del procedimento, che è il dirigente di ogni unità organizzativa, il quale può provvedere ad assegnare ad altro dipendente la responsabilità dell’istruttoria o di un’altra fase, ad esempio quella costitutiva o esecutoria, del provvedimento.
La struttura degli enti è destinata ad una razionalizzazione, sotto il profilo organizzativo.
Si devono individuare i responsabili e si deve definire il passaggio, necessariamente formale, fra i soggetti che si occupano delle varie fasi.
Le funzioni in materia di espropriazione sono particolarmente importanti poiché il procedimento deve necessariamente raccordarsi con quelli programmatori e quelli finanziari, che condizionano la stessa possibilità di addivenire ritualmente all’esproprio.
Una più precisa definizione dei compiti del responsabile era attesa col regolamento di attuazione della L. 359/1992 mai, peraltro, emanato.
Tali funzioni si devono raccordare con quelle del responsabile del procedimento ablatorio, peraltro enunciate dall’art. 6, L. 241/1990, che riguardano le stesse condizioni, sia sostanziali che procedurali, che valgono per l’emanazione del provvedimento, ex art. 6, L. 241/1990.
Il responsabile, quindi, può avere funzioni sostanziali in ordine alla valutazione nel merito del progetto, proponendo modifiche, magari suggerite dalle osservazioni portate dagli interessati.
Mentre l’art. 107 del T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali non attribuisce funzioni particolari ai dirigenti in materia di espropriazione l’art. 6, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, attribuisce al dirigente dell’ufficio per le espropriazioni funzioni costitutive in ordine al provvedimento di esproprio anche se a volte non è esplicita nell’individuare la competenza alla emanazione di determinati provvedimenti, indicando genericamente la competenza dell’autorità espropriante, come nell’ipotesi di occupazione temporanea, art. 49, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Il dirigente per le espropriazioni deve emanare ogni provvedimento conclusivo del procedimento decreto di esproprio, art. 23, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, o atto di cessione volontaria, art. 45, D.P.R. 8.6.2001, n. 327,, o il provvedimento di retrocessione del bene, art. 47, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Il responsabile del procedimento ha competenza per tutti gli atti preparatori e per gli eventuali subprocedimenti, anche se il t.u. non è esplicito in tal senso come ad esempio l’autorizzazione all’accesso ai fondi, art. 15, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, la determinazione provvisoria dell’indennità di espropriazione, art. 20, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, comunicazione al proprietario per richiedere se intenda avvalersi del procedimento di determinazione definitiva dell’indennità di espropriazione e relativa nomina dei tecnici (su indicazione dell’autorità espropriante) o richiesta di determinazione dell’indennità alla commissione, art. 21, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, verbale di immissione nel possesso in esecuzione del decreto di esproprio, art. 24, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, pagamento dell’indennità di esproprio o relativo deposito presso la Cassa depositi e prestiti, art. 26, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Non sono ovviamente di sua competenza gli atti delegati all’autorità espropriante quali la dichiarazione di pubblica utilità, art. 12, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, o l’approvazione del progetto definitivo, art. 16, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Il responsabile del procedimento deve inoltre istruire il provvedimento finale che resta di competenza del dirigente dell’ufficio.
In primis viene fatto obbligo agli enti locali di istituire un ufficio per le espropriazioni, anche comune ad altri enti, con a capo un dirigente o in sua mancanza un dipendente con la qualifica più elevata.
Viene ribadito l’obbligo di designare per ogni procedimento un responsabile che dirige, coordina e cura tutte le operazioni e gli atti del procedimento; al responsabile sono di supporto e subordinati gli organi tecnici dell’ente.
La necessità di concludere il procedimento entro tempi determinati comporta una evidente responsabilità del funzionario addetto in relazione alla sua mancata emanazione in tempo debito.
Il ritardo può causare un danno all’amministrazione che soccomba sulla domanda di risarcimento formulata dalla proprietà o sulla richiesta di danni derivanti dall’esecuzione dell’esproprio.
Un necessario coordinamento è sicuramente da effettuarsi con il responsabile del procedimento di attuazione dei lavori pubblici, disciplinato dall'art. 7, L. 109/1994, come mod. dall'art. 5, L. 415/1998.
Il responsabile dell’attuazione dei lavori deve, infatti, segnalare eventuali disfunzioni, impedimenti e ritardi nella realizzazione degli interventi, accertando la disponibilità delle aree e degli immobili necessari.
Il responsabile unico del procedimento, al fine di accelerare l’esecuzione dei lavori, può proporre all’amministrazione aggiudicatrice la convocazione di una conferenza di servizi o promuovere la conclusione di un accordo di programma, ex art. 7, 7° co., l. 109/1994.
Il regolamento di attuazione, D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, all’art. 8 comma 1, lett. b) verifica in via generale la conformità ambientale, paesistica, territoriale ed urbanistica degli interventi e promuove l’avvio delle procedure di variante urbanistica.
Nell’ambito di tali procedimenti è possibile esaminare le problematiche relative al procedimento ablatorio, qualora ineriscano alla sollecita esecuzione di lavori. N. CENTOFANTI, L’espropriazione per pubblica utilità, 1999, 145.
L’amministrazione può delegare in tutto o in parte i propri poteri espropriativi al concessionario che deve realizzare l’opera pubblica o di pubblica utilità, ex art. 6, 8° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Al fine di porre chiaramente i limiti delle responsabilità fra amministrazione e concessionario che hanno dato luogo a contrasti giurisprudenziali la norma impone all’amministrazione di determinare chiaramente l’ambito della delega nella concessione, al fine di definire se detta amministrazione conserva un potere di indirizzo nel procedimento ablatorio.


5.      La responsabilità contabile di amministratori e funzionari.


La giurisdizione sui funzionari, sugli impiegati e sugli agenti civili e militari, che nell'esercizio delle loro funzioni cagionino danno allo Stato o ad altra amministrazione dalla quale dipendano, è attribuita alle sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei Conti, art. 1, L. 14.1.1994, n. 19.
La responsabilità amministrativa è caratterizzata: da un rapporto di dipendenza o di servizio nei confronti dello Stato o dell’ente pubblico; da un comportamento anche solo colposo, derivante da negligenza o dalla mancata applicazione della legge, che trova giustificazione solo nella forza maggiore, quale, ad esempio, la carenza organizzativa o l'organico insufficiente; da un danno erariale patrimoniale derivante alla amministrazione, che sia direttamente riconducibile all'evento.
Il giudizio non ha alcun rapporto con l'accertamento della illegittimità degli atti dell'amministrazione.
I rapporti fra giudizio amministrativo e giudizio contabile sono di assoluta autonomia, in quanto non sono previste né preclusioni né precedenze.
L'accertamento della responsabilità amministrativa contabile, in questo caso, non prescinde dall'accertamento dell'illegittimità degli atti dell'amministrazione, sempre che gli stessi abbiano provocato una danno economico all’amministrazione.
La responsabilità è stata limitata alle omissioni commesse con dolo o colpa grave, art. 3, L. 20.12.1996, n. 639. Deve essere affermata la responsabilità amministrativa del tecnico comunale che non abbia portato a termine il procedimento di espropriazione, omettendo la predisposizione degli indispensabili atti amministrativi e causando in tal modo un danno erariale conseguente al risarcimento civile dovuto ai proprietari ablati. Corte Conti reg. Sicilia sez. giurisd., 16 giugno 2000, n. 79, in Riv. corte conti, 2000, f. 4, 84.
Integra un'ipotesi di danno erariale la liquidazione dell'indennità di espropriazione per un'area acquisita da parte del comune in misura superiore a quella ritenuta congrua dall'ufficio tecnico erariale e disattendendo, senza motivo, le indicazioni dell'UTE stesso relative ai criteri di calcolo. Corte Conti reg. Molise sez. giurisd., 15 ottobre 1997, n. 484, in Riv. corte conti, 1997, fasc. 6, 174.
La giurisprudenza ha ravvisato che la mancata conversione in espropriazione di un provvedimento di occupazione d'urgenza di un suolo da parte di amministratori e funzionari comunali, con conseguente maggior erogazione di somme a titolo di svalutazione monetaria, interessi e spese legali, costituisce danno patrimoniale risarcibile. Il perfezionamento della cosiddetta occupazione acquisitiva non costituisce interruzione del nesso causale in caso di danno erariale derivante da ritardata emissione del decreto espropriativo. Corte Conti, Puglia, sez. giurisd., 12.2.1997, n. 8, in Riv. Corte Conti, 1997, fasc. 1, 124.
Di tale illecito debbono essere chiamati a rispondere i soggetti predetti, per le omissioni di cui sono responsabili connesse alla mancata osservanza del termine quinquennale di durata dell'occupazione d'urgenza. Corte Conti, Puglia, sez. giurisd., 16.2.1994, n. 3, in Riv. Corte Conti, 1994, 136.
La dottrina ha rilevato gli scarsi effetti di tale azione che trova troppi esoneri alla responsabilità, dovuti ad una asserita complicazione del procedimento, che giustifica delle inammissibili omissioni:
In caso di soccombenza della pubblica amministrazione, la responsabilità del sindaco per il mancato perfezionamento della procedura o, in generale, dei funzionari preposti è stata talora ritenuta insussistente, per assenza di colpevolezza, in ragione della complessità e delle dimensioni dell’intervento realizzando. F.
E’ stata riconosciuta dalla giurisprudenza l’esenzione dalla responsabilità dell’incaricato per il danno provocato se questo è dovuto alla disorganizzazione degli uffici: Deve essere esclusa la responsabilità dell'assessore comunale delegato alla materia delle espropriazioni per il danno erariale conseguente al protrarsi di occupazione di urgenza oltre i termini di legge, qualora tale situazione di illegittimità dipenda essenzialmente dall'incuria degli uffici amministrativi nel tenere aggiornate e nel segnalare le scadenze connesse all'occupazione medesima. Corte Conti, sez. II, 20.5.1993, n. 126.
Del pari, è stata riconosciuta dalla giurisprudenza l’esenzione dalla responsabilità del sindaco in carica per i danni verificatisi nel corso di vari avvicendamenti nella carica stessa: Posto che il periodo di occupazione d'urgenza può protrarsi sino al limite di cinque anni, non può essere addebitata ai sindaci rimasti in carica per tale periodo la responsabilità per i danni, emersi in sede giudiziaria civile, derivati dal mancato perfezionamento nei termini anzidetti della procedura espropriativa, ove non si provi, attraverso l'acquisizione degli atti della procedura, una colpevole inerzia a carico dei sindaci stessi. Corte Conti Sicilia, sez. giur., 1.7.1993, n. 61, in Giur. Amm. Sic., 1993, 566.
Nel caso di delega del procedimento le ipotesi possibili sono tre: l) è responsabile il delegante; 2) è responsabile il delegato; 3) vi è la responsabilità solidale del delegante e del delegato.


6.      La partecipazione degli interessati al procedimento.


La l. 7.8.1990, n. 241 sul procedimento amministrativo introduce l’obbligo per la pubblica amministrazione della conclusione dell’atto mediante l’adozione di un procedimento espresso e l’obbligo della motivazione espressa. N. CENTOFANTI, L’espropriazione per pubblica utilità, 1999, 166.
Le pubbliche amministrazioni devono precisare il termine entro cui i singoli procedimenti devono concludersi, fissando, qualora esso non sia specificato con dizione espressa, la scadenza massima di 30 giorni, ex art. 2, L. 7.8.1990, n. 241.
La tipicità dell’azione amministrativa richiede la presenza di una serie di operazioni e di atti per l’emanazione del provvedimento, che costituiscono lo schema base del cosiddetto procedimento amministrativo.
Questo si articola in varie fasi che hanno rilevanza o compressione in relazione alla specifica disciplina legislativa, ma che devono necessariamente adeguarsi ai principi generali sul procedimento disposti dalla L. 241/1990.
Si pensi, ad esempio, alle possibili applicazioni nei casi di non definizione dell’indennità definitiva e, soprattutto, nella carenza di procedimento ablatorio a seguito della occupazione illegittima.
La fase preparatoria, parimenti alla fase istruttoria nel processo, serve a raccogliere tutta la documentazione necessaria per fornire alla amministrazione gli elementi indispensabili alla redazione dell’atto.
Talora nel procedimento si innestano vari subprocedimenti che danno vita ad atti amministrativi autonomi, e come tali impugnabili direttamente, che costituiscono presupposti necessari a quello principale. Ad esempio il verbale di consistenza.
In altri casi il subprocedimento produce atti che hanno una rilevanza interna per cui si esclude la loro autonoma impugnazione.
In questa fase si può inserire la presenza dei destinatari dell’atto che partecipano a vario titolo.
Possono verificarsi ipotesi in cui il contraddittorio è requisito sostanziale: quando, ad esempio, la sua mancanza comporta un vizio dell’intero procedimento.
Al privato viene riconosciuto il diritto di accedere alla fase preparatoria del procedimento, prendendo visione degli atti e presentando memorie e documenti.
L'amministrazione è tenuta, ai sensi dell'art. 7 della L. 241/1990, a dare notizia dell'avvio del procedimento al soggetto che, dalla autorizzazione alla visione dei documenti, potrebbe ricevere un pregiudizio, ex art. 7, L. 241/1990.
Conseguenza sostanziale è la possibilità di fare dichiarare illegittimo l’intero procedimento, poiché l’omissione, da parte della amministrazione, della comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo nei confronti dei soggetti relativamente ai quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti, costituisce vizio che determina violazione legge.

7.      Applicabilità della l. 241/1990 al procedimento di espropriazione.


In relazione al principio della specialità procedimentale, un filone giurisprudenziale ha ritenuto che non sussista alcun obbligo per l'amministrazione di comunicare all'interessato, ai sensi degli artt. 7 e ss. L. 7.8.1990, n. 241, l'avvio del procedimento espropriativo.
Nella specie si trattava della mancata comunicazione della localizzazione di un’opera pubblica in difformità dagli strumenti urbanistici vigenti da parte di un’amministrazione statale, successivamente approvata con deliberazione regionale, ai sensi dell'art. 81, 3° co., D.P.R. 24.7.1977, n. 616.
L'obbligo di comunicazione non ricorre nei casi nei quali il legislatore abbia previsto procedure specifiche per garantire tempestivamente la difesa del soggetto vulnerato dall'attività amministrativa posta in essere ovvero una forma di partecipazione, in senso lato, di quest'ultimo all'attività istruttoria. La comunicazione di avvio del procedimento non è necessaria in tutti quei casi in cui leggi speciali, predispongono strumenti partecipativi diversi e alternativi, comunque adeguati al fine, come avviene ad esempio nei procedimenti di espropriazione per pubblica utilità o di occupazione d'urgenza, in quelli disciplinari e in quelli di sospensione dei lavori. T.A.R. Lombardia sez. Brescia, 17.3.1994, n. 133, in T.A.R. 1994, 1901. T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 13.1.1997, n. 17, in T.A.R., 1997, 997.
La giurisprudenza ribadisce la possibilità di posporre la formalità procedimentali garantistiche che consentono una effettiva partecipazione, rendendola praticamente ininfluente ai fini della tutela. Tale interpretazione impedisce alla proprietà di porre osservazioni al progetto e consente, quindi, solo una azione risarcitoria.
E’ stata affermato che l'approvazione di un progetto di opera pubblica, anche quando comporta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza ex art. 1, L. 3.1.1978, n. 1, non deve essere necessariamente preceduta dalle formalità garantistiche di cui agli art. 10 e 11, l. 22.10.1971, n. 865, fermo restando che queste formalità devono comunque essere compiute, anche se successivamente, nel corso del procedimento espropriativo. Cons. St., sez. IV, 2.2.1998, n. 147, in Foro Amm., 1998, 332. Cons. St., sez. IV, 23.10.1998, n. 1368, in Riv. Giur. Ed., 19998, 328.
Questo indirizzo assolutamente non convince poiché non appare in linea con i principi della L. 241/1990.
Esso si fonda su di un precedente orientamento che riteneva sussistesse la possibilità di rinnovare adempimenti procedurali, anche successivamente alla scansione logicamente prevista.
La giurisprudenza ha affermato l'obbligo di seguire la procedura di cui all'art. 10 della L. 865/1971 solo qualora si debba richiedere una dichiarazione espressa di pubblica utilità. Cons. St., Ad. Pl., 9.10.1986, n. 6, in Foro Amm., 1986, 1010.
La partecipazione dei privati al procedimento espropriativo è prevista negli artt. 5 e 17 della L. 2359/1865 e sostanzialmente tali principi sono ribaditi negli artt. 10 e 11 della L. 865/1971.
La sequenza procedimentale richiede, infatti, un necessario contraddittorio con gli interessati.
In via generale, la disciplina del procedimento amministrativo è portata dalla L. 241/1990 che accentua, anche in chiave di tutela, l’interesse del soggetto passivo dall’atto amministrativo al procedimento, inteso in senso dinamico, consentendo agli interessati una serie di verifiche, accertamenti, acquisizioni conoscitive.
L’esclusione dall’applicazione della L. 241/1990 è espressamente disposta solo per atti a carattere generale per i quali sono dettate discipline speciali, in ordine anche alla riservatezza che deve tenere l’amministrazione fino all’adozione del provvedimento, art. 13, l. 241/1990.
La dizione legislativa non include la materia espropriativa tra quelle ivi indicate con la conseguenza che per essa trova applicazione la disciplina della partecipazione, specificamente prevista dall’art. 8, L. 241/1990, che impone la comunicazione dell’avvio del procedimento ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti.
Negare la partecipazione equivale contrastare la ratio ispiratrice della L. 241/1990 che prevede, in via generale, l’accesso al procedimento, ma anche la ratio della L. 865/1971 che ora regola puntualmente il procedimento ablatorio.
E’ inaccettabile la costruzione tradizionale, secondo cui l’inadempimento delle formalità garantistiche, nel caso di approvazione del progetto di opera pubblica (anche con valore di variante), legittimamente avrebbe potuto essere posposto al suddetto atto di approvazione.
La giurisprudenza ha aderito alle posizioni dottrinali, modificando le affermazioni precedenti è stato dichiarato che nel caso in cui la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera consegua ex lege, e pertanto il proprietario inciso non abbia avuto modo di rappresentare le proprie ragioni nella fase di approvazione del progetto, è illegittimo il provvedimento di occupazione d'urgenza che sia stato adottato. Deve essere, infatti, data al privato la possibilità di interloquire quanto meno prima del materiale impossessamento del bene, specie se egli era in grado di prospettare soluzioni alternative. T.A.R. Campania, sez. V, Napoli, 21.12.1996, n. 640, in T.A.R., 1997, 687.


8.      Le novità del d.p.r. 8.6.2001, n. 327.


Nell’elaborazione dell’art. 11, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, si afferma il principio che il proprietario oggetto di esproprio può accedere al procedimento sin dalla fase della pianificazione territoriale.
Fin dalla fase dell’istituzione del vincolo preordinato all’esproprio - che si concretizza con l’approvazione del piano urbanistico generale ex art. 9, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, anche se manca ancora la dichiarazione di pubblica utilità -
L’obbligo non sussiste nel caso di adozione ex novo di uno strumento urbanistico o variante generale, ma sussiste nel caso in cui sia in corso l’adozione di una variante al piano regolatore per la realizzazione di un’opera pubblica, anche nell’ipotesi che la variante venga adottata mediante conferenza di servizi o accordo di programma che comporti variante allo strumento urbanistico, art. 10, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Al proprietario che risulti dai registri catastali va inviato l’avviso dell’avvio del procedimento venti giorni prima dell’adozione, art. 11, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Le osservazioni vengono valutate ai fini dell’approvazione dello strumento urbanistico e le relative determinazioni possono essere sottoposte al vaglio della giustizia amministrativa.
Naturalmente il proprietario può censurare le scelte anche sotto il profilo urbanistico seguendo le norme che consentono di portare osservazioni e opposizioni al piano urbanistico.

9.      La pianificazione urbanistica. La progettazione delle opere pubbliche ed il loro rilievo ai fini della procedura di esproprio.


Con l’avvento della pianificazione territoriale comunale, che oramai ha raggiunto grande diffusione, l’esecuzione di un progetto di opera pubblica si deve confrontare con le previsioni urbanistiche esistenti.
La L. 109/1994 sui lavori pubblici, inoltre, impone l’inclusione delle opere da realizzare in un piano triennale o nei suoi aggiornamenti annuali.
Nell’ambito della programmazione triennale l’inclusione di un opera nell’elenco dei lavori da avviare nell’anno è subordinata alla previa approvazione della progettazione preliminare, art. 14, 6 comma, L. 109/1994.
Poiché l’elenco annuale dei lavori costituisce un allegato allo schema di bilancio di previsione, unitamente alla relazione previsionale e programmatoria, ne consegue che il progetto preliminare di ogni singolo intervento costituisce una componente essenziale del programma complessivo e che la relativa spesa deve figurare tra gli stanziamenti previsti nel bilancio pluriennale.
Il ruolo del progetto preliminare è determinante nella programmazione degli enti locali ed esso può essere realizzato solo se conforme alla programmazione urbanistica.
Solo se l’opera è conforme alle previsioni dello strumento urbanistico o di una sua variante può essere disposta la dichiarazione di pubblica utilità, che sarà addirittura implicita nel caso si tratti di uno strumento urbanistico attuativo, come, ad esempio, del piano particolareggiato o del piano di zona per l’edilizia economico popolare, art. 12, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Se l’opera da realizzare non risulta conforme alle previsioni urbanistiche l’approvazione del progetto definitivo da parte del consiglio comunale costituisce adozione di variante allo strumento
urbanistico, art. 19, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Il comune, con la approvazione dello strumento urbanistico generale, determina il sorgere del vincolo all’esproprio per le aree da destinare a servizi o opere pubbliche.
I tempi per la realizzazione dell’opera non possono essere indeterminati, ma il procedimento, in ossequio al principio di legalità, deve rispettare delle scansioni temporali ben precise.
Il D.P.R. 8.6.2001, n. 327, all’art. 9, disciplina gli effetti espropriativi dei vincoli dei piani regolatori generali fissando la sua durata in cinque anni.
Lo stesso vincolo quinquennale può essere disposto, dando espressamente atto della sua natura mediante un atto di approvazione di progetto di opera pubblica che abbia natura di variante allo strumento urbanistico, come ad esempio un provvedimento della conferenza di servizi, art. 10, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Se, nel termine di cinque anni dalla approvazione del vincolo, non viene emanata la dichiarazione di pubblica utilità, il vincolo decade, art. 9, 3° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
In tal caso il privato, liberato dal vincolo, può realizzare gli interventi consentitigli dalla normativa in carenza di pianificazione urbanistica.
L’art. 4, 8° co., L. 10/1977, che funge da norma quadro per il legislatore regionale, fissa, in carenza di tale normativa, dei limiti rigorosi.
Fuori dal perimetro dei centro abitato, l’edificazione a scopo residenziale non può superare l'indice di metri cubi 0,03 per metro quadrato di area edificabile, mentre, nell'ambito del centro abitato, sono consentite soltanto opere di restauro o di risanamento conservativo, di manutenzione ordinaria e straordinaria, di consolidamento statico o di risanamento igienico.


10. Il silenzio assenso regionale nell’approvazione di variante di piano.


Anticipando il T.U. sulle procedimento per la formazione dei piani attuativi, previsto dalla L. 24.11.2000, n. 340, all. 1, n. 13, il T.U. sulle espropriazioni disciplina due fattispecie di silenzio assenso in materia urbanistica.
La prima ipotesi di silenzio assenso regionale è relativo all’approvazione di variante del piano urbanistico generale nel caso di opera pubblica non conforme alle previsioni di p.r.g., ex art. 19, 4° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
L’approvazione del progetto di opera pubblica o di pubblica utilità da parte del consiglio comunale comporta, infatti, variante al piano regolatore.
Il silenzio della regione o dell’ente competente all’approvazione, protratto per 90 giorni dalla ricezione della delibera del consiglio che adotta il piano, equivale ad assenso dopo che il consiglio comunale ne ha disposto l’efficacia.
La seconda ipotesi di silenzio assenso riguarda la modifica del tipo di opera programmata, ex art. 9, 5° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Nel corso della durata quinquennale del vincolo il consiglio comunale può motivatamente deliberare il cambiamento di tipologia dell’opera pubblica.
La regione o l’ente preposto all’approvazione deve manifestare il proprio dissenso entro 90 giorni dalla ricezione della delibera comunale.
Nel caso di silenzio si forma l’assenso sulla delibera trasmessa, dopo che il consiglio comunale ne ha disposto l’efficacia.
Tale ipotesi modifica l’art. 1, 4° co., L. 1/1978, ora abrogata.
Esso prevede la possibilità di approvare opere pubbliche senza variare il piano urbanistico, quando sono destinate a servizi pubblici, anche se con diversa destinazione.
A seguito di detta modifica, dal 1.1.2002 nel caso di varianti, considerate finora non varianti, si deve modificare il piano urbanistico attraverso l’approvazione del progetto definitivo dell’opera da parte del consiglio comunale programmata, ex art. 9, 5° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.

11. I vincoli preordinati all’esproprio. Le modalità dell’indennizzo per i vincoli scaduti ex art. 39, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.


La reiterazione del vincolo da parte degli enti locali ha comportato una situazione di compressione a tempo indeterminato del diritto del proprietario in carenza di indennizzo.
L’art. 9, 4° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327, dispone la possibilità di reiterazione del vincolo dopo la sua durata quinquennale lasciando impregiudicata la questione della corresponsione dell’indennizzo per la proroga del vincolo
La questione è stata risolta, comunque, dalla Corte costituzionale che ha sancito la illegittimità della reiterazione dei vincoli di piano senza la corresponsione di un indennizzo.
Il Consiglio di Stato ha rilevato la non manifesta infondatezza della questione richiedendo una determinazione espressa da parte del legislatore dei casi in cui la reiterazione dei vincoli costituisca espropriazione di valore e comporti, di conseguenza, la corresponsione dell'indennizzo; il giudice amministrativo, inoltre, ha affermato che devono essere previsti per legge i criteri di determinazione dell'indennizzo stesso. Cons. Stato, Ad. Pl., 25.9.1996, n. 20, in Riv. Giur. Ed., 1997, 254.
La dottrina ha aderito a questa impostazione della giustizia amministrativa e propone, quindi, la corresponsione di un indennizzo alla scadenza del temine quinquennale ovvero, quanto meno, l’approvazione di una relazione di massima delle spese occorrenti per l’acquisizione delle aree.
La Corte costituzionale ha accolto i rilievi formulati ed ha disposto l’indennizzo per i vincoli scaduti e reiterati dalle amministrazioni. Corte cost., 20.5.1999, n. 179, in Riv. Giur. Ed., 1999, 635.
La Corte precisa i caratteri che devono distinguere il vincolo perché possa essere soggetto ad indennizzo.
il vincolo deve essere preordinato all’espropriazione o avere carattere espropriativo, nel senso di comportare come effetto pratico uno svuotamento di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà stessa, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati comportanti inedificabilità assoluta,
il vincolo non deve superare la durata che il legislatore abbia fissato come limite, non irragionevole e non arbitrario, affinché il vincolo stesso risulti sopportabile da parte del singolo soggetto titolare del bene,
il vincolo non deve superare, sotto il profilo quantitativo, la normale tollerabilità secondo una concezione della proprietà regolata dalla legge per i modi di godimento ed i limiti preordinati alla sua funzione sociale.
Non rientrano negli schemi del procedimento espropriativo, invece, i beni immobili aventi valore paesistico- ambientale, in virtù delle loro qualità oggettive che li inserisce in particolari categorie di beni.
Tali beni, infatti, sono sottoposti ad un particolare regime di utilizzo, secondo le caratteristiche intrinseche che li distinguono.
Devono essere considerati come normali e connaturati alla proprietà i limiti non ablatori posti dai regolamenti edilizi e dalla pianificazione urbanistica e relativi alle norme tecniche, quali i limiti di altezza, di cubatura, di superficie coperta, quali le distanze tra edifici, le zone di rispetto relative a determinate opere pubbliche, gli indici di edificabilità e gli standard attinenti alle zone territoriali omogenee.
La Corte non esclude che i vincoli decaduti possano essere reiterati in via amministrativa.
Possono, infatti, sussistere ragioni giustificative accertate e motivate con congruo provvedimento entro i limiti della ragionevolezza e della logicità.
Qualora i vincoli assumano carattere patologico o quando vi sia una ripetizione o una proroga sine die o all’infinito attraverso una reiterazione di proroghe, che si aggiungano le une alle altre, o quando il limite temporale sia indeterminato e senza una previsione di indennizzo, il sistema si scontra con i limiti posti dalle norme costituzionali.
E’ stato dichiarato incostituzionale il combinato disposto degli artt. 7, n. 2, 3 e 4, e 40, L. 1150/1942 e art. 2, 1° co., L. 1187/1968 nella parte in cui consente alla amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione di indennizzo. Corte cost., 20.5.1999, n. 179, in Riv. Giur. Ed., 1999, 635.
E’ stata pronunciata, quindi, l’illegittimità costituzionale non dell’intero complesso normativo, che continua a consentire la reiterazione dei vincoli, ma esclusivamente alla mancata previsione d’indennizzo in tutti i casi di permanenza del vincolo urbanistico preordinato all’espropriazione o comportante l’assoluta inedificabilità oltre i limiti di durata fissati dal legislatore ove non risulti, in modo inequivocabile, l’inizio della procedura espropriativa.
La Corte non giunge a fissare i criteri per la concreta liquidazione del quantum dell’indennizzo anche se pone le premesse per la loro definizione.
Ravvisate nella procedura di determinazione del risarcimento una serie di variabili che sostanzialmente pongono la diminuzione di valore a seguito reiterazione del vincolo in rapporto diverso con l’indennizzo relativo alla perdita della proprietà del bene, la Corte afferma che l’indennizzo per il protrarsi del vincolo è un ristoro non necessariamente integrale od equivalente al sacrificio, per una serie di pregiudizi che si possono verificare a danno del titolare del bene immobile colpito.
Esso deve essere commisurato al mancato uso normale del bene ovvero alla diminuzione di prezzo di mercato rispetto alla situazione giuridica antecedente alla pianificazione che ha imposto il vincolo.
Se spetta al legislatore ordinario fissare i criteri per l’indennizzo la Corte non esclude che, anche in caso di mancanza di tale intervento, il giudice competente sulla richiesta di indennizzo, una volta accertato che i vincoli imposti in materia urbanistica abbiano carattere espropriativo, possa ricavare dall’ordinamento le regole per la liquidazione di obbligazioni indennitarie, nella specie considerandole come obbligazioni derivanti dal pregiudizio subito a causa della rinnovazione o del protrarsi del vincolo.
Le modalità di calcolo dell’indennizzo sono disciplinate dall’art. 39, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Si tratta di una normativa transitoria in attesa del t.u sulla programmazione urbanistica attuativa.
Il vincolo reiterato deve essere indennizzato attraverso la corresponsione di una indennità commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto commisurata al tempo della reiterazione.
L’atto che reitera il vincolo deve prevedere la corresponsione dell’indennizzo.
Il problema che si pone è se una variante generale di piano comporti la reiterazione del vincolo anche in presenza di mutamenti programmatori.
Si tratta evidentemente di verificare volta per volta se sostanzialmente il vincolo viene reiterato.
Qualora l’amministrazione non provveda il privato può inoltrare domanda documentata di pagamento e corrisponderla entro i successivi trenta giorni, pena la decorrenza degli interessi legali.
Competente all’impugnazione della determinazione dell’indennizzo o a decidere in presenza di un silenzio dell’amministrazione sulla domanda è la Corte di Appello.
L’indennità è autonoma rispetto a quella corrisposta per un successivo esproprio
Per alcuni autori l’indennizzo dopo il sesto anno è commisurato all’interesse sulla futura indennità di esproprio.
La dottrina lamenta come nel d.p.r. 8.6.2001, n. 327 manchi la possibilità per i proprietari di monetizzare destinazioni pubbliche con destinazioni private, operando attraverso comparti, perequazioni, trasferimenti di cubatura, accordi sulle aree da cedere o addirittura eseguendo essi stessi le opere pubbliche. Tale normativa del tutto evidentemente avrebbe costituito un eccesso di deroga anche se la giurisprudenza ha riconosciuto legittime le forme di perequazione contenute nella normativa di piano regolatore generale.
Vi sono, però, alternative al sistema degli indennizzi dei vincoli.
La dottrina propone la fissazione di un indice virtuale di edificabilità per le aree ricadenti in ogni singolo comprensorio, dividendo la cubatura complessivamente consentita dal piano regolatore nel comprensorio per il numero dei metri quadri dell’intera superficie interessata dal comprensorio medesimo.
In tal modo si identifica il diritto ad edificare di ogni singolo proprietario.
Questo diritto reso commerciabile fra i privati etra i privati e la pubblica amministrazione a prezzi concordati consentirebbe l’attuazione automatica del piano regolatore.
Al legislatore restano da disciplinare le procedure coattive di attuazione del piano in caso di inottemperanza dei privati a realizzare le sue previsioni. G. D’ANGELO, Regime giuridico delle aree fabbricabili: necessità ed urgenza di una riforma legislativa, in Riv. Giur. Ed., 1999, 1184.


11           La dichiarazione di pubblica utilità.


La dichiarazione di pubblica utilità costituisce un subprocedimento necessario che definisce una qualificazione giuridica del bene, rendendolo oggetto del procedimento ablatorio.
Alla sua emanazione provvede l’autorità competente al procedimento ablatorio ma essa può essere sollecitata dal soggetto anche privato che è interessato alla realizzazione dell’opera pubblica predisponendo gli elaborati previsti dall’art. 16, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
La dichiarazione di pubblica utilità può essere emanata sulla base di diversi atti formali purché l’opera prevista sia conforme alle previsioni dello strumento urbanistico o della sua variante.
Riprendendo quanto affermato dalle disposizioni normative in materia di pianificazione che attribuiscono efficacia di dichiarazione di pubblica utilità all’approvazione degli strumenti urbanistici attuativi l’art. 12, 1° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327, contempla fra gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica utilità: a) all’approvazione del progetto definitivo dell’opera pubblica, al piano particolareggiato, il piano di lottizzazione, al piano di recupero urbano, al piano di ricostruzione, al piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi e al piano di zona.
Tale effetto non è riconosciuto agli strumenti urbanistici generali, ma a quelli attuativi ai quali è espressamente attribuita tale qualità al momento della loro approvazione, come, ad esempio, al piano particolareggiato o al piano di zona per l’edilizia economico popolare. Cass. civ., sez. I, 11.6.1993, n. 6546, in Giust. Civ. Mass., 1993, 1024.
La corrispondenza fra pianificazione urbanistica e dichiarazione di pubblica utilità deve essere piena.
Il potere conformativo attribuito ai piani urbanistici non consente una localizzazione contrastante con la zonizzazione senza un preventivo adeguamento delle disposizioni di piano. T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 8.1.1997, n. 4, T.A.R., 1997, 1010.

12.  Termini. Proroga.


Il limite all’emanazione della dichiarazione di pubblica utilità è la decadenza del vincolo quinquennale dall’approvazione dello strumento urbanistico generale; mentre per le aree interessate dalla pianificazione attuativa il limite è la relativa scadenza dei piani, ad esempio, decennale per i pano particolareggiato, ex art. 13, 1° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità può stabilire il termine entro il quale il decreto di esproprio deve essere eseguito.
Manca la distinzione fra termine relativo alle espropriazioni e termine relativo ai lavori che caratterizzava la dizione dell’art. 13, L. 25.6.1865, n. 2359 e che comportava la dichiarazione di illegittimità nel caso di mancata indicazione espressa dei termini distintamente per le due attività. Cons. Giust. Amm. Sicilia, sez. giurisd., 28.1.1998, n. 21, in Foro Amm., 1998, 1147).
Se manca l’espressa determinazione del termine di esecuzione del decreto di esproprio può essere eseguito entro il termine di cinque anni, decorrente dalla data in cui diventa efficace l’atto che dichiara la pubblica utilità dell’opera.
A differenza del disposto dell’art. 13, L. 25.6.1865, n. 2359, viene richiesto unicamente l’indicazione del termine finale premesso che il termine iniziale è determinato automaticamente fino alla scadenza della possibilità di emettere la dichiarazione di pubblica utilità.
L’art. 13, 5° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327, consacra il principio fissato dalla giurisprudenza che consente la proroga dei termini nei casi di forza maggiore e per altre giustificate ragioni.
I requisiti della proroga sono tassativi essa deve essere disposta prima della scadenza del termine e non avere durata maggiore dei due anni.
La giurisprudenza ha in precedenza ammesso la proroga dei termini che doveva essere, secondo i principi generali, congruamente motivata e approvata prima della scadenza.
E’ stato affermato che i termini possono essere prorogati per i casi di forza maggiore e per altri motivi indipendenti dalla volontà dell'espropriante, ma sempre fissando la relativa scadenza; l'inadeguata motivazione è fonte di illegittimità del relativo provvedimento.
Non può ammettersi una proroga implicita del termine per l'espropriazione, da desumersi dalla sola proroga del termine per l'inizio ed il compimento dei lavori. Cons. St., sez. IV, 21.7.1997, n. 724, in Cons. Stato, 1997, 1008. Cons. St., sez. IV, 8.10.1985, n. 416, in Riv. Giur. Ed., 1986, 189.
Solo in presenza di un accertato sopravvenuto evento che abbia rappresentato un obiettivo impedimento al completamento del procedimento ablatorio si può giustificare la proroga che rappresenta altrimenti una ingiustificata ulteriore compressione al diritto dei proprietari.
La proroga dei termini già scaduti è illegittima poiché essa è in conflitto col principio costituzionale, fissato dall’art. 42 cost., che prevede per la proprietà solo limiti a tempo determinato o comunque oggetto di indennizzo.
E’, invece, esclusa la possibilità di regolarizzazione di un provvedimento, nel quale sia omessa l'indicazione dei termini per l'inizio e il compimento dei lavori e delle procedure espropriative.
L’atto amministrativo può naturalmente essere rinnovato.
In tal caso la dichiarazione di pubblica utilità deve contenere una nuova indicazione dei termini svincolati da quelli originari, impone la riproduzione di tutti gli atti successivi alla precedente dichiarazione, secondo l'ordine logico del procedimento espropriativo, ma non anche di quelli precedenti. Trib. sup. acque, 29.11.1997, n. 84, in Cons. Stato, 1997, II, 1829. Cons. St., sez. IV, 14.7.1997, n. 715, in Foro Amm., 1997, 1941.

12          Determinazione dell'indennità provvisoria di esproprio.


Atto preparatorio indispensabile all’emanazione del decreto di esproprio è la determinazione dell'indennità provvisoria.
Successivamente all’efficacia dell’atto che dichiara la pubblica utilità - l’art. 20, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, indica un termine di 30 giorni che è da ricollegarsi alla durata quinquennale indicata dall’art. 13, 4° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327 - il responsabile del procedimento dell’ente promotore dell’espropriazione deve compilare l’elenco dei beni da espropriare con una descrizione sommaria, dei relativi proprietari indicando le somme che offre come indennità di esproprio.
L’atto è notificato con le forme degli atti processuali civili, ex art. 20, 1° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Il proprietario può, nei trenta giorni successivi, proporre osservazioni sul valore attribuiti ai beni espropriati.
L’autorità accerta successivamente in via provvisoria la misura dell’indennità d’esproprio, ex art. 20, 3° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Il proprietario ha due alternative o accetta e addiviene alla cessione bonaria del bene o non accetta.
La mancata accettazione dell’indennità proposta comporta la riduzione del 40% dell’indennità provvisoria se l’area è edificabile o senza le maggiorazioni se l’area non è edificabile.
Il responsabile del procedimento deve depositare la somma offerta entro trenta giorni presso al Cassa depositi e Prestiti, ex art. 20, 14° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
L’indennità provvisoria non è soggetta da impugnazione dovendosi attendere la determinazione dell’indennità definitiva.

13          La cessione bonaria.


Se il proprietario accetta, l’amministrazione espropriante è obbligata a concludere l'accordo di cessione del bene che comporta per il proprietario i benefici economici previsti dall’art. 45, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327.
- nel caso di indennizzo riguardante un’area edificabile si applica l’aumento del dieci per cento di cui al comma 2 dell’art. 37, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, al valore venale del bene, ex mod. apportata dall’art. 2, comma 89, L. 244/2007. Nei casi in cui è stato concluso l’accordo di cessione, o quando esso non è stato concluso per fatto non imputabile all’espropriato ovvero perché a questi è stata offerta un’indennità provvisoria che, attualizzata, risulta inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva, l’indennità è aumentata del dieci per cento.
- nel caso di indennizzo riguardante una costruzione legittima compete il valore venale (non c’è aumento);
- nel caso di indennizzo riguardante un’area non edificabile il valore agricolo, di cui all’art. 40, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, è aumentato del 50 per cento;
- nel caso di indennizzo riguardante un’area non edificabile coltivata dal proprietario il valore agricolo è moltiplicato per tre.
L’accettazione deve essere effettuata entro i trenta giorni dalla notifica della proposta, ex art. 20, comma 5, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327.
La scadenza di tale termine segna la fine di ogni procedimento alternativo a quello di esproprio che resta l’unico possibile, in quanto non si ravvisa la possibilità di realizzare in termini successivi l’accordo bonario di cessione del bene.
E’ evidente che gli effetti si ripercuotono anche nei confronti del responsabile del procedimento qualora esso acquisisca il bene senza procedere agli adempimenti procedimentali richiesti.

14          Determinazione dell'indennità.


L’indennità provvisoria può essere determinata in casi di particolare urgenza senza particolari indagini e formalità, art. 22, comma 1., D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327.
Il procedimento, in tal caso, consente la tempestiva emanazione del decreto di esproprio permettendo l’immissione nel possesso prima delle stesse determinazioni del proprietario sull’indennità proposta.
Tale procedura garantisce la corresponsione dell’indennità che, nel caso di accettazione della proposta dell’amministrazione, è effettuata entro sessanta giorni dall’accettazione. Il corrispettivo dell’atto di cessione è aumentato del dieci per cento, ex mod. apportata dall’art. 2, 89° co., l. 244/2007.
La notifica dell’atto che determina l’indennità provvisoria comporta nel termine di trenta giorni il pagamento o il deposito dell’indennità al proprietario.
L’autorità espropriante dispone il deposito, entro trenta giorni, presso la Cassa depositi e prestiti Spa, della somma senza le maggiorazioni di cui all’articolo 45, ex mod. apportata dall’art. 2, comma 89 della L. 244/2007.
Il proprietario deve assumere ogni responsabilità in ordine ai diritti di terzi; l’amministrazione può richiedere idonea garanzia prima del pagamento; in caso contrario l’indennità provvisoria deve essere depositata presso la Cassa depositi e prestiti, ex art. 26, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327.
Contestualmente al deposito della indennità provvisoria il responsabile del procedimento deve richiedere entro venti giorni al proprietario se intende avvalersi del procedimento di determinazione dell’indennità a mezzo periti previsto dall’art. 21, 2° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Successivamente all’esperimento di determinazione dell’indennità a mezzo periti il responsabile trasmette la determinazione dell’indennità al proprietario, che ha trenta giorni per prendere visione, e deposita l’indennità presso la cassa depositi e prestiti.
Se, invece, il proprietario non richiede il procedimento di determinazione a mezzo periti l’indennità è richiesta dall’amministrazione alla commissione provinciale di cui all'art. 41, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, ex art. 21, 14° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
L’autorità espropriante dà notizia mediante raccomandata all’espropriato del deposito della relazione di stima che costituisce la determinazione definitiva dell’indennità di esproprio e ha tempo trenta giorni dalla notizia del deposito per autorizzare il pagamento dell’indennità ovvero ordinarne il deposito presso la Cassa depositi e prestiti.
Il sistema del calcolo dell’indennità è stato razionalizzato, seguendo le indicazioni giurisprudenziali che hanno dichiarato incostituzionale il sistema di indennizzo basato sul valore agricolo medio formulato dalla L. 865/1971.
Rimane, quindi, la distinzione introdotta in via provvisoria dall’art. 5 bis della L. 359/1992 fra aree edificabili e aree non edificabili.
L’indennità di espropriazione di un’area edificabile è determinata nella misura pari all’importo, diviso per due e ridotto del quaranta per cento, equivalente alla somma del valore venale del bene e del reddito dominicale netto, rivalutato ai sensi degli artt. 24 segg., D.L.vo 22.12.1986, n. 917, e moltiplicato per dieci, art. 37, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Nonostante la Corte costituzionale abbia finora non accolto la dichiarazione di incostituzionalità della riduzione del 40%, Corte cost. ord. 19.7.2000, n. 300, la riduzione non si applica, oltre che nel caso di accettazione dell’indennità da parte dell’espropriando, qualora la cessione non sia stata conclusa per fatto non imputabile al proprietario o perché a questo sia stata offerta una indennità provvisoria che, attualizzata, risulti inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva.
La Corte costituzionale, 24 ottobre 2007, n. 348, boccia i criteri vigenti per il calcolo degli indennizzi nelle procedure di espropriazione.
I risarcimenti assegnati ai proprietari di aree edificabili, infatti, sono troppo bassi.
Le precedenti sentenze, come la 283/1993, nel dichiarare non fondata la questione relativa all’art. 5-bis della L. 359 del 1992, hanno in ogni modo affermato che l'indennità di espropriazione non garantisce all'espropriato il diritto ad un indennizzo esattamente commisurato al valore venale del bene.
Esse in ogni caso impongono che l’indennità non possa essere meramente simbolica ed irrisoria, ma debba essere congrua, seria, adeguata.
La Corte ha sempre posto in rilievo il carattere transitorio di tale disciplina, giustificata dalla grave congiuntura economica che il Paese sta attraversando ed ha precisato che la valutazione sull’adeguatezza dell’indennità deve essere condotta in termini relativi, avendo riguardo al quadro storico-economico ed al contesto istituzionale.
Il criterio dichiaratamente provvisorio previsto dalla l. 359/1992 è divenuto oggi definitivo, ad opera dell’art. 37 del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, che riporta una norma di contenuto identico.
È venuta meno, in tal modo, una delle condizioni che avevano indotto la Corte a ritenere la norma censurata non incompatibile con la Costituzione.
La sfavorevole congiuntura economica non può essere considerata come motivo persistente.
Essa riveste il carattere della eccezionalità.
I problemi di equilibrio della finanza pubblica permangono anche al giorno d’oggi; essi, però, non hanno il carattere straordinario ed acuto della situazione dei conti pubblici verificatasi nel 1992, che ha portato allora il Parlamento e il Governo italiano ad adottare misure di salvataggio drastiche e successivamente non replicate.
Un’indennità congrua, seria ed adeguata, richiesta dalla sentenza n. 283 del 1993, non può adottare il valore di mercato del bene come mero punto di partenza per calcoli successivi che si avvalgono di elementi del tutto sganciati da tale dato, concepiti in modo tale da lasciare alle spalle la valutazione iniziale, per addivenire ad un indennizzo troppo distante dal valore reale.
Per la Corte europea dei diritti dell’uomo la legislazione dello Stato deve prevedere un idoneo meccanismo di determinazione dei valori di espropriazione che possa rientrare in quel margine di apprezzamento, all’interno del quale è legittimo che il singolo Stato si discosti dagli standard previsti in via generale dalle norme CEDU. M. CASTELLANETA, Certo il primato dei principi costituzionali, in Guida Dir.,2007, 44,59.
La relatività dei valori è stata affermata dalla stessa Corte costituzionale italiana.
I criteri di calcolo fissi e indifferenziati rischiano, invece, di trattare allo stesso modo situazioni diverse, rispetto alle quali il bilanciamento deve essere operato dal legislatore avuto riguardo alla portata sociale delle finalità pubbliche che si vogliono perseguire.
I criteri per la determinazione dell’indennità di espropriazione riguardante aree edificabili devono fondarsi sempre sulla base del valore del bene, avendo riguardo alla situazione reale delle disposizioni di piano che regolano il suo utilizzo in rapporto alle diverse destinazioni generali attribuite dalla zonizzazione.
Non possono essere utilizzati criteri astratti che portano a differenziazioni di valori che, non essendo supportate da dati reali, determinano inevitabilmente situazioni di diseguaglianza contrarie all’art. 3 cost.
L’art. 2, comma 89 della L. 244/2007, modifica l’art. 37 del T.U. espr. accogliendo l’invito rivolto dalla Corte costituzionale di introdurre nuove norme che bilancino l’interesse individuale del proprietario del bene espropriato con la funzione sociale della proprietà secondo i principi espressi dalla Corte europea
La norma distingue il caso di espropriazione isolata di un singolo bene dal caso in cui l’espropriazione avvenga nell’ambito di iniziative aventi rilevante interesse economico sociale.
Nel caso di espropriazione isolata di un singolo bene l’indennità di espropriazione di un’area edificabile è determinata nella misura pari al valore venale del bene.
Nel caso di espropriazione collocata nell’ambito di iniziative aventi rilevante interesse economico e sociale l’indennità è ridotta del venticinque per cento rispetto al valore venale del bene. La misura dell’indennizzo, pur restando agganciata al parametro del valore venale del bene espropriato, è ridotta in funzione del peculiare fine di utilità sociale che l’espropriazione è diretta a realizzare.

15          Le possibilità legali ed effettive di edificazione. Requisiti.


L’area è edificabile se sussistono le possibilità legali ed effettive di edificazione, valutando le caratteristiche oggettive dell’area, art. 37, 6° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Le possibilità legali di edificazione non sussistono qualora l’area sia sottoposta a inedificabilità assoluta in base alla normativa o ad un atto di pianificazione territoriale, art. 37, 4° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Il criterio dell'edificabilità di fatto ricorre in difetto della disciplina legale, in assenza cioè di un vigente piano regolatore generale o in caso di decadenza del vincolo quinquennale.
Le caratteristiche dell’edificabilità di fatto sono valutate in base alla effettive possibilità di edificazione fino alla redazione del regolamento demandato al Ministero LLPP, art. 37, 5° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
In carenza di regolamento valgono i criteri interpretativi fissati dalla giurisprudenza
In primis, l’area può appartenere solo a queste due categorie: o è edificabile o non lo è.
L'art. 5 bis, L. 8 agosto 1992, n. 359 ha introdotto una generale ed incondizionata bipartizione dei suoli, agricoli ed edificabili, che non ammette figure intermedie, ed è associata ad una verifica oggettiva e non legata a valutazioni opinabili, che può essere data solo dalla classificazione urbanistica dell'area in considerazione.
Ne consegue che non può essere classificata come edificabile un'area che gli strumenti urbanistici non preordinati alla espropriazione assoggettino a vincolo di inedificabilità, o alla quale gli stessi attribuiscano destinazione agricola, dovendo, in tal caso, la relativa indennità di espropriazione essere determinata secondo il criterio agricolo tabellare di cui agli artt. 16 ss. della L. 865 del 1971.
Al contrario, ove il piano regolatore o il programma di fabbricazione o altri strumenti equivalenti prevedano l'edificabilità della zona in cui è ubicato l'immobile, siffatta destinazione legale è sufficiente ad imprimere allo stesso detta qualità. Cass. civ., sez. I, 19 settembre 2000, n. 12408, in Giust. civ. Mass. 2000, 1956.
Seguendo quanto previsto dal Min. Fin. circ. 10 ottobre 1995, n. 271/T, che si rifà all’indirizzo espresso dalla Corte cost. 16 dicembre 1993, n. 442, l’indirizzo giurisprudenziale prevalente afferma che per il riconoscimento della natura edificatoria del terreno non è necessario che ricorrano le due condizioni della edificabilità legale e della edificabilità di fatto.
La norma viene intesa nel senso che anche una sola delle due condizioni sia sufficiente per considerare edificabile il terreno.
L'inclusione di un terreno nella cosiddetta "zona omogenea", destinata dal piano regolatore generale alla espansione edilizia, ne comporta il riconoscimento, tout court, della natura edificatoria, indipendentemente da ogni ulteriore valutazione in ordine alle concrete condizioni di fatto del bene, che assumono rilevanza esclusiva nella sede della determinazione concreta dell'indennità di espropriazione.
Si deve, in tal caso, tenere conto delle specifiche caratteristiche del suolo, influenti sull'apprezzamento economico di mercato, quali la posizione di contesto, le eventuali prescrizioni di distanze da costruzioni limitrofe o infrastrutture pubbliche, l'esistenza di opere di urbanizzazione, l'incidenza differenziata degli oneri di urbanizzazione, ecc., non dovendo in alcun modo concorrere, con il requisito della edificabilità legale, l'ulteriore, positivo accertamento di fatto circa le oggettive e concrete possibilità di edificazione dell'area espropriata.Cass. civ. , sez. I, 01 febbraio 2007, n. 2207, in Resp. civ. e prev., 2007, 4, 969.
Né limita le possibilità edificatorie dell’area il fatto che la sua edificazione sia condizionata all’approvazione di strumenti attuativi.
Lo strumento urbanistico attuativo, ancorché previsto dal piano regolatore generale, è necessario solo quando si tratta si asservire un'area non ancora urbanizzata (o parzialmente urbanizzata) ad un insediamento di carattere residenziale, mediante la costruzione di uno o più fabbricati che obiettivamente esigono, per il loro armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, la realizzazione ed il potenziamento delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Nel caso di specie non è, pertanto, stato ritenuto applicabile ad area collocata all'interno di zona omogenea classificata come totalmente edificata B1" l'eventuale disposizione del P.R.G. (nella specie quella del comune di Ovada) che preveda l'edificabilità di aree, divenute libere in seguito alla cessazione di attività produttiva, solamente attraverso piani esecutivi obbligatori, con la conseguenza che, ai fini del calcolo dell'indennità d'espropriazione, il valore dell'area va determinato in base all'indice fondiario della zona in cui essa è collocata. Cass. civ., sez. I, 12 gennaio 2000, n. 277, in Giust. civ. Mass. 2000, 47.
Per i proprietari coltivatori diretti l’art. 37, 9° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327, prevede che l’area edificabile utilizzata per scopi agricoli sia indennizzata con una somma pari al valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura effettivamente praticato (quindi anche detta area deve considerarsi edificabile pur priva di opere di urbanizzazione).
L'art. 37, 7° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327, ispirandosi al principio per il quale non può essere riconosciuta ad un soggetto una indennità di esproprio che abbia un valore superiore a quello dichiarato dalla stesso soggetto ai fini fiscali, prevede che l'indennità di esproprio deve essere ridotta ad un importo pari al valore denunciato nell'ultima dichiarazione ICI.
Nel caso in cui il proprietario abbia dichiarato ai fini dell’ICI un maggior valore rispetto all’indennità corrispostagli, gli è dovuta una maggiorazione pari alla differenza fra l’importo dell'imposta pagata dall’espropriato, con riferimento all'ultimo quinquennio, e quello risultante dal computo dell’imposta effettuato sulla base dell’indennità, unitamente agli interessi legali, ex art. 37, 8° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.

16          Le aree del piano per l'edilizia economica e popolare.


Con riguardo ad espropriazioni disposte per l'attuazione di un piano per l'edilizia economica e popolare non sussiste il problema della natura edificabile dell'area nell'ipotesi in cui l'inclusione di un'area nel piano di zona sia conseguenziale, perché meramente attuativa, di una previsione di p.r.g.
In tal caso non si avranno modifiche nella destinazione urbanistica dell'area, né, di conseguenza, sulla sua valutazione ai fini del calcolo dell'indennità di espropriazione, non essendovi variazione sotto il profilo urbanistico, dato il carattere di edificabilità attribuito all'area già anteriormente alla pianificazione dell'intervento di edilizia sociale.
La giurisprudenza ha risolto invece il problema della natura edificabile dell'area nel caso in cui precedentemente all’approvazione del piano di zona il terreno abbia avuto destinazione non residenziale.
La giurisprudenza ha stabilito che nella valutazione della natura edificabile del terreno secondo diritto, ai fini espropriativi - o ai fini risarcitori in una fattispecie di accessione acquisitiva - l'indicazione, contenuta nel p.e.e.p., di un terreno con riferimento alla sua destinazione all'edilizia economica e popolare è, di per sé, elemento giustificativo del carattere edificatorio ex lege del bene, sia pur nei limiti consentiti dal p.e.e.p. stesso.
Non è, quindi, sufficiente fare riferimento al p.r.g. nella sua originaria formulazione (nel quale il terreno in questione sia eventualmente collocato in zona agricola), ma occorre anche tenere presente la destinazione che quel terreno abbia assunto nel p.e.e.p., che del P.R.G. o del piano di fabbricazione costituisce variante, ed in base ad esso riconoscerne la natura edificatoria e valutarne le caratteristiche.
L'indennità di espropriazione dovuta - in base al criterio di cui all'art. 5 bis, l. 8 agosto 1992, n. 359 - con riferimento ad un terreno la cui edificabilità legale risulti dal piano di zona che abbia per esso previsto la destinazione ad edilizia economica e popolare, il valore venale del bene, secondo il criterio analitico deduttivo, deve essere determinato tenendo conto dell'indice di edificabilità previsto dal suddetto piano o, comunque, ad esso applicabile.
Allo stesso criterio deve aversi riguardo per il computo degli oneri di urbanizzazione e per la valutazione dei tempi di realizzazione, da calcolarsi sulla base delle realizzazioni imposte dall'attuazione del piano, mentre del tutto illegittimo risulta il riferimento alla media di due diversi indici di edificabilità stabiliti per aree limitrofe.


17          Il calcolo dell’indennità.


Sono considerate come aree non edificabili quelle colpite da vincolo di inedificabilità assoluta, oltre che le aree agricole, quelle, ad esempio, destinate a verde nel piano regolatore generale anche qualora ad esse sia attribuito un modesto indice di fabbricazione per la realizzazione di strutture di servizio al verde, che sia espropriata per la realizzazione di un parco comunale, con progetto approvato, costituente vincolo preordinato all'esproprio. Cass. civ., sez. I, 06 settembre 2006, n. 19132, in Riv. giur. Ed., 2007, 2, 562.
In tema di determinazione della indennità di esproprio, i terreni non legalmente edificabili, anche se suscettibili di una utilizzazione differente da quella agricola, devono essere valutati secondo parametri omogenei a quelli adottati per i terreni agricoli, non potendosi più sostenere, a seguito dell'intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 261 del 1997, la esistenza di un tertium genus, oltre quelli delle aree edificabili e delle aree agricole.
Né assume, di per sé, alcun rilievo, in contrario, la circostanza che i terreni in questione, originariamente compresi, in base agli strumenti urbanistici, nella Zona E (agricola), abbiano successivamente ottenuto, in sede di variante al P.R.G., l'attribuzione della destinazione urbanistica Fb (attrezzature di interesse comprensoriale), ove tali attrezzature non siano idonee a far sorgere possibilità legali di edificazione, in assenza, tra l'altro, di un piano comunale particolareggiato. Cass. civ., sez. I, 15 febbraio 2000, n. 1684, in Giust. civ. Mass. 2000, 342.
Qualora l'area espropriata non sia integralmente compresa nella zona omogenea di espansione urbana, rientrando parzialmente nella contigua zona a destinazione agricola; non può riconoscersi, valorizzando la situazione di fatto, anche per quest'ultima porzione il carattere decisamente edificatorio.
La giurisprudenza afferma che la zonizzazione degli strumenti urbanistici conforma il diritto di proprietà delle aree comprese nelle differenziate zone omogenee, anche in funzione della suscettività edificatoria dei suoli; sicché, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione, non può essere riconosciuta l'edificabilità di un'area (valutata in rapporto a speciali condizioni di fatto) in contrasto con la disciplina urbanistica che neghi una tale utilizzazione del suolo, soccorrendo il criterio dell'edificabilità di fatto soltanto in difetto della disciplina legale, in assenza cioè di un vigente piano regolatore generale. Cass. civ., sez. I, 9 giugno 2000, n. 7874, in Giust. Civ., 2000, 1258.
L’art. 40, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, prevede che l’area non edificabile sia indennizzata con una somma pari al valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura effettivamente praticato.
In tal caso si deve tenere conto del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati per l’esercizio dell’azienda agricola.
L’indennità è definita dalla commissione regionale competente per la relativa provincia, ex art. 41, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Al proprietario coltivatore diretto o imprenditore a titolo principale spetta una ulteriore indennità aggiuntiva determinata nella stessa maniera della precedente.
Spetta una analoga indennità aggiuntiva, ex art. 42, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, al fittavolo o al compartecipante che, per effetto della procedura espropriativa sia costretto ad abbandonare l’area coltivata almeno un anno prima della dichiarazione di pubblica utilità.
Il calcolo dell’indennità per area edificata.
L’art. 38, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, nel caso di espropriazione di una area edificata determina l’indennità in misura pari al valore venale dell’immobile.
L’art. 16, coma 9, L 865/1971, distingueva fra valore dell’area, computata secondo il valore agricolo, ed il valore dell’edificio calcolato al valore venale.
Tale criterio vale nel caso in cui la costruzione sia stata realizzata con regolare concessione.
In caso contrario l’indennità è determinata solo con riferimento al valore dell’area secondo il principio prima vigente.
In presenza di un fabbricato abusivo, il criterio della liquidazione unitaria dell'immobile, a valore venale complessivo dell'edificio e del suolo su cui il primo insista, dovendosi valutare la sola area nuda. Cass. civ., sez. I, 30 novembre 2006, n. 25523, in Foro amm. CDS, 2007, 2, 450.

18          Il decreto di esproprio.


L’art. 6, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, attribuisce al dirigente dell’ufficio espropriazioni l’emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento.
Il decreto di esproprio è, quindi, emanato da un organo della stessa autorità competente alla realizzazione dell’opera.
Il decreto è atto necessario per acquisire legittimamente un bene soggetto al procedimento ablatorio in caso contrario l’amministrazione che abbia occupato un bene deve procedere ad emanare l’atto di acquisizione corrispondendo il relativo risarcimento ex art. 43, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
L’art. 23, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, fissa i presupposti per la legittima emanazione del decreto di esproprio che rende indenne la pubblica amministrazione emanante da ogni eventuale responsabilità contabile.
a) il decreto deve essere emanato nei termini di validità della dichiarazione di pubblica utilità (quinquennale dalla emanazione del vincolo o decennale dall’approvazione di piano particolareggiato o fissato nell’atto che dichiara la p.u.);
b) deve essere emanato nell’ambito dei termini di validità del vincolo preordinato all’esproprio;
c) l’indicazione della indennità provvisoria o urgente e gli estremi del pagamento del deposito presso la cassa depositi e prestiti;
d) deve dare menzione dell’eventuale della nomina dei tecnici per l’emanazione dell’indennità definitiva;
e) deve dare atto della sussistenza dei presupposti per la determinazione urgente della indennità provvisoria.
Il decreto comporta il trasferimento del bene all’espropriante con la perdita di ogni diritto su di esso da parte dell’espropriato, anche nel caso in cui quest’ultimo abbia impugnato la determinazione dell’indennizzo.
Ogni diritto dell’espropriato, infatti, può essere fatto valere, da tale momento, solo in rapporto alla determinazione dell’indennizzo.
Il decreto deve essere notificato ai proprietari nelle forme degli atti processuali civili con l’indicazione
Il decreto deve essere trascritto presso il competente ufficio dei registri immobiliari, ai sensi dell'art. 23, 2° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Esso è presentato al catasto per la voltura agli effetti fiscali.
Il decreto di espropriazione non è atto recettizio, ossia non deve pervenire al destinatario per produrre gli effetti suoi propri.
La notifica non è, infatti, elemento essenziale del decreto anche se essa produce l'effetto di fare scattare i termini per l'impugnazione, che altrimenti restano sospesi.
La Suprema Corte ha precisato che la mancata notifica del decreto di esproprio al proprietario effettivo, che non risulti tale dalla documentazione catastale, impedisce il decorso del termine di decadenza per l'opposizione alla stima, ma non costituisce motivo di carenza del potere espropriativo.
La mancata notifica non è motivo di legittimità del procedimento ablatorio che legittimi il proprietario a chiedere il risarcimento del danno corrispondente al valore del bene, producendosi viceversa l'effetto traslativo della proprietà alla mano pubblica.

L’art. 24, D.P.R.. 8.6.2001, n. 327, fissa il termine perentorio di due anni per l’esecuzione del decreto di esproprio: essa avviene con il verbale di immissione di possesso, secondo le precedenti indicazioni giurisprudenziali.
Il provvedimento ablativo non determina, ex se, un mutamento dell'animus rem sibi habendi in animus detinendi in capo al proprietario espropriato, il quale, pertanto, può del tutto legittimamente invocare, nel concorso delle condizioni di legge, il compimento in suo favore dell'usucapione tutte le volte in cui (come nella specie) alla dichiarazione di pubblica utilità non siano seguiti ne' l'immissione in possesso, né l'attuazione del previsto intervento urbanistico da parte dell'espropriante, del tutto irrilevante manifestandosi, ai fini de quibus, l'acquisita consapevolezza dell'esistenza dell'altrui diritto dominicale. Cass. civ., sez. I, 22 aprile 2000, n. 5293, in Corr. Giur., 2000, 1188 nota Nasti.
In tal caso il decreto decade e la procedura deve essere rinnovata, salvi gli effetti dell’indennità eventualmente corrisposta e depositata.
La descrizione di beni espropriati deve essere effettuata redigendo stato di consistenza prima o dopo l’immissione nel possesso, ex art. 24, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.

19          L’occupazione


La dottrina prevalente distingue fra l’occupazione preliminare, ossia un procedimento volto ad acquisire il bene, anticipando gli scopi dell’azione amministrativa ablatoria cui è correlato, e l’occupazione strumentale, intesa come l’occupazione temporanea avente effetti suoi propri compatibili con l’apprensione temporanea del bene.
Il legislatore preunitario ha ipotizzato vari tipi di occupazione che hanno procedure ed effetti diversi.
In alcuni casi le occupazioni sono autonome rispetto al procedimento di espropriazione e non necessariamente presuppongono effetti ablatori definitivi.
In altre ipotesi le occupazioni sono preliminari al procedimento ablatorio che deve necessariamente seguire dato che il bene oggetto di occupazione è destinato a diventare di proprietà dell’amministrazione.
Le occupazioni d’urgenza hanno avuto un notevole sviluppo poiché sono state ricollegate ad una particolare dichiarazione di indifferibilità ed urgenza dei lavori, che non si basa su situazioni oggettivamente urgenti, ma su di una urgenza per così dire convenzionale, che è affermata a priori per situazioni tassativamente determinate dal legislatore.
Le occupazioni preliminari sono, quindi, diventate la norma nel procedimento ablatorio creando l'occasione di numerose vertenze nel caso in cui l’occupazione diventi illegittima per il mancato rispetto dei termini o per eventuali illegittimità del procedimento.
Con le modifiche apportate al D.P.R. 327/2001 dal D. L.vo 27 dicembre 2002, n. 302, con l’inserimento dell’art. 22 bis il legislatore ha reintrodotto l’istituto dell’occupazione d’urgenza preliminare all’espropriazione, già da ultimo disciplinata dall’art. 20, L. 865/1971.
L’azione amministrativa in materia di espropriazione può ripercorrere la strada abbreviata dell’occupazione d’urgenza baipassando il procedimento di determinazione dell’indennità provvisoria.
Elementi costitutivi del decreto di occupazione sono la dichiarazione di urgenza, la determinazione dell’indennità di esproprio e il termine di esecuzione.
Il decreto può essere emanato per tutti quei casi in cui l’avvio dei lavori rivesta carattere di particolare urgenza.
La determinazione è lasciata alla valutazione dell’amministrazione che deve indicare i motivi di particolare urgenza.
Essa non è censurabile nel merito, ma solo per vizi di legittimità.
Per la giurisprudenza il ricorso alla procedura prevista dall'art. 22 bis, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, è condizionato dall'indefettibile necessità di una motivazione che dia conto dell'urgenza qualificata cui fa riferimento la norma e che deve essere comunque connessa alla particolare natura delle opere da realizzare sui suoli che si intendono fare oggetto di occupazione. T.A.R. Abruzzo L'Aquila, sez. I, 19 giugno 2007, n. 343, in Foro amm. TAR, 2007, 6, 2115.
Nel caso di specie è stata ritenuta legittima l’urgenza nella rapida realizzazione di un raccordo interessante la tangenziale, in relazione all'interesse pubblico della comunità municipale a ridurre, in tempi brevi ed in modo rilevante, l'inquinamento atmosferico ed acustico dell'area urbana principalmente derivanti dal traffico veicolare. T.A.R. Emilia Romagna Parma, 23 maggio 2007, n. 306, in Foro amm. TAR, 2007, 5, 1599.
Per contro è stata dichiarata illegittima la delibera di occupazione di urgenza non correlata alla natura delle opere da eseguire, ma motivata solo dalla necessità del rispetto dei tempi necessari per ottenere un finanziamento. T.A.R. Calabria Catanzaro, sez. I, 2 febbraio 2007, n. 35, in Foro amm. TAR, 2007, 2, 731.
La procedura è applicabile direttamente, senza alcuna motivazione, in relazione alla particolare natura di talune opere, come infrastrutture stradali, ferroviarie ed altre opere lineari previste dalla L. 443/2001, ora trasfuse nel T.U. espr., e nell’ipotesi in cui vi siano più di 50 destinatari della procedura ablatoria. La giurisprudenza non richiede alcuna specifica motivazione delle ragioni di urgenza - che hanno indotto l'amministrazione ad occupare il bene per realizzare l'opera pubblica - quando il numero dei destinatari sia superiori a 50. Cons. St., sez. IV, 12 luglio 2007, n. 3968, in Foro amm. CDS, 2007, 7-8, 2155.
La dottrina rileva l’eccesso di delega poiché vi è la copertura di delega al legislatore per introdurre modifiche al T.U. espr. solo con riguardo agli interventi disciplinati dalla legge obiettivo, ex art. 5, L. 166/2002.
L’amministrazione può emanare senza particolari indagini o formalità decreto motivato che determina in via provvisoria l’indennità di espropriazione e che dispone anche l’occupazione anticipata dei beni immobili necessari.
La determinazione dell’indennità di espropriazione è un elemento costitutivo del decreto ed è anche una novità rispetto alla dizione del precedente art. 20, L. 865/1971.
Il proprietario che accetta la determinazione dell’indennità formulata dall’espropriante può ottenere il riconoscimento dell’acconto dell'ottanta per cento dell’indennità.
Egli deve consentire l’immissione nel possesso ed autocertificare la piena e libera proprietà del bene, ex art. 20, comma 6, D.P.R. 327/2001.
Altro elemento costitutivo è il termine di tre mesi entro il quale il decreto deve essere eseguito con l’immissione nel possesso; successivamente esso decade ed il procedimento deve essere rinnovato fatta salva la possibilità per il soggetto passivo di chiedere il risarcimento per danno ingiusto.
Il decreto è strettamente legato alla conclusione del procedimento di esproprio.
Il decreto perde, infatti, efficacia qualora la pubblica amministrazione non abbia dato corso a detto procedimento entro il termine di cinque anni dal provvedimento che comporta la pubblica utilità dell’opera, ex art. 13, D.P.R. 327/2001.
L’occupazione ha carattere strumentale quando il provvedimento serve a realizzare alcuni scopi dell’amministrazione in modo compatibile con le caratteristiche dell’immobile e per un periodo di tempo determinato; ad esempio, per rendere più agevole la realizzazione di un’opera pubblica ovvero per restaurare monumenti, ex art. 92, D.L.vo 29.10.10999, n. 490.
Il provvedimento non è teso ad acquisire la proprietà del bene, nel senso che non è subprocedimento autonomo di un procedimento di espropriazione.
La funzione di tali provvedimenti è di consentire alla pubblica amministrazione determinati atti che non siano antitetici all’esercizio futuro del diritto di proprietà dell’immobile.
L’attività della pubblica amministrazione può coesistere con l’attività del privato, in quanto non può essere attuata una trasformazione irreversibile del fondo.
L’art. 49, 1° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327, consente all’autorità espropriante di disporre solamente la occupazione temporanea di aree che non siano soggette al provvedimento espropriativo.
L’autorità deve, però, dimostrare che il provvedimento è necessario per la corretta esecuzione dei lavori.
L’art. 49, 3° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327, richiede come requisito fondamentale la redazione dello stato di consistenza dei luoghi occupati che deve essere fatta come termine ultimo al momento della immissione del possesso.
Il verbale deve essere redatto in contraddittorio con il proprietario; questi può rifiutarsi di partecipare in tal caso è necessaria la presenza di due testimoni che non siano dipendenti del soggetto espropriante, ex art. 49, 3° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
La illegittimità del decreto comporta evidenti ripercussioni nella misura di determinazione dell’indennità che deve essere ragguagliata per ogni anno di occupazione ad un dodicesimo del valore venale dell’area e non al dodicesimo dell’indennità di esproprio.
La caratteristica dell’attività dell’amministrazione è, quindi, quella di esplicare funzioni compatibili con l’esercizio del diritto di proprietà, diritto che trova un limite solo temporaneo nell’esercizio delle funzioni indicate dal provvedimento.
Da parte del soggetto passivo viene esercitato un controllo sull’esecutore dell’opera pubblica, che non consente che il terreno occupato sia utilizzato in modi non indicati dal decreto di autorizzazione.
Se questo utilizzo arreca danni che non sono previsti nella determinazione dell’indennità di occupazione del fondo, il proprietario può agire per ottenere il risarcimento del maggiore danno, ai sensi dell’art. 2043 c.c.

27. L’organizzazione del cantiere.

L’imprenditore può richiedere di occupare temporaneamente beni privati sia per problemi organizzativi di cantiere sia per utilizzare materiali estratti dal fondo occupato al fine dell’esecuzione dell’opera.
La disposizione ha come caratteristica il fatto che il provvedimento è teso a consentire l’esecuzione di un’altra opera che sia dichiarata di pubblica utilità.
Elementi costitutivi del decreto sono:
(1) la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera pubblica cui l’occupazione è strumentale;
(2) l’indicazione dei beni da occupare;
(3) la durata dell’occupazione;
(4) la descrizione degli eventuali materiali che si intendono utilizzare;
(5) la determinazione dell’indennità.

Oggetto del decreto può essere l’occupazione del fondo o per esigenze organizzative del cantiere ovvero per potere raggiungere più facilmente il luogo dove si deve realizzare l’opera pubblica; si pensi, ad esempio, ad un fondo intercluso.
La valutazione della superficie occorrente per la realizzazione di un’opera pubblica, ai fini dell’occupazione temporanea dei terreni ritenuti al riguardo necessari, attiene a profili tecnico-discrezionali, come tali insindacabili in sede di legittimità.
Sono censurabili i vizi logici del procedimento non congruamente motivati.
E’ stato dichiarato illegittimo il provvedimento con il quale il Prefetto, trascurando i risultati dell’istruttoria compiuta dall’Ufficio del genio civile e senza alcuna motivazione, dispone l’occupazione della totalità delle aree private, senza tenere conto di un’altra area indicata e messa a disposizione dal proprietario interessato che avrebbe comportato la liberazione di una parte dei terreni occupati. Il provvedimento, infatti, risulta chiaramente ispirato alla finalità di risparmiare all’esecutore dell’opera pubblica, occupante sine titulo dei terreni, i disagi e le spese necessari per liberare la predetta parte dei terreni abusivamente occupati e per trasferire altrove i baraccamenti occorrenti alle maestranze occupate nei lavori.
Cass. civ., sez. un., 19 aprile 2007, n. 9325.


I materiali devono essere utilizzati nelle quantità indicate dal decreto.
L’utilizzo non deve comportare il mutamento irreversibile della destinazione del fondo; il proprietario ha diritto al risarcimento del danno subito non previsto nella determinazione dell’indennità, la cui entità coincide con il valore stesso del fondo.
Si pensi all’ipotesi limite di uno scavo che impedisca, per l’eccessiva profondità, l’utilizzo agricolo del fondo e ne muti la destinazione d’uso.
L’uso non può avere come oggetto una radicale trasformazione del fondo per esecuzione di un’opera pubblica, perché tali lavori non previsti possono consentire, in quanto eseguiti sine titulo, un’azione di manutenzione o reintegrazione del possesso, salvo il diritto del proprietario di ottenere il risarcimento dei maggiori danni.
La facoltà di emanare il provvedimento di occupazione è alternativa alle azioni civili, di cui all'art. 843 c.c., che consentono l’accesso al fondo per realizzare una costruzione o per riparare una cosa comune.

28. La forza maggiore.

L’occupazione nei casi di forza maggiore e di assoluta urgenza e considerata ancora realizzabile dall’art. 49, 5° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Tale occupazione è da considerarsi strumentale.
L’autorità competente può ordinare l’occupazione temporanea dei fondi, che occorrono per l’esecuzione delle opere necessarie, nell’eventualità di rottura di argini, di rovesciamenti di ponti e negli altri casi di forza maggiore e di assoluta urgenza.
Elementi costitutivi del decreto che legittimano l’occupazione sono:
- la sussistenza di un fatto contingente che sia straordinario, imprevedibile e dannoso;
- l’esatta identificazione degli immobili oggetto del provvedimento;
- l’indennità;
- la durata. G.B. Verbari, Occupazione (dir. pubbl.), in Enc. Dir., XXIX, 1979, 638.
L’urgenza non può impedire che, prima dell’occupazione, sia redatto lo stato di consistenza.
L’art. 49, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, fra i requisiti del provvedimento di occupazione non contempla quello della durata massima.
Appare evidente che esso deve contenere i termini di efficacia del provvedimento, altrimenti verrebbe meno il requisito, stabilito dal legislatore, della temporaneità dell’occupazione.
In tali casi non è applicabile la proroga, ma e necessario redigere un nuovo decreto.

110      L’indennità di occupazione.


L’art. 50, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, prevede che l’indennità di occupazione sia ragguagliata a quella dovuta nel caso di esproprio dell’area il cui ammontare è pari, per ogni anno di occupazione, ad un dodicesimo di detta indennità e, per ogni mese o frazione di mese, è rapportata ad un dodicesimo di quella annua.
Il proprietario espropriato mantiene il diritto di percepire la indennità di occupazione per il periodo intercorrente dalla data in immissione nel possesso e la data di corresponsione dell’indennità di esproprio o del corrispettivo stabilito per l’atto di cessione volontaria.
In base al testo legislativo l’acconto non preclude il diritto di ottenere l’indennità di occupazione.
Se manca l’accordo sull’indennità proposta dall’amministrazione procedente questa è determinata dalla commissione provinciale.
L’atto è notificato al proprietario dall’ente espropriante che può impugnarlo alla Corte d’appello seguendo le disposizioni di cui all'art. 54, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, sull’impugnazione dell’indennità di esproprio.
Il ritardo nel determinare l’indennità di esproprio comporta che l’indennità di occupazione può essere corrisposta entro il termine di cinque anni fatto salvo poi, con la decadenza del decreto, il diritto dell’espropriato di esigere il risarcimento per il danno ingiusto.
Si deve, pertanto, verificare di volta in volta se l'area in oggetto è da ritenersi edificabile o non edificabile.
Per determinare l’indennità in caso di occupazione illegittima bisogna, invece, fare riferimento all’art. 43, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327.
Il sistema di determinazione dell’indennità di esproprio per area edificabile definito dall’art. 37, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, è stato bocciato dalla Corte costituzionale con immediati effetti anche sul sistema di calcolo dell’indennità di occupazione. Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 349.
Il nuovo criterio di determinazione dell’indennità di esproprio per area edificabile su cui si calcola l’indennità di occupazione è stato indicato dal legislatore nel valore venale del bene, ex mod. apportata dall’art. 2, comma 89, L. 244/2007.

13. La retrocessione dei beni.


La restituzione totale del bene è ammessa per mancata esecuzione dell'opera o per mancato inizio della sua realizzazione, ai sensi dell'art. 46, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Il nuovo testo normativo prevede, differentemente dalla normativa precedente, il termine di dieci anni decorrente dalla data in cui è stato eseguito il decreto di esproprio con l’immissione del possesso per potere inoltrare la richiesta.
Gli espropriati, in quanto titolari, al riguardo, di uno ius ad rem di carattere potestativo a contenuto patrimoniale, possono chiedere che l'autorità giudiziaria pronunzi la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e che siano loro restituiti i beni espropriati.
Si tratta in ogni caso di un nuovo procedimento che deve concretizzarsi con un atto di trasferimento da parte dell’amministrazione espropriante ai precedenti proprietari.
La richiesta non può essere formulata se vi è stato un inizio di esecuzione dell’opera da parte dell’amministrazione.
E’ stato affermato che non può ritenersi ineseguita l'opera quando, nel termine prescritto, essa sia stata realizzata nelle strutture essenziali.
L'accertamento del requisito dell'esecuzione dell'opera nei termini sopra indicati, è riservato al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità, solo nei limiti di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c.
Cons. St., sez. IV, 19 febbraio 2007, n. 874, in Foro amm. CDS, 2007, 2, 486.

Nel caso in cui l'intero immobile oggetto di espropriazione non sia più ritenuto di pubblico interesse, dato che la pubblica amministrazione non ha titolo per ritenerlo, esso deve essere restituito al privato precedente proprietario espropriato, ove venga richiesta la retrocessione, si deve però attendere la scadenza del termine decennale
Ad esempio, se le disposizioni del nuovo piano regolatore modificano radicalmente l'assetto territoriale prima programmato e gli immobili non utilizzati risultano giuridicamente sottratti, in modo irreversibile, alla destinazione loro impressa con la dichiarazione di pubblica utilità giustificativa della espropriazione, si determina una situazione di giuridica inutilizzabilità degli stessi, che attribuisce al privato il diritto di ottenere la retrocessione.
Non è più possibile, infatti, dare agli immobili la destinazione prevista nel decreto di espropriazione e non attuata prima delle modifiche intervenute nella pianificazione.
L'ente espropriante stabilisce il corrispettivo per la retrocessione che è pari alla determinazione attuale dell'indennità di esproprio, avendo presente la natura attuale di edificabilità o meno dell’immobile, con riferimento al momento del ritrasferimento.
Se il richiedente non concorda sul corrispettivo della retrocessione può richiedere che esso sia determinato dall’UTE o dalla commissione provinciale prevista dall’art. 41, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Avverso la stima è sempre proponibile ricorso alla Corte d’appello del distretto in cui si trova il bene espropriato.
Il richiedente la retrocessione deve corrisponderne il prezzo, entro il termine fissato dall’amministrazione, a pena di decadenza dal diritto.
L'art. 48, 3° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327, prevede che, anche qualora le aree dichiarate di pubblica utilità non vengano utilizzate, i comuni possono esercitare il diritto alla prelazione entro 180 giorni dal momento in cui l’ente espropriante o il proprietario notificano al comune l’accordo relativo alla retrocessione indicante l’area ed il corrispettivo.
L’art. 47, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, distingue l'ipotesi di retrocessione parziale dalla restituzione totale del bene espropriato nel caso di mancato utilizzo dell'area legittimamente espropriata.
Il diritto alla retrocessione sorge in capo all'espropriato solo nel caso in cui l'amministrazione espropriante dichiari che i beni non servono più per l'esecuzione dell'opera pubblica.
A tal fine evidentemente deve essere stata realizzata l’opera pubblica o di pubblica utilità.
L’espropriato ravvisando la mancata utilizzazione di tutto l’immobile espropriato può richiedere la restituzione parziale.
La retrocessione parziale ha luogo se, dopo l'esecuzione dell'opera pubblica, uno o più fondi espropriati non abbiano ricevuto, in tutto o in parte, la prevista destinazione.
T.A.R. Lazio Latina, sez. I, 04 luglio 2007, n. 478, in Foro amm. TAR, 2007, 7-8, 2540.

A tal punto il soggetto beneficiario della espropriazione con lettera raccomandata con avviso di ricevimento trasmessa la proprietario ed al comune nel cui territorio si trova il bene indica i beni che non servono all’esecuzione dell’opera e che possono essere ritrasferiti ed indica il relativo corrispettivo.
Per potere procedere alla retrocessione l’amministrazione deve avere dichiarato che il fondo o i fondi non utilizzati non servono più alla realizzazione dell'opera.
Solo la dichiarazione di inservibilità determina la trasformazione o dell’interesse legittimo del proprietario espropriato, interesse il quale non assurge ancora al rango di diritto di proprietà, assumendo invece consistenza di diritto potestativo.
Il diniego alla richiesta o la mancanza di tale dichiarazione ed il comporta un a lesione ad un interesse legittimo del richiedente che può essere tutelabile presso la giustizia amministrativa in relazione al difetto di motivazione o sulla logicità del provvedimento di diniego.
T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 07 maggio 2007, n. 4045, in Foro amm. TAR, 2007, 5, 1683.
Il diritto soggettivo nella retrocessione parziale, azionabile davanti al giudice ordinario, sorge solo se ed in quanto l'amministrazione, con valutazione discrezionale (al cospetto della quale la posizione soggettiva del privato è di interesse legittimo) abbia dichiarato che quei fondi più non servano all'opera pubblica. Cass. civ., sez. un., 08 marzo 2006, n. 4894, in Foro amm. CDS, 2006, 6 1728


L'effetto ex nunc del ritrasferimento del bene è riconducibile alla sentenza definitiva che, nel difetto dell'accordo delle parti, determini il prezzo della retrocessione, poiché solo con questa pronuncia - di natura costitutiva - viene meno il titolo legittimante la proprietà e il possesso nei confronti dell'espropriante.
La sentenza che relativa alla domanda di determinazione del prezzo del bene, contestualmente, può constatare l'impossibilità della concreta attuazione del diritto alla retrocessione.
E’ stato, logicamente, affermato che l'istituto della retrocessione parziale o dei relitti disciplinato negli artt. 60, 63, L. n. 2359, 1865 non trova applicazione nell'ipotesi in cui sull'area espropriata sia stata realizzata l'opera pubblica per la quale era stato pronunziato il provvedimento ablatorio, anche se dopo la sua ultimazione l'opera abbia poi perso siffatta utilizzazione. Cass. civ., Sez. U., 13.11.1997, n. 11215, in Giust. Civ., 1998, 969.

14. L’acquisizione di bene occupato senza titolo.


Il principio di legalità trova consacrazione nell’art. 43, D.P.R. 327/2001.
L’articolo abroga espressamente l’occupazione appropriativa o espropriazione sostanziale, vale a dire la cosiddetta accessione invertita.
Tale riforma era necessaria, in quanto l’ordinamento deve adeguarsi ai principi costituzionali e a quelli generali del diritto internazionale sulla tutela della proprietà.
Il dettato legislativo ribalta lo schema dell’occupazione appropriativa: non è più il privato che deve attivarsi per chiedere al giudice ordinario il risarcimento del danno per illegittima occupazione, con il rischio di vedersi dichiarare prescritta l’azione, se non esercitata nel termine quinquennale, ma è l’amministrazione che deve procedere ad acquisire i beni utilizzati senza titolo o attraverso il procedimento di esproprio o attraverso l’atto di acquisizione.
La norma prevede una particolare disciplina sostanziale e processuale per il caso che il proprietario chieda la tutela del diritto di proprietà con un’azione petitoria e d’urgenza.
L’operato dell’amministrazione può essere così valutato dal giudice amministrativo che ne decide la fondatezza.
La dottrina rileva l’illegittimità costituzionale della disposizione per contrasto con due principi fondamentali; vi è, in primo luogo, carenza di delega poiché manca un riferimento preciso alla possibilità di configurare l’istituto della acquisizione.
In secondo luogo la dottrina evidenzia che si attribuisce alla amministrazione la possibilità di espropriare al di fuori di ogni legittimo procedimento e di ogni disposizione di legge che ammetta la privazione della proprietà privata.
Rimane da vedere se la pubblica amministrazione, abituata ad edificare opere pubbliche senza preoccuparsi di rispettare i diritti dei privati, tanto che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha biasimato per questo fortemente l’Italia, si adeguerà ai comportamenti più restrittivi impostile dalla nuova riforma.
L’art. 43, 1 e 2 comma, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, dà disposizioni in merito alla possibilità di acquisire un bene immobile utilizzato in assenza di un valido ed efficace titolo abilitante ovvero qualora l’atto di esproprio sia stato annullato dal giudice amministrativo.
L’amministrazione, quindi, per potere giungere ad un provvedimento di acquisizione non deve utilizzare semplicemente il bene altrui, ma deve avere in precedenza provveduto a modificarlo, materialmente, anche se si tratta di perseguire scopi di interesse pubblico.
L’atto di acquisizione deve contenere la descrizione del procedimento o dei comportamenti materiali che hanno portato la amministrazione ad utilizzare l’area, indicando la data in cui il fatto si è verificato ed il nominativo del responsabile del procedimento.
L’atto deve riportare la misura del risarcimento, ex art. 46, 6 comma, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, e disporne il relativo pagamento che è requisito essenziale per l’emanazione dell’atto di acquisizione.
Il decreto è notificato al proprietario nelle forme degli atti processuali civili ed è titolo per il passaggio di proprietà dell’area.
I criteri per effettuare la determinazione del risarcimento del danno sono dettati dal legislatore che elimina le controversie, anche di natura costituzionale, recependo il criterio del valore venale del bene; qualora si tratti di terreno edificabile non si applicano le riduzioni previste dall’art. 37, 1 comma, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327.
La norma quantifica anche gli interessi che devono essere corrisposti dal giorno dell’avvenuta occupazione come moratori.
Essi sono compensativi del ritardo con cui è avvenuta la liquidazione del risarcimento; pertanto, non si procede a rivalutazione monetaria del bene dal momento dell’occupazione a quello del pagamento.
L’espresso rinvio all’art. 37, 7 comma, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, comporta che, anche nel caso di acquisizione, la determinazione dell’indennizzo trova un limite nella dichiarazione effettuata dal proprietario espropriato ai fini ICI.

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