sabato 2 giugno 2012

Grembiulino 12



1.     Capitolo. Le storie dell’Arcangelo Michele.


Lo zio Pasquale mi racconta spesso le storie della sua terra. Sono soprattutto storie di santi.
La sua è una religiosità convinta, profonda, nutrita in quella cultura popolare fiera delle sue tradizioni e dei suoi patroni che celebra con feste che terminano, immancabilmente, dopo la processione, con spettacolari fuochi di artificio.
Mi racconta spesso le storie delle apparizioni dell’Arcangelo Michele a Monte Sant'Angelo.
Il  paese è arroccato a quel sacro monte che si eleva sul Tavoliere ai confini con la Foresta Umbra dove la spiritualità fa parte della storia dei luoghi.
Quelle storie gliele raccontava sua madre, particolarmente devota all’Arcangelo.
Secondo la tradizione popolare con varie apparizioni l’Arcangelo Michele aveva chiesto agli  abitanti di Monte Sant'Angelo che gli fosse dedicata una cattedrale.
La prima apparizione è quella del toro.
Un giorno un pastore di Siponto che si chiamava Pietro faceva pascolare la sua mandria di buoi sulla montagna del Gargano.
Stava molto attento perché i briganti in quel periodo erano in agguato per rubare le bestie che si allontanavano.
All'improvviso notò che un toro si era allontanato dalla mandria.
Incaricò un altro pastore che era con lui di tenere a bada le altre bestie e si mise a cercare il toro scomparso.
Cammina cammina il toro non si trovava.
Ad un certo punto sentì un muggito che proveniva da una caverna non lontano.
Il toro era lì e gli indicava l'apertura di una spelonca.
Quel toro era particolarmente docile e a chiamarlo seguiva sempre il suo pastore, ma quella volta non intendeva obbedire al richiamo.
Anzi era lui che col suo muggito invitava insistentemente il pastore ad avvicinarsi alla spelonca.
Allora Pietro, infuriato contro l’animale ribelle, tese l’arco che portava con sé intenzionato ad abbatterlo e scoccò una freccia contro l’animale.
La freccia però invertì la sua traiettoria e anziché colpire il toro essa tornò come un boomerang verso chi l’aveva lanciata e ferì ad un piede il pastore.
La ferita non era grave, ma Pietro fu scosso dall'evento che aveva del misterioso.
Poiché era molto religioso andò a chiedere consiglio al vescovo, che, dopo aver ascoltato il racconto della straordinaria avventura, ordinò tre giorni di preghiere e di penitenza.
Allo scadere del terzo giorno, il vescovo era nella cattedrale che pregava quando gli apparve l'Arcangelo Michele che gli disse: "Io sono l'Arcangelo Michele e sto sempre alla presenza di Dio. La caverna è a me sacra, è una mia scelta; io stesso ne sono il vigile custode. Là dove si spalanca la roccia possono essere perdonati i peccati degli uomini. Quel che sarà qui chiesto nella preghiera sarà esaudito. Và, perciò, sulla montagna e dedica la grotta al culto cristiano".
La montagna, che ora si chiama monte Sant’Angelo, non è molto alta, si erge a picco sulla valle sottostante e fra i suoi dirupi si aprono alcune grotte che un tempo erano dedicate a culti pagani.
Il vescovo non capiva perché l’Arcangelo volesse un tempio a lui dedicato proprio in quel luogo.
Non capiva che S. Michele che aveva guidato gli angeli nella battaglia contro Satana voleva trasformare quelle grotte in luoghi di preghiera dei cristiani. 
I desiderata dell’Arcangelo non furono seguiti dal vescovo che non realizzò in quella prima occasione il santuario per onorarlo.
La seconda apparizione è quella chiamata della vittoria.
Il duca longobardo Grimoaldo grazie all'intercessione di S. Michele riuscì a rompere l’assedio e a scacciare  i Greci nel 662.
La città di Siponto, assediata dalle truppe nemiche, era ormai vicina alla resa.
I1 vescovo S. Lorenzo ottenne dal nemico una tregua di tre giorni e si rivolse fiducioso al Celeste Condottiero con la preghiera e la penitenza.
Allo scadere del terzo giorno, al vescovo apparve l'Arcangelo Michele che gli predisse una vittoria sicura e completa.
Questo messaggio riempì di speranza i cuori degli assediati. I difensori uscirono dalla città e diedero inizio ad una furiosa battaglia, accompagnata da folgori, tuoni e saette di straordinaria intensità. La vittoria dei Sipontini fu strepitosa. 
L’Arcangelo aveva portato alla vittoria i Longobardi che abitavano Siponto e che avevano costruito un castello a difesa dei loro territori.
“Quando stanno per sferrare l’attacco decisivo contro la città - mi racconta lo zio Pasquale - l’Arcangelo si presenta dinanzi al loro esercito, talmente potente che non è possibile vedere nello stesso momento le avanguardie e le retroguardie, fa ruotare la sua spada intimando al loro capo, in testa all’esercito con tutti i suoi generali, di tornare indietro fermando quella inutile carneficina. Per tutta risposta gli invasori si muovono all’attacco.
Allora l’Arcangelo Michele fa ruotare la sua spada e la affonda nel terreno che si spacca quasi a tracciare un confine invalicabile fra i barbari e la gente di Puglia.
A questo punto i difensori della città vedono centuplicate le loro forze e si scagliano contro i nemici”.
Lo zio Pasquale ruota la mano destra quasi impugnasse una sua spada immaginaria ed io mi attacco alla sua giacca per prendere un po’ di coraggio.
“Il terrore per questa forza prodigiosa che anima gli assediati mette in rotta l’esercito che cerca scampo nella fuga abbandonando definitivamente l’idea di conquistare quella regione”.
La terza apparizione è quella detta della dedicazione.
Dopo la vittoria, il vescovo era ormai deciso ad eseguire l’ordine del Celeste Messaggero e a consacrare la Spelonca a S. Michele in segno di riconoscenza,
Gli apparve di nuovo l'Arcangelo e gli annunziò che Egli stesso già aveva consacrato la Grotta.
Era usanza che il vescovo consacrasse il luogo prima della costruzione di un edificio dedicato al culto.
Il fatto che il luogo fosse già consacrato contribuiva a dargli una particolare sacralità: “Non est vobis opus hanc quam aedificavi basilicam dedicare ipse enim qui condidi etiam consecravi.” Non è necessario che voi dedichiate questa Basilica che ho edificato, poiché io stesso che ne ho posto le fondamenta, l'ho anche consacrata”.
In quella grotta resa sacra dalla presenza dell’Arcangelo il vescovo fece costruire una chiesa.
Allora il vescovo di Siponto insieme ai vescovi pugliesi in processione, con il popolo ed il clero, si avviò verso il luogo sacro.
Nella roccia trovarono l'orma del piede di un bambino.
Questo segno soprannaturale era stato lasciato da S. Michele a segno della sua benevolenza verso quei popoli che lo avrebbero venerato dedicandogli un santuario.
I primi fedeli che si recavano in pellegrinaggio alla grotta dovevano inerpicarsi sul lato del Monte che si affaccia sulla foresta umbra e che da allora fu chiamato Sant’Angelo in onore dell’Arcangelo Michele.
I pellegrini arrivavano dalla valle Carbonara; essi dovevano percorrere gli ultimi duecento metri arrampicandosi sulle rocce per arrivare alla grotta.
Il vescovo volle creare un percorso tortuoso per arrivare a pregare l’Arcangelo.
In tempi successivi i religiosi che custodivano il santuario, per fare fronte alla richiesta dei pellegrini che arrivavano sempre più numerosi, costruirono un accesso che consentisse un afflusso più semplice.
I pellegrini non dovevano più arrampicarsi sulla montagna per arrivare direttamente alla grotta. Essi potevano giungere in cima al monte con un comodo accesso e poi scendevano nella grotta attraverso una scala ricavata in una galleria che li portava fino all'ingresso del santuario.
La stessa galleria serviva come vestibolo.
Il sentiero che porta a rendere grazie a Dio è un sentiero difficile come quello della vita.
Il Santuario dell’Arcangelo Gabriele non è un luogo di culto isolato.
Esso fa parte di un percorso che parte da Mont Saint Michel in Francia, passa per la Sacra dell’Arcangelo Michele in Val di Susa e, superata Roma, porta i pellegrini a Monte Sant’Angelo e, di lì, ad imbarcarsi nei porti del sud dell’Italia verso Gerusalemme.
Lo zio Pasquale mi promette che anche noi come tutti i fedeli saremmo andati sulle orme dei pellegrini da Mont Saint Michel fino al santuario di Monte Sant’Angelo.















2.     Capitolo.  La macchina rossa.


La felicità è possedere una macchina rossa guidata tramite un filo nero che pende da un grosso contenitore di batterie su cui sono installati i comandi.
La macchina fa capolino nel più bel negozio di giocattoli delle Mercerie: Linetti.
E’ stato un amore a prima vista.
Io insisto fino alal nuse con mio padre per avere questo regalo; sono un ragazzino viziato.
Al bar i camerieri mi chiamano tutti “el paroncin”.
Sono figlio unico e fra il nonno e lo zio Pasquale i regali arrivano numerosi.
Mio padre non ha molto tempo: lavora di continuo al Bar.
Il giorno prima del mio compleanno continuo a tarlarlo: “Ti me compri la machina rossa, te prego!
Sfinito dalle mie continue richieste il babbo ordina al marzianVa da Lineti comprighe sta machina cusì el ghe ea mola. Trata sul prezo.
Il marzian è un ragazzotto robusto sui ventiquattro anni che sa trattare il prezzo dei regali; penso, però, che in un negozio di lusso come Linetti non vi è certo la possibilità di chiedere sconti.
La mia felicità è enorme.
Daghe un baseto al papà” dice lo zio Bepi.
Partiamo subito per comperare la macchina telecomandata.
Il negozio di Linetti è un sogno per tutti i ragazzini: trenini elettrici, cavalli a dondolo, macchine di ogni tipo: un vero paese dei balocchi.
I miei occhi sono tutti per la macchina rossa telecomandata.
Marzian paga quanto richiesto con uno sconto simbolico.
Almanco diese franchi se no el paron me magna” dice alla commessa per impietosirla.
Solo dieci lire di sconto, ma io sono contento lo stesso.
Portiamo trionfalmente al Bar la macchina e la proviamo subito: è bellissima.
E’ stupefacente pensare che con un semplice filo di collegamento si può a distanza dirigere la macchina.
Gira a destra, sterza a sinistra.” I consigli si sprecano, tutti si sentono provetti guidatori.
La macchina ha le luci di posizione ed i fari che si accendono; inoltre le frecce direzionali lampeggiano.
La si può vedere anche al buio: è un vero prodigio della tecnica!
Mio padre mi guarda contento per la mia gioia con quegli occhi che, anche quando sembrano felici, sono velati da una tristezza profonda.
E’ come rassegnato ad un destino che non lo ha gratificato.
Io non ricordo di averlo mai sentito lamentarsi.
Lui lavora sempre.
D’estate al Bar crea torte  gelato, semifreddi, cassate e mille gusti di gelato sfuso.
Quello alla crema è una delizia, tutto uova, zucchero e latte: al Bar le polverine sono bandite.
 “I megio gelati de Rialto” come dice lui
Io e Marzian portiamo in giro con un carrettino, su e giù per i ponti, nei ristoranti più in voga della città l’intera produzione. Io in cambio prendo una pagheta che mi serve per incrementare la raccolta di soldatini e per pagarmi il cinema alla domenica.
D’inverno ha preso in gestione il Bar del comune.
Un locale piccolissimo dove è impossibile entrare vista la ressa esagerata di clienti.
Il locale in teoria deve essere riservato esclusivamente ai dipendenti dell’azienda; ma tutti dicono che il caffè è buonissimo ed inoltre il prezzo è convenzionato.
Il papà è sempre lì a lavorare, salvo quando si fa convincere, nelle rare ore di libertà, a fare un salto in “stala” - ossia la sala corse come la chiamava lo zio Bepi - per una puntatina ai cavalli.
Quelli dedicati al lavoro sono i giorni più felici per lui: è in mezzo alla gente, si sente attivo, può tornare a casa.
D’estate non è mai venuto con noi in montagna, ma è sempre rimasto in città.
Le gelaterie lavora d’estate miga d’inverno.” dice a mia madre quando protesta.
I giorni tristi sono quelli in cui la malattia non gli dà tregua.
Allora deve farsi ricoverare alla casa di cura vicino al Mercato di Rialto.
Le suore lo conoscono; quando entra in clinica gli danno sempre la stessa camera che guarda il Canale Grande e che gode tutto il giorno di una luce intensa “ No vogio star da la parte de la cale che la xe scura” dice.
Le suore gli vogliono bene, riesce a scherzare con tutti.
Io lo vado a trovare spesso.
La clinica è molto vicino a casa.
L’odore di disinfettante è intenso.
Entra in stanza una suora che deve fare una puntura. La guardo intimorito perché non ho ancora perso la tradizionale paura per le iniezioni.
Dopo tutte quelle punture mio padre non guarisce lo stesso, anzi peggiora, diventa sempre più magro.
Lui che era un omone tarchiato di quasi cento chili non ne pesa neanche settanta.
Lui non si lagna mai, al massimo “Suora che man pesante che ti ga.” esclama.
Nel pronunciare quelle lamentele, mio padre ha più l’aria di prendere in giro la suorina giovane che lo ha appena curato che neanche di protestare per le sue sofferenze.
La sua malattia traspare dal suo sguardo triste rassegnato al dolore.
Con me non parla dei suoi mali e anche con mia madre minimizza il senso di quei continui ricoveri.
Forse la causa della sua malattia non lo sanno nemmeno i medici che lo hanno in cura.
Loro di diagnosi ne hanno fatte tante senza mai azzeccare quella giusta, visto che, puntualmente, ritorna in clinica più malconcio di prima.
Si sa, allora non esistevano gli esami di oggi.





3.     Capitolo. L’acqua alta a San Marco.


Sto facendo colazione e sento suonare la sirena.
Cosa xe” chiedo a mia madre.
Sarà l’acqua alta” mi risponde “te va ben a ti: ancuo ti sparagni la scuola.”
E’ proprio l’acqua alta. Tutta la notte ha piovuto a dirotto e lo scirocco spinge l’acqua dal mare aperto all’interno della laguna.
La mia famiglia abita in una zona alta di Rialto in Calle dei Cinque dalla parte vicina alla Ruga.
L’acqua alta non riesce a raggiungere la porta della nostra abitazione ma la Riva del Vin è invasa dalle acque del Canal Grande.
Mi metto gli stivali lunghi di gomma quelli che uso quando ci sono delle forti piogge ed esco deciso di casa inseguito dalle raccomandazioni di mia madre: "Sta tento Nicheto che ti te bagni".
Voglio proprio vedere fin dove si passa.
I commercianti hanno sentito suonare la sirena e sono già al lavoro.
Tutti gli addetti alle botteghe sono indaffarati a portare le loro merci ai piani alti per metterle in salvo.
Qualcuno si industria con un carretto un po’ alto a portare in giro chi deve transitare nei punti più bassi in cambio di una piccola mancia.
La domanda che tutti rivolgono è se la marea è destinata a calare. A che ora è previsto il picco della marea?
La cresse, la cresse ancora”  ripetono i più esperti ai passanti ancora indecisi se ritornarsene a casa o proseguire verso le loro normali occupazioni.
Nol vede che i tombini buta ancora fora l’acqua?
L’acqua alta cresce per sei ore e per le successive sei cala.
Si tratta di sapere a che ora raggiunge il culmine per poi fare i conti di quanto tempo ci vuole perché la situazione si stabilizzi e si possa girare tranquillamente per la città in una situazione di normalità.
“La cala a le undese” sentenzia finalmente un carrettiere bene informato.
Sono contento perché è uno spettacolo insolito e poi se cala alle undici vuol dire che ho guadagnato un giorno in più di vacanza da scuola.
Chi scende nelle calli è incerto se proseguire se deve andare in qualche posto dove la fondamenta è particolarmente bassa.
Certo è che Piazza San Marco è completamente allagata.
Se poderà rivarghe in Piazza?” il problema è giungere fino a lì.
L’acqua è alta in maniera abbastanza fuori dal normale quel giorno, per fortuna ci sono le passerelle.
Attraverso quel percorso, sopraelevato di una cinquantina di centimetri rispetto al suolo da appositi cavalletti, si riesce a camminare tranquillamente nei punti più bassi.
Cercando l’itinerario che transita nelle zone più alte è forse possibile arrivare fino a San Marco dove il sistema delle passerelle consente di girare per l’intera Piazza.
Esco di casa deciso a non perdere l’occasione di vedere San Marco sommersa dall’acqua alta.
Trovo Nane che ha già scelto come me di rinunciare ad andare a scuola quel giorno.
La giustifica è automatica per causa di forza maggiore.
Proviamo ad andare a vedere se è vero che in Piazza S. Marco ci sono i sandoli che navigano.
Riusciamo ad arrivare al Ponte di Rialto evitando di passare per i portici che sono invasi dalle acque.
I commercianti imprecano lanciando insulti agli antenati degli amministratori che non fanno nulla, secondo loro, per porre rimedio alle acque alte.
Ad un gelataio è saltato il motore del frigorifero perché l’allarme è stato lanciato troppo tardi e l’acqua lo ha raggiunto prima di poterlo sollevare ai piani più alti.
Non sa cosa fare per salvare i suoi gelati.
Daghei ai fioi o i finise nele scoase” suggerisce un netturbino.
Un venditore di maglie non è riuscito a mettere in salvo la mercanzia: una buona parte si è bagnata e bisognerà buttarla.
Qualcuno ricorda che dato che la marea è eccezionale può darsi che vi sia un rimborso dei danni più gravi .
“Speremo de trovar qualche Santolo per farse rimborsar” ripetono i commercianti.
Noi intenti nel nostro gioco proviamo a cercare la strada non ancora invasa dalle acque per S. Marco.
Non ci rendiamo conto che l’acqua alta è una vera disdetta per gran parte della popolazione veneziana.
In molti sono costretti a sospendere le normali attività per cercare di rendere minimi i danni, am in ogni caso il lavoro di quel giorno è perso.
Tentiamo di trovare nel labirinto delle calli il percorso giusto che attraversi le zone più alte o quelle dotate di passerelle che ci consentano di arrivare a S. Marco.
Nane che è di qualche anno più vecchio di me si ricorda che qualche anno prima ha già fatto quel percorso.
Da le marsarie no se passa” dice suggerendomi di andare dalla parte di S. Lio.
Vicino al ponte Storto l’acqua è alta ma hanno messo le passerelle e riusciamo a passare, ci avviciniamo all’Istituto.
La fondamenta prospiciente l'Istituto è allagata ed il portone è chiuso.
Riusciamo ad arrivare al ponte e a passare solo grazie agli stivali.
L’acqua è al pelo del bordo alto dello stivale e rischia di entrare.
Siamo quasi a San Marco, facciamo l’ultima parte delle Mercerie dopo la chiesa di San Zulian.
Riusciamo ad intravedere la Piazza.
E’ quasi mezzogiorno e l’acqua sta cominciando a defluire, la gente è più tranquilla perché sa che il peggio è ormai passato ed il sorriso incomincia ad incorniciare il viso di chi ha faticato fino a quel momento e ricomincia a vedere la fine del pericolo.
L’ultima parte delle Mercerie la facciamo sulle passerelle di legno che consentono di attraversare la piazza e di raggiungere i portici alti della Biblioteca Marciana.
Lo spettacolo è emozionante.
Il cielo è plumbeo; sembra che debba ancora piovere.
Lo scirocco soffia ancora forte, ma ormai la marea sta calando ed il vento non fa più paura.
Bisogna stare attenti a camminare sulle passerelle perché sono strette e quando si incrociano delle persone che magari vanno di fretta non è escluso che si possa essere spinti giù nell’acqua.
I pochi turisti che hanno osato l’avventura scattano foto.
Sono visibilmente soddisfatti di essere stati testimoni di uno spettacolo particolare anche se devono accontentarsi di vedere i monumenti dal di fuori.
L’accesso alla chiesa di San Marco è chiuso, il portico d’ingresso è completamente allagato.
Chissà se il santo patrono è contento di essere  momentaneamente isolato.
io lo vedo particolarmente furente e triste come i mosaici della Basilica  per  il colore grigio delle nuvole riduce la loro luminosità.
Chissà se ai tempi gloriosi della Repubblica le acque alte erano così frequenti o se le grida del Magistrato delle Acque era riuscito a tenerle lontane infliggendo sanzioni a chi tentava di sconvolgere il delicato equilibrio lagunare.
Sono contento perché potrò dire a mio padre che sono riuscito ad arrivare a S. Marco anche con l’acqua alta, ma nel contempo avvilito perché non trovare il rimedio per  l’acqua alta è un’offesa all’orgoglio dei Veneziani.


























4.     Capitolo. Il tacco.


Giocare a tacco è un’arte che si impara frequentando assiduamente i campielli di Venezia.
I sistemi di gioco più frequenti sono a “schiocco” o a “spanna”.
Lo “schiocco” consiste nel colpire con il proprio tacco, lanciato da una distanza convenuta fra i partecipanti al gioco, il tacco dell’avversario.
Col sistema della “spanna” vince chi si avvicina di più al tacco dell’avversario per una misura inferiore alla spanna, ossia alla misura massima dalla punta del dito mignolo a quella del pollice tenendo la mano aperta.
Parte per primo chi ha vinto al gioco del pari e dispari aprendo contemporaneamente allo sfidante le dita delle mani.
Quatro e tre sete, xe dispari go vinto mi.
Lì le dispute sono rare; più facile litigare se il tacco ha sfiorato quello dell’avversario.
El xe ga moso, bugiardo ti”.
Le liti sono furibonde soprattutto quando si misura la spanna.
Specie se qualcuno cerca di spostare il tacco per farlo raggiungere dalla punta del pollice, dopo avere ben aperto il palmo della mano e teso il mignolo.
Il primo dei partecipanti deve solo sperare che nessuno dei giocatori successivi riesca a toccare il suo tacco.
Gli altri hanno due possibilità: o fare toccare al proprio tacco quello dell’avversario o cercare di allontanarsi perché saranno poi loro ad essere colpiti e quindi vinti se il loro tacco si colloca troppo vicino a quello del primo giocatore.
Chi tocca per primo vince la posta che consiste di solito nelle figurine dell’ultima raccolta Panini o “balete de fragna”, da utilizzare in altri giochi.
Per questo gioco si utilizza il tacco da scarpa di gomma che usano i “caegheri”, i calzolai, per aggiustare le scarpe.
Allora le scarpe si risuolano più volte  fino a che le tomaia reggevano alle intemperie, alle corse e alle  partite a calcio.
La “spanna”, invece, richiede una maggiore precisione.
I più bravi sono quelli che riescono a raggiungere il tacco dell’avversario allungando il più possibile la spanna della loro mano destra.
Essa funge da misura della distanza massima che il tacco deve avere per potere vincere.
A “schiocco” o a “spanna” non sono proprio un campione, ma ci passo gran parte del mio tempo libero.
Anche se perdo, il tacco è uno dei miei giochi preferiti.
Il più bravo è Marino che riesce bene in tutti i giochi del Campo.
Non so quante figurine ho perso giocando contro di lui o contro Nane.
Sono naturalmente portati, vincono quasi sempre.
Perdere però non ha grande importanza perché dopo un pomeriggio di gioco quando ho finito la riserva di figurine so che a casa posso contare sull’intervento dello zio Pasquale per recuperare almeno una parte della perdita con nuovi acquisti.
Le figurine perse al gioco sono solo quelle doppie che non servono a completare l’album.
I campi sono i luoghi deputati ai giochi dei ragazzi.
A Venezia aree verdi in centro non ce ne sono, bisogna andare fino ai giardinetti reali di San Marco o ai Giardini Papadopoli vicino a Piazzale Roma che sono, però, sempre troppo frequentati dalle carovane di turisti appena arrivati con i torpedoni oppure a Sant’Elena dove effettivamente si può trovare finalmente un po’ di verde.
Gli spostamenti non sono veloci; arrivare San Marco o a Piazzale Roma richiede circa una ventina di minuti da fare a piedi per arrivare a Sant’Elena ci vuole un viaggio di circa un’ora.
Non ci rimane che giocare a calcio in campo San Silvestro per evitare di perdere troppo tempo negli spostamenti Il gioco del calcio è vietato dal comune che ritiene sia un intralcio alla circolazione dei pedoni.
Per noi è vero il contrario sono i pedoni ad essere un intralcio al gioco del calcio, ma basta fermarsi quando il passaggio è troppo intenso.
Il vero pericolo sono i vigili.
Arrivano di sorpresa e quando vogliono fare le contravvenzioni bloccano le quattro cali che danno accesso al Campo.
Allora non c’è scampo, la multa è assicurata, la cosa più dolorosa è essere accompagnato a casa dal vigile come un delinquente.
Se, invece, i vigili non riescono a impedire tutte  le uscite c’è un fuggi fuggi generale per evitare le contravvenzioni.
E’ quasi come giocare a guardia e ladri dal vero.
Chi si fa prendere paga pegno, ma è difficile che i vigili riescano ad essere più veloci di noi.
Effettivamente chi abita nelle case prospicienti il campo è costretto a sentire delle grida per tutto il pomeriggio e, soprattutto, non può permettersi di aprire non solo le finestre, ma persino gli scuri.
Un minimo pertugio può consentire al pallone di entrare in casa o provocare la rottura di qualche vetro.
Devo riconoscere che non è piacevole ricevere una pallonata in salotto.
D’altronde anche i ragazzi hanno le loro ragioni: dove devono andare a giocare?
Certo è preferibile fare altri giochi che non comportano l’uso del pallone come libera don don.
Il traffico pedonale può in tal caso essere una variante piacevole per impedire di essere presi.
Si può fare lo slalom fra i passanti senza neppure il rischio di prendere qualche multa.
I Veneziani in questo caso sono pazienti.
Tutti sanno che a Venezia campi giochi per i ragazzi proprio non ce ne sono.
I giovani senza un luogo di riferimento comune sono perduti, non si ritrovano più ed il gruppo rischia di disperdersi.
E’ per questo che frequentiamo tutti l’oratorio.
Il luogo di raduno fisso incide in maniera determinante sulla formazione delle amicizie.
C’è poi l’attivismo di Don Biondo che non si stanca mai di inventare delle iniziative per avere i suoi ragazzi assieme in Oratorio.


5.     Capitolo. Il monopattino rosso.


Il sig. Otto è un signore alto e magro che parla con un marcato accento austriaco, la moglie è una signora cortese non molto alta e decisamente più robusta di lui.
Lui si reca spesso a Vienna dove ha ancora i suoi affari.
La moglie è proprietaria e gestisce un albergo vicino al Bar.
Hanno una figlia molto carina alta e bionda vestita sempre con gran gusto; non parla veneziano ma un italiano con un accento leggermente straniero.
La ragazzina si vede poco in giro, non frequenta l’oratorio: forse c’è un’atmosfera troppo folk.
L’albergatrice è una delle clienti di mio padre; sicuramente ha grande stima di lui ed è felice di potergli fare un piacere.
Mio padre parlando con loro ha casualmente sentito che a Vienna è di gran moda fra i ragazzini giocare con il monopattino, così ha pensato di farmi portare un monopattino rosso come regalo di compleanno.
Il monopattino ha le gomme gonfiabili grosse il doppio di quelle di una bici, il manubrio è cromato e i parafanghi sono rossi, è dotato di un piccolo freno che blocca la ruota posteriore e che ho usato rarissimamente per non perdere velocità.
Le biciclette a Venezia non sono consentite. Il monopattino è una bella soluzione per giocare all’aria aperta.
Le due ruote sono troppo ingombranti per la città della laguna.
I vigili ti danno la multa se ti vedono circolare in bicicletta.
Le due ruote sono tollerate ai giardini di Sant'Elena o ai Giardinetti Reali di Piazza San Marco dove esiste un noleggio di biciclette.
E’ incredibile pensare come si possa noleggiare una bicicletta per fare il giro dei giardinetti reali il cui lato più lungo non è superiore ai cento metri.
Ho sempre considerato un grande divertimento andare a trascorrere un pomeriggio con lo zio Pasquale ai Giardinetti e noleggiare una bicicletta; alcune hanno anche le due rotelle dietro per i principianti ancora instabili sulle due ruote.
Il giro non ha varianti. Di diverso c’è solo la fermata alla fontanella centrale dove nuota un gruppetto di pesci rossi.
Io porto sempre delle briciole di pane per farli uscire dal loro nascondiglio sotto i sassi e vederli nuotare più in superficie.
Andare con il monopattino ai Giardinetti Reali è sicuramente un’impresa: il tragitto è troppo frequentato, bisogna portarsi il monopattino sul Ponte di Rialto che è un’impresa epica per un bambino - come scalare una montagna.  
Bisogna attraversare le mercerie che brulicano di gente in ogni ora del giorno.
I turisti camminano a passo di lumaca per godersi ogni vetrina  dei negozi della Merceria.
E’ impossibile camminare con un oggetto ingombrante.
Lo sanno quelli che per lavorare trascinano piccoli carretti per tutta la città.
Ocio a le gambe” urlano correndo all’impazzata.
Il monopattino è – almeno lo era allora - una soluzione ancora tollerata.
Un solo vigile pignolino mi ha detto che non si può circolare in monopattino.
Di solito però a San Silvestro i ghebi non passano se non per dare delle multe a chi gioca a calcio in campo.
Corro come un forsennato sulla fondamenta della Riva del Vin e sbuco in Campo San Silvestro.
E’ il mio giro preferito; il percorso che ho fatto centinaia di volte senza stancarmi mai.
Mi fermano solo il ponte di Rialto, il ponte di San Polo e il ponte delle Carampane: quei luoghi delineano il confine dei miei percorsi.
Il monopattino è troppo pesante per affrontare i gradini dei ponti.
Al di fuori del Campo San Silvestro ci sentiamo persi, non siamo più a casa nostra.
Le corse in monopattino fanno impazzire i miei amici.
La grande passione che hanno di salire su quel bolide rosso mi ha fatto trovare il modo di riequilibrare le perdite che Toni e Nane mi infliggono al gioco del tacco.
Do figurine per un giro” sentenzio.
Xe massa caro” dicono.
Ma poi accettano.
Il giro è quello del Campo San Silvestro passando per la riva del Vin e la adiacente “salizada”.
Si possono fare delle gare.
Marino ha appena fatto la cresima ed il padrino gli ha regalato un orologio novo de paca con cronometro.
La gara mi rende bene e gli affari procedono, mi sento proprio un “paronsin”.
Quell’estate mio padre ha avuto una brillante idea.
Il mese prima un piccolo incidente si è concluso felicemente.
Sto andando a scuola, camminando sulla riva del Vin.
Procedere nel mezzo della fondamenta lontano dall’acqua del canale è troppo banale!
Mi viene la brillante idea di passare fra uno di quei lampioni in ferro dipinto di verde cupo che illuminano con una flebile luce la riva e il ciglio della fondamenta.
Lo spazio è sufficiente per il passaggio di una persona, ma non per due.
Fatto sta che nello stesso momento ci siamo trovati a passare in due.
L’uno che andava verso il Ponte l’altro che si dirigeva dalla direzione opposta.
Io, scaltramente, mi sono posizionato nella parte più esterna preferendo passare lungo il lembo estremo della riva.
Inevitabilmente sono caduto in acqua. Non so se spinto volontariamente o accidentalmente dall’altro ragazzino che procedeva in senso opposto.
Il salvataggio non è stato molto eroico.
Nessuno si è tuffato in mio soccorso.
Un passante cortese mi ha lanciatouna cima dalla riva e mi ha tirato su come un salame.
Al bar dove i miei soccorritori mi portano in attesa del cambio dei vestiti tutti ridono: “No ghe xe venezian che no sia cascà in acqua na volta.”
Ben! ti va a scuola de nuoto a la Passoni ” mi dice trionfante il babbo.
Una volta i vecchi insegnavano a nuotare tenendo legati per una corda i principianti, ora i costumi si sono evoluti e si va in piscina coll’istruttore.
La Passoni è una società nautica collocata sulla fondamenta delle Zatere.
Non ci sono impianti particolari né depuratori.
Una recinzione di legno contorna uno spazio acqueo della laguna che funge da piscina.
Non ci sono depuratori per le acque che confluiscono in laguna e nel Canale della Giudecca.
Ci pensa la marea a pulire due volte al giorno.
L’acqua ha ancora un colore accettabile.
Per il momento l’acqua della laguna non è inquinata – o forse nessuno ha disposto dei controlli - consentendo persino i bagni.
Non c’è, infatti, nessun divieto di balneazione!
C’è tanta allegria da parte dei giovani allievi che non fanno molto caso agli impianti cadenti.
Le cabine corrono lungo una passerella di legno che fa da cornice alla piscina.
Quell’anno non sono state dipinte e sembra quasi il segno di un prossimo smantellamento.
Noi ragazzi non ci pensiamo.
Abbiamo fiducia di chi deve vigilare sulla nostra salute e sulla tutela della nostra laguna.
Forse ci siamo fidati troppo?























6.     Capitolo. La zia Bice.


La zia Bice è la sorella di mia madre.
E’ una persona estroversa cui piace dire la sua su tutto. “No la tase mai.” conferma mia madre.
E’ bassina e porta delle grosse lenti da miope che le incorniciano il viso paffuto.
Lei e lo zio Donato si sono trasferiti a Venezia, dopo la morte della nonna.
La nonna Graziella era stata ricoverata d’urgenza in un Ospedale per una improvvisa cecità.
Gli acciacchi della vecchiaia e la cecità erano pesi troppo forti per mia madre che viveva con lei.
La nonna  e si è lasciata morire dopo pochi giorni.
Non ha retto alla lontananza da casa e a quel surrogato di vita che non amava più.
Io non sono andato al funerale, anzi non ho mai saputo quando l’hanno celebrato per quello strano pudore che induce i grandi a tenere i bambini lontano dalle cerimonie funebri per esorcizzare la morte.
Poco dopo la morte della nonna  gli zii sono venuti ad abitare  in un appartamento di proprietà del nonno Nicola
sito nella casa a fianco della nostra.
Siamo vicinissimi.
La zia non si sa dare pace per la perdita della nonna Graziella.
Avrebbe voluto essere più vicina a sua madre, ma abitava a Milano.
Troppo lontano per portare assistenza ad un anziano.
La famiglia ha deciso di ricoverarla in un istituto per anziani perché un disturbo di cataratta l’ha fatta diventare cieca e non era possibile accudirla in casa.
La zia non ha potuto opporsi a questa decisione ed è un rimpianto che si è portata per tutto il resto della sua vita.
E’ forse per quello che ripete spesso: “Quando sarò vecia me metaré in ospedaleto.
Non riesci a darti giustificazioni se non hai accompagnato i tuoi genitori nell’ultimo viaggio.
Io sono contento del loro arrivo: ho acquistato degli altri zii oltre allo zio Pasquale e alla zia Nina.
Sono proprio felice di avere degli altri parenti che abitano così vicino a noi.
Mi divido equamente fra di loro.
Un giorno improvvisamente lo zio Pasquale e la zia Nina  mi comunicano che hanno comperato una casa a Trani e che intendono trasferirsi per continuare a vivere lì.
Non capisco il perché di quella decisione anche perché non si concilia con le lacrime che intravedo scorrere dalla guancia della zia Nina.  Pershé partono se non sono felici di partire, mi chiedo
“Ci vedremo lo stesso ancora Nicheto” mi dice la zia Nina.
Non capisco perché ci sia il bisogno di andare a Trani per poi rivedersi ancora quando adesso ci vediamo tutti i giorni. Qui c’è qualcosa che non quadra .
Lo zio pasquale mi distoglie dai miei interrogativi de fio de sesto proponendomi di andare ad acquistare dei soldatini.
“Ne ho visti di nuovi in Ruga” mi dice.
Ti vedi che non ti xe bon de parlar venezian; adesso vedemo chi riva primo” così dicendo mi precipito lungo le scale per arrivare con largo anticipo a scegliere i soldatini”.

7.     Capitolo. Il Lido.

 

Allo zio Donato piace molto nuotare e quindi d’estate si va la Lido come tutti i veneziani.
“Luglio al mare ed agosto in montagna” è la regola canonica.
Più che na vacanza xe un zavagio “ ribatte la zia.
Lei non nuota e non trova lo stesso piacere a costruire sulla sabbia castelli,  vulcani o piste dove fare correre le biglie di vetro colorato.
E’ vero si parte presto con borse  e borsine che contengono la merenda e gli asciugamani.
Io porto il canotto di gomma gonfiabile con annessa pagaia.
L’ho voluto fortemente appena l’ho visto in Merceria nella vetrina di Brighenti.
E’ stato un amore a prima vista.
Effettivamente non è molto estetico con la sua forma triangolare ma è sicuramente molto pratico per delel piccole escursioni lungo la spiaggia del Lido.
Chissà se posso noleggiarlo in cambio di figurine?
E’ obbligatorio correre per prendere il vaporetto perché come ripete lo zio “Se se ciapa il bateo prima delle oto ghe xe un sconto”.
L’ultimo tratto del sottoportico della Pasina è il tratto più duro del percorso
Quando si vede arrivare la prua del vaporetto e sei appena uscito dal sottoportico vuol dire che si deve correre con tutte le borse canotto e remo per non perdere lo sconto fra i rimbrotti dello zio .
L’imbarcazione è sempre  stipata anche se i turisti a quell’ora non sono numerosi.
Con un po’ di fortuna basta curare i passeggeri che occupano i posti in prua - quelli più esposti al vento - che prima o poi o scendono o si stancano del vento sulla faccia e passano nell’interno  nei posti più riparati.
Stanno anche  in piedi pur di sottrarsi alla brezza .
Si vede che non sono uomini di mare.
Anche se  lo facciamo tutti i giorni il tragitto non  è mai monotono.
Quasi non ti accorgi della durata del percorso perché Venezia è stupenda da ogni angolo di visuale.
L’attenzione non cala mai.
Sono concentrato alle manovre del capitano e de queo che buta la cima per ormeggiare il vaporeto all’imbarcadero.
Operazione delicatissima quella dell’attracco perché se lo spazio è troppo ampio c’è il rischio di mettere la gamba in mezzo fra bateo ed imbarcadero.
Quella mattina se il marinaio addetto alla manovra non si accorge che nello scendere sto scivolando fra vaporetto e imbarcadero io sarei con una gamba in meno.
Certo che quella volta l’Arcangelo Michele è stato lesto a suggerire la prontessa nel tirarme su da parte del
 Battelliere come ripete la zia Bice che ha recitato per questo un dozzina di rosari di ringraziamento dopo essersi assicurata che non avrei detto nulla a mia madre “perché la se impressiona”.
Quando sbucando dalla Punta della Saluta nel Bacino di San Marco intravediamo al Riva degli Schiavoni siamo arrivati alla metà del viaggio.
Non c’è fretta è proprio un bel giro in barca e poi siamo in mezzo alla laguna inondata di sole e respiriamo a pieni polmoni l’aria marina e ci inebriamo dell’odore del mare.
Il vaporetto costeggia la riva degli Schiavoni e quella dei sette Martiri fino a giungere ai Giardini di Sant’Elena. Sembra di essere arrivati in un’altra città dove crescono gli alberi e dove si può correre a lungo su di un percorso rettilineo.
Perché non venimo più spesso a Sant’Elena che xe beo?” chiedo felice dei vedere il colore verde dei prati.
Perché xe distante ma adeso semo rivai al Lido” mi risponde paziente la zia
Finalmente attracchiamo all’imbarcadero del Lido!.
Sbarchiamo trionfalmente come i veneziani vincitori giunsero a Costantinopoli nella quarta crociata.
Non abbiamo rotte da conquistare ne bottini da depredare ci basta solamente abbronzarci e fare un bel bagno in mare.
La strada per la vittoria è lunga ci aspetta il Gran Viale Santa Maria Elisabetta.
Il Viale è pieno di gente che arriva con tutte le linee dei vaporetti e col Bateo Grando che addirittura ha due piani oltre ad essere molto più lungo di una normale imbarcazione di trasporto pubblico.
L’ultima fermata è obbligatoria per acquistare dal fornaio una merenda calda e croccante e poi via verso il Lungomare Gabriele D’Annunzio dove hanno sede gli stabilimenti balneari.
Non ci resta molto tempo per fare il bagno, per costruire i castelli di sabbia, per giocare con gli amici della spiaggia e chiacchierare con la  moglie del dott. Wurms che è il nostro medico della mutua.
La vita di spiaggia scorre monotona per alcune ore poi la zia Bice dà il fatidico ordine di partenza e ci mettiamo in moto per il secondo zavagio.
Torniamo stanchi e felici .
Salutati e ringraziati gli zii suono il campanello di casa e  urlo a mia madre che si affaccia alla finestra in mancanza di citofono:“Buta la pasta!


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

8.     Capitolo. Trani.


La mamma ed il papa hanno deciso di fare un giretto insieme.
E’ una delle poche volte che mi lasciano a casa da solo.
Per un verso non sono contento .
Come figlio unico mi sento tradito.  Ci ripenso, dopo che la zia Bice mi ha detto che ha deciso di portarmi con lei e lo zio Donato a Trani, e sono addirittura felice di questo abbandono.
Sono desideroso di andare a vedere la città natia del nonno da dove partì alla ricerca di un lavoro e soprattutto di potere andare a trovare  lo zio Pasquale.
Forse anche a Trani vendono i soldatini e potrò averne di nuovi difficili da trovare dal mio  solito venditore.
Non è così frequente per me avere l’occasione di spostarmi dalla città del leone.
I miei non hanno lo spirito dei veneziani di un tempo abituati a commerciare in lungo ed in largo per il Mediterraneo: Sono finiti i tempi in cui era normale viaggiare lungo la via della seta.
Andare in treno fino a Trani non è un viaggio che si fa tutti i giorni.
Sono emozionatissimo .
Ne ho parlato a scuola con madre Epifania che si è preoccupata subito dell’andamento dei miei studi e mi ha appioppato i compiti delle vacanze.
Era meglio stare zitto fino al ritorno!
“Fa esercizio di lettura che sei un po’ scarso e scrivi anche dei pensierini sulle vacanze” mi raccomanda la suora parlando rigidamente in italiano .
Va ben reverenda madre” rispondo ossequiente in veneziano.
Saluto il nonno Nicola spiaciuto di non partire con noi, ma non se la sente di affrontare il viaggio
“Portami una rama di rosmarino che quelli nostri del sud hanno più profumo” mi dice salutandomi.
“E non parlare in dialetto che ti mandiamo apposta a scuola per imparare l’italiano!”
Passiamo tutto il giorno in treno per evitare di viaggiare di notte; finalmente nel tardo pomeriggio arriviamo.
Alla stazione di Trani non c’è la folla che trovi a santa Lucia
Trani è una piccola città, così dice la zia ma a me che sono piccolino sembra grande.
Il vetturino è pronto alla stazione per portarci col suo stanco ronzino nella villa dello zio che dista un paio di chilometri dalla città sulla Via di Corato.
E’ la prima volta che salgo a cassetta e  aiuto anch’io a condurre la carrozza tenendo le briglie sotto il sorriso benevolo del conducente.
La villa è una bella casa, anche se lasciata un po’ andare in disuso, che rivela il segno di un antico benessere.
C’è la luce, ma l’acqua la raccogliamo dal pozzo.
Non c’è la vasca da bagno, ma una  simpatica tinozza di rame.
E’ piacevole trascorrere le vacanze in villa, anche se non ci sono tutte le comodità della città.
In campagna ci sono un sacco di cose da fare e  da vedere e soprattutto c’è tanto spazio.
Il  sole incombe abbagliante ed è difficile trovare un angolo d’ombra.
Il terreno è coltivato a vigneto; in mezzo alle viti un unico piccolo albero mi attende per colazione con i suoi rami carichi di fichi maturi 
Mi adeguo subito alla vita agreste.
Ci sono un sacco di cose da fare ed un sacco di persone che vengono a trovarti.
Antonio il mezzadro dello zio Donato è il primo a farci visita con un carretto trainato da un asino che continua  a ragliare.
La sua faccia grinzosa asciugata dal sole caldo è incorniciata da un sorriso molto dolce e accattivante.
E’ un personaggio verghiano  interprete di quella realtà dura fatta di fatica e di poco benessere che è la normalità delle campagne dei sud .
E’ venuto per illustrare i frutti del suo lavoro e per concordare il tempo della vendemmia.
Suggerisce allo zio che per spuntare il prezzo più buono bisogna aspettare ancora un po’ perché, secondo lui, i prezzi sono destinati a salire.
Non poteva mancare all’appello delle visite lo zio Pasquale  e la zia Nina che mi fanno un sacco di feste .
Sono venti con un loro nipotino.
Sono un po’ geloso perché mi sembra che mi abbia già sostituito nel loro cuore.
E’ arrivato anche lo zio Nicola titolare di una agenzia delle  ferrovie dello Stato sita proprio sul  gran viale che dalla stazione  porta alla Piazza principale.
Prima è entrata la sua pancia e poi la sua imponente persona.
Lo zio è un fine degustatore .
Conosce tutti i piatti della cucina pugliese che gusta due volte prima nel decantarne le delizia.
Spazzola tutto quello che gli capita nel piatto e senza alcun ritengo richiede il bis di ogni portata per dimostrare, come dice, i suoi complimenti più entusiasti alla padrona di casa.
Lo zio Nicola è un parente alla lontana molto affezionato a noi perché come tutti gli uomini del sud tiene molto alle parentele anche le più distanti.
E’ proprio per manifestarci visibilmente la sua amicizia che il giorno successivo ci invita a colazione in città.
Lui e la Zia Rosaria non hanno figli ma abitano con Giuditta  sorella nubile della zia in una vecchia casa affacciata al porto.
La colazione preparata è suntuosa.
Maccheroni al forno dove mozzarella filante e polpette di carne straripano , melanzane alla parmigiana, peperoni ripieni, triglie di scoglio piene di lische che però, assicura lo zio, hanno il profumo di mare, cozze e vongole veraci e per finire  cartellate, cucinate come da più rigida tradizione nel vino cotto, zuppa inglese, una cascata di fichi e uva pugliese bianca e nera oltre a frutta  secca e mandorle.
Esausti riusciamo a fuggire alle portate dello zio Nicola che proseguirebbe imperterrito fino a sera nella sua abbuffata  con la scusa di una passeggiata digestiva.
Proseguiamo sul porto ed allontanandoci dal mercato del pesce lontano dal frastuono delle contrattazione.
La città vecchia inizia lì  a ridosso della loro  casa con i sui vicoli stretti.
I bambini sporchi e mezzi nudi girano nelle strade dove circola qualche rara macchina. 
Una povertà dignitosa e rumorosa dove la vita si svolge all’aperto, al di fuori dei bassi troppo angusti per contenere tutti i numerosi componenti della famiglia.
Vedo con i miei occhi tracce evidenti di quella povertà che ha costretto molti, come il nonno, a cercare fortuna al nord.
Poco distante a picco sul mare si innalza solitario il Duomo.
La costruzione essenziale risplende nel colore bianco della pietra di Tran.
Suggestivo, senza affreschi, senza mosaici il Duomo mi conquista per la sua semplicità di linee e per la potenza del sentimento religioso che sa trasfondere.
Sono orgoglioso del fatto che il mio onomastico ricorra  nel giorno di San Nicola Pellegrino cui il Duomo è dedicato.
La meta successiva è la Villa che sorge dalla parte opposta del porto rispetto alla casa dello zio Nicola.
I giardini a comunali si affacciano ad una spiaggia scogliosa  con un profumo intenso di salmastro però  meno comoda delle spiagge sabbiose del Lido per i bagni mare .
E’ piacevole nella calda giornata estiva camminare lungo i freschi viali alberati dei giardini.
Peccato che non si possa scendere a fare il bagno in mare.
Gli scogli sono troppo dirupati e l’acceso è complicato.
Gli zii per convincermi a rinunciare al bagno mi promettono che andremo a Colonna.
La località balneare sorge a poca distanza dalla città ed assomiglia molto alla spiaggia del Lido solo che non si va col vaporetto ma in macchina o col vetturino.
Sicuramente lì si può fare un bagno nelle acque fresche dell’Adriatico per toglierci di dosso il caldo del sole del sud. 

















9.     Capitolo. Renzo.


Poi è nato Renzo.
Fin da quando è piccolissimo giochiamo molto insieme anche se è troppo piccolo per venire a giocare con me a “tacco” in campo: sette anni di differenza quando ne hai solo dieci sono molti.
Sono il suo fratello maggiore.
La zia è molto contenta da quando è nato Renzo: lo aspettava da molto ed ora, grazie a Dio, è arrivato e la nostra famiglia è diventata più numerosa.
Renzo è destinato a seguire le mie orme.
Prima le suore e poi i padri. C’è un differenza di età che ci farà prendere strade diverse.
La zia è felice; lo va ad accompagnare a scuola tutte le mattine secondo la tradizione della nostra famiglia; anche lui indossa un grembiulino nero col colletto bianco e porta un cestino azzurro, anche lui mangia il minestrone e si lamenta.
La vita continua sempre uguale nelle sue abitudini.
La zia si ritrova con le altre mamme a bere il caffè al bar e a discutere di faccende di casa.
Lo zio è sempre impegnato in contabilità e amministrazioni.
Per fortuna che c’è lui! è pur sempre una persona di famiglia che può dare una mano in caso di bisogno.
La zia ha un carattere estroverso, vuol dire sempre la sua, vuole essere presente e risolvere ogni problema della nostra famiglia, vuole aiutare tutti alla sua maniera.
Riesce a vedere le cose in maniera assolutamente personale e considera con difficoltà le posizioni degli altri.
Lo zio Donato, peraltro, è un uomo del sud che non lascia molti spazi.
In casa comanda lui, la moglie ha solo un ruolo di dettaglio.
Dopo il trasferimento da Milano ha cessato di lavorare .
E’ spesso a casa. Il pomeriggio va l bar a legger il giornale o al cinematografo.
La sua presenza è ingombrante perché un uomo ha il bisogno fisico di occuparsi di qualcosa e, se non lavora, interviene in affari di poco conto levando agli altri incombenze minime.
Lo zio, ad esempio, va a fare la spesa, levando alla zia quello che è un autentico piacere per una donna: fare acquisti a Rialto, il più divertente mercato di Venezia.
E’ una vita piuttosto prevedibile la loro.
E’ interrotta solo dal viaggio a Trani per le vacanze estive.
La zia Bice mi racconta le storie della famiglia di quando il nonno Nicola è venuto a Venezia da Trani ed ha messo su una attività di oste.
La zia è l’unica che si ricorda le date degli onomastici e dei compleanni di tutti i parenti più stretti.
La zia soffre molto per non avere potuto studiare seriamente.
Il suo cruccio è quello di non avere frequentato le superiori e di non essere andata all’Università.
A lei piace molto studiare, ma usa così; in casa devono restare le donne e i maschi devono studiare e lavorare: è la legge del sud. Non ha mai cercato di cambiare quel modo di pensare fortemente maschilista e riduttivo della condizione femminile, che ha regolato la sua esistenza, accettandolo senza proteste.

10.           Capitolo. L’Ospizio.


La zia Antonia è sempre più curva non si regge in piedi, la voce è sempre più roca.
Il nonno è anziano. La vecchiaia avanza anche per lui.
La gestione della casa è complicata.
La mamma non ce la fa ad accudire due persone anziane sempre più malconce; il papà ha i suoi problemi di salute e non ha energie sufficienti per proporre soluzioni.
La decisione è difficile, costa fatica.
La salute sempre più precaria della zia Antonia richiede sempre maggiori cure che in casa nessuno può assicurare.
No ghe xe niente da far, bisogna ricoverar” alla fine conclude mio padre.
Io lo so solo a cose fatte. Sono tornato da scuola e la zia non è più in casa, capisco dai discorsi dei grandi che la zia è stata portata in Ospizio, ma non mi rendo conto di come mai in poco tempo la nonna e la zia abbiano dovuto allontanarsi.
Preferisco continuare a giocare con i miei soldatini che ascoltare questi discorsi da grandi.
Sono i momenti tristi della vita quando qualcuno abbandona il suo posto in famiglia.
Sembra che la vita scorra sempre uguale, ma non è così.
Le situazioni evolvono e bisogna sapere prendere le decisioni più dolorose.
Basta prendere queste decisioni con amore.
Se pensi di fare quello che tu vuoi sia fatto anche a te in quella situazione, non hai nulla da rimproverati.
Certe decisioni sono prese perché mancano alternative.
L’Ospizio è vicino alle Zattere.
Il profumo di mare che inonda il bacino è un mero ricordo; lì dentro ti assale un odore di vecchiaia.
Tanti anziani affollano la vasta anticamera che precede le camerate.
Sono tutti accalcati in un enorme stanzone dove sono stipati una ventina di letti.
Un brusio costante è lo sgradito contorno di un ambiente decisamente poco entusiasmante.
La zia Antonia è rassegnata; i vecchi sanno che quando sono malati il loro destino è segnato.
E’ la vita che scorre e se ne va.
Non tutti hanno la fortuna di morire nel proprio letto.
Ci vuole solo un po’ di amore in più per non abbandonarli e per fare trascorre loro gli ultimi anni il più serenamente possibile.
Dopo pochi mesi dal ricovero la zia Antonia se n’è andata per sempre.
E’ morto, poco dopo, anche il nonno Nicola.
Siamo rimasti più soli.
Il treno della vita prosegue il suo viaggio.
Ogni tanto si ferma e alla stazione scende qualcuno che ci lascia.
Rimane il ricordo che ci aiuta a sopravvivere.


11.           Capitolo. La morte di Stalin.


Raramente ho visto preoccupato mio padre.
Il suo volto ha sempre l’espressione triste di quelli che sanno che a breve devono morire, ma che non sono mai tesi.
Ho visto preoccupato mio padre solo il giorno in cui la radio ha annunciato la morte di Stalin.
Non lo ho mai sentito parlare di politica neanche quando raccontava della ritirata di Russia alla quale ha partecipato come guidatore di un camion dell’esercito italiano; non ha mai fatto valutazioni.
Per lui non esistono fascisti o comunisti, esistono solo persone.
Pensa al suo lavoro, a fare andare avanti il bar, a sopravvivere alla malattia che lo distrugge poco a poco; forse pensa a cosa avrei fatto io dopo con la mamma? se avremmo retto il peso di una gestione familiare?
Forse è buono con gli altri sperando che altri saranno buoni con noi, ipotizzando una sorta di proprietà transitiva della bontà.
Non è capace di dire di no a chi gli chiede qualcosa.
Tutti ga da poder lavorar”, dice.
Il papà è contento quando può offrire delle opportunità di lavoro a tutti quelli che gliene fanno richiesta soprattutto quando sa che devono mantenere la famiglia facendo i salti mortali.
Quel giorno è preoccupato.
Chi sa cossa capita” ripete.
Per i clienti del Bar la Russia di allora è il regno di un dittatore sanguinario che ne combina di tutti i colori.
Dicono che non si possa entrare con facilità nel territorio dello Stato russo neppure come semplice turista.
I pochi visitatori dicono di essere stati  seguiti dai servizi segreti . Essi hanno dovuto denunciare dove erano andati e cosa hanno fatto ; ogni minimo spostamento deve essere controllato.
La cosa che più mi angoscia è che dicono sia oltremodo difficile emigrare dalla Russia.
La trovo una limitazione insopportabile alla libertà che dovrebbe avere ogni persona di potere costruire la sua vita.
Non so se le notizie siano vere, ma ne sono impressionato.
Camerieri e clienti sono preoccupatissimi per la morte di Stalin.
Temono che l’equilibrio basato sulla paura, instaurato dal suo governo, possa venire meno causando pericolosi contraccolpi sulla politica europea ancora instabile.
La seconda guerra mondiale non è finita da molto.
Cossa farà i Russi? Ghe ne rivarà uno peso?”
Tutti hanno paura anche per eventuali contraccolpi sulla politica americana.
Il 5 marzo 1953 può essere la fine di un incubo.
Sono finite le deportazioni e le purghe politiche, le carestie e le morti in prigione e nei campi di lavoro che hanno caratterizzato l’epopea causando la morte di almeno una ventina di milioni di persone?
Cosa farà il nuovo segretario comunista Krusciov?
Ci sarà ancora un mondo diviso in due blocchi contrapposti sempre pronti a colpirsi per affermare la loro supremazia?
Mio padre è preoccupato.
Lui l’Europa in fiamme l’ha già vista.
Si legge nei suoi occhi la paura che gli orrori della guerra si ripetano.
E’ una delle poche volte che mio padre mi racconta delle sue avventure col “camion” dell’esercito italiano dopo la ritirata di Russia.
Il papà ha sempre parlato poco di quando ha prestato servizio militare come camionista dell’esercito.
Nei servizi di trasporto, dice, gli capitava spesso di essere fermato o dai repubblichini o dai partigiani.
Quando lo fermavano i repubblichini “Ghe davo rason“ dice.
Così pure quando lo fermavano i partigiani cercava di dare loro da mangiare o di fornire indumenti o scarpe.
Non riesco a pensare che mio padre, anche in guerra, possa fare del male a qualcuno neppure al suo peggiore nemico.
I xe poveri fioi” dice.
Forse anche per questo è riuscito ad uscire vivo da situazioni tremende con la forza della sua generosità.
Per fortuna la morte di Stalin porta ad una successione di potere che non crea ulteriori tensioni con l’Europa.
Nikita Krusciov è il nuovo presidente che con le sue aperture crea una stagione di speranza con una maggiore distensione dei rapporti fra le due super potenze.
I commenti si fanno più ottimisti anche se i clienti sono sempre divisi in due gruppi.
Mi tegno per i americani. Varda cossa ga fato Stalin!”
Sono pochi quelli che frequentano il locale, che è sito nel cuore commerciale di Venezia, a non prendersela con i Russi, soprattutto quando il livello di guardia ai confini con l’est europeo si aggrava.
Il processo di distensione sembra subire una battuta d'arresto quando in Ungheria inizia a manifestarsi con forza il malcontento per il disagio economico e le aspirazioni di libertà e autonomia nei confronti dell'URSS.
Quando i giovani ungheresi si mettono davanti ai carri armati sovietici per le strade di Budapest, ho visto qualche cliente spaventato.
Adeso i vien qua anca da noialtri” dice.
Quando poi si acuisce la crisi di Berlino, con la costruzione del muro che ha infranto i sogni di libertà di molti da parte dei filo-sovietici della Germania Ovest, riprende con forza la disputa fra gli avventori fautori delle due diverse teorie.
Il muro divide in due la città.
I cittadini di una unica nazione sono divisi in due stati.
Una cortina invalicabile li separa; chi prova ad attraversarla per venire nella Berlino ovest rischia di essere un bersaglio dei vopo.
Ad ogni morto ammazzato c’è un commento di condanna.
Varda come i copa! No i ga pietà.”
Sono pochi quelli che plaudono al necessario controllo dello Stato sovrano sui suoi concittadini.

Nessun commento:

Posta un commento