sabato 2 giugno 2012

Grembiulino 45


1.     Capitolo. Una gita a Parigi.


Roberto è il direttore del Collegio.
Un manager dalla faccia accogliente cui i capelli brizzolati conferiscono un atteggiamento paterno.
Sempre  molto gentile e simpatico è disponibile al dialogo che affronta sempre con tono pacato.
Ritiene che la potenza del ragionamento sia sufficiente per avere un rapporto corretto con quel manipolo di scatenati.
Sostanzialmente ha ragione lui perché di fondo sono tutti dei bravi ragazzi: l’importante e riuscire a dialogare.
Si c’è stato qualche incidente come le battaglie d’acqua che scatenano gli istinti più guerrieri.
Quella volta Roberto si è arrabbiato molto.
Non abbiamo capito perché.
“Mi avete allagato il collegio” sbraita alzando in maniera inconsueta la voce.
In fin dei conti è stata solo uno scontro un po’ inzuppato.
Al massimo si sono infradiciati un po’ i contendenti.
Avrebbero potuto lamentarsi, semmai, quelli del piano terra.
Sono loro che hanno dovuto affrontare le bombe lanciate da quelli del primo piano in evidente situazione di inferiorità.
Non hanno fatto, invece, una grinza e pur bagnati fino alle midolla hanno risposto al fuoco acquatico.
Abbiamo comunque asciugato tutto anche se abbiamo dovuto faticare fino alle tre di notte.
Il giorno seguente si sono complimentate con noi perfino le signorine delle pulizie.
Jean de la Salade, chiamata così perché, quando ci serve in mensa, ci fa sempre fare il bis dell’insalata, ha manifestato addirittura il suo entusiasmo:
No go mai visto dei pavimenti così neti!”
E’ anche lei veneta viene da Vigonza Pianiga.
Roberto ha un sacco di idee, vorrebbe che il periodo passato al San Marco fosse veramente formativo
“Sì lo studio va bene, ma ci vuole un approfondimento culturale a tutto campo perché la preparazione sia completa” sentenzia.
“Frequentate gli appuntamenti culturali che Milano vi offre, c’è il Piccolo Teatro, c’è La Scala, ci sono mille cineforum e conferenze, approfittatene! Fatti non foste per viver come bruti” ci ripete sempre.
Lui è assistente di storia dell’arte all’università.
L'interesse verso le manifestazioni artistiche è sempre presente nei suoi discorsi.
In quel periodo c’è una mostra a Parigi, al Petit Palais, di Pablo Picasso l’autorevole maestro della pittura del novecento.
“Non si può perdere una mostra di Picasso a Parigi.” afferma Roberto.
Sono pienamente d’accordo.
“Ho sentito parlare poco di Picasso ma molto di Parigi” confermo entusiasta.
Organizziamo il viaggio.
“Si può passare per Notre Dame du Haut” propone Benedetto che si professa esperto navigatore.
“La  chiesa, progetta da Le Courbusier, merita una visita” insiste Roberto.
“Basta che non deviamo molto dalla strada per Parigi” precisa Bernardo molto interessato dall’opera dell’architetto francese.
“Si può andare a trovare Pietro ad Orval in Belgio” propone Roberto.
“Certamente” ribadisce Benedetto, il quarto compagno di viaggio, non ponendosi neppure il problema dell’itinerario.
Benedetto è un ragazzo molto pio, viene dal Trentino è stato mio compagno di stanza.
Il direttore ci racconta la storia di Pietro uno studente del San Marco che, finiti gli studi in Lettere, ha deciso di farsi trappista ad Orval.
“Ad Orval si mangia benissimo e si beve ancora meglio. I frati producono una birra scura che quando la versi nel boccale fa una schiuma che si taglia con il coltello.” soggiunge Benedetto che ha colto nel segno l’essenza della religiosità dei trappisti.
Se dobbiamo essere convinti, quello della birra scura è un argomento vincente.
C’è però il problema economico.
“Cosa costa andare a Parigi?” oso domandare per vedere se le mie finanze mi consentono la vacanza.
“Siamo quattro in macchina, la benzina si divide così il viaggio costa poco” risponde prontamente Roberto
“A Parigi andiamo a dormire in qualche pensioncina di poche stelle che costa pochi franchi” soggiunge Benedetto
“A mangiare si va a Saint Germain de Prés dove ci sono i ristorantini algerini che costano come la mensa universitaria” conferma Bernardo.
Ho appena ricevuto il mensile per pagare la retta del collegio.
“Bastano i soldi della retta?” chiedo.
“C’è n’è più che a sufficienza!” mi rispondono in coro.
“Allora si parte! Poi per la retta qualcuno ci penserà?” concludo filosoficamente.
La macchina di Roberto è una vecchia Peugeot rossa molto robusta, a suo dire, ma molto vetusta a guardarla.
“Riusciranno i nostri intrepidi avventurosi eroi a raggiungere Parigi?” ci chiediamo non troppo preoccupati confidando nelle preghiere dei trappisti.
Tutti lo sperano, ma pochi ci credono a guardare la faccia dei nostri compagni che ci salutano alla partenza davanti al San Marco.
Cercare la chiesa di Notre Dame du Haut è stata un’impresa.
Il nostro navigatore Bernardo ha qualche difficoltà a leggere la cartina stradale.
Roberto si fida più dei suoi sbiaditi ricordi che delle mappe lette male da Bernardo.
Si sfiora quasi la rissa.
“Tanto non abbiamo mica fretta.” esclama Roberto.
“E’ una vacanza che diamine! Mica dobbiamo fare le corse!” interviene Benedetto
“Non dobbiamo arrivare primi a tutti i costi. Il viaggio fa parte della vacanza” ripete Roberto.
Tutto finisce lì.
L’impresa di trovare la chiesa è ardua, ma ne vale la pena.
Partendo da Milano puntiamo dritti verso Basilea.
La chiesa spunta finalmente adagiata su di una pianura piatta nei pressi di Ronchamp.
La copertura della chiesa si nota da lontano.
Il tetto della costruzione presenta una forma insolita.
Sembra un cappello triangolare a larghe tese di un gigante originale.
Le Courbusier ha pensato di far piovere la luce dall’alto ad illuminare la navata e le cappelle laterali.
Gli effetti sono suggestivi.
La luce crea un suggestivo impatto col colore grigio del cemento armato che riveste le pareti laterali.
In quella atmosfera perdi per un attimo la dimensione terrena e ti senti collegato direttamente al  cielo.
Abbiamo provato una grande emozione.
Ripartiamo.
Finalmente arriviamo a Parigi.
Nella metropoli francese tutto è grande: i Monumenti, i Musei, i Boulvard che corrono lungo la Senna.
La grande capitale resta seconda - fra le città che ho visto - solo a Roma la capitale del mondo.
La mostra di Picasso è un successo.
“Ci sono almeno tre ore di coda da fare” constata Benedetto.
Pazientemente Roberto si mette in fila, ma è da solo.
Noialtri tre culturalmente meno raffinati non ci stiamo a perdere tre ore restando in coda e preferiamo girovagare per la città. La grandiosità della metropoli si presenta con la sua architettura imperiale.
I viali maestosi e dritti a perdita d’occhio, i giardini regali, i Lungo Senna romantici, l’arte racchiusa nei Musei ci fanno apprezzare questa città.
La sera ci ritroviamo in Rue de la Huchette in un ristorante algerino allora di moda a Parigi.
Sono locali molto tipici e molto economici dove si beve il vino rosso algerino e si gusta il cous cous. E’ un semolino servito con verdure e con delle piccantissime salcicce arrostite chiamate meugez.
Mangio col cappotto perché la tipicità del locale impedisce al proprietario di sostituire alla finestra il vetro rotto che spiffera in una maniera esagerata.
Me piasaria più caldo e manco  folklor" mi lamento infreddolito.
Il prossimo obiettivo è Orval.
Pur non essendo molta la distanza chilometrica che separa questa cittadina da Parigi, arriviamo in un altro mondo.
L’atmosfera è opposta a quella della metropoli francese.
I trappisti vivono isolati dal mondo esterno. Conducono una vita appartata anche se hanno una foresteria che ospita i viaggiatori.  Seguono il motto “ora et labora”.
Ad ore impossibili si svegliano e pregano cantando le lodi di Dio e lavorando nei campi.
Piero ci accoglie con un sorriso terso. I suoi occhi chiari, incastonati in un volto ascetico, emanano una luce particolare fatta di serenità e tranquillità con sé stessi e con Dio.
“Benvenuti, vi aspettavo” ci dice salutandoci fraternamente.
La spiritualità prorompente da quei luoghi è mitigata dalle mangiate di burro spalmato sul pane nero e dalle bevute di birra scura dalla schiuma che si taglia con il coltello.
Valeva la pena di fare quel viaggio per vedere quell’oasi di pace.

2.     Capitolo. L’occupazione.


La Cattolica sembra l’Università più tranquilla, quella inattaccabile da scioperi e contestazioni dove si studia e ci si fa una posizione, come dice lo zio Donato.
Non è stato così.
Un improvviso aumento delle tasse universitarie adottato senza consultare gli organi rappresentativi degli studenti dà l’avvio alla protesta che covava nell’aria.
L’occupazione alla Cattolica: una cosa impensabile!
Eppure è accaduto che un manipolo di giovani studenti che non sapevano, per la maggior parte, che avrebbero dato vita al 68 si siano trovati a protestare contro l’aumento delle tasse nell’Aula Magna.
Erano convinti che a fermarsi una notte nell’Università con una occupazione simbolica ( da nulla!) l’avrebbero spuntata e avrebbero ottenuto la immediata revoca della disposizione.
Il Rettore, invece, non ci pensato su due volte ed ha chiamato i questurini per lo sgombero dell’Aula Magna identificando gli occupanti e portandoli fuori a braccia.
Manco a dirlo gli amici del S. Marco ci sono tutti, salvo io che sono ricoverato in Ospedale.
Il caso ha voluto che io non sia stato presente nel momento più caldo dell’occupazione dell’Università.
Forse sarei diventato un contestatore sfegatato come alcuni amici fermati dalla polizia mentre occupano l’Università.
La storia influisce, senza che tu te ne accorga, nei tuoi comportamenti futuri.
Sei un marionetta appesa ai fili dello svolgersi degli eventi.
Ho approfittato del periodo, relativamente calmo per lo studio, dell’inizio dell’anno accademico per farmi operare alle tonsille.
Mentre me ne sto ricoverato all’Ospedale a Venezia ho notizia dell’occupazione che dà l’inizio al 1968.
Capanna, Pero, De Lillo sono tutti studenti modello con un libretto stracolmo di centodieci e lode.
Alloggiano tutti nei Collegi universitari.
Franceschini è il rettore che deve gestire questa situazione incomprensibile per una Università privata e soprattutto cattolica dove la disciplina e il principio di autorità sono imprescindibili.
Le scuole cattoliche sono famose.
Lì non si sciopera.
Chi vuole scioperare va in altre Facoltà.
Quella occupazione ha spiazzato tutti.
Forse quelli che si sono trovati più a disagio sono quegli occupanti che sono rimasti stupiti della conclusione con tanto di sgombero da parte della forza pubblica.
L’identificazione da parte della polizia di tutti coloro che hanno partecipato all’azione in vista di provvedimenti repressivi ha scioccato la maggior parte di quegli improvvisati rivoluzionari.
Quelli che si sono fatti convincere ad occupare sono preoccupatissimi
Pensano, infatti, che sia solo una questione di una legittima protesta per un aumento di tasse e si meravigliano di questa reazione spropositata, inimmaginabile.
I motivi più profondi della contestazione al sistema borghese e alla struttura piramidale dell’Università sono noti solo ad una minoranza.
Il rischio è quello di un’espulsione.
Un dramma per gli amici del San Marco; forse devono cercarsi un altro alloggio.
“Chi lo racconta a mio padre se mi cacciano dal Collegio” mormora Giampaolo disperato “quello mi fucila”.
Hanno occupato ma non hanno capito fino in fondo i motivi di questa occupazione.
 “Dove andremo?” si interroga Max.
Fortunatamente Franceschini è un pezzo di pane; si rende conto che non può colpire con provvedimenti drastici i suoi studenti che hanno sì agito con grande leggerezza, ma che in fondo sono dei bravi ragazzi.
L’espulsione è riservata a coloro che hanno diretto le operazioni portando abilmente l’assemblea ad approvare l’occupazione.
L’espulsione di Capanna è un duro colpo ai contestatori, anche se Franceschini lo aiuterà, pur non condividendo le sue idee, a proseguire gli studi alla Statale.
La linea dura è successivamente perseguita dal nuovo rettore Lazzati.
I collegi universitari vengono chiusi.
Gli studenti dei collegi, le menti pensanti della Università, quelli che, percentualmente, riportano medie altissime per potere sopravvivere alla selezione del presalario vengono allontanati.
Loro, proprio loro, hanno fornito supporto logistico agli occupanti nelle ore tarde quando le assemblee sono meno numerose e le votazioni sono effettuate da poche persone che si conoscono e si sa come votano.
Il trasferimento dei collegi in zone più decentrate garantisce il ritorno alla normalità.


















3.     Capitolo. Gio.


Max, una giovane matricola di Lettere del S. Marco, gira per l’Università accompagnato sempre da un gruppo di studentesse della sua Facoltà.
Le matricole di Giurisprudenza sono per la maggior parte maschi.
Devo dire che sono invidioso.
Nel gruppo, in particolare, spicca una ragazza vestita sempre di verde.
Indossa una gonna verde, una camicia verde,  un maglione verde e per finire una pelliccia di foca tinta di verde.
Lei è veramente carina con i suoi occhi verdi e i capelli rosso-ramato.
I capelli sono foltissimi divisi da una leggera riga in mezzo; una pettinatura selvaggia e nel contempo ordinata che incornicia un viso sottile e delicato.
L’incarnato è chiaro con leggere efelidi.
Non un filo di trucco.
A Max ho fatto vedere i sorci verdi durante i ludi.
Ho pensato che quel suo assentire alle nostre aberranti indicazioni sia una presa in giro.
La cosa mi fa girare il cappello – quello blu notte della facoltà di giurisprudenza – e quindi giù docce.
Per questo la matricola vendicativa non mi vuole assolutamente presentare le sue amiche.
Evidentemente ignora i precetti evangelici che invocano il perdono per le offese ricevute.
Provo una tattica di accerchiamento cercando di convincere un altro amico del gruppo delle studentesse di lettere a me solidale.
Publio è l’amico del S. Marco che frequenta il gruppo di Max. Non può rifiutarmi un piacere.
Convinco Publio ad organizzare una serata per uscire tutti assieme.
Il loro gruppo più qualche amico del S. Marco.
Andiamo al Souk. Il locale da ballo più frequentato dagli universitari.
Conosco finalmente Gio.
“Voi anziani cosa avete fatto a Max. E’ letteralmente terrorizzato quando vi vede” mi dice.
Parliamo tutta la sera di Max.
Io tento di spiegare che in realtà siamo amici e che si tratta di un equivoco: lui non ha capito lo spirito dei ludi.
E’ stata una serata interlocutoria.
Sicuramente la conoscenza di quella ragazza ha lasciato il segno, non riesco a valutare però fino a che punto.
Non so cosa sia esattamente il colpo di fulmine, ma so per certo che voglio rivedere Gio domani e poi ancora il giorno dopo e poi ancora il giorno dopo ancora.
Perché?
Semplice perché la amo.
E’ dolce come un pus pus.
Dire ti amo ad una persona per me è una cosa estremamente difficile e complicata.
Non sono stato abituato a volere bene nel senso che nessuno mi ha insegnato ad amare.
E’ difficile amare se hai vissuto situazioni emotivamente difficili dove è più naturale porsi in guardia, in una situazione di difesa, piuttosto che in un atteggiamento di abbandono o di fiducia.
Ma cos’è l’amore?
Non me lo sono mai chiesto prima d’ora perché ho sempre vissuto questo sentimento in maniera istintiva senza pormi alcuna domanda ma seguendo semplicemente il cuore.
Sono come tutti gli emotivi: prima seguono i loro impulsi e poi, dopo qualche tempo, si chiedono il perché dei loro comportamenti senza, però, avere rimpianti.
Chiedersi se si è fatto bene e male non è rinnegare quello che si è fatto
Volere bene ammette eccezioni o ripensamenti?
Bisogna volere bene e basta.
Certo devi  trovare qualcuno che corrisponda al tuo sentimento.
Il volere bene è un valore troppo importante per essere volgarizzato o minimizzato.
Il voler bene è complicità, è fare le cose insieme, condividere ansie, dolcezze e segreti.
Gli sguardi, le attenzioni, la ricerca quotidiana dell’altro che ti coinvolge in ogni cosa che fa, che dice e che pensa.
C’è la possibilità che l’altro non condivida il tuo sentimento, non lo percepisca o semplicemente non sia in sintonia o che abbia dei dubbi.
Allora tutto sembra estremamente complicato, incerto, difficile, il tempo sembra non trascorrere mai e si perde la gioia di vivere.



















4.     Capitolo. La contestazione.


Sono segretario dell’Intesa Universitaria.
Non ho capito ancora oggi perché ho accettato quella carica.
Mi hanno convinto che è un dovere, per un fagiolo dei collegi universitari, accettare.
Il momento difficilissimo e nessuno è disposto a metterci la faccia.
Io non sono impegnato.
Non frequento movimenti od associazioni. Sono al di fuori della politica per vocazione e per tradizione familiare.
Mio padre non ha mai voluto partecipare attivamente ad una formazione politica.
La sua esperienza militare fra fascisti e partigiani la riassume con la frase:
Mi contentavo tutti, aiutavo tutti; cusì i me lasava star.”
Io non ho proprio idea di cosa voglia significare l’impegno in politica.
So solo che l’Intesa raggruppa il maggior numero di studenti universitari in Cattolica.
Sono completamente ignaro, però, della sua linea politica, dei suoi rapporti con gli altri partiti universitari, di quale strategia adottare in un momento così delicato dove tutti cercano di fuggire da eventuali responsabilità.
Come spesso capita in politica sono strumentalizzato da altri che vogliono riservare la loro candidatura per tempi migliori.
Gli amici insistono.
Accetto senza entusiasmo con l’assicurazione menzognera che è un incarico compatibile con lo studio.
Sono veramente uno sprovveduto.
Non so che la politica è un’arte che richiede una grandissima ambizione e una notevole  voglia o di comandare.
Bisogna essere disponibili sempre, ma, soprattutto, ci vuole una precisa strategia, avere dei contatti, sapere cosa si vuole raggiungere e potere contare su degli amici che alle assemblee non ti lascino solo e che ti possano supportare con il loro voto.
Io sono qui per studiare e farmi una posizione, come dice lo zio Donato.
Come segretario dell’intesa non ho riscosso - come dalle premesse è logico prevedere - un grosso successo.
C’è un tizio che tira le fila della mia segreteria.
Forse adesso è diventato senatore, sicuramente professore universitario.
Lui è molto più bravo di me a fare politica, a dire la frase giusta, a raccontare i fatti della contestazione, ad interpretarli, a trarre una linea politica, a fare promesse, a garantire sostegno, soprattutto a spingere un povero ingenuo a prendersi un sacco di insolenze durante le assemblee.
Sono anni difficili.
La contestazione è alle porte.
La Questura vigila sulle manifestazioni.
Largo Agostino Gemelli è teatro di cariche della polizia sugli studenti che manifestano.
In questo clima dove il fumo dei lacrimogeni fa da contorno alle riunioni non è facile gestire le assemblee infuocate dell’Intesa dove tutti urlano e se la prendono col segretario.
E’ un’impresa per me disperata.
Fortunatamente non persevero diabolicamente nell’errore. Pendo la scusa d’ipotetici problemi a casa per dare le dimissioni.
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Sono davanti alla vetrina di Figini a guardare i nuovi arrivi.
Quelle scarpe nere, massicce, vistosamente luccicanti , spendenti nelle luci della vetrina e soprattutto molto,  molto inglesi mi piacciono da morire.
Ho deciso di comperarle con l’ultimo mensile appena arrivato da casa.
Sto aspettando Clint che come al solito è in ritardo.
Come fare a meno del mio consulente, novello arbiter elegantiarum?
Il negozio ha le vetrine illuminate le scarpe sono lì in bella mostra.
La gente cammina tranquilla alla ricerca dell’acquisto.
E’ la vita  normale della città di sempre.
Ho fatto il solito percorso che, attraverso un dedalo di stradine della vecchia Milano, portano dalla Cattolica, passando per la Posta, al Duomo.
La città è tranquilla, come al solito. Sento d’improvviso il rumore sordo di una esplosione
Dopo avere rinunciato all’acquisto mi dirigo verso la Piazza del Duomo.
Quando giungo sotto le vetrine di Galtrucco percepisco una maggiore agitazione.
Noto dei gruppi di persone che si stanno portando, in preda ad uno strano fermento, verso il Palazzo Reale.
Penso sia una manifestazione culturale ad attirare tanta attenzione; mi dirigo verso quella direzione.
La concitazione aumenta gradualmente mentre mi sposto.
Comincio a vedere delle luci lampeggianti: sono macchine della polizia e della Croce Rossa.
“Ci sono stati feriti” mi dice una signora che trascina via lontano da quel posto pericoloso una bambinetta bionda che, invece, vuole curiosare fra le macchine della polizia.
“C’è stato un incidente stradale?” chiedo.
“No!” mi risponde decisa una anziana signora che con fatica, appoggiandosi al suo bastone, cerca di avanzare velocemente per giungere in tempo per vedere che cosa è successo.
“C’è stato un attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. Hanno ammazzato sedici persone. Una strage.”
Non ci posso credere: un attentato in Italia! ma chi può essere stato? e per conto di chi?
Queste domande se le sono poste migliaia di persone.
Sono quelle che ho incontrato nella manifestazione il giorno dopo.
Ognuno ha una sua risposta ognuno individua un nemico dello Stato.
“E’ stata l’estrema destra”.
“E’ stata l’estrema sinistra”.
L’importante è che la gente sia scesa in piazza a dire: basta attentati, basta stragi.
Non ci facciamo intimidire da nessuno.
I manifestanti sono, nonostante qualche distinguo, per la legalità.
La mobilitazione, con una numerosa presenza dei milanesi, ha evitato ulteriori sbandamenti e tensioni.
L’importante è proteggere il sistema democratico e le sue istituzioni da strategie che mirano a spostare, attraverso la violenza, l’asse politico del paese.
La giustizia farà luce sui colpevoli?
Il gioco è intricato.
E’ stato l’anarchico Valpreda l’attentatore?
Sono stati i neofascisti Freda e Ventura?
Che ruolo ha avuto il colonnello La Bruna dei servizi segreti nella vicenda?
Il commissario Juliano può risolvere l’intrigo?
E’ il mistero del gioco dei potenti che ti fanno credere quello che vogliono per mantenere il controllo sui centri decisionali e sulle poltrone che contano.
Una volta giocavano con le spade.
I potenti per affermare la loro autorità sgozzavano gli avversari.
Oggi i nuovi satrapi si divertono con la dinamite e per imporsi usano strategie più complicate ammazzando degli innocenti che non sanno neanche perché sono stati sacrificati.
I potenti sono uomini spietati che non si fermano davanti a niente.
La strage di Piazza Fontana vuole suscitare delle reazioni contro un ipotetico estremismo opportunamente creato criptandone la matrice?
La manovra fortunatamente non ha portato a soluzioni autoritarie.
Il gioco del potere forte che vuol rafforzarsi usando il sistema della paura è noto.
Si vuole spingere la gente a legittimare svolte autoritarie per garantire la propria sicurezza.
Il tentativo è risultato perdente grazie alla decisa presa di posizione di chi non accetta attentati alla democrazia e non ha paura.
















5.     Capitolo. Una cena romantica.


Il periodo relativo all’ultima sessione di esami l’ho dovuto trascorrere fuori dal collegio perché la permanenza massima è fino al quarto anno di corso.
Così a novembre, con l’inizio delle lezioni, ho cercato una nuova sistemazione.
Ho trovato casa con Roberto un ragazzone alto e robusto dal naso importante che parla con un accento che tradisce le sue origini  trentine.
La nostra ospite è una arzilla vecchietta un po’ sdentata, molto folk, detta familiarmente sfigatella nostra .
Per arrotondare la magra pensione, affitta una stanza a due letti agli studenti in una mansarda sotto i tetti.
Molto bohemien!
Per me va benissimo secondo il famoso motto meglio un tugurio in centro che una villa in periferia.
La stanza dell’appartamento ha il gran pregio di essere a due passi dall’Università.
A mezzogiorno la mensa è ancora gradevole, c’è molta gente.
La sera, invece, l’Università si spopola perché la massa degli studenti è ritornata a casa.
Si fa strada un po’ di malinconia perciò quando è possibile, ossia quasi sempre, chiedo ospitalità a Gio e alle sue amiche.
A cena da Gio non si mangia gran che, ma è sempre bello ritrovarsi con altri universitari.
Vive con tre amiche vicino alla chiesa delle Grazie.
Naturalmente non siamo mai andati a visitare l’ultima cena, perché per ammirare i monumenti troppi vicini non si ha mai tempo o, meglio, ci si va domani.
Hanno la precedenza le meraviglie lontane migliaia di chilometri dalla patria dell’arte e della cultura.
Le tre amiche sono anch’esse tre Grazie di simpatia nei confronti dei giovani amici universitari.
Silvia è la più alta, mora e carina è l’amica più cara di Gio.
Claudia è una biondina fragile, ma determinata.
Eleonora è una svizzera dai lunghi capelli neri, dura ed inflessibile è quella che detta i ritmi per uno studio determinato. Non devo essergli molto simpatico.
E’stata una fortuna perché così ho evitato di partecipare ad una festa noiosissima nel Canton Ticino
Sono tutte e tre studentesse di Lettere classiche destinate ad un futuro di insegnamento.
Quella sera ho preparato una deliziosa pasta con i bisi.
Non ci sono in casa i risi da cucinare con i bisi così ho provveduto con la pasta.
Cucinare è un'arte non si può improvvisare.
Ho voluto provare ugualmente basandomi su quello che ho visto fare a mia madre.
Per fare la pasta coi bisi non basta, però, mettere la pasta ed i bisi sul fuoco.
Ci vuole il soffritto, magari bisogna preparare un po’ di brodo vegetale.
Se non si sa nulla di cucina è meglio documentarsi con qualche libro semplice di ricette.
Bisogna mettere insieme gli ingredienti con la giusta scansione.
Non si può mettere tutto sul fuoco contemporaneamente!
Nonostante la minestra sia insapore ha avuto un successo insperato.
C’è gradito commensale Scott Mec Kenzi da Pozzanca che per risparmiare invece di venire in mensa con noi è da una settimana che si prepara lui il desinare.
Scott ha il colorito pallido di chi per non soffrire il digiuno si fuma un pacchetto di sigarette al giorno.
Mangia pane e fagioli in scatola, in compenso col risparmio realizzato fuma come un turco.
E’ svenuto dalla fame mentre in salotto la minestra sta cucinando.
Per fortuna oltre al primo c’è anche una patata lessa, l’ultima di quelle cucinate per la cena della sera prima, a dargli un po’ di calorie.
Non sa resistere alla pasta coi bisi, una vera leccornia per lui, e continua a chiedere il bis.
Iudica a me deo è molto più distinto.
Lui consuma tutti i pasti in mensa e si accontenta di un solo piatto di minestra.
Per fortuna che sono arrivati Publio e il Nero.
Publio ha appena ricevuto il mensile e come il solito si prodiga per finirlo nei primi quindici giorni del mese.
Ha acquistato da Peck una scelta di formaggi francesi che ha suscitato l’entusiasmo dei commensali.
Non hanno lasciato neppure la crosta.
Il Nero è un sardo facilmente  riconoscibile per la pronuncia allungata delle vocali. La sua carnagione è scura. Viene da un paesino della costa ovest. Studia lettere classiche.
Molto attaccato alla sua terra ha portato una forma di pecorino e degli squisiti dolcetti di pasta di mandorle (insuperabili!) che sua madre gli ha affidato.
I sapori della sua terra sono un forte legame culinario che tenta di esorcizzare una sua possibile fuga verso il continente.
Il fuoco della contestazione si è spento, le tensioni si sono placate.
Sono tornati i ritmi della vita universitaria di sempre.
Le preoccupazioni per gli esami sono al centro di ogni discorso.
“Io devo dare Filologia romanza” incomincia Silvia.
“Ho la prova scritta di greco” segue il Nero.
“Non capisco un benamato cavolo del testo di civile biennale” prosegue Scott Mec Kenzi da Pozzanca
“E’ l’ultimo esame che mi manca per potermi laureare”.
Scott ha persino contattato l’assistente di cattedra per farsi spiegare l’arcano di quella monografia intricata che spazia fra storia del diritto e l’esame degli istituti giuridici previsti dall’attuale normativa.
L’autore che dovrebbe interpretare e chiarire il significato delle norme è riuscito nel difficile intento di rendere la sua trattazione molto più complessa dello stesso testo degli articoli.
“Magari lo fanno presidente della Corte costituzionale per quella monografia” sorride Iudica.
Persino l’assistente ha confessato di non capire nulla (neppure lui!) di quel libro e gli ha suggerito di tornare per consentirgli un approfondimento.
“Ma vai a parlare col professore” gli suggerisce Publio “vedrai che riesci a trovare la soluzione magari ti fa cambiare programma.”
Piccoli problemi rispetto a quelli che la vita ci riserva ma che sono grandi problemi per noi in questo periodo felice e spensierato degli studi universitari.

6.     Capitolo. L’assistente spirituale.


L’assistente spirituale del Collegio è uno psicologo che mi affascina con i suoi test.
Ti fa disegnare degli alberi su di un foglio bianco ed a seconda di come li disegni sa trarre delle informazioni importanti sul tuo carattere.
Decidiamo con Gio di andare a sottoporci alla prova per conoscerci meglio.
A dire la verità ho una sorta di pudore a svelare a qualcuno i miei segreti più intimi.
L’assistente li avrebbe sicuramente scoperti.
Io disegno un albero spoglio con i rami ritti.
Il tronco è piantato sul terreno senza radici.
Gli stecchi sembrano braccia alzate imploranti.
Gio disegna un albero armonioso.
Le radici sono ben infisse nel terreno.
I rami scompaiono nascosti da una rigoglioso tripudio di foglie.
Caro don sei davvero bravo a fare dei test e a dare delle spiegazioni convincenti.
L’esperimento che indovina la forza del grande amore, però, non l’hai ancora scoperto.
L’assistente spirituale pensa che la mia amicizia con Gio sia destinata a non durare.
Lui pensa che apparteniamo a due mondi diversi.
Sono due mondi che secondo lui non si possono incontrare.
Sa che Gio è figlia di un noto professionista che gode dei privilegi acquisiti con la sua carriera.
Non ignora che io appartengo alla piccola borghesia che ha il maggior capitale nella voglia di fare.
Forse ritiene inaccettabile la mia situazione familiare.
Ritiene impossibile il nostro legame poiché le posizioni sociali sono differenti.
Sembra di vivere ai tempi di Giulietta e Romeo.
Le sue opinioni contrarie alle mie non mi hanno né spaventato né distolto dal mio obiettivo di conquistare Gio.
Le sue idee, leggermente reazionarie, anche se supportate da buoni motivi, non hanno mai incrinato la mia stima. Semplicemente non le condivido.
E’ una persona sicuramente positiva e punto di riferimento per molti giovani universitari.
La religiosità esplode fortissima in occasione della prossima Pasqua.
Memore degli insegnamenti avuti al liceo chiedo al don di partecipare agli esercizi spirituali che l’Università ha organizzato ad Assisi.
Vuole venire anche Gio e partiamo, avuto l’assenso dal don, con altri compagni di collegio.
Il respiro di Assisi mi coinvolge con la sua quiete.
Novelli pellegrini ripercorriamo i luoghi vissuti da S. Francesco e da Santa Chiara.
Il silenzio e la luce, che in Umbria sembra più tersa e più pulita, fanno bene all’anima.



7.     Capitolo. Lo cunto della rosa


I milanesi lavorano duro tutta la settimana ma il week end lo vogliono trascorre al mare o ai monti.
La città che ci entusiasma durante i giorni di lavoro diventa dura da sopportare nel fine settimana.
Anch’io amo questa abitudine.
Una delle mie gite preferite è passare il fine settimana a Pradeccolo.
Un amico notaio concede a Franco un amico di Milano simpatico e amante della compagnia e delle passeggiate in montagna l’uso di una baita arrampicata su un crinale nei pressi del confine svizzero dalle parti del lago di Luino.
La costruzione sorge isolata nel centro di una raduna.
C’è solo un alberghetto ad un centinaio di metri.
L’arredamento è molto spartano; tutto è ridotto all’essenziale; non c’è neppure l’acqua corrente.
Ci dividiamo i compiti.
Io mi occupo della preparazione dei pasti pur non sapendo cucinare.
Non mi va di lavare i piatti e preferisco cimentarmi ai fornelli.
Penso che per cuocere le vivande non sia necessario conoscere le ricette, ma avere della fantasia e seguire il tuo gusto.
Fare da mangiare è uno dei divertimenti della vacanza.
La gita giornaliera sui monti circostanti rende necessariamente il pasto di mezzogiorno molto frugale.
Alla sera la cena è diventata un rito.
L’importante è non avere come commensali dei buongustai e abbondare nella spesa: pasta, pomodoro, costate di cavallo e pecorino.
Franco mangia di tutto senza protestare.
Viva la dieta mediterranea.
C’è da scegliere il vino.
Abbiamo scoperto dei fiaschi di vino che il nostro ospite conserva gelosamente nella cantina di casa.
Ne assaggiamo uno e scopriamo che il suo abboccato è sicuramente più gradevole del vino che compriamo al supermercato.
Con quel vino anche i piatti più scadenti acquistano un sapore particolare.
E’ come avere un brutto quadro in una bella cornice.
Il quadro sicuramente diventa automaticamente più interessante.
Franco è destinato, nella divisione dei compiti, a lavare i piatti.
Non si lamenta, è contento del suo ruolo perché preferisce aspettare il pranzo leggendo un buon libro di storia; il giornale è un lusso dato che la rivendita è distante una decina di chilometri.
Si fa la vita dei montanari conservando gran parte delle abitudini cittadine.
Sveglia alle ore nove poi su sulle montagne. Pradeccolo rappresenta tutto il contrario della metropoli milanese.
Per noi è un tuffo nella natura fuori dal frastuono di Milano. Nella metropoli non cresce più l’erba. C’è  poca natura e tanto cemento. Tanta gente dappertutto ti soffoca; soprattutto manca il silenzio.
Camminare è impossibile.
Troppe macchine invadono le periferie e il centro dotato di pochissime zone pedonali.
Il rumore del traffico ti penetra nel cervello.
I parchi sono pochi e affollati.
A Pradeccolo, invece, le montagne sono lì a due passi fuori di casa.
Non sono cime molto alte, ma i pendii sono di un verde riposante.
Franco è un montanaro, conosce i sentieri, ha un passo sicuro.
Io seguo a ruota, ma ho una resistenza più limitata.
I sentieri sono quelli utilizzati dagli spalloni per il contrabbando di sigarette e per trasportare in Svizzera i denari che non possono transitare legalmente tramite banca per le restrizioni valutarie.
E’ vietato, infatti, trasportare liberamente i capitali all’estero.
Quel giorno di maggio l'aria è profumata.
Le viole sono spuntate.
Faccio in fretta a raccoglierne un mazzetto perché ce ne sono dappertutto.
Le ho prese per darle a Gio che è venuta con noi.
Sono ispirato e compongo di getto una poesia.
“Dolce i capelli al vento lasciava
coll’occhio mirando se io la guardava
vedendo che incerto muovevo i miei passi
gli occhiali mi tolse ancor pria che parlassi.
Qual incerta farfalla
si posa sul fiore
fidando soltanto sul di lui colore
alla scaltra fanciulla dai rossi capelli
un bacio le diedi dicendo oh quelli?
Felice la bimba sorride all’anello
che il tempo promette già bello.”
Ripongo le viole in un bicchiere colorato che è l’unico recipiente un po’ carino.
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Quel giorno di maggio la sveglia è suonata stranamente di buon ora perché di solito si dorme ad oltranza.
Siamo o non siamo venuti qui per rilassarci?
Oggi arrivano Diana e Sergio due cari amici di Milano e tutto deve essere in ordine.
Diana è un’entusiasta della vita sempre con mille idee e con tanta voglia di vedere persone e scambiare esperienze.
Gli occhi sempre sorridenti e comunicativi ispiratrice di cene, di giochi e di progetti di vacanza tutto per stare insieme in serenità.
Parla sempre di cinema e di teatro, che è la sua vera passione.
Ad uno che se ne intende poco sembra più competente di un critico.
Chissà se farà l’attrice?
Sergio ha il viso tranquillo incorniciato da una barba curata. E’ un industriale rampante che sa il fatto suo.
Gli occhiali contribuiscono a dargli un’espressione riflessiva.
E’ il suo fedele compagno sempre pronto ad assecondarla nelle sue mille idee e proposte soprattutto in questi momenti così delicati.
Diana ha, infatti, un grosso pancione e si rilassa in un albergo lì vicino dove, dice, si mangia benissimo.
Parla del figlio che porta un grembo, sente che sarà un grande musicista.
Da buona pianificatrice, nata sotto il segno dei gemelli Diana prevede: “Sarà maschio, lo chiamerò Riccardo,
gli racconterò lo cunto della rosa.
“…..Il bisnonno (di Riccardo), professore in lettere, da poco trascorsa l’unità d’Italia, s’era imbarcato per la Sicilia per un incarico di insegnamento; già da qualche tempo aveva preso alloggio nel paese quando una sera, passeggiando per le vie odorose di fiori e di cibo, indugiò lo sguardo su un balcone e la vide e la fissò per un interminabile respiro.
Lei s’accorse e ricambiò il dono dello sguardo nascondendosi tra i capelli d’arancio e melograno; lui non esitò e, come accade in quegli istanti in cui la vita ti prende per mano, colse una rosa e la gettò sul balcone.
Poi la notte ed il pudore li divisero.
Ti chiederai se il nonno fosse un po’ ingenuo o se attendesse solo questo momento.
Vero è che in Sicilia, a metà dell’ottocento, un simile affronto poteva forse essere perdonato a un picciotto, ma non certo ad un uomo a un professore!
Così la mattina seguente – proprio come nei romanzi veristi che spiegava a lezione – i fratelli gli fecero visita e gli consegnarono l’avvertimento: “O ta mariti o tinni vai.
La vita che è spesso così misteriosa posò gli occhi sul suo futuro e lo prese per mano….”
Riccardo, nipote memore della storia tramandata, ringrazierà l’amorosa rosa ad ogni compleanno della sua mamma adorata.
Sono belle quelle giornate in cui non si programma nulla ed il solo piacere è quello di stare con le persone che amiamo.
Detesto le novità.
La vita ne riserva sempre di continuo; anche dove sembra non cambi nulla tutto si trasforma in fretta senza che noi ce ne accorgiamo.
Ci sono sempre troppe sorprese che ti costringono a stare in guardia a mantenere alta la tensione.
E’ bello non pensare di fare nulla di nuovo, ma solo di godere del dolce far niente e del conversare di cose di poco conto, ma non per questo meno importanti.
Quando sei con le persone che ami ti basta solo la loro presenza per essere felice.






8.     Capitolo. La cinquecento grigio topo.


Franco ha una cinquecento grigio topo che ha acquistato di seconda mano. Dice che la vuole dare in permuta.
Per lui è giunto il sospirato momento di acquistare la prima macchina nuova fiammante.
La vecchia Fiat è oramai sfruttata inverosimilmente dai precedenti proprietari.
A me, che nulla capisco di motori, sembra, invece, un’occasione da non perdere.
E’ quello che posso permettermi dopo una lunga trattativa in famiglia.
Cosa ti te ne fa de na machina a Venezia?” dice lo zio Donato.
Non è possibile convincere chi non vuole sentire ragioni.
Tuti ga na machina la vogio ancha mi!” rispondo determinato.
Lo zio sa che ho appena superato l’esame per la patente di guida e non se la sente di ribattere alla mia convincente logica.
Il ragionamento è semplice se non compro una macchina a Venezia ho scarse occasioni di guidare per cui la patente è stata conquistata per niente.
Per fortuna non sa che ho rischiato un frontale per non avere dato la precedenza alla prova per il rilascio della patente scatenando l’ira del Commissario della Motorizzazione.
Alla seconda prova non ho nessuno che accampava diritti inesistenti di precedenza così sono riuscito a convincere l’esaminatore dei miei sicuri progressi.
Mi sento un grande alla guida per le strade convulse di Milano di una macchina di terza mano.
Sono in realtà un pericolo pubblico.
La partenza è scoppiettante.
Ad inserire la prima da fermo non ci sono troppe difficoltà.
Innesto lesto la seconda.
A tal punto bisogna concentrarsi perché  ci vuole una accelerata per fare la doppietta e indi cambiare ingranando la terza.
Sono lanciato e con un’altra doppietta inserisco la quarta per raggiungere la velocità massima sulla circonvallazione.
Nel traffico convulso della metropoli sono sempre in corsia di sorpasso.
La velocità massima di cinquanta chilometri l’ora in città me lo consente.
Ci sono delle piccole contrarietà superabili dall’entusiasmo.
Rimango fermo quasi subito perché la batteria è priva d’acqua distillata, ma rimedio subito ed imperterrito continuo la mia attività di guida.
Invito Gio ad una gita sul lago di Como per provare la macchina in una trasferta un po’ più impegnativa.
E’ la prima volta che mi avventuro fuori dalla cerchia della circonvallazione cittadina.
Gio deve avere un coraggio da leone ad accettare quell’invito o è molto innamorata e non considera i rischi che corre.
La macchina va poco, ma c’è una grande allegria. C’è anche Eleonora col Nero che approfittano del passaggio.
“Falla andare questa macchina." dicono continuando a prendermi in giro.
Finalmente salgo su di uno svincolo ed in discesa posso lanciare la macchina a tutto gas.
Sono talmente entusiasta della velocità raggiunta che non mi accorgo del segnale stradale che fissa il limite di velocità a cinquanta l’ora.
La sfortuna si accanisce perché proprio quando sto provando l’ebbrezza della discesa una pattuglia della polizia stradale nascosta fra le frasche della statale mi ingiunge di fermarmi.
Di solito gli agenti non sono troppo benevoli con i giovani guidatori.
“Patente e libretto” chiedono garbatamente.
“Ma non si è accorto che c’è il limite di velocità sulle rampe in discesa?” domandano col tono di chi è intenzionato a non mollare la preda.
E’ la mia prima contestazione di una infrazione al codice della strada, devo abbozzare una difesa visto h sono un rampante giurista?
Per fortuna me ne sto assolutamente zitto.
Sono le ragazze che producono la difesa più brillante cercando di impietosire i duri cerberi.
“Sia buono signor agente; siamo giovani e squattrinati.” supplicano “Come può avere superato i limiti una macchina che non va neanche a spingerla?”
La difesa è convincente basata su un ragionamento logico che non fa una grinza.
A volte è necessario inoltrare una supplica invece di protestare.
 “Non è possibile multare per eccesso di velocità una macchina come questa” mi dicono sorridendo gli agenti che hanno mutato atteggiamento grazie alle mie postulanti.
I duri poliziotti mi hanno graziato.



















9.     Capitolo. L’allunaggio.


Gio è in vacanza a Milano Marittima, decido di andare a trascorrere lì il fine settimana.
Non mi è mai piaciuto avere rapporti telefonici se non per dire sto arrivando.
Perché sentirsi per telefono anonimamente senza guardarsi negli occhi?
Con una corsa in macchina puoi andare a vedere il tuo amore.
Ho la cinquecento parcheggiata sul Ponte della libertà esposta al rischio vandali, ma è difficile trovare un parcheggio al Garage Comunale; la domanda deve fare il suo corso..
Non mi resta che mettere in moto.
Se tengo schiacciato a tavoletta l’acceleratore, la cinquecento grigia fumo di Londra può toccare anche i centocinque di tachimetro.
Il motore fa un rumore infernale e il vento che irrompe dal finestrino abbassato contribuisce non poco ad aumentare il frastuono.
Sono felice!
Sta tento Nicheto ale machine” mi ha detto mia madre.
Ti ga paura de tuto. Ma mi vado in treno” gli ho risposto io mentendo per tranquillizzarla.
Non ci sono macchine, la statale è stranamente deserta ed io pigio a tavoletta l’acceleratore.
Una Fiat Millecento nera che è davanti a me mette la freccia per girare alla sua sinistra.
Continuando a premere l’acceleratore mi sposto a destra per superarla.
Il guidatore della Millecento ha in piena estate un cappello scuro calcato sul capo.
Non mi piacciono quelli che portano il cappello in macchina ritengo che non sappiano guidare e mi danno un senso di insicurezza, ma non ho il tempo necessario per prendere le mie precauzioni.
Il cappelluto viaggiatore per prendere meglio la curva e girare in una stradina laterale sita a sinistra si sposta improvvisamente a destra invadendo totalmente la mia carreggiata.
Sterzo improvvisamente sulla mia destra invadendo la corsia di emergenza fortunatamente non occupata da veicoli.
La sterzata brusca fa andare la macchina in testa coda e faccio due giri di valzer prima di fermarmi definitivamente nel centro della strada.
In quel momento la Romea, di solito invasa dal traffico degli autotreni, è miracolosamente deserta.
Riesco a spostarmi nella corsia di emergenza prima dell’arrivo di altre vetture.
Il mio angelo custode mi ha protetto ancora una volta.
Una signora dai capelli bianchi e l’aria serafica ha parcheggiato l’automobile accanto alla mia per soccorrermi.
Come ea va?” mi chiede preoccupata.
 “Stago megio” sussurro ancora rastornato rassicurandola.
Ma se el xe bianco cadaverico” mi dice preoccupata.
Riparto. Devo arrivare al più presto a Milano Marittima dal mio amore.
Un piccolo contrattempo non può di certo fermarmi.
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I turisti della località di mare di solito pensano solo a prendere il sole ed a bagnarsi nell'acqua salata o a fare delle passeggiate all’ombra della pineta.
I pini marittimi coprono con un grande ombrello chi vuole ripararsi dai raggi cocenti del sole di luglio e non vuole arrostire sdraiato sul lettino.
Nelle ore più afose c’è un insolito movimento di persone: non si recano però alla spiaggia o nella pineta.
I mancati bagnanti si affrettano davanti alla televisione per accaparrarsi i posti in prima fila.
Tutti stanno aspettando un evento eccezionale:l’allunaggio.
Il sogno di Giulio Verne si avvera.
L’uomo partendo dalla terra è finalmente giunto sulla luna.
E’ il primo passo della scalata verso l’universo. “Gradatim conscendimus ad astra”.
C’è l’attesa di qualcosa che forse può cambiare il destino di tutti noi.
E’ la paura e l’attesa di scoprire un mondo sconosciuto che può essere amico o ostile.
E’ meglio avventurasi nel cosmo alla ricerca di nuovi mondi o pensare al nostro piccolo quotidiano su questa terra sempre più stretta?
E’ il 20 luglio 1969.
All'apice di una gara spaziale tra URSS e Stati Uniti d'America, ispirata dalla guerra fredda, è lanciata in orbita la navetta spaziale.
Il primo astronauta a camminare sulla superficie lunare è Neil Armstrong, comandante dell'Apollo 11.
Io sono lì attaccato alla televisione a guardare le fasi dello sbarco.
Provo una profonda emozione quando l'equipaggio dell'Apollo 11 lascia una targa per commemorare lo sbarco e fornire informazioni sulla visita ad ogni altro essere, umano o meno, che la trovi.
Sulla targa c'è scritto:
Here men from the Planet Earth first set foot upon the moon, July 1969, A.D. We came in peace for all mankind. (Qui, uomini dal pianeta Terra posero piede sulla Luna per la prima volta, Luglio 1969 DC Siamo venuti in pace, a nome di tutta l'umanità).












10.           Capitolo. Chi stima compera.


Pochi mesi dopo il compleanno che mi ha fatto passare nella maggiore età ricevo una telefonata dallo zio Bepi.
Adesso che ti xe grando xe megio divider el Tintoreto” mi propone.
In famiglia chiamiamo il Tintoretto la casa, prospiciente la fondamenta dei Mori, del nonno Angelo e della nonna Roma. Esposta ad ovest la facciata gode del privilegio di essere baciata dal sole per tutto il pomeriggio.
Non ho mai conosciuto i due nonni paterni dato che sono morti qualche anno prima della mia nascita per una mangiata di cozze infette.
Il tifo se li è portati via entrambi in un baleno.
Nonno Angelo doveva essere molto simpatico.
Il papà mi ha narrato che suonava la tromba nella banda municipale.
Secondo me, tutti i suonatori di tromba sono simpatici per definizione perché lo strumento a fiato ti mette allegria e voglia di vivere.
Faceva di professione l’albergatore o meglio prendeva in affitto degli alberghi di cui curava la gestione e poi li cedeva realizzando un buon utile secondo i racconti di mio padre.
Doveva essere un girovago di carattere perché con questo sistema cambiava spesso città.
Per questi continui traslochi mio padre era nato a Serina nel bergamasco.
Il nonno si deve essere stufato di girare quando la casa del Tintoretto era rimasta libera.
Aveva approfittato dell’occasione e si era trasferito a Venezia con tutta la famiglia.
Abitava al piano nobile, il secondo, affacciato sulla fondamenta dei Mori chiamata così perché impreziosita dal bassorilievo dei mori posti a guardia della riva, proprio all’angolo del palazzo, sulla sinistra guardando la facciata.
In queste statue la tradizione popolare riconosce i tre mercanti levantini della famiglia Mastelli.
Quello d’angolo è il Sior Antonio Rioba, per lungo tempo il Pasquino di Venezia, che diffondeva salaci punzecchiature contro i soprusi dei potenti.
Il nonno lavorava nella bottega de biadarol sita a confine col Campo che era di proprietà della famiglia di nonna Roma.
Era questa una bella signora alta, dall’aria austera, come risulta dalle foto.
Ricordava molto lo zio Bepi che doveva essere il suo figlio preferito.
I commerci andavano bene, tanto che il nonno aveva potuto rilevare l’intera proprietà dagli altri parenti.
L’intero palazzo era rimasto in comunione ai due fratelli.
I piani sono quattro; la divisione è semplice.
Vanno assegnati due piani a testa.
Un lotto comprende il primo ed il terzo piano, l’altro raggruppa il secondo e il quarto livello.
Lo zio mi propone di scegliere la porzione relativa al primo e al terzo piano perché quest’ultimo è stato diviso in due appartamenti ristrutturati di recente.
Ti pol ciapar un franco fitando” mi propone.
Io sono un po’ romantico e preferisco avere il lotto relativo al secondo e al quarto piano.
Il piano nobile, anche se non è diviso e non è ristrutturato, è quello dove ha abitato mio padre.
No se sa mai che ti trovi un quadro de Jacopo Robusti” mi confida lo zio Donato che partecipa alla trattativa come mio consulente.
Lo zio Bepi non si scompone: “ Va ben. Femo chi stima compra per decider” conclude.
Pur avendo superato l’esame di Istituzioni di diritto privato e di civile, che prevede un corso monografico sulla compravendita, ignoro il sistema detto chi stima compra.
Facilissimo” puntualizza lo zio Bepi ”chi offre di più se tien el pian che preferise”.
E’ il sistema della verità.
Chi offre afferma che il valore dichiarato è quello che è disposto a corrispondere per il bene desiderato.
E’ un principio elementare fissato nella pratica per risolvere in un minuto anche le divisioni più complesse che la giustizia risolve in qualche decennio.
La legge è fatta apposta per complicare le cose semplici.
Dai litigi  dei contendenti giudici, avvocati, periti traggono il loro sostentamento più che dignitoso.
Per accettare di risolvere la scelta divisionale col metodo del chi stima compera  bisogna esser un po’ giocatori d’azzardo o un po’ fatalisti o tutte e due le cose insieme o semplicemente saggi.
L’impegno è quello di corrispondere immediatamente la differenza di valore fra i due beni senza possibilità di cambiare idea.
Come tutti i contratti fra persone che si rispettano basta una stretta di mano.
Ci pensa poi il notaio a stipulare la divisione.
A colpi di offerte da centomila lire ci contendiamo il piano nobile.
Alla fine il mio desiderio di mantenere in proprietà l’appartamento dove è vissuto mio padre viene meno perché il possesso del lotto richiede un conguaglio di un milione e duecento mila lire che non sono in grado di sborsare.
Non si può avere tutto nella vita!
Se non puoi comprare l’unica soluzione ragionevole è vendere o accontentarsi del lotto di minor valore.











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