venerdì 13 luglio 2012

Misure per l'edilizia



L’art. 13, d.l. 83/2012,prova una ulteriore semplificazioni in materia di autorizzazioni e pareri per l'esercizio dell'attivita' edilizia.
Sembra che il legislatore dimentichi che la vera semplificazione è stata fatta nel 19990 con la l.241/1990.
La norma, art. 6, afferma che il responsabile del procedimento deve adottare ogni misura per l'adeguato e sollecito svolgimento dell'istruttoria.
Se ciò fosse eseguito con austriaca sollecitudine non ci sarebbe bisogno di semplificare alcunché
Oggi parlare con un responsabile del procedimento che pensa a tutto fuorché ad fare giungere ad approvazione la domanda serve solo a complicare pratiche già complicate.
L’unico scopo è cercare di fare pagare contributi non dovuti per rimpinguare le casse oltre quello che la norma prevede e se possibile sanzionare per aggiustare la produttività interna.
I grandi amministratori e i grandi manager intenti a conservare i loro privilegi di tutto ciò non si occupano.
Comunque il governo prova un ulteriore esercizio legislativo pensando, ma è il solo,  di raggiungere qualche risultato.
Il ritornello è il solito.
La norma consente di è possibile certificare  adempimenti di competenza dell’amministrazione. L'acquisizione di atti o pareri di organi o enti appositi, ovvero l'esecuzione di verifiche preventive, con la sola esclusione dei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici, sono comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di tecnici abilitati relative alla sussistenza dei requisiti e presupposti previsti dalla legge, dagli strumenti urbanistici approvati o adottati e dai regolamenti edilizi.
Ma quale professionista in un marasma urbanistico si prende la responsabilità di non farsi controllare prima di iniziare i lavori?
Nei comuni dove i controlli esistono nessuno.

Piano nazionale per le citta'




Il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti deve, ex art. 12, dl. 83/2012, predisporre un piano nazionale per le citta' dedicato alla riqualificazione di aree urbane con particolare riferimento a quelle degradate. 
A tal fine,con decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, e'istituita, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, la Cabina di regia del piano.
Questa cabina ha un compito oltre che di selezionare gli intereventi di recuperare risorse da parte di soggetti i cui rappresentati sono nominati membri della stessa Cabina quali la Cassa depositi e
prestiti, l'Associazione nazionale comuni italiani o
osservatori, quali i rappresentante del Fondo Investimenti per
l'Abitare (FIA), di CDP Investimenti SGR, dei Fondi di investimento istituiti dalla societa' di gestione del risparmio del Ministero dell'economia e delle finanze.
Si ritorna ai tempi del t.u del 1938 sulle case popolari quando i rappresentanti delle banche partecipavano al Consiglio di amministrazione dell’istituto autonomo case popolari ed i loro enti acquistavano quote del patrimonio degli stessi enti.
Teoricamente bellissimo questo progetto non dimentica che le competenze in materia edilizia sono state trasferite alle regioni.
Pertanto finanzia solo 240 milioni di euro per un quinquennio.
Se si pensa che con un milione di euro si fanno 7 alloggi è ben poca cosa.
Ci si consola con un programma straordinario di alloggi da destinare alle forze dell’ordine utilizzando precedenti finanziamenti non ancora utilizzati.
Sul finanziamento delle  strutture operative regionali per l’erp: le  Aziende per l’edilizia residenziale che vivono di finanziamenti regionali. Naturalmente non c’è nulla. Purtroppo per questi enti  i finanziamenti sono pochi e si limitano per lo più alla manutenzione straordinaria.
Il gap fra costi di nuovi interventi e reddito prodotto da un’utenza assistita sconsigliano interventi se non sono a totale carico dello Stato.
Il vero problema è quindi trovare contributi per sostenere i ceti medo abbienti favorendo intese per la realizzazione di alloggi a canone moderato rispetto al reddito.

lunedì 2 luglio 2012

Principi fondamentali per il governo del territorio. Nuovi disegni di legge con poche idee vincenti


Troppe idee in materia urbanistica e troppa frammentazione nella legislazione regionale che norma la materia in carenza di principi statali chiari e soprattutto in linea con i tempi.
Troppi costi per le pratiche e troppo pochi per gli investimenti.
Dopo un stop di molti mesi è ripreso in aprile 2012 in Commissione Ambiente della Camera l’esame dei disegni di legge in materia di governo del territorio e fiscalità urbanistica e immobiliare.
Si tratta dei disegni di legge 329 Mariani, 438 Lupi, 1794 Mantini e 3543 Morassut recanti “Principi fondamentali per il governo del territorio.
Il d.d.l. 3543 Morassut è l’ultimo ad essere stato presentato il 10.6.2010.
I disegni di legge sono riemersi nelle nebbie parlamentari ma sono sicuramente destinati ad essere accantonati .
Al centro della riforma è posto il principio della perequazione urbanistica, tema fondamentale del nuovo scenario della gestione del territorio, che trova il suo principale strumento attuativo nella compensazione. Tutto ciò anche alla luce della modifica dei criteri di determinazione dell’indennità di esproprio, avviata in seguito alle pronuncia della Corte Costituzionale .
L’impatto dei progetti sulle 20 leggi regionali è sicuramente tale da fare saltare i delicati equilibri che regolano le maggioranze parlamentari.
Il problema è che chi ha un appartamento con           questa  legislazione basata sul prelievo esagerato e sul terrorismo fiscale è costretto se non è sufficientemente supportato economicamente a svendere.
Che senso ha una  riforma urbanistica   se lo stok di invenduto e di appartamenti che i proprietari stanno cercando di vendere per disperazione non saranno ami assorbiti da un mercato senza l’ossigeno dei mutui fondiari.
Il problema centrale è quello del credito e non quello di aggiungere nuove norme statali di principio in un quadro farraginoso di norme regionali.
C’è qualcuno in parlamento che si ricorda le norma del piano decennale della casa?
Credito agevolato per i redditi più bassi che vogliono accedere al mercato immobiliare e norme certe sulle imposizioni senza minacce di patrimoniale ed aumenti delle rendite catastali. 

La responsabilità degli enti nella l. 231/2000 . Il modello di organizzazione.



 1.      La responsabilità degli enti nella l. 231/2000


Il d.lg. 8 giugno 2001 n. 231, in tema di responsabilità da reato degli enti, prevedendo un'autonoma responsabilità amministrativa dell'ente in caso di commissione, nel suo interesse o a suo vantaggio, di uno dei reati "presupposti" tassativamente indicati da parte di un soggetto che abbia agito in nome e per conto dell'ente, si basa sull'assunto che il reato "è fatto della società, di cui essa deve rispondere": la persona fisica che, nell'ambito delle proprie competenze societarie, agisce nell'interesse o a vantaggio dell'ente, opera, quindi, come organo e non come soggetto distinto rispetto all'ente; né la degenerazione di tale attività in illecito penale è di ostacolo all'immedesimazione. L'ente, quindi, risponde per fatto proprio, senza alcuna violazione del principio costituzionale del divieto di responsabilità penale per fatto altrui (art. 27 cost.).
Il D.Lvo n. 231 del 2001, nell'adeguare il nostro ordinamento ai principi comunitari, ha introdotto per la prima volta una responsabilità delle persone giuridiche con riferimento ad una serie di reati, in origine limitati ma successivamente ampliati a seguito di diversi interventi normativi. A tal proposito va dato atto che non si è ancora sopito il dibattito concernente la natura di una siffatta responsabilità, derivante anche da un dettato normativo che si muove a cavallo tra settori diversi del diritto ed avuto, comunque, riguardo anche alle difficoltà nel superamento del noto principio societas delinquere non potest.
Significativamente il legislatore, utilizzando una formula di "compromesso", ha qualificato tale responsabilità come "responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato".
V'è stato peraltro chi, nel tentativo di superare la vexata quaestio concernente proprio la configurabilità di una responsabilità penale delle persone giuridiche, ha affermato che la responsabilità riconosciuta in capo agli enti rappresenterebbe un tertium genus, ma comunque riconducibile ad un modello latu sensu criminale creato allo scopo di conciliare i principi del sistema penale con quelli del sistema amministrativo, nonché di contemperare le ragioni dell'efficacia preventiva con quelle, ancora più ineludibili, della massima garanzia delle prerogative della difesa (Cass. Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 27735, che ha rigettato l'eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 5 del decreto legislativo, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., in quanto la responsabilità dell'ente per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio non è una forma di responsabilità oggettiva, né per fatto altrui, essendo previsto necessariamente, per la sua configurabilità, la sussistenza della cosiddetta "colpa di organizzazione" della persona giuridica e considerato che il reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio da soggetti inseriti nella compagine della persona giuridica deve considerarsi tale in forza del rapporto di immedesimazione organica che lega i primi alla seconda). (G.i.p. Roma 7.2.2012).
L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:
a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).
L'ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi, art. 5, d.lg. 8 giugno 2001 n. 231,.
La giurisprudenza ha ravvisato che la legge non costruisce alcuna inammissibile ipotesi di responsabilità oggettiva, perché il sistema prevede la necessità che sussista la cosiddetta colpa di organizzazione dell'ente, basata sul non aver predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di uno dei reati presupposti: è il riscontro di tale deficit organizzativo che, quindi, consente l'imputazione all'ente dell'illecito penale realizzato nel suo ambito operativo. A tal proposito, grava certamente sull'accusa l'onere di dimostrare l'esistenza e l'accertamento dell'illecito penale presupposto in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa dell'ente e che questa abbia agito nell'interesse o a vantaggio dell'ente stesso. Da queste premesse, la Corte ha ritenuto manifestamente infondata la q.l.c. della disciplina dettata dal d.lg. n. 231 del 2001, sollevata, in riferimento agli art. 3, 24 e 27 cost.). Cassazione penale, sez. VI, 18/02/2010, n. 27735.
Il principio fissato dagli artt. 5 e 6 del D.Lgs. 8-6-2001 n. 231, dispone che i soggetti collettivi privati, con o senza personalità giuridica, sono responsabili sul piano amministrativo per i reati ( quali sono quelli in materia di rifiuti ed inquinamento, come ricorda la stessa parte ricorrente ) commessi nel suo interesse o a suo vantaggio, da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso. Si riafferma così, per via legislativa, la teoria del rapporto di immedesimazione organica del rappresentante nell'ente rappresentato ( Cass. pen., sez. VI, 18-2-2010, n. 27735 ).
Il rapporto fonda la sua origine in una giusta presunzione relativa, la quale può essere scalzata solo con la prova, da parte dello stesso ente, dell'adozione di misure organizzative e funzionali di precauzione, di controllo e di prudenza.
Nel caso di specie  il criterio di imputazione soggettiva della violazione degli obblighi di attivazione delle misure di precauzione in materia di rifiuti ( ma non solo ), trascende lo schermo della personalità giuridica e della soggettività collettiva, dietro la cui creazione ed oltre le cui vicende di vita si celi un unico centro decisionale e di interessi, secondo criteri sostanziali e di non apparenza di imputazione degli effetti dell'attività imprenditoriale, volendo seguire l'antica teoria dell'imprenditore occulto, ovvero secondo le regole della successione c.d. "economica", per le quali chi si avvantaggia di altrui scelte precedenti deve sopportarne anche il peso ( Corte di Giustizia delle Comunità europee 11.12.2007, in causa C-280/06; Cons. stato, sez. V, 5 dicembre 2008 , n. 6055).
Per converso, è onere dell'ente di provare, per contrastare gli elementi di accusa a suo carico, le condizioni liberatorie di segno contrario di cui all'art. 6 d.lg. n. 231 del 2001.
Se il reato è stato commesso dalle persone in posizione apicale, l'ente non risponde se prova che:
a) l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
b) il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;
c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;
d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di cui alla lettera b), art. 6, d.lg. 8 giugno 2001 n. 231.
Per l'effetto, non si realizza neppure alcuna violazione dei principi costituzionali relativi al principio di eguaglianza e all'esercizio del diritto di difesa (art. 3 e 24 cost.), perché non si determina alcuna inaccettabile inversione dell'onere della prova nella disciplina che regola la responsabilità dell'ente: grava comunque sull'accusa l'onere di dimostrare la commissione del reato da parte di persona che rivesta una delle qualità di cui all'art. 5 del decreto n. 231 del 2001 e la carente regolamentazione interna dell'ente, mentre quest'ultimo ha ampia facoltà di fornire prova liberatoria.
Nel caso di reato commesso da soggetti sottoposti all'altrui direzione  l'ente é responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza), art. 7, d.lg. 8 giugno 2001 n. 231.

2.      Il modello di organizzazione come esimente della responsabilità dell’ente.


In ogni caso, è esclusa l'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l'ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi. ), art. 7, d.lg. 8 giugno 2001 n. 231.
Il modello prevede, in relazione alla natura e alla dimensione dell'organizzazione nonché al tipo di attività svolta, misure idonee a garantire lo svolgimento dell'attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio.
La redazione di un modello di organizzazione implica una monitorizzazione costatne dell’attività dell’ente che deve incardinarsi in sistemi predisposti per lo svolgimento dell’atività trasparenti e verificabili da parte di un organismo terzo.
L'efficace attuazione del modello richiede:
a) una verifica periodica e l'eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell'organizzazione o nell'attività;
b) un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.
Nell'ambito dell'auto-organizzazione della società, all'Organismo di Vigilanza e Controllo ( OdV) è riservata una funzione centrale. L. Troyer e A. Ingrassia,Vi è una posizione di garanzia in capo ai membri dell'Organismo di Vigilanza? Spunti di riflessione, in Riv. dottori comm. 2008, 06, 1266.
Il ruolo dell'OdV emerge dalla costruzione normativa dell'esimente di responsabilità in capo all'ente in seguito a reato ex art. 6 d.lgs. n. 231/2001: la responsabilità è esclusa qualora l'ente, prima della consumazione dell'illecito penale, ad opera di un soggetto posto in posizione apicale, abbia adottato un modello organizzativo ed affidato il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli, nonché di curare il loro aggiornamento, ad un organismo dell'ente, con autonomi poteri di iniziativa e di controllo.
Ai fini della concessione dell'esimente, la consumazione del reato non deve dipendere dall'omessa o insufficiente vigilanza dell'OdV, ma da una condotta direttamente elusiva del modello ad opera del reo.
L’'OdV ha compiti di vigilanza sull'applicazione del modello, definibili compiti statici, e, dall'altro, di controllo sul funzionamento e sull'aggiornamento del modello stesso, attività definibili dinamiche.
Sono riconducibili ai compiti statici le verifiche periodiche, sia generali, ovvero inerenti l'applicazione del modello rispetto alle aree considerate sensibili in ordine alla possibile commissione di un illecito penale, sia speciali, cioè gli accertamenti relativi a presunte violazioni del modello.
Alle attività di tipo dinamico si riconducono il costante aggiornamento del modello, la sua integrazione, ove si riscontrino nuove aree sensibili oltre a quelle inizialmente considerate, nonché la verifica del costante flusso di informazioni tra gli organi societari, i soggetti apicali, i soggetti sottoposti all'altrui direzione e l'OdV.

Processo amministrativo. Impugnativa del silenzio. La fondatezza della pretesa sostanziale.


La dottrina si è posta il problema se il giudice amministrativo sia tenuto ad esaminare la legittimità del comportamento omissivo o se debba, invece, accertare l’obbligo a provvedere sulla domanda del privato all’amministrazione inadempiente. Centofanti N.,  Centofanti P. e Favagrossa M..Formulario del diritto amministrativo 2012, 229.
L’oggetto del giudizio è, in primo luogo, la dichiarazione di illegittimità del comportamento dell’amministrazione, in secondo luogo l’accertamento positivo o negativo dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere nella fattispecie portata in giudizio.
Un filone giurisprudenziale ritiene inammissibile che il giudizio sul silenzio contempli anche l’accertamento della legittimità della richiesta sostanziale del ricorrente.
L’art. 31, comma 3,  D.L.vo 2 luglio 2010, n.104 cod. proc. amm.,  ripropone la norma contenuta nella L. 80/2005, il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione.
La norma ha un effetto dirompente sull’obbligo alla decisione spostando l’esame direttamente dall'illegittimità del diniego al contenuto dell’istanza.
La dottrina ritiene che la norma affidi al giudice, che deve rilevare margini di esercizio di attività discrezionale da parte della p.a.,  compiti di amministrazione attiva in contrasto con quanto affermato dall’art. 34, comma 2, D.L.vo 104/2010, secondo il quale il giudice non può pronunciarsi su poteri amministrativi non ancora esercitati. O. FORLENZA, Individuate quattro azioni di cognizione contro la p.a., in Giuda Dir., 2010, n. 32, 48.
La disposizione comunque non fa altro che recepire un orientamento giurisprudenziale secondo il quale la norma dà la facoltà (ma non obbliga) a conoscere della fondatezza della pretesa, nei casi in cui lo stesso giudicante la ritenga facilmente valutabile.
Ciò accade, ad esempio, nelle ipotesi di manifesta fondatezza discendente dal carattere vincolato del provvedimento, che non postuli accertamenti valutativi complessi; ovvero, nei casi di evidente infondatezza, laddove risulta diseconomico condannare la p.a. a provvedere se l'atto espresso non potrà che essere di rigetto. T.A.R. Sicilia Catania, sez. I, 28 gennaio 2010, n. 135.
L'art. 31 comma 2, c.p.a disciplina l'azione di adempimento nel processo avverso il silenzio, che consente al privato di ottenere una sentenza di condanna dell'Amministrazione all'adozione del provvedimento richiesto. La disposizione condiziona, per evitare indebite ingerenze del giudice in valutazioni di esclusiva spettanza dell'Amministrazione, il legittimo esercizio dell'azione in esame alla ricorrenza di due alternativi presupposti, costituiti dalla sussistenza di un potere vincolato ovvero di un potere che, pur essendo nel complesso discrezionale, si connoti per avere, nella specie, l'Amministrazione procedente espresso il proprio giudizio valutativo residuando soltanto, in mancanza di adempimenti istruttori complessi da effettuare, lo svolgimento di attività regolamentare, in tutti i suoi aspetti, dalla legge
Nel caso di specie, non sussisteva alcun dubbio in ordine al fatto che il potere comunale fosse vincolato, dovendo l'Amministrazione limitare il proprio accertamento alla verifica dell'impiego da parte della controinteressata dell'insegna della croce verde, con la conseguenza che il contenuto della decisione ben poteva estendersi anche all'accertamento della fondatezza della pretesa azionata. T.A.R. Calabria Catanzaro, sez. I, 13/06/2011, n. 899
Per la giurisprudenza detta previsione non deve essere interpreta come imposizione dell'obbligo di provvedere in ogni caso sulla fondatezza dell'istanza, ma esclusivamente quale opzione rimessa al giudice che, alla luce della disciplina in materia di impugnazione del silenzio rifiuto, va circoscritta alle ipotesi di manifesta fondatezza o infondatezza della pretesa sostanziale azionata in giudizio.
L’interpretazione esclude tale opzione laddove l'amministrazione risulti titolare di un potere discrezionale rispetto al provvedimento preteso dall'istante.
Nel giudizio promosso avverso l'inerzia dell'Amministrazione è riservata la Giudice la valutazione in ordine al merito dell'istanza presupposta nel caso di manifesta fondatezza e nel caso di manifesta infondatezza della stessa (C.d.S. Sez. IV 12.3.2010 n. 1468)
Non ricorre alcun obbligo del Comune di provvedere sull'istanza e di procedere alla riqualificazione urbanistica dell'area  che risulti legittimamente e regolarmente tipizzate dal punto di vista urbanistico, con conseguente manifesta infondatezza dell'istanza e insussistenza dell'obbligo giuridico di provvedere.
T.A.R. Puglia Bari, sez. III, 03/03/2011, n. 383
Nel caso di specie contrariamente agli assunti di parte ricorrente, che ritiene erroneamente la stessa ormai priva di destinazione urbanistica per effetto di una presunta, quanto inesistente, decadenza del vincolo di destinazione previsto, il vincolo gravante sull'area in questione non è soggetto a decadenza quinquennale ai sensi dell'articolo 2 della legge 19 novembre 1968, n. 1187, con conseguente manifesta infondatezza dell'istanza di riqualificazione urbanistica.
Com'è noto, infatti, nella ripartizione effettuata dalla Corte Costituzionale a partire dalla sentenza 55/68 e nelle successive pronunce 92/82 e 179/99, i vincoli di tipo espropriativo sono quelli che derivano dalla localizzazione del territorio comunale di opere, strade e servizi, per i quali sono espressamente indicate le aree sulle quali essi dovranno sorgere, con preclusione di ogni attività edificatoria privata, mentre vanno qualificati come conformativi quei vincoli che derivano dalla zonizzazione del territorio contenuta negli strumenti urbanistici che, nel dividere in zone il territorio dell'ente locale, definiscono in via generale ed astratta limiti e caratteri dell'edificabilità dei vari terreni e così conformano le varie proprietà che vi ricadono, limitando la fruibilità di esse nell'interesse pubblico (T.A.R. Puglia Bari Sez. II 28.7.2009 n. 1991).
Restano, altresì, al di fuori della categoria espropriativa, secondo l'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale seguita alle pronunce della Corte Costituzionale, i vincoli che importano una destinazione, anche specifica, realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente interventi ad iniziativa esclusiva pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene (Consiglio Stato, sez. IV, 31 luglio 2007, n. 4258, sez. IV, 25 maggio 2005, n. 2718).