lunedì 2 luglio 2012

La responsabilità degli enti nella l. 231/2000 . Il modello di organizzazione.



 1.      La responsabilità degli enti nella l. 231/2000


Il d.lg. 8 giugno 2001 n. 231, in tema di responsabilità da reato degli enti, prevedendo un'autonoma responsabilità amministrativa dell'ente in caso di commissione, nel suo interesse o a suo vantaggio, di uno dei reati "presupposti" tassativamente indicati da parte di un soggetto che abbia agito in nome e per conto dell'ente, si basa sull'assunto che il reato "è fatto della società, di cui essa deve rispondere": la persona fisica che, nell'ambito delle proprie competenze societarie, agisce nell'interesse o a vantaggio dell'ente, opera, quindi, come organo e non come soggetto distinto rispetto all'ente; né la degenerazione di tale attività in illecito penale è di ostacolo all'immedesimazione. L'ente, quindi, risponde per fatto proprio, senza alcuna violazione del principio costituzionale del divieto di responsabilità penale per fatto altrui (art. 27 cost.).
Il D.Lvo n. 231 del 2001, nell'adeguare il nostro ordinamento ai principi comunitari, ha introdotto per la prima volta una responsabilità delle persone giuridiche con riferimento ad una serie di reati, in origine limitati ma successivamente ampliati a seguito di diversi interventi normativi. A tal proposito va dato atto che non si è ancora sopito il dibattito concernente la natura di una siffatta responsabilità, derivante anche da un dettato normativo che si muove a cavallo tra settori diversi del diritto ed avuto, comunque, riguardo anche alle difficoltà nel superamento del noto principio societas delinquere non potest.
Significativamente il legislatore, utilizzando una formula di "compromesso", ha qualificato tale responsabilità come "responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato".
V'è stato peraltro chi, nel tentativo di superare la vexata quaestio concernente proprio la configurabilità di una responsabilità penale delle persone giuridiche, ha affermato che la responsabilità riconosciuta in capo agli enti rappresenterebbe un tertium genus, ma comunque riconducibile ad un modello latu sensu criminale creato allo scopo di conciliare i principi del sistema penale con quelli del sistema amministrativo, nonché di contemperare le ragioni dell'efficacia preventiva con quelle, ancora più ineludibili, della massima garanzia delle prerogative della difesa (Cass. Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 27735, che ha rigettato l'eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 5 del decreto legislativo, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., in quanto la responsabilità dell'ente per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio non è una forma di responsabilità oggettiva, né per fatto altrui, essendo previsto necessariamente, per la sua configurabilità, la sussistenza della cosiddetta "colpa di organizzazione" della persona giuridica e considerato che il reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio da soggetti inseriti nella compagine della persona giuridica deve considerarsi tale in forza del rapporto di immedesimazione organica che lega i primi alla seconda). (G.i.p. Roma 7.2.2012).
L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:
a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).
L'ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi, art. 5, d.lg. 8 giugno 2001 n. 231,.
La giurisprudenza ha ravvisato che la legge non costruisce alcuna inammissibile ipotesi di responsabilità oggettiva, perché il sistema prevede la necessità che sussista la cosiddetta colpa di organizzazione dell'ente, basata sul non aver predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di uno dei reati presupposti: è il riscontro di tale deficit organizzativo che, quindi, consente l'imputazione all'ente dell'illecito penale realizzato nel suo ambito operativo. A tal proposito, grava certamente sull'accusa l'onere di dimostrare l'esistenza e l'accertamento dell'illecito penale presupposto in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa dell'ente e che questa abbia agito nell'interesse o a vantaggio dell'ente stesso. Da queste premesse, la Corte ha ritenuto manifestamente infondata la q.l.c. della disciplina dettata dal d.lg. n. 231 del 2001, sollevata, in riferimento agli art. 3, 24 e 27 cost.). Cassazione penale, sez. VI, 18/02/2010, n. 27735.
Il principio fissato dagli artt. 5 e 6 del D.Lgs. 8-6-2001 n. 231, dispone che i soggetti collettivi privati, con o senza personalità giuridica, sono responsabili sul piano amministrativo per i reati ( quali sono quelli in materia di rifiuti ed inquinamento, come ricorda la stessa parte ricorrente ) commessi nel suo interesse o a suo vantaggio, da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso. Si riafferma così, per via legislativa, la teoria del rapporto di immedesimazione organica del rappresentante nell'ente rappresentato ( Cass. pen., sez. VI, 18-2-2010, n. 27735 ).
Il rapporto fonda la sua origine in una giusta presunzione relativa, la quale può essere scalzata solo con la prova, da parte dello stesso ente, dell'adozione di misure organizzative e funzionali di precauzione, di controllo e di prudenza.
Nel caso di specie  il criterio di imputazione soggettiva della violazione degli obblighi di attivazione delle misure di precauzione in materia di rifiuti ( ma non solo ), trascende lo schermo della personalità giuridica e della soggettività collettiva, dietro la cui creazione ed oltre le cui vicende di vita si celi un unico centro decisionale e di interessi, secondo criteri sostanziali e di non apparenza di imputazione degli effetti dell'attività imprenditoriale, volendo seguire l'antica teoria dell'imprenditore occulto, ovvero secondo le regole della successione c.d. "economica", per le quali chi si avvantaggia di altrui scelte precedenti deve sopportarne anche il peso ( Corte di Giustizia delle Comunità europee 11.12.2007, in causa C-280/06; Cons. stato, sez. V, 5 dicembre 2008 , n. 6055).
Per converso, è onere dell'ente di provare, per contrastare gli elementi di accusa a suo carico, le condizioni liberatorie di segno contrario di cui all'art. 6 d.lg. n. 231 del 2001.
Se il reato è stato commesso dalle persone in posizione apicale, l'ente non risponde se prova che:
a) l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
b) il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;
c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;
d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di cui alla lettera b), art. 6, d.lg. 8 giugno 2001 n. 231.
Per l'effetto, non si realizza neppure alcuna violazione dei principi costituzionali relativi al principio di eguaglianza e all'esercizio del diritto di difesa (art. 3 e 24 cost.), perché non si determina alcuna inaccettabile inversione dell'onere della prova nella disciplina che regola la responsabilità dell'ente: grava comunque sull'accusa l'onere di dimostrare la commissione del reato da parte di persona che rivesta una delle qualità di cui all'art. 5 del decreto n. 231 del 2001 e la carente regolamentazione interna dell'ente, mentre quest'ultimo ha ampia facoltà di fornire prova liberatoria.
Nel caso di reato commesso da soggetti sottoposti all'altrui direzione  l'ente é responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza), art. 7, d.lg. 8 giugno 2001 n. 231.

2.      Il modello di organizzazione come esimente della responsabilità dell’ente.


In ogni caso, è esclusa l'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l'ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi. ), art. 7, d.lg. 8 giugno 2001 n. 231.
Il modello prevede, in relazione alla natura e alla dimensione dell'organizzazione nonché al tipo di attività svolta, misure idonee a garantire lo svolgimento dell'attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio.
La redazione di un modello di organizzazione implica una monitorizzazione costatne dell’attività dell’ente che deve incardinarsi in sistemi predisposti per lo svolgimento dell’atività trasparenti e verificabili da parte di un organismo terzo.
L'efficace attuazione del modello richiede:
a) una verifica periodica e l'eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell'organizzazione o nell'attività;
b) un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.
Nell'ambito dell'auto-organizzazione della società, all'Organismo di Vigilanza e Controllo ( OdV) è riservata una funzione centrale. L. Troyer e A. Ingrassia,Vi è una posizione di garanzia in capo ai membri dell'Organismo di Vigilanza? Spunti di riflessione, in Riv. dottori comm. 2008, 06, 1266.
Il ruolo dell'OdV emerge dalla costruzione normativa dell'esimente di responsabilità in capo all'ente in seguito a reato ex art. 6 d.lgs. n. 231/2001: la responsabilità è esclusa qualora l'ente, prima della consumazione dell'illecito penale, ad opera di un soggetto posto in posizione apicale, abbia adottato un modello organizzativo ed affidato il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli, nonché di curare il loro aggiornamento, ad un organismo dell'ente, con autonomi poteri di iniziativa e di controllo.
Ai fini della concessione dell'esimente, la consumazione del reato non deve dipendere dall'omessa o insufficiente vigilanza dell'OdV, ma da una condotta direttamente elusiva del modello ad opera del reo.
L’'OdV ha compiti di vigilanza sull'applicazione del modello, definibili compiti statici, e, dall'altro, di controllo sul funzionamento e sull'aggiornamento del modello stesso, attività definibili dinamiche.
Sono riconducibili ai compiti statici le verifiche periodiche, sia generali, ovvero inerenti l'applicazione del modello rispetto alle aree considerate sensibili in ordine alla possibile commissione di un illecito penale, sia speciali, cioè gli accertamenti relativi a presunte violazioni del modello.
Alle attività di tipo dinamico si riconducono il costante aggiornamento del modello, la sua integrazione, ove si riscontrino nuove aree sensibili oltre a quelle inizialmente considerate, nonché la verifica del costante flusso di informazioni tra gli organi societari, i soggetti apicali, i soggetti sottoposti all'altrui direzione e l'OdV.

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