martedì 29 settembre 2015

Migrazioni

Migrazioni
154.000 italiani sono andati all'estero mentre solo 92.000 stranieri sono arrivati
Di questo non interessa a nessuno?
Le piccole città senza collegamenti, senza treni, senza un progetto che non sia il controllo burocratese, si spopolano.
Nessuno rileva il fenomeno e i nostri amministratori non  adottano altri provvedimenti che non sia partecipare a convegni o a concerti all'estero.
La stampa che fa?

Discute e fa spettacolo mostrando coloro che devono decidere mentre litigano nel tentativo di conservare le loro poltrone e conserva così, fin che la barca va, i suoi privilegi. 

domenica 27 settembre 2015

Cremona Mantova. Meglio l'autostrada? mentre i collegamenti ferroviari?

Meglio l'autostrada? mentre i collegamenti ferroviari?

In treno da Cremona per andare a Roma bisogna passare

per Milano!
Se si arriva velocemente per la super Paullese a S. Donato il parcheggio della Metro è saturo alle 7,30
Quindi dove si parcheggia in centro?
Forse è meglio arrivare in treno?
Per andare a Fiorenzuola Fidenza  Piacenza circa un' ora di pullman perché i treni sono stati in aprte soppressi.

La vera battaglia è l'autostrada per Mantova?

SECONDO I CALCOLI DEL SINDACATO DEGLI AGRICOLTORI, L’INFRASTRUTTURA COLPIREBBE 230 AZIENDE DEL CREMONESE E DEL MANTOVANO: «LA POLITICA RIFLETTA SU QUESTI DATI»

Centinaia di ettari di campi bloccati da dieci anni a causa di un’infrastruttura che ancora non parte. Coldiretti, all’indomani del tavolo tecnico regionale sull’autostrada Cremona-Mantova, torna a ribadire il suo “no” all’opera.
«Da subito – fa sapere la federazione cremonese dell’associazione – abbiamo espresso un no convito e motivato alla realizzazione della nuova autostrada Cremona-Mantova. Una posizione che riconfermiamo, prendendo atto purtroppo della determinazione della Regione nel voler realizzare quella che sarebbe una grave ferita per il nostro territorio e un evidente danno per tante imprese agricole. Troppe opere pubbliche faraoniche, che hanno sottratto suolo all’agricoltura e futuro alle aziende italiane, hanno poi dimostrato la loro inutilità”.
Coldiretti ricorda che «Da dieci anni centinaia di ettari di campi sono bloccati dal ‘vincolo di pubblica utilità’ per il progetto dell’opera fra Cremona e Mantova lungo un tracciato di 60 chilometri che andrebbe a colpire 230 aziende agricole fra le due province (170 nel Mantovano e il resto nel Cremonese)». «Il tutto – aggiunge l’associazione – in una regione come la Lombardia, che in vent’anni ha visto diminuire del 25% il suolo agricolo sceso sotto il milione di ettari, mentre le aree urbanizzate sono aumentate del 235%».

venerdì 25 settembre 2015

dieci massime

 1 Di la tua opinione solo se ti viene richiesta
2 Se non hai altro da fare segui le proposte altrui
3 Lavora solo se il capo ti sollecita (nel privato)
4 non lavorare mai potresti comprometterti (nel pubblico)
5 Non fare proclami politici  se sei con persone che la pensano diversamente da te.
6 Non criticare chi é supportato da gruppi numerosi
7 Non cercare di ragionare con chi capisce poco 
8 Intuisci al più presto quando é il momento di terminare una conversazione
9 parla poco, ascolta molto
10 fatti i cazzi tuoi

mercoledì 23 settembre 2015

Italia autostrada per l'Europa. Quali Controlli?

Da Catania a Chiasso via Milano. Il mercato degli "scafisti" di terra

Da Catania a Chiasso via Milano. Ecco come fanno gli immigrati a raggiungere l'Europa, passando per l'Italia


Gli eritrei e i siriani conoscono ogni angolo di Porta Venezia a Milano ancora prima di arrivarci. Senza averla mai vista sanno già muoversi esperti tra i palazzi di via Lazzaretto, via Panfilo Castaldi, via Lazzaro Palazzi, piazza Oberdan e via Vittorio Veneto, tra il bar Asmara e il «Ferramenta».
CONTENUTI CORRELATIÈ la porta per la libertà, l'ultima frontiera verso Germania, Olanda, per i più fortunati la Scandinavia. Sanno che sarà dura e il denaro, come sempre, farà la differenza. Raggiungere la Libia e imbarcarsi per la Sicilia per gli eritrei significa raccogliere soldi tra tutti i parenti sparsi per il mondo per intraprendere un viaggio che passa necessariamente per il Sudan e a piedi può durare anche due anni, con il pericolo concreto di finire tra le grinfie delle milizie di quello che è stato fino a poco tempo fa il paese di Gheddafi.
I siriani - più benestanti grazie al denaro ma soprattutto a tanti preziosi - si muovono su voli di linea (diretti, per ordine governativo, solo in Libia) e alloggiano in alberghi o in case private. Una volta sulle coste del Mediterraneo, però, tutti - i poveri eritrei che parlano solo la loro lingua, il tigrino, e i siriani, più eleganti e buoni conoscitori dell'inglese - prenderanno tutti lo stesso barcone, una scommessa verso un'incognita ancora lunga e tortuosa, con un futuro incerto che potrebbe svanire tra le acque di un naufragio.
In Italia i controlli non ci sono, lo sanno tutti. I profughi infatti si servono del nostro Paese a loro uso e consumo, solo come una lunga autostrada più o meno costosa e accidentata che li porterà verso il Nord Europa. Così, quando qualcuno li chiamerà per discutere l'istanza di asilante che avevano compilato all'arrivo in Sicilia, prima di entrare nel centro catanese di prima accoglienza di Mineo, saranno già lontanissimi. È proprio qui da noi, in Italia, però che spenderanno la maggior parte dei loro quattrini: ogni passaggio, ogni richiesta, ogni indicazione, ha il suo costo. E non importa se le organizzazioni che li trasporteranno a bordo di furgoni o monovolume oscurati sono a base etnica, cioè costituite solo da loro connazionali: il bisogno impellente, la necessità, ma soprattutto il miraggio di lauti guadagni, azzera qualsiasi forma di solidarietà umana.
Usciti dal centro di Mineo raggiungono con taxi abusivi l'autostazione di Catania. Lì, dal lunedì al sabato alle 18.30, al costo di 80 euro a biglietto, parte un autobus di linea (in agosto sono due) con il quale, dopo una fermata a Bologna e circa 20 ore di viaggio, raggiungono l'autostazione di Lampugnano. «Ognuna di queste corriere ha 56 posti e sono sempre piene, quindi di questi tempi ogni giorno trasportiamo almeno un centinaio di profughi a Milano. A Bologna ne scenderanno al massimo 5 o 6, se hanno parenti, gli altri tutti qui vogliono arrivare. Sì, perché per il viaggio da Catania a Milano sono loro i nostri principali clienti» ci racconta Giovanni, 40 anni, da 12 conducente per la Segesta. «A molti viene detto che l'autobus li porterà direttamente in stazione Centrale e sono delusi quando arrivano a destinazione qui, ma poi sanno come muoversi, questo ve lo garantisco».
Vedere per credere. Venerdì abbiamo seguito due giovani fratelli eritrei, ragazzini che non hanno più di 16 anni, prelevati sulla banchina all'arrivo della corriera da Catania da un loro connazionale. Lo seguono in metropolitana, a Lampugnano. È lui che fa il biglietto per il metrò - un «aiuto» per il quale i fratellini gli allungano 10 euro a testa - quindi li conduce in stazione Centrale. Una volta lì altri 10 euro perché l'«amico» faccia loro il biglietto e li conduca fino al binario per farli salire sul treno: partiranno alle 16.25 con il Tilo (la linea dei treni regionali Ticino Lombardia) per Zurigo. Per questo tipo di operazione il connazionale prenderà alla fine al massimo 50-60 euro, ma i ragazzi rischiano di essere fermati alla frontiera svizzera. Il giro di denaro che conta, il traffico vero che garantisce quasi sempre di giungere a destinazione senza intoppi, però riguarda ben altre cifre.
Un nostro informatore interno alla comunità eritrea, che odia questo genere di sfruttamento in situazioni di emergenza e bisogno estremo, ce ne parla. «Una volta a Milano gli eritrei in particolare hanno due possibilità: con 450 euro a persona possono raggiungere la Svizzera a bordo di auto. Una volta al confine, ad esempio a Chiasso, il profugo viene lasciato andare a piedi, i valichi sul lato italiano sono ormai incontrollati e può anche rischiare di non imbattersi nel durissimo corpo svizzero delle guardie di confine. A quel punto, finché non viene scoperto, può “sparire“ nell'anonimato più totale, nella clandestinità. Ci vogliono dai 650 agli 800 euro a testa, invece, per arrivare in Germania stipati in furgoni che prendono l'autostrada del Brennero e raggiungono tranquillamente Rosenheim, in Baviera, o Francoforte sul Meno. Chi, come molti siriani, viene invece imbarcato su voli per il Nord Europa, che magari fanno scalo prima a Madrid o a Barcellona con compagnie modeste per non dare nell'occhio, viene fornito anche di documenti falsi con l'obbligo, da parte dell'organizzazione che prepara il viaggio nei suoi dettagli, di distruggerli durante il volo in qualche modo. E non crediate che l'organizzazione in questo caso si nasconda chissà dove: la sera aspettano i profughi su auto all'esterno dei centri d'accoglienza del Comune dove qualcuno, infiltratosi in un modo o nell'altro, ha già fornito ai fortunati i documenti. In questi casi si possono pagare anche 1.000, 1.200 euro a testa».
Del resto gli autisti- passeur detti anche «scafisti di terra» sono quelli che rischiano di più: per il reato di favoreggiamento all'ingresso di un clandestino in un Paese straniero l'articolo 12 comma 3 del decreto legislativo 286/98 prevede anche fino a 15 anni di carcere. A Malpensa su questo fronte si lavora parecchio. In un anno la Polaria di Varese, preavvertita al momento del check in dalle compagnie aeree su qualche stranezza nei documenti presentati dal passeggero, ha impedito a circa un migliaio di profughi d'imbarcarsi per l'estero. Ma questa, come il grande lavoro del corpo delle guardie di confine svizzere, è un'altra storia.

Procedure di infrazione per mancata registrazioni dei migranti.

E'  opportuno chiedere alla Prefettura di indicare il responsabile del procedimento di  registrazioni dei migranti e chiedere ex l. 241/1990 di verificare le procedure in corso per quanto attiene la zona considerata.

Bruxelles mette l’Italia in castigo (secolo d'Italia 23.9.2015)

Bruxelles, forse per nascondere la rabbia del fallimento della sua strategia,  colpisce l’Italia, che più di tutti – insieme alla Grecia – si è fatta carico della prima accoglienza dei clandestini, andandoli addirittura a prendere a casa loro per portarli qui. 
C’è infatti una stretta della Commissione Ue sul rispetto delle regole su registrazioni e raccolta di impronte dei migranti. Dopo le lettere amministrative delle settimane scorse – tra i Paesi destinatari delle lettere c’è anche l’Italia -, ora Bruxelles annuncia l’apertura di procedure di infrazione per questo tipo di mancanze al prossimo round del mese, previsto per giovedì prossimo. «Al round di settembre delle procedure di infrazione vi potete attendere che questi casi siano perseguiti», ha minacciato la portavoce Natasha Bertaud.
E una volta tanto il ministro Angelino Alfano risponde per le rime ai burocrati europei: «Credo che la procedura che deve aprire l’Europa è una procedura di ringraziamento all’Italia». Così infatti il ministro dell’Interno ha risposto ai giornalisti che chiedono un commento sull’annuncio di apertura di procedure di infrazione da parte della Commissione Ue per il mancato rispetto delle norme sulle registrazioni dei migranti. La verità è che le cifre sono impressionanti, e non hanno riscontro con quelle degli anni scorsi, inferiori anche di tre o quattro volte, così come non è vero che sulle nostre coste arrivino solo persone in fughe dalla guerra o perseguitati politici da feroci regimi liberticidi: nel 2015 invece gli arrivi hanno interessato tutta l’area del Mediterraneo, con 411 mila persone sbarcate (al 14 agosto), riguardando anche la Grecia, che ha registrato 288mila arrivi, contro i 121.500 dell’Italia e i 1.953 della Spagna.


martedì 22 settembre 2015

Perché non si licenziano i funzionari che rubano?

Saranno anche i classici conti della serva, ma in certi casi vanno fatti. Nei primi sei mesi del 2015 gli sperperi e le truffe  di alcune migliaia di funzionari pubblici (dai ministeri alle Asl) sono costati ai contribuenti italiani la bellezza  di 3 miliardi. Certi funzionari sono peggio delle cavallette. Tasi e Imu costano insieme 4,5 miliardi. Se consideriamo gli illeciti ancora nascosti, la cifra deve essere raddoppiata, se non triplicata. E non si tratta di grandi atti di corruzione (tipo le pantagrueliche “creste” sui grandi appalti pubblici), ma di “piccole” ruberie e dissipazioni, che però sommate tutte insieme raggiungono cifre da manovra economica.
Tale dato emerge dal rapporto  della Guardia di Finanza sui danni erariali contestati tra il 1 gennaio e il 30 giugno 2015. I cattivi funzionari sono annidati ovunque, ma, in base al rapporto della GdF,  sembrano ultimamente prediligere il patrimonio immobiliare pubblico. Si parla di circa 1 miliardo di euro per  case concesse in affitto a prezzi stracciati, terreni mai utilizzati, edifici svenduti. Le malefatte di certi funzionari (da Nord a Sud, indistintamente) hanno, spesso, qualcosa di incredibile. Come il caso di diversi appartamenti del Comune di Roma affittati a 7 euro al mese, oppure come la vicenda di quel Comune in provincia di Bolzano che non riscuote l’affitto per l’occupazione di suolo pubblico e perde 350 mila euro.
La sanità rimane comunque uno dei maggiori terreni di sperpero. In un ospedale in provincia di Varese è stato raddoppiato il valore di un appalto a una società esterna incaricata della manutenzione passando da 15 milioni e mezzo di euro alla bellezza di  36 milioni.
Il pensiero più fastidioso è che si tratta comunque di una minima parte della voragine che ogni anno le “locuste di Stato” aprono nel bilancio pubblico. Il Codancos ha recentemente calcolato in 30 miliardi lo sperpero causato dagli acquisti di beni che superano i prezzi di mercato.  Solo le stampanti, tanto per fare un esempio, arrivano a essere pagate da “Pantalone” il 60-70 per cento in più. “Creste” e illeciti vari sono possibili quando gli uffici aggirano la Consip, cioè la centrale unica per gli acquisti della Pubblica amministrazione. L’ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, aveva proposto di rendere più rigido il sistema Consip. Ma, come è noto, Cottarelli a un certo punto ne ha avuto abbastanza di trattare con dirigenti neghittosi e se n’è tornato negli Stati Uniti.

domenica 20 settembre 2015

Milano Lazzaretto

Il clima del confronto sensato e democratico e quello teso della frustrazione e della sfiducia si sono incontrati nella seduta di giovedì scorso al Consiglio di Zona 3. Il tema all’ordine del giorno era eloquente: “Sicurezza e grave stato di degrado in cui versa il quartiere di Porta Venezia”. Una sicurezza ed un degrado – come denunciato subito nell’aula zeppa di cittadini, dal Presidente del Movimento Porta Venezia, Alfredo Cicognani – che ha nella recente emergenza dei profughi Eritrei solo l’aspetto culminante, ma che riguarda una situazione ben più ampia ed annosa. Una situazione di abbandono, disinteresse, lenta decadenza ambientale, urbana, sociale, di cui varie amministrazioni comunali si sono nei fatti disinteressate negli ultimi quindici anni. E che oggi ha valicato i limiti della vergogna.
Gli ultimi avvenimenti sono noti.
Da oltre due mesi svariate centinaia di rifugiati eritrei, quasi tutti ragazzi, si sono installati nel quartiere. Vivono giorno e notte all’aria aperta, tra i giardini dei Bastioni, le vie del Lazzaretto e l’asilo offerto da alcuni locali africani, che una volta erano una curiosa attrattiva per tutti e sono diventati improvvidi luoghi rifugio diurni e notturni.
La situazione, abbandonata a se stessa, è divenuta nel tempo di grande peso per i residenti, oltraggiosa per tutti. Si sono registrati due decessi per malattia, le condizioni igieniche delle aiuole e delle strade sono esplose e l’affollamento dei marciapiedi divenuto imbarazzante.
Queste sono le cose che i cittadini, individualmente o riuniti in movimento, hanno detto al Consiglio di Zona e più ancora all’Assessore alla Sicurezza e Coesione Sociale, Marco Granelli, che ha aperto la seduta.
Come detto in apertura, il clima è stato dei più civili, nessun intervento dei cittadini, degli oltre venti programmati, è scivolato su toni impropri.
Quasi tutti hanno chiarito che l’emergenza di queste settimane è intollerabile e va sanata, ma il “caso” Porta Venezia merita un’analisi e dei rimedi ben più vasti. Immediati. Uomini e donne di diversa cultura ed estrazione, gestori di ristoranti e bar (c’è chi ha perso il 30% del fatturato in due mesi), negozianti, hanno denunciato il disinteresse dimostrato dal Comune verso una riqualificazione vera di Porta Venezia, quartiere storico e centralissimo, con grandi potenzialità e attrattive. E, naturalmente, la totale approssimazione con cui la Giunta ha affrontato il problema degli ultimi arrivi e lo status di rifugiati.
La sensazione, ribadita a più riprese, è che non si sia assolutamente compreso il fenomeno, le necessità di queste persone, le loro peculiarità (si diceva, appunto, che sono quasi tutti giovani), l’importanza di offrire loro un vero asilo, un piano di entrata ed anche una via d’uscita da una situazione che non poteva che essere temporanea. Le parole dei cittadini non sono sembrate orientate da pregiudiziali politiche. Bensì dalla delusione per la cattiva amministrazione, preventiva e seguente, la miopia e l’apatia, nonostante le contromisure annunciate e comunque tardive messe in atto.
Proprio di queste ha parlato in apertura e chiusura l’Assessore Granelli, sottolineando il maggior lavoro e coordinamento richiesto alle forze di Polizia, di Vigilanza Urbana ed agli operatori ecologici che dovrebbe portare da subito ad un miglioramento della situazione.
Granelli, che ha iniziato a parlare ricordando alcuni dati che inquadrerebbero il flusso di immigrazione a Milano come perlopiù di transito, aperto verso il nord Europa, ha proseguito spiegando che è stato attuato e potenziato
Il trasferimento in centri di accoglienza, il controllo dei documenti, delle posizioni individuali e dei locali pubblici che, illegalmente, fungono da dormitorio.
Provvedimenti sicuramente coerenti, ma che non paiono ad oggi risolutivi, e che a detta anche di alcuni agenti di PS della Zona Venezia – che hanno chiesto di non essere citati – si scontrano, anche nel caso degli eritrei, con una ampia circolazione di documenti falsi che rende difficili i controlli. Ed una organizzazione sottotraccia che pilota le persone e le indirizza/riporta nei luoghi dove sanno di trovare una qualche protezione, un microcrimine strisciante e in ascesa, oltre – inutile dirlo – la ben nota situazione procedurale/legislativa italiana che ingarbuglia e rende poco efficace quasi ogni azione.
Giosuè Boetto Cohen 14.7.2014

giovedì 17 settembre 2015

Eritrea a Milano

Eritrea a Milano di  Igiaba Scego

Neoclassica, austera, trionfale, così appare porta Venezia, una delle sei principali porte di Milano, al visitatore. Il quartiere noto per i suoi ristorantini alla moda è tra i più amati dagli under 30 milanesi. Certo gli spritz, gli apericena l’hanno resa trendy e al passo con i tempi, ma porta Venezia è qualcosa di più profondo. Di fatto racchiude in sé una storia complessa fatta di separazioni e ricongiungimenti, una storia che odora di caffè caldo e cardamomo, una storia che la lega all’Africa come nessuna.
Infatti da tempo il quartiere è il ritrovo della comunità eritrea-etiope che dagli anni settanta del secolo scorso ha fatto di questa zona il centro della propria esistenza. Ed è sempre qui che gli eritrei di oggi, in fuga dalla dittatura feroce e insensata di Isaias Afewerki, cercano rifugio dopo essere approdati a Lampedusa con una carretta scassata. Sanno che a porta Venezia una zuppa calda e qualcuno che sa parlare la loro lingua lo troveranno di sicuro. Porta Venezia è Milano, ma è anche Asmara. È Italia, ma anche Eritrea.
Il colonialismo italiano, diceva nel suo bel libro Rifugiati lo scrittore somalo Nuruddin Farah, occupa un territorio coloniale ambiguo nella coscienza degli italiani. Infatti l’Italia spesso non si ricorda di aver avuto un legame storico con Libia, Somalia, Etiopia ed Eritrea. Disconosce il vincolo e quando poi arrivano i rifugiati proprio da quei paesi un tempo colonizzati (e spesso brutalizzati) non riesce a tracciare una linea che la colleghi a quell’intreccio di corpi. È più facile dimenticare. E così si dimenticano non solo le nefandezze del periodo coloniale, ma anche quelle più moderne fatte di affari sporchi con i dittatori di turno e di rifiuti sversati in mare o tombati nelle zone di pascolo. L’Africa, come diceva Ennio Flaiano, rimane ancora lo sgabuzzino delle porcherie e meno se ne parla meglio è.
Ma ormai, per fortuna, fioccano le contronarrazioni. Ed ecco che il docufilm Asmarina di Alan Maglio e Medhin Paolos ci regala una panoramica su una comunità, quella eritrea-etiope, presente nel territorio da decenni di cui però si è sempre parlato molto poco. Il titolo, tratto da una canzone coloniale degli anni trenta, è già di per sé evocativo. Il docufilm nasce per accumulazione. Colpisce, fin dalle prime scene, la presenza ossessiva e permeante delle fotografie dovuta a un grande lavoro di ricerca da parte dei registi.


Ed ecco che lo schermo si riempie di bambine sorridenti, ragazzi con jeans a zampa di elefante, signore con il tradizionale abito bianco. E poi feste, celebrazioni, preparazioni di focacce e caffè, treccine svolazzanti, orecchini arcobaleno. E piano piano una comunità di adulti si popola di bambini. Generazioni si mescolano e quasi si confessano davanti alla telecamera, mai invasiva, di Alan Maglio e Medhin Paolos. E sotto i nostri occhi una comunità si svela nelle sue più intime e delicate sfumature.
C’è la scrittrice Erminia dell’Oro figlia di italiani, di vecchi coloni, nata in Eritrea che si sente africana e non importa se ha la pelle bianca, Eritrea per lei è casa. Il dj Million Seyum, chiamato non a caso il Sindaco, che sa come far ballare i suoi compaesani, ma che in ogni sua parola è profondamente asmarino, ma anche profondamente milanese. La famigliola riunita intorno a un libro di fotografie (Stranieri a Milano di Lalla Golderer e Vito Scifo che diventerà uno degli assi portanti del docufilm) sa come commuoverci con gli antichi ricordi di famiglia.
E poi c’è Michele figlio di un pugliese mai conosciuto e di un’eritrea, cresciuto in un collegio di suore a suon di punizioni corporali, rimpatriato in un’Italia mai veramente sua. Colpisce inoltre la forza di Helen Yohannes, calciatrice/mediatrice culturale che ha dedicato il suo tempo ad aiutare i rifugiati perché guardando quelle facce così simili alla propria sa che quel destino poteva toccare a lei e si rimbocca le maniche per attutire come può quelle sofferenze.
Fotogramma dopo fotogramma scopriamo una comunità molto attiva negli anni settanta-ottanta, organizzata, unita. C’era la lotta per l’indipendenza a dare identità. Ed ecco le riunioni in teatri gremiti, i volantinaggi, le assemblee, le manifestazioni, le storie d’amore nate intorno a tutta quella politica. E poi la gioia immensa di essere un paese. C’è chi pensava di tornare ad Asmara, di ricostruire là il poco di avvenire rimasto. E poi dal paradiso agli inferi di oggi, prima un conflitto insensato con l’Etiopia per un confine senza importanza e poi la dittatura che sta facendo fuggire tanti giovani che preferiscono rischiare la traversata attraverso il Mediterraneo che marcire nelle grinfie di un regime protetto anche da occidente.
Ed ecco che i registi non nascondono le fratture all’interno di una comunità. Una divisione in filogovernativi e oppositori, tra chi si sente eritreo o chi eritreo-etiope. E in mezzo c’è l’Italia, Milano. Una città-casa che a volte sa abbracciare e a volte no. Asmarina racconta tutto questo e molto altro. Racconta l’Italia come recentemente sono riusciti a fare in pochi.

Milano la casbah

Milano, se la casbah adesso fa paura

Phone center e ristoranti etnici, minimarket e kebab. Viaggio nella città "africana", da Porta Venezia alla periferia. "Tanti anni fa, se vedevi per strada uno dalla pelle scura spalancavi gli occhi. Oggi si vive insieme" Ma la trasformazione si paga e l´emergenza sicurezza spaventa
di Fabrizio Ravelli
Sull´insegna dell´Osteria della Luna Piena si ricorda che il locale è "memoria manzoniana", per dire che ci passò Renzo Tramaglino. Adesso, davanti al Phone Center a pochi metri dall´osteria, ci sono due sudanesi rifugiati politici. Disoccupati. Senza casa. Da due anni. Dormono dove capita. Via Lazzaro Palazzi, Porta Venezia, quella che chiamano la "casbah" milanese, miscela di Africa e memorie manzoniane. Due passi più in là c´è la chiesa di San Carlo al Lazzaretto, una lapide ricorda la carità dei frati cappuccini nell´assistere gli appestati. Dentro al suo ristorante il signor Alberto Lorenzetti è cupo: «Basta, sono stufo. Non vado neanche a votare stavolta, anche se sono di destra».

Il signor Lorenzetti è nato in Etiopia, figlio di una donna etiope e di un milanese. Ha la pelle scura, il suo ristorante si chiama Saba, ci si mangia lo zighinì. Vive e lavora anche lui in quella Milano che l´altro giorno Silvio Berlusconi ha definito «una città africana». Italiano a tutti gli effetti («Tredici mesi di naja, e ho sempre pagato le tasse»), milanese, ristoratore, tassista. «Faccio il tassista da diciassette anni, e adesso anche mio figlio. Fra il taxi e il ristorante lavoro diciotto ore al giorno. Siamo undici fratelli, e tutti lavorano». La pelle scura comincia a pesargli, e non era mai successo. «Le cose stanno peggiorando. Mi fa pena questa Italia, e lo dico da italiano. Io sono italiano, e italiano mi sono sempre sentito. Ma adesso, dopo 33 anni, comincio a sentirmi straniero. Non ho più l´età, altrimenti me ne andavo»

I cattivi umori toccano ora anche Porta Venezia, la cosiddetta "casbah" milanese, un posto dove la parola multietnico non suona allarmante. Porta Venezia è così da quarant´anni almeno. Non è un´idea possibile di convivenza: è una realtà, una tradizione, un´abitudine. Il bar Ethiopia sta di fronte alle cantine di Peppino Strippoli. Il caffè Addis Abeba e la trattoria Lucca in via Panfilo Castaldi. La miscela è antica. Nessun problema, ti ripetono. Il problema, però, esiste ed è complicato. La città è complicata. Le cifre dicono: a gennaio 2009 c´erano a Milano 188.980 stranieri regolari (14,6 per cento della popolazione), più 38 mila irregolari. Gli africani regolari sono 58mila. Non tutta la Milano africana è antica come Porta Venezia, non tutta è pacificata e stratificata. Se vai verso fuori, oltre piazzale Maciachini, via Imbonati, via Pellegrino Rossi, lì lo stravolgimento ribollente dei vecchi quartieri lo vedi. 

Il governo della trasformazione abbandonato nelle mani onnipotenti del mercato. Così, dieci phone center in cento metri, minimarket etnici, kebab: senza un criterio, senza un equilibrio. La paura è dei vecchi, che vedono sparire i punti di riferimento, delle donne anziane alle prese con giovani maschi in gruppo. In via Padova, lo spaccio notturno, le bottiglie rotte, quelli che pisciano sui portoni. Gli stranieri appena arrivati sono più poveri, e coi poveri vanno a vivere, gomito a gomito. Agganciano legami dentro le loro comunità, creano reti di sopravvivenza separate, sono intraprendenti. Le differenze sono di colori, non solo quello della pelle, di abitudini, di odori. La Milano che invecchia fatica ad adattarsi, si vede diversa, non si riconosce.

Ogni tanto esce una statistica che fa impressione. A Milano il cognome cinese Hu ha superato i Brambilla. In Brianza sono più gli imprenditori Mohammed dei Brambilla. Qui a Porta Venezia, vecchia Milano multietnica, c´è chi vive tranquillo. Abraham Kibrom è il titolare della Ferramenta Galaxy: «Io sono nato in Etiopia, ma questo adesso sento che è il mio Paese, penso come un italiano, le tasse che pago mantengono i pensionati italiani. Ho diritto ad essere rispettato». E ci dev´essere una vena comune interetnica che attraversa il settore ferramenta, se anche dai concorrenti italiani della "Ferramenta Formenti" di via Panfilo Castaldi la campana è la stessa: «Guardi - dice il signor Licinio - sono trent´anni che lavoro qui, e il quartiere è sempre stato così come lo vede. Multietnico, e senza problemi. E sa cosa le dico? Multietnico per me significa che ho avuto modo di conoscere gente di tante nazionalità diverse. Qui di fianco ha appena aperto una parrucchiera africana: mi ha detto che non si aspettava di stare in mezzo a gente così per bene».
Sì, ma se fai cento metri sei in piazza Oberdan, quella dell´Arco di Porta Venezia. Adesso, che è metà pomeriggio, non ne vedi di africani. «Sono in giro per i giardini pubblici», spiega il barbiere Franco che ha la bottega in via Lecco. «Ma venga di notte, o al mattino presto. Sono lì che dormono sulle panchine, o per terra, dentro alle coperte. Non è un bello spettacolo». Sono quelli che stavano in una casa abbandonata in viale Tunisia, li hanno cacciati e da allora quelli rimasti vagano per il quartiere. La categoria del multietnico è mobile, piena di sfaccettature. Gino Di Clemente, pugliese di Bisceglie, ha da quarant´anni un bar tabacchi che è una sorta di centro del quartiere: «Questa che chiamavano "casbah" una volta era unica. Io ci sto bene, questo miscuglio mi piace. Mia sorella, che ha 79 anni, apre il bar la mattina alle 6, da sempre. E mai, dico mai, che qualcuno le abbia mancato di rispetto. Il punto è un altro: oggi tutta Milano ha zone come questa, non ce n´è una che si salva. Succede da noi, con cinquant´anni di ritardo rispetto a Parigi o Londra. Non è facile».

Certe cose a Porta Venezia, venerabile "casbah", ormai passano via tranquille. Il bar gay che alla sera è una bolgia. Il ristorante mongolo. Il Krishna Bazaar. Ma prendi tutto questo, e impiantalo in un quartiere di periferia, in maniera travolgente e senza regole. Tutt´altra faccenda. La trasformazione si paga, soprattutto se non è governata, spiegata, condivisa. I cinesi di via Paolo Sarpi hanno colonizzato un quartiere, comprando in contanti e pagando bene. Ora il Comune prova a rendergli la vita difficile, per le proteste degli abitanti italiani. Con gli africani è peggio, perché il colore della pelle pesa eccome. I phone center sono il nuovo bersaglio per i controlli di polizia e vigili urbani. Perché sono il primo ritrovo. Vai verso fuori, lungo le strade che portano a Nord, alla Brianza, e la sera i marciapiedi sono tutto un crocchio di stranieri.

In via Pellegrino Rossi ogni gruppo sta per conto suo. Sudamericani da una parte. Poi africani suddivisi per paese. Parlano, scherzano, bevono. Lo stare insieme di questa gente, anche quando è innocuo, dà un´idea di fermento e di energia che spaventa i milanesi meno attrezzati, per età e per abbandono. Il signor Antonio, pensionato e ancora pimpante, ha anche il problema di parlare con i suoi amici: «Io sono sempre stato democristiano, adesso mi danno del comunista. E perché? Perché dico che bisogna farsene una ragione, e non aver paura. Mi dicono che non dovevamo lasciarli entrare, che è colpa di quelli di sinistra. Mi tocca sempre litigare, anche se tante volte anch´io faccio fatica ad adattarmi». Un viaggiatore disincantato e disilluso come Corrado Stajano, nel suo ultimo libro La città degli untori, passa dalla "casbah" del Lazzaretto, dalla Milano africana, e si chiede: «Che siano loro, uomini di un continente di là dal mare, a rinsanguare la stanca città? Forse è un segno di speranza che abbiano messo radici nella città che li rifiuta, proprio nel posto dove infierì peste e distruzione». Ma non si capisce se ci crede davvero.
(06 giugno 2009)

mercoledì 16 settembre 2015

Sanità digitale è possibile?

Ben 6,9 mld di euro l’anno: ecco quanto risparmierebbe il Servizio Sanitario Nazionale con la digitalizzazione del sistema e la telemedicina. Con i numeri  dell’Osservatorio Netics, si è aperto S@lute, Forum della Sanità digitale (alla LUISS a Roma fino al 12 settembre, in viale Romania 32)
Secondo la ricerca che ha aperto il Forum, 2,5 mld di risparmi arriverebbero dotando gli ospedali di strumenti a supporto delle decisioni terapeutiche, basati su sistemi di Evidence Based Medicine (Ebm). 
L’integrazione tra ospedale e territorio, attraverso la telemedicina, può essere veicolo di risparmi pari a circa 1,4 mld l’anno. 
Sempre secondo lo studio i Cup, i centri unici per le prenotazioni, dovrebbero trasformarsi in strutture capaci di relazionarsi in maniera più efficiente e interattiva con il paziente, 7 giorni su 7. Oltre a migliorare la qualità della relazione con gli assistiti «questo intervento – ha sottolineato la ricerca – può generare, nel lungo periodo, una riduzione dei costi di gestione dei Cup pari a 100-150 mln di euro». Poi con l’introduzione su scala regionale di sistemi informativi di tipo Enterprise Resource Planning e attraverso la centralizzazione degli acquisti è possibile ridurre i costi di 3 mld di euro l’anno.
«La sanità digitale è una partita che l’Italia non può perdere e che, quindi, deve giocare. Adesso. In ballo, per il Servizio Sanitario Nazionale, c’è la possibilità o meno di reggere l’impatto dell’invecchiamento della popolazione, mantenendo intatto il requisito dell’universalità delle cure e il rapporto tra qualità e quantità delle prestazioni» ha sottolineato Paolo Colli Franzone, direttore scientifico di S@lute.
S@lute chiude la tre giorni il 12 settembre con “All you can IT”: barcamp in cui le startup più innovative di sanità digitale incontrano i venture capitalist e le aziende farmaceutiche. Per toccare con mano la trasformazione digitale del sistema della sanità e mettere le ali alle idee più interessanti.

RENZI introduce la digital tax?

"Dopo aver aspettato per due anni una legge europea, dal 1 gennaio 2017 immaginiamo una digital tax che vada a colpire con meccanismi diversi per far pagare tasse nei luoghi in cui sono fatte transazioni ed accordi per i grandi gruppi economici che operano su internet come Google eApple". Lo ha annunciato il premier Matteo Renzi ospite di 'Otto e mezzo' su La7. “Non per fare soldi – ha aggiunto il premier - ma per una questione di giustizia, in attesa di una norma europea". L’idea è di inserirla già nella prossima legge di Stabilità. La norma sarebbe ispirata allaproposta di legge presentata a firma del deputato di Scelta Civica, Stefano Quintarelli, e illustrata dal sottosegretario all'Economia, Enrico Zanetti. La questione è già stata affrontata in Gran Bretagna dove da aprile è scattata una tassa simile ed è in discussione in Francia che vorrebbe tassare le multinazionali del web che hanno sede in Lussemburgo o in Irlanda.
Si punta in questo modo a far pagare le tasse alle multinazionali dell'hi-tech nei Paesi dove fanno utili e cioè anche in Italia e non solo nei paradisi fiscali come l'Irlanda. Il Governo attenderà che l'Europa definisca le sue nuove regole in materia di tassazione ma, se entro la fine dell'anno prossimo, non si arriverà a una nuova legge, sarà il Governo italiano a varare nel 2017 la Digital tax che obbligherà Apple, Google e le altre grandi società di Internet a pagare le tasse anche in Italia per i profitti che fanno nel nostro Paese.
Un annuncio epocale che vale un esame a vero leder se sarà mantenuto!
Non capisco come la tassa sul bollo sia scattata in due secondi, con prelievi forzosi fatti dalle banche con un importo difficilmente calcolabile dal contribuente medio, mentre per tassare le multinazionali bisogna aspettare il 2017.
Comunque un passo in avanti nel tassare il reddito prodotto in Italia.
Se l'Inghilterra lo ha già fatto, non si capisco perché bisogna aspettare la CE?

martedì 15 settembre 2015

Cremona riferimento culturale della Corea del Sud

Cremona rappresentata all’Expo della Cultura coreano

MERCOLEDÌ LA CERIMONIA UFFICIALE PRESSO LA CITY HALL DI GORYEONG, VENERDÌ L’INCONTRO TRA IL SINDACO E L’AMBASCIATORE D’ITALIA A SEOUL

“Missione” in Corea del Sud per il sindaco Galimberti e diversi rappresentanti del Comune di Cremona. La delegazione è in visita all’Expo della Cultura coreano. «La musica è un linguaggio universale che unisce popoli e culture»: questo il passaggio d’esordio del discorso del sindaco Galimberti alla cerimonia ufficiale “Nation Day Italia” presso il Gyeongju World Culture Expo, festival culturale di Gyeongiu dedicato alla Via della Seta. «È questo – ha aggiunto Galimberti – il significato dell’accordo siglato tra Cremona e Goryeong-gun. È questo il significato della nostra presenza qui, a questo prestigioso festival internazionale».
L’evento, organizzato nell’ambito della rassegna East Meets West Music, fa seguito alla firma dell’accordo di reciproco scambio economico e culturale siglato a novembre tra Cremona, capitale della liuteria e dello studio del suono, e la città di Goryeong-gun, dove è stato creato lo strumento musicale coreano per eccellenza, il gayageum.
Con il sindaco, “in missione” in Corea, anche il vicepresidente del Consiglio comunale, Andrea Sozzi, il presidente della Commissione cultura, Luca Burgazzi, il Presidente dei Friends of Stradivari e Direttore delegato alla liuteria del Museo del Violino, Paolo Bodini, il vicepresidente della Fondazione Stauffer,Alessando Tantardini e il Direttore dell’Istituto Monteverdi, Loris Pezzani.

tobin TAx rendimento ridicolo

In italia le tobin TAx ha dato un rendimento ridicolo 
L’incremento delle imposte sulle rendite finanziarie è spesso argomento di discussione nonostante il gettito previsto dalla Tobin Tax sia stato molto al di sotto delle aspettative.
Dal bollettino sulle entrate tributarie del Tesoro (Francoforte: TX5.F - notizie) è emerso che nei primi 10 mesi del 2013 l'imposta sulle transazioni finanziarie, ha generato un introito di 159 milioni di euro, contro una stima fatta dall'allora governo Monti che prevedeva un gettito di circa 1 miliardo per l'intero 2013.

Tasse sui profitti delle imprese americane all'Estero

MILANO - Una tassa una tantum del 14% su 2mila miliardi di profitti offshore già accumulati dalle società statunitensi all'estero. 
E' quanto prevede la manovra 2016 di Barack Obama, che intende usare le risorse per progetti infrastrutturali ma anche per coprire il deficit di Highway Trust Fund. In futuro, le compagnie con base negli Usa - secondo la proposta di bilancio - pagherebbero una tassa del 19% su tutti gli utili conseguiti all'estero, ma sarà previsto anche un credito d'imposta per le tasse versate all'erario degli altri Paesi.

Obama sta cercando da una parte di porre freno al fenomeno che ha visto "scappare" sempre più - dal punto di vista fiscale - le grandi aziende verso Paesi che offrono tassazioni più vantaggiose. Molte società Usa hanno infatti acquisito competitor in sistemi fiscali strategici, quali l'Irlanda, per poi 'appendervi il cappello'. D'altra parte, però, il leader Usa sta cercando anche di fissare un quadro fiscale certo e non troppo punitivo, come richiedono le stesse aziende che lamentano l'incidenza troppo elevata delle tasse, responsabile del loro atteggiamento esterofilo.

Secondo la regola attuale, le compagnie Usa sono sottoposte a una tassazione fissata al 35% degli utili che raccolgono in giro per il mondo. Godono di un credito d'imposta per i pagamenti fatti agli altri governi e non devono versare nulla al fisco di casa fin quando non rimpatriano i capitali. Il sistema incentiva così a rendicontare utili fuori dai confini nazionali e a lasciarli lì. Microsoft, ad esempio, ha quasi 93 miliardi di profitti fuori dagli Usa e se li dovesse riportare in casa dovrebbe versare 29,6 miliardi di dollari, con un'incidenza al 32% circa. Visto che le regole dicono che la società che rimpatria i profitti deve pagare la differenza tra il 35% di tassazione americano e l'aliquota straniera che viene applicata nel Paese dove sono presenti i profitti, ciò significa che finora Microsoft ha pagato il 3% circa di tasse. 

Il piano, che sta conquistando l'attenzione della stampa finanziaria e non solo, farà parte di un budget complessivo da 3.990 miliardi di dollari, costruito per andare a supporto delle middle class americana. Secondo i documenti di cui dà conto Bloomberg, dalla mossa sulla tassazione dei profitti esteri si attendono 238 miliardi di dollari.

Perché in Italia le imprese estere non pagano le tasse sui profitti realizzati in italia

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Un’azienda italiana paga il 31,4 per cento di tasse sugli utili. Se fosse in Irlanda, pagherebbe il 12,5 per cento. E se invece fosse una multinazionale americana avrebbe una possibilità molto interessante: abbassare l’aliquota al 2,5 per cento, grazie a una sede in Irlanda, esattamente come accaduto a Apple e come denunciato in questi giorni sul Financial Times.
Cosa significa, in concreto? Che l’anno scorso, grazie a questo trucco, Google ha evitato di pagare quasi 9 miliardi di euro di tasse. È una cifra di tutto rispetto – l’Imu sulla prima casa, per capirci, vale 4 miliardi – che Google risparmia grazie a un sistema che è perfettamente legale. 
Apple ha "salvato" 29 miliardi di euro dal fisco con uno stratagemma intuitivo: non ha dichiarato il domicilio fiscale delle sue sedi a Cork, in Irlanda. 
A dar retta al governo di Dublino, dal 2015 non potrà più farlo. Potrà però seguire lo schema che già fa la felicità di aziende come Google: il "doppio irlandese con panino olandese" (Double Irish with a Dutch Sandwich). È una triangolazione tra una sede irlandese, una olandese e una in un paradiso fiscale (dove agli utili d’impresa viene applicata un’aliquota molto interessante: zero).
Abbiamo una società americana, che ha una sede in Irlanda, dove ha assunto delle persone. Le tasse sui dipendenti e sulle strutture le paga al fisco irlandese, come ogni altra azienda. Gli utili, invece, fanno un giro più complicato, per finire in paesi in cui non sono tassati. 
Agli occhi del fisco, infatti, la sede irlandese è controllata da una olandese, che a sua volta risulta sussidiaria di una registrata in un paradiso fiscale (nel caso di Google, le Bermuda).
Lo schema sfrutta tre norme a suo favore: primo, l’Irlanda permette a un’azienda di pagare le tasse nello stato da cui viene controllata (e le sedi irlandesi di Google risultano sussidiarie di un “quartier generale” alle Bermuda); secondo, un trasferimento fiscale tra Irlanda e un paradiso fiscale è tassato, ma quello tra Irlanda e Olanda no (perché passa tra due paesi dell’Unione Europea); terzo, in base alle leggi olandesi, il trasferimento all’estero non è tassato. Questa triangolazione costa pochissimo: la strada è tortuosa, ma alle Bermuda arriva circa il 99,8 dei soldi che erano partiti dall’Irlanda.
Quindi, riassumendo (e semplificando): Una società italiana vuole farsi pubblicità su Internet. La compra da Google, che gliela vende attraverso la sua sede irlandese. Quello che Google guadagna con operazioni come questa andrebbe tassato al 12,5 per cento. Invece, gli utili passano (con un trasferimento tax free) a una società olandese e poi (di nuovo con passaggio tax free) a una seconda società irlandese, sussidiaria di una sede delle Bermuda (dove gli utili d'impresa non vengono tassati). Risultato: si risparmiano miliardi di euro, che altrimenti sarebbero finiti al fisco di Dublino.
Ma le imprese non dovrebbero pagare le tasse nei paesi in cui generano profitti? 
"È vero, ma il problema è capire da dove vengano i profitti", dice Stewart. Per aziende come Google sono il frutto delle innovazioni che porta in campo tecnologico. E chi detiene i diritti sui brevetti? La sede alle Bermuda. Per questo motivo "Google può dire: i profitti che faccio in giro per il mondo sono il frutto di tecnologie che sono proprietà della mia sede alle Bermuda, perciò le tasse le pago lì". Sempre che ce ne siano.
Perché un sistema del genere è legale?
Perché ci guadagnano tutti: l’Irlanda ha attirato 700 società americane, che danno lavoro a 115 mila irlandesi (su cui pagano miliardi di euro di tasse). 
In Olanda si dà lavoro a molti intermediari e i paradisi fiscali incassano cifre consistenti. Anche gli Stati Uniti sono soddisfatti, per quanto non possano dirlo questi escamotage fiscali danno un vantaggio alle loro aziende, che continuano a dare lavoro e a pagare tasse anche in patria. 
Gli unici perdenti, in questo gioco, sono i paesi europei  gli utili che queste aziende fanno in Italia vengono tassati in paradisi fiscali.
Intanto si fanno appostamenti per controllare gli scontrini del caffé! 

Il sindaco efficiente

Il sindaco efficiente
Il sindaco se vuol essere efficiente
deve accontentare tanta ma tanta gente,
se promette può andare molto lontano
tanti dei suoi concittadini gli tenderan la mano.
Le più grandi cazzate sparare potrà
ognun lo supporta e non lo contraddirà.
I voti presi son come un poderetto
per cinque anni diritto avrà del tesoretto.
Può fare  e disfare a piacimento
nessuno potrà reclamare lo scontento.
Chi alla prossima elezione
si ricorderà della sua gestione?
C'è il rischio che pur valendo niente
ottenga per mezzo degli amici un risultato sorprendente.
Agli amici poi arriveran puntuali
premi e gettoni che non hanno uguali.
Color che ruminano ma nulla fanno
avranno angustie e tasse tutto l'anno.

L'emigrante

L'emigrante
Se l'emigrante vuoi ospitare
in Prefettura devi andare.
Il funzionario zelante  e bello
ti chiederà questo e quello;
molti documenti devi portare
decine di volte devi tornare.
Ancora il sindaco deve arrivare
perché il nulla osta deve rilasciare.
I cittadini tosto incazzati
non sono però stati consultati .
Quando finalmente le carte a posto sono
l'emigrante è i figli suoi, chiedendo perdono,
per l'Europa sono già partiti
lasciando gli ospitanti un po' basiti.
"Se il lavoro neppure per voi tenete
che ci stiamo a fare qui noi anime inquiete?"