giovedì 29 ottobre 2015

assunzione di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni,

La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 26 novembre 2014 (cause riunite C 22/13, da C 61/13 a C 63/13 e C 418/13) su ordinanza di rinvio pregiudiziale del Tribunale di Napoli e, successivamente, della Corte costituzionale, si segnala per alcuni passaggi significativi, ma anche per talune omissioni, così ributtando la palla nel campo della giurisdizione interna. Complessivamente si tratta di una sentenza importante, sia per le ricadute sul piano interno, sia per alcuni passaggi significativi che, pur appena abbozzati, potrebbero portare, nel futuro, a significative modificazioni nella interpretazione, da parte della Corte di giustizia, delle direttive sociali. Preliminarmente deve ricordarsi come la Sentenza non riguardi solo il precariato scolastico ma pubblico in generale (maestri e personale ATA degli asili comunali, causa C-63/13, Russo), resi “scolastici” da un legislatore che si è accorto, solo dopo la proposizione della questione interpretativa pregiudiziale, della circostanza che gli stessi non erano disciplinati dalla normativa del settore scuola.

Interessa poi l’art. 36, comma 5, del d.lgs. 165/01, reso “nudo” ovvero senza la protezione dell’art. 97 della Costituzione: «In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte 1 Cfr. art. 4, comma 11, del D.L. 31 agosto 2013, n. 101, come convertito con modificazioni dalla L. 30 ottobre 2013, n. 125. delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative .
Anche in questo caso una rilevante segnalazione: non è richiamato il prosieguo della disposizione (Le amministrazioni hanno l'obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave. I dirigenti che operano in violazione delle disposizioni del presente articolo sono responsabili anche ai sensi dell'articolo 21 del presente decreto. Di tali violazioni si terrà conto in sede di valutazione dell'operato del dirigente ai sensi dell'articolo 5 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286), per cui appare abbastanza palese che detta ultima previsione non è considerata dalla C.g.u.e. misura ostativa
. Il legislatore interno, preoccupato dalla possibilità di risarcire i danni di cui all’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165/01 nella tarda estate del 2013 è intervenuto con il D.L. n. 101, convertito con L. n. 125/13, abolendo il risarcimento del danno in ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro con la P.A.. il comma 5-quater prevede: I contratti di lavoro a tempo determinato posti in essere in violazione del presente articolo sono nulli e determinano responsabilità erariale. I dirigenti che operano in violazione delle disposizioni del presente articolo sono, altresì, responsabili ai sensi dell'articolo 21. Al dirigente responsabile di irregolarità nell'utilizzo del lavoro flessibile non può essere erogata la retribuzione di risultato.
Nel caso di specie si deve, in via preliminare, rilevare che dalle ordinanze di rinvio e dalle spiegazioni fornite in udienza risulta che, in forza della normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali, come prevista dalla legge n. 124/1999, l’assunzione di personale nelle scuole statali ha luogo sia a tempo indeterminato tramite l’immissione in ruolo sia a tempo determinato mediante lo svolgimento di supplenze.
L’immissione in ruolo si effettua secondo il sistema cosiddetto «del doppio canale», ossia, quanto alla metà dei posti vacanti per anno scolastico, mediante concorsi per titoli ed esami e, quanto all’altra metà, attingendo alle graduatorie permanenti, nelle quali figurano i docenti che hanno vinto un siffatto concorso senza tuttavia ottenere un posto di ruolo, e quelli che hanno seguito corsi di abilitazione tenuti dalle scuole di specializzazione per l’insegnamento. Si è fatto ricorso alle supplenze attingendo alle medesime graduatorie: la successione delle supplenze da parte di uno stesso docente ne comporta l’avanzamento in graduatoria e può condurlo all’immissione in ruolo.
111 In ogni caso, va osservato che, come risulta dal punto 89 della presente sentenza, una normativa nazionale quale quella di cui ai procedimenti principali non riserva l’accesso ai posti permanenti nelle scuole statali al personale vincitore di concorso, poiché essa consente altresì, nell’ambito del sistema del doppio canale, l’immissione in ruolo di docenti che abbiano unicamente frequentato corsi di abilitazione. In tali circostanze, come la Commissione ha fatto valere in udienza, non è assolutamente ovvio – circostanza che spetta, tuttavia, ai giudici del rinvio verificare – che possa essere considerato oggettivamente giustificato, alla luce della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro, il ricorso, nel caso di specie, a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili in dette scuole motivato dall’attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali.
Le ragioni di bilancio (punto 110) sebbene … possano costituire il fondamento delle scelte di politica sociale di uno Stato membro e possano influenzare la natura ovvero la portata delle misure che esso intende adottare,… esse non costituiscono tuttavia, di per sé, un obiettivo perseguito da tale politica e, pertanto, non possono giustificare l’assenza di qualsiasi misura di prevenzione del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato ai sensi della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro.
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Ciò significa che uno Stato no sufficientemente  organizzato a pilotare la macchina delle assunzioni provvederà a tagli del personale e al blocco delle assunzioni per pagare i danni causati a pubblici dipendenti precedentemente assunti irregolarmente!

Manager più guadagnano e più fanno causa allo Stato

Il caso-dirigenti dopo lo stop della Consulta alla nomina dei funzionari incaricati sta scavando un solco all'interno dell'organizzazione della macchina dell'amministrazione finanziaria. Soprattutto perché i funzionari «decaduti» dall'incarico di dirigenti si stanno muovendo a suon di carte bollate per veder riconosciuta la stabilizzazione e risarcimenti. Con un'iniziativa – promossa dal sindacato Unadis – che si muove su un doppio livello: denuncia al Tribunale di Roma e denuncia alla Commissione europea. Per ora sono circa 400 sui 767 decaduti delle Entrate ad essersi mossi che hanno presentato una denuncia per rivendicare i propri diritti
 La loro rivendicazione poggia sulla cosiddetta “sentenza Mascolo” con cui la Corte di giustizia Ue circa un anno fa ha condannato l'Italia per un abuso dei contratti precari nel comparto della scuola. I giudici del Lussemburgo, pur riconoscendo il ricorso al tempo determinato nel pubblico in attesa della conclusione di una procedura di concorso, hanno stabilito che un impiego permanente e durevole si pone in contrasto con l'accordo quadro comunitario sul lavoro a termine secondo cui, comunque, il tempo indeterminato è riconosciuto come la forma “comune” dei rapporti di lavoro. A questo si aggiunge la richiesta dei danni: 20 mensilità dirigenziali, cioè circa 70mila euro pro capite.
Ma tra i nodi aperti ci sono anche la questione dei 700 funzionari vincitori di concorso retrocessi dalla terza alla seconda area per un vizio formale rilevato dal Tar.
 
Dopo la privatizzazione sono esplose le cause di lavoro.

MQ quanto prendono rispetto ad un dirigente privato?

Quanti benefici hanno in più nel mercato protetto della p.a.?

Ma chi nomina questi dirigenti e chi analizza i loro risultati?



Concessioni cimiteriali scadute . EFFETTI

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte
Nel ricorso per
- a) l’accertamento, previa adozione di idonea misura cautelare della assoluta nullità del procedimento amministrativo asseritamente promosso da parte dell’Amministrazione comunale (con completa ed irrimediabile distorsione dell’esercizio della potestà amministrativa ) e/o per l’annullamento degli atti assunti da parte dell’Amministrazione relativamente allo “sgombero d’ufficio” di loculi siti nel cimitero comunale della frazione di Dova ;
- b) nonché per l’accertamento della piena validità ed efficacia delle concessioni perpetue rilasciate;
- c) nonché per la condanna dell'amministrazione intimata al ripristino della situazione antecedente ed al risarcimento del danno;
FATTO e DIRITTO
1. Con ricorso passato alla notifica il 14 gennaio 2013 e depositato il successivo 30 gennaio i signori in epigrafe indicati riferiscono che il Comune di Cabella Ligure ha proceduto, l’11 dicembre 2012, alla estumulazione della salma di una serie di defunti a suo tempo allocati nel cimitero della frazione di Dova Superiore in forza di concessioni rilasciate in perpetuo, ed agiscono al fine di sentir dichiarare la nullità di tutti gli atti del Comune che hanno portato a tale arbitraria estumulazione, di far accertare la perdurante efficacia e validità delle concessioni cimiteriali ritenute scadute nonché di ottenere la condanna del Comune al risarcimento del danno.
 Constatando che nell’anzidetto elenco di concessioni giunte a scadenza ne figuravano alcune rilasciate con la clausola “in perpetuo”, i famigliari dei relativi defunti presentavano rimostranze, di seguito alla qual cosa il Comune indirizzava, a ciascuno di essi famigliari, una lettera datata 31/10//2012, n. prot. 2700, nella quale comunicava che “Questo Ufficio ha necessità di conoscere, entro il 19/11/2012 i dati del/i defunto/i di cui la S.V. é titolare e/o la cui concessione si riferisce, non essendo rinvenibili tali dati dal Repertorio o dalla copia di atto di concessione depositata agli atti. Si coglie l’occasione per precisare che la Concessione nel Cimitero Comunale é rilasciata sotto “”l’osservanza delle condizioni previste dal vigente regolamento di polizia mortuaria, che qui si intendono riprodotte e che il richiedente dichiara di conoscere, nonché di tutte quelle altre che, in aggiunta ed in modificazione, venissero sanzionati con altri futuri regolamenti.””.
D’altra parte, se le concessioni scadute non vengono rinnovate, l’Amministrazione comunale ha l’obbligo di rientrare in possesso dei loculi onde non causare danno erariale al Comune. Si avvisa pertanto che, nel caso in cui la concessione di cui la S.V. é titolare o erede del titolare non sarà rinnovata entro 30 giorni dalla presente si procederà d’ufficio allo sgombero dei loculi con rivalsa delle spese e riposizione dei resti mortali nell’ossario comune. La presente vale quale comunicazione di inizio del procedimento …..”. Nel silenzio degli interessati l’11 dicembre seguiva, come già precisato, l’estumulazione delle salme, della quale i famigliari apprendevano constatando la rottura dei marmi di chiusura dei loculi, il cui contenuto i ricorrenti affermano di non sapere con certezza dove sia stato riposto e da chi.
2. Prima di procedere alla disamina del ricorso é opportuno rilevare, in rito, che i ricorrenti non formulano nel presente giudizio alcuna domanda di annullamento di atti, instando invece per la declaratoria di nullità ed inesistenza dell’intero procedimento amministrativo che ha condotto alla estumulazione delle salme dei rispettivi congiunti, per l’accertamento della validità ed efficacia delle rispettive concessioni cimiteriali ed, infine, per la condanna del Comune al risarcimento del danno connesso alla illegittima estumulazione delle salme. Ciò che i ricorrenti fanno valere nella presente sede giudiziale é dunque, nella sostanza, la violazione della clausola di durata apposta alla concessione cimiteriale di rispettivo interesse e la posizione di diritto soggettivo da questa nascente e mai derubricata a posizione di interesse legittimo per effetto di provvedimenti di annullamento o revoca successivi.
4. Ciò premesso, va chiarito, in punto di fatto, che le concessioni demaniali prodotte in giudizio dai ricorrenti in data 30 gennaio e 18 febbraio 2013, tutte redatte mediante compilazione di identico modulo, risultano effettivamente rilasciate “per la tumulazione perpetua” della salma del concessionario e/o dei suoi famigliari e “sotto l’osservanza delle condizioni previste dal vigente regolamento comunale di polizia mortuaria, che qui si intendono riprodotte e che il ricorrente dichiara di conoscere, nonché di tutte quelle altre che, in aggiunta ed in modificazione, venissero sanzionati con altri futuri regolamenti”.
 Tutte le anzidette concessioni risultano inoltre rilasciate in data posteriore al 6 novembre 1976, quando era già entrato in vigore il Regolamento di polizia mortuaria nazionale di cui al D.P.R. n. 803 del 21 ottobre 1975, ma quando ancora era vigente il Regolamento di polizia mortuaria del Comune di Cabella Ligura approvato con delibera di Consiglio Comunale n. 6 del 18 febbraio 1968 nella formulazione originaria, il quale all’art. 50 statuiva quanto segue: “I loculi sono capaci di un solo feretro. Il diritto di sepoltura é circoscritto alla persona di famiglia designata dall’acquirente del loculo. Il diritto di concessione del loculo può essere trentennale o perpetuo. Per le concessioni trentennali che hanno decorrenza dalla data dell’atto il Comune rientrerà in possesso del loculo stesso alla fine del trentennio.”. Le concessioni cimiteriali per cui é causa risultano quindi essere state rilasciate nel rispetto del Regolamento comunale di polizia mortuaria in allora vigente, ma in violazione del Regolamento nazionale di cui al D.P.R. n. 803/75, il cui art. 93 disponeva, per quanto qui di interesse, che “Le concessioni previste dall’art. 91, rilasciate dopo l’entrata in vigore del presente regolamento, sono a tempo determinato e di durata non superiore a 99 anni, salvo rinnovo. Le concessioni a tempo determinato di durata eventualmente eccedenti i 99 anni, rilasciate anteriormente alla entrata in vigore del presente regolamento, possono essere revocate, quando siano trascorsi 50 anni dalla tumulazione dell’ultima salma, ove si verifichi una grave situazione di insufficienza del cimitero rispetto al fabbisogno del comune e non sia possibile provvedere tempestivamente all’ampliamento del cimitero o alla costruzione di nuovo cimitero. Tutte le concessioni si estinguono con la soppressione del cimitero….”.
5. Questo essendo il contesto fattuale e normativo in cui si é venuto a trovare il Comune di Cabella Ligure, il Collegio ritiene che l’operato della Amministrazione comunale sia esente da vizi dovendosi pervenire alla conclusione che le concessioni per cui é causa sono state rilasciate, malgrado quanto si legge nel relativo documento, per la durata di un trent’anni.
Le singole clausole contenute nell’atto di concessione demaniale se contrarie a norme imperative sono colpite da nullità ai sensi dell’art. 1418 comma 1° c.c. e possono determinare la nullità dell’intero atto di concessione, ove risulti che le parti non sarebbero addivenute alla stipula dell’atto in mancanza di quella clausola colpita dalla nullità.
5.3. Dopo di che occorre considerare che il Regolamento comunale di polizia mortuaria dopo l’entrata in vigore del D.P.R. 308/75 continuava ad essere in vigore per la parte non incompatibile con il Regolamento nazionale, e quindi, per quanto qui di interesse, nella parte in cui prevedeva che le concessioni cimiteriali aventi ad oggetto loculi avessero una durata trentennale fissa e non derogabile: e tale norma, per il fatto di prevedere un termine di durata rigido, di essere pienamente in vigore nel momento in cui le concessioni per cui é causa venivano rilasciate e, infine, per il fatto di avere natura integrativa rispetto alle previsioni contenute nel Regolamento nazionale, ad avviso del Collegio era idonea ad integrare automaticamente il contenuto delle concessioni cimiteriali per cui é causa ai sensi dell’art. 1339 c.c., che appunto prevede l’inserzione automatica nel contratto di clausole imposte dalla legge e che ad avviso del Collegio può applicarsi estensivamente anche a norme di rango inferiore, quantomeno laddove queste siano attuative o integrative di norme di rango primario.
Le concessioni prodotte agli atti di causa risultavano in definitiva sottoposte, sin dal giorno del loro rilascio, ad una clausola di durata trentennale discendente dalla vigenza dell’art. 50 del Regolamento di polizia mortuaria del Comune, come modificato a seguito della entrata in vigore del D.P:R. 803/75: maturato il suddetto termine finale di efficacia il Comune non era quindi tenuto, per tornare in possesso dei loculi, ad espletare un procedimento finalizzato alla formale revoca e/o annullamento delle concessioni rilasciate, stante che l’efficacia di queste ultime era già venuta meno con lo spirare del termine. In ossequio ai principi generali che devono assistere la azione amministrativa, ed in particolare in ossequio ai principi di trasparenza, correttezza e lealtà della azione amministrativa, il Comune avrebbe dovuto semmai verificare, prima di procedere alle estumulazioni, se gli interessati fossero disponibili a rinnovare per un ulteriore trentennio le vecchie concessioni: ma anche da tale punto di vista l’operato della Amministrazione appare incensurabile, se si considera la difficoltà di identificare i soggetti all’attualità interessati a rinnovare le concessioni rilasciate 30 anni or sono nonché il fatto che, al postutto, la quasi totalità degli odierni ricorrenti era stata raggiunta dalla nota del 31/10/2012, a mezzo della quale il Comune sosteneva chiaramente la tesi della durata trentennale delle concessioni, che invitava a rinnovare entro breve termine.
Per completezza va ancora rilevato che del tutto inconferente é il richiamo alle pronunce del Consiglio di Stato che hanno affermato la nullità di quelle norme di regolamento comunale che impongono, ai titolari di concessioni cimiteriali perpetue, di chiedere la rinnovazione della concessione ogni trent’anni: tale giurisprudenza si riferisce infatti solo alle concessioni perpetue rilasciate prima della entrata in vigore del D.P.R. 308/75, il cui art. 93 tutela, come sopra si é visto, le concessioni di durata eccedente i 99 anni solo se rilasciate anteriormente alla entrata in vigore del Regolamento nazionale: ma nel caso di specie la situazione é completamente diversa, stante che tutte le concessioni per cui é causa sono state rilasciate in epoca posteriore.
Per quanto riguarda le operazioni di estumulazione esse costituivano attività amministrativa dovuta ed a carattere vincolato, e pertanto l’eventuale violazione di garanzie procedimentali non era idonea a determinarne l’illegittimità e tanto meno la nullità degli stessi. Peraltro gli avvisi affissi nell’area cimiteriale benché generici sono riusciti nell’intento di richiamare l’attenzione degli interessati, che infatti hanno contattato il Comune, hanno fatto pervenire i rispettivi nominativi e generalità e sono poi stati raggiunti dalla raccomandata del 31 ottobre 2012 con la quale il Comune ha spiegato le ragioni della durata trentennale delle concessioni, invitando i destinatari a rinnovare le concessioni medesime entro breve termine onde evitare l’estumazione delle salme. Frutto di illazioni prive di supporto probatorio é l’asserzione dei ricorrenti secondo la quale le salme sono state estumulate da sconosciuti per essere riposte chissà dove. Le operazioni materiali afferivano, comunque, ad una fase meramente esecutiva nel corso della quale il Comune doveva curare altro che il rispetto degli adempimenti previsti dal Regolamento di polizia mortuaria, che non prevede che siano invitati a presenziare i famigliari e neppure prevede la necessaria partecipazione della ASL ad ogni estumulazione.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Prima) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Torino nella camera di consiglio del giorno 4 aprile 2013

Normativa sismica Progetto Non conforme. Quesito

Ogg: Richiesta consulenza

Gentile Avvocato,
mi permetto di disturbarla per un chiarimento sulla procedura di " Sanatoria alle violazione delle norme sismiche".
In particolare io mi sono accorto, solo dopo la stipula del contratto preliminare, che erano state eseguite modifiche importanti alla palazzina NON oggetto di verifiche strutturali di adeguamento presso il Genio Civile.
Nel caso venisse depositato al Genio Civile un nuovo progetto quale procedura  seguirebbe  la sua eventuale approvazione.
Con viva cordialità
Ing. G B

Risposta
Premesso che  è necessario verificare se esistono disposizioni nella legislazione regionale, di norma 
gli interventi da sanare devono essere conformi sia alla norma tecnica vigente al momento dell’abuso che a quella vigente al momento di presentazione dell’istanza, fatte salve le opere realizzate prima della classificazione sismica. 
Nel caso contrario bisogna effettuare il relativo adeguamento alla normativa sismica vigente.
Pere verificare l'estinzione del reato bisogna nella specie configurare di che reato si tratti.

mercoledì 28 ottobre 2015

Processo amministrativo. Provvedimento cautelare

Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

DECRETO
sul ricorso numero di registro generale 1106 del 2015, proposto da: 
Romeo Gestioni Spa,
 
contro
Inps - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale,
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE III n. 00851/2015, resa tra le parti, concernente affidamento servizi di gestione amministrativa, tecnica e di supporto alla valorizzazione del patrimonio immobiliare da reddito dell'INPS - ris. danni -

Vista la nuova istanza cautelare depositata il 16 marzo 2015 da Romeo Gestioni s.p.a., contenente anche la richiesta di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi degli artt. 56 e 98, co. 1, cod. proc. amm.;
CONSIDERATO:
- che Romeo Gestioni s.p.a. ha impugnato l’aggiudicazione a Prelios e associati del servizio messo a gara dall’I.N.P.S. e meglio descritto in atti;
- che il ricorso, dopo pregresse vicende giurisdizionali, è stato respinto dal T.A.R. Lazio con la sentenza n. 851/2015, cui ha fatto seguito l’appello di Romeo Gestioni s.p.a. con richiesta di sospensiva;
- che in attesa della suddetta udienza di discussione, con atto depositato il 16 marzo 2015, previa notifica alle controparti, Romeo Gestioni s.p.a. ha riproposto la domanda cautelare chiedendo altresì un provvedimento monocratico d’urgenza;
- che su tale richiesta le parti sono state sentite sommariamente;
- che nella presente sede cautelare non è rilevante la delibazione del fumus boni iuris della causa, ma solo la valutazione del danno temuto nell’immediato;
- che, quanto ai profili di danno, assume rilievo la circostanza che Romeo Gestioni s.p.a., oltre che agire quale partecipante alla gara e aspirante al nuovo contratto, tutela la sua posizione di gestore uscente dal servizio, interessato a non procedere al definitivo e formale passaggio delle consegne al nuovo gestore, sino a che non sia stato pubblicato il dispositivo della emananda sentenza di questa Sezione;
- che si può considerare sensibile il danno che deriverebbe all’appellante qualora il passaggio delle consegne risultasse anticipato rispetto alla pubblicazione del dispositivo della emananda sentenza, laddove vi sarebbe un danno altrettanto sensibile per le controparti (I.N.P.S. e controinteressati) se il formale passaggio delle consegne venisse correlativamente differito;
- che in questa luce si può concedere la invocata misura cautelare della sospensione degli effetti della sentenza del T.A.R. e dei provvedimenti impugnati in primo grado;
- che tuttavia, nel rispetto del principio dell’equo bilanciamento degli interessi delle parti, occorre precisare che con tale misura cautelare si intende differire solamente l’atto formale e conclusivo di passaggio delle consegne fra il vecchio e il nuovo gestore
- che in conclusione la domanda cautelare va accolta nei sensi e nei limiti sopra precisati;
- che, risultando già fissata la discussione del merito all’udienza pubblica del 9 aprile p.v., l’esame collegiale della presente istanza cautelare può ben essere deferito alla stessa data e alla stessa udienza;


P.Q.M.
accoglie l’istanza nei sensi di cui in motivazione
Resta fissata, per la discussione anche del presente incidente cautelare, l’udienza pubblica del 9 aprile p.v.

Così deciso in Roma il giorno 17 marzo 2015.

Massime per il politico

Massime  per il politico

Non decidere mai
Se proprio devi decidere: rinvia
Prendere impegni ma non darvi mai seguito se scontentano gli intoccabili
 Usare la mano di ferro con chi non ha protezioni
Negare sempre anche l’evidenza
Aspettare che sia la magistratura a risolvere i problemi
Ricorda che la pubblica amministrazione funge da ammortizzatore sociale
Nominare assessori persone che non danno fastidio
Nominare solo dirigenti fedeli
Rimuovere i dirigenti che vogliono interpretare la legge e non si adeguano

Ricordare che ogni cosa si fa deve procurare dei voti

lunedì 26 ottobre 2015

atti osceni in luogo pubblico. Stato necessità

Corte di Cassazione, sezione III Penale
sentenza 16 luglio – 7 ottobre 2015, n. 40270
Ritenuto in fatto
  1. Con sentenza dei 22 ottobre 2014, la Corte di Appello di Roma ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Roma in 16 maggio 2011, che aveva condannato F. F., alla pena di mesi due di reclusione con il beneficio della sospensione condizionale, per il reato di atti osceni in luogo pubblico (art. 527 c.p.), perché, in concorso con M. E., commetteva atti osceni in luogo pubblico, consistiti nel consumare un rapporto sessuale nella pubblica via, alla vista dei passanti,
  2. I giudici di merito avevano ritenuto che non fosse riconoscibile la richiesta esimente dello stato di necessità sulla base della circostanza che la F., di nazionalità rumena, era stata sfruttata nel mercato della prostituzione con violenza e costrizione fisica, nonostante fosse passata in giudicato una sentenza della Corte di Assise di appello di Roma che la riconosceva vittima dei reato in riduzione in schiavitù a fini di sfruttamento sessuale, posto in essere da alcuni suoi connazionali; i giudici di merito hanno ritenuto che la stessa avrebbe potuto rivolgersi alle forze dell’ordine per sottrarsi a tale costrizione, ed inoltre sussisteva la consapevolezza in capo alla ricorrente di porre in essere la prestazione sessuale richiesta dall’occasionale cliente sulla pubblica via, in un contesto idoneo ad offendere la sensibilità dei passanti.
    2. La F., a mezzo dei proprio difensore, ha proposto ricorso per Cassazione, chiedendo l’annullamento della sentenza per i seguenti motivi: Violazione ex art. 606 lett. b) c.p.p. per inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 54 c.p. ed ex art 606, lett. e) c.p.p. per travisamento della prova, illogicità e mancanza o mera apparenza della motivazione, in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi dei reato sia oggettivi che soggettivi.
Considerato in diritto
  1. Il ricorso va accolto sia sotto il profilo dei vizio di mancata motivazione della sentenza di appello, che per quanto attiene alla censura di erronea applicazione dell’art. 54 c.p. al caso di specie.
    2. Innanzitutto va precisato che, nonostante la lettura congiunta delle sentenze di condanna pronunciate nei due gradi di merito, possibile in forza di un consolidato principio della giurisprudenza di legittimità, l’iter argomentativo posto a base dell’affermazione di responsabilità della F. e, soprattutto, del negato riconoscimento della sussistenza dell’esimente dello stato di necessità, risulta lacunoso e senza esaustiva descrizione delle acquisizioni probatorie, le quali, come si desume dal ricorso, contengono anche l’accertamento della qualità di persona offesa della donna, nel delitto di riduzione in schiavitù e servitù, di prostituzione coatta connesso allo sfruttamento sessuale, posto in essere per tre anni (dalll’agosto 2004, all’agosto 2009);
  2. l’insufficienza motivazionale, la genericità e l’apodittica affermazione, contenuta nella sentenza di appello, circa la necessità che la donna, pur nelle condizioni di soggezione in cui versava, usasse maggiore cautela nell’esercizio del meretricio, appartandosi in un luogo non alla facile vista del pubblico, rendono evidente l’apparenza della motivazione e quindi la sostanziale mancanza di motivazione in ordine alle ragioni della condanna e del rigetto dell’atto di appello per mancato riconoscimento della circostanza di cui all’art. 54 c.p.
    3. Per quanto attiene all’esimente dello stato di necessità, è stata ribadito (cfr. da ultimo, Sez.2, n. 19714 del 14/4/2015, Moccardi, Rv. 263533) il principio della sua incompatibilità con situazioni di pericolo volontariamente cagionate dallo stesso soggetto attivo e della necessità che la situazione di pericolo di un danno grave alla persona non altrimenti evitabile risultasse attuale rispetto alla data del commesso reato.
    4. In particolare, questa Corte ha già affermato il principio della configurabilità di tale causa di giustificazione “nei confronti di una donna straniera, ridotta in condizione di schiavitù e costretta a prostituirsi, la quale sia stata indotta a commettere i reati previsti dagli artt. 495 e 496 cod. pen. per il timore che, in caso di disobbedienza, potesse essere esposta a pericolo la vita o l’incolumità fisica dei suoi familiari” (cfr. Sez. 3, n. 19225 del 15/02/2012, Dulaj, Rv. 252620): in tale decisione è stato posto in evidenza che proprio per la condizione di sottoposizione a ripetute violenze in cui le ragazze costrette a prostituirsi si trovavano (tanto da venire minacciate prospettando l’uccisione dei propri familiari), le stesse erano state indotte a mentire sempre sulla indicazione delle proprie generalità, anche ove richieste dalle Forze dell’ordine.
  3. 5. Questo Collegio ritiene che, nel caso di cui è processo, verificando la tutela degli interessi in campo nel caso di specie e gli altri requisiti richiesti dalla disposizione di cui all’art. 54 c.p., debba dei pari essere ravvisato la sussistenza dello stato di necessità.
    6. Infatti, va affermato il principio che il corretto accertamento della liceità oggettiva del comportamento posto in essere in una situazione riconducibile allo stato di necessità presuppone, innanzitutto, la verifica processuale durante il giudizio di merito che, nel caso concreto, sia stato tutelato un interesse giuridico di natura prevalente rispetto a quello oggetto di tutela mediante la fattispecie incriminatrice violata.
  4. 7. Orbene, nel caso di specie, tutte queste condizioni sussistono. Ha efficacia di cosa giudicata l’accertamento della qualità di vittima della ricorrente, in riferimento ai reati di cui agli artt. 600, 602 e 609 bis c.p. nonché di costrizione mediante violenza alla prostituzione, e certamente le modalità delle condotte violente subite per anni dalla stessa l’avevano posta in uno stato di assoggettamento continuo, con la consapevolezza del pericolo per sé e per i suoi familiari rimasti nel Paese d’origine, come dettagliatamente descritto al capo 3) dell’imputazione contenuta nella sentenza emessa dalla Corte di assise di appello di Roma in data 15 febbraio 2013 nei confronti di F. C. e S. O. L.; pertanto la situazione di pericolo nella quale la donna si trovava, proprio al tempo della condotta di atti osceni in luogo pubblico, è stata conseguenza delle condotte criminali come descritte e non era certamente evitabile per la donna porre in essere l’attività di prostituzione di strada, con le modalità imposte dai suoi sfruttatori, né rivolgendosi alle Forze dell’ordine, né avendo accortezza di scegliere luoghi riservati ove esercitare la prostituzione coatta.
    11. Non è, a maggior ragione, sostenibile, come semplicisticamente sintetizzato nella parte motiva della sentenza impugnata, che una vittima di schiavitù sessuale, senza alcuna capacità di determinarsi nelle scelte fondamentali della propria vita perché in condizioni di asservimento, tenuta a dimostrare il quotidiano saldo dei proventi della prostituzione coatta alla quale è costretta, spesso con la vigilanza dello sfruttatore o di un suo incaricato – senza alcuna alternativa percorribile senza alcun aiuto di sottrarsi a tale servitù per le continue violenze e minacce alle quali è sottoposta – possa, e quindi debba, mettere maggiore cura nella scelta del luogo ove effettuare la prestazione sessuale, pretendendo il rispetto di tale indicazione da parte dell’occasionale e frettoloso cliente.
    12. Per le ragioni fin qui esposte, questa Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché la F. non è punibile per il reato di atti osceni in luogo pubblico alla stessa contestato, atteso che, al momento dei fatto, la stessa era vittima del delitto di riduzione in schiavitù, di prostituzione coatta e di altri gravi delitti contro la persona, come accertato con sentenza passata in giudicato – acquisita agli atti nel corso dei giudizio di merito – e quindi aveva posto in essere l’atto contestato nel capo di imputazione in uno stato di necessità, ai sensi dell’art. 54 c.p.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché l’imputata non è punibile per avere agito in stato di necessità.

stalking

Corte di Cassazione sezione V Penale
sentenza 20 maggio – 10 luglio 2015, n. 29859
Ritenuto in fatto
1. La Corte di Appello di Brescia, con sentenza del 31 ottobre 2014, ha confermato la sentenza del Tribunale di Brescia dell’11 aprile 2014 che aveva condannato N.Y. per il delitto di atti persecutori in danno dell’ex compagna e madre del loro figlio D.M.L..
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, personalmente, lamentandone una violazione di legge e il difetto di motivazione in merito alla effettiva ricostruzione dello svolgimento dei fatti e alla affermazione della penale responsabilità per il contestato delitto di cui all’articolo 612 bis cod.pen..
Considerato in diritto
  1. Il ricorso è inammissibile in quanto manifestamente infondato il relativo motivo.
    2. Può, preliminarmente, affermarsi come al Giudice di legittimità resti tuttora preclusa, in sede di controllo della motivazione, la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal Giudice del merito: un tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo Giudice del fatto.
    Inoltre, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell’articolo 606 cod.proc.pen., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, sia ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del “devolutum” con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il Giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo Giudice (v. Cass. Sez. IV 3 febbraio 2009 n. 19710).
    Nel caso di specie, invece, il Giudice di appello ha riesaminato lo stesso materiale probatorio già sottoposto al Tribunale e, dopo avere preso atto delle censure dell’appellante, è giunto alla medesima conclusione della responsabilità dell’imputato.
    3. Come è noto, poi, il reato di cui all’articolo 612 bis cod.pen., introdotto dal D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, articolo 7, convertito nella L. 23 aprile 2009, n. 38, delitto abituale di evento, secondo la costante e prevalente giurisprudenza di legittimità, condivisa dal Collegio è configurabile quando, come previsto dalla menzionata disposizione normativa, il comportamento minaccioso o molesto di taluno, posto in essere con condotte reiterate, abbia cagionato nella vittima o un grave e perdurante stato di turbamento emotivo
    Nella specie, la Corte territoriale con accertamenti in fatto, incensurabili in quanto logicamente motivati ha chiarito come le condotte persecutorie ascritte all’odierno ricorrente fossero corroborate da numerose testimonianze dettagliate
  2. bastando, inoltre, ad integrare la reiterazione quale elemento costitutivo del suddetto reato come dianzi affermato, anche due sole condotte di minaccia o di molestia (v. Cass. Sez. V 1 dicembre 2010 n. 8832, Sez. V 11 gennaio 2011 n. 7601 e Sez. V 09 maggio 2012 n. 24135).
    Trattasi, in tutta evidenza, di un reato che prevede eventi alternativi, la realizzazione di ciascuno dei quali è, dunque, idonea ad integrarlo (v. Cass. Sez. V 19 maggio 2011 n. 29872),
  3. Anche sotto il profilo delle condizioni soggettive della persona offesa, le doglianze difensive non appaiono condivisibili, avendo la Corte territoriale ben espresso il disagio psicologico della persona offesa e il condizionamento delle abitudini di vita.
    Trattandosi di reato abituale di evento, è sufficiente ad integrare l’elemento soggettivo il dolo generico, quindi la volontà di porre in essere le condotte di minaccia o di molestia, con la consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente necessari per l’integrazione della fattispecie legale
  4. 4. II ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali e di una somma di denaro in favore della Cassa delle Ammende.
    Oscuramento dei dati personali e identificativi nel caso di diffusione del presente provvedimento.
P.Q.M.

La Corte, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
In caso di diffusione dei presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.

violenza sessuale

Corte di Cassazione, sezione III Penale
Sentenza 7 ottobre 2014 – 15 giugno 2015, n. 24895
Ritenuto in fatto
Con sentenza emessa in data 8.1.2008, il Tribunale di Viterbo ha dichiarato M.N. colpevole dei reati del reato previsto e punito dagli artt. 81 e 609 bis c.p. (capo A) per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, costretto Ma.An.Ma. a subire, mediante violenza consistita nell’impedirle movimenti e minacce, atti sessuali consistiti nello strusciarsi addosso toccandole il seno e varie parti del corpo, facendo precedere e seguire tali atti da parole e discorsi dal contenuto osceno e per averle lasciato all’interno di una busta paga un biglietto manoscritto recante la frase “una seghetta domenica” a cui erano spillate Euro 30,00, nonché del reato di cui, cioè, dei reati ex artt. 586 e 590 c.p. per aver cagionato a Ma.An.Ma. , quale conseguenza non voluta del delitto di cui al capo A), lesioni personali, in particolare una malattia diagnosticata quale depressione reattiva con elementi di disturbo post-traumatico da stress di durata superiore a giorni quaranta, (capo B).
L’imputato, riconosciuta l’attenuante di cui all’art. 609, comma 3, c.p. e le attenuanti generiche, applicato l’aumento per la continuazione, è stato condannato alla pena di anni due e mesi due di reclusione.
Proposto appello da parte dell’imputato, la Corte di Appello di Roma, con sentenza del 22.10.2013, ha ridotto la pena ad anni uno e mesi dieci di reclusione, concedendo i doppi benefici ed ha confermato nel resto l’impugnata sentenza.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, deducendo i seguenti motivi:
1) illogicità della motivazione in punto di attendibilità della deposizione della persona offesa.
Assume in proposito la difesa che i giudici di merito hanno posto a fondamento del loro convincimento le dichiarazioni della persona offesa senza effettuare un rigoroso vaglio della loro attendibilità, benché esse siano confuse, contraddittorie, prive di riscontri e, in alcuni casi, smentite dalle deposizioni dei testi.
La Ma. ha descritto quattro episodi in cui si sarebbe concretizzata la condotta criminosa contestata all’imputato; a questi episodi nessuno avrebbe assistito e la teste de relato R. , alla quale la persona offesa avrebbe confidato le avances sessuali dell’imputato, ha negato di averle subite anche lei quando lavorava nello stesso esercizio commerciale gestito dal M. , ridimensionando i suoi comportamenti, a suo dire improntati a leggerezza, immaturità, ma non espressione della volontà di abusare sessualmente della donna.
2) illogicità della motivazione con riguardo alla configurabilità del contestato reato di violenza sessuale, potendo al più ravvisarsi nella condotta dell’imputato il reato di molestie sessuali. Assume in proposito la difesa che la stessa parte offesa, in sede di deposizione dibattimentale, ha tratteggiato il comportamento dell’imputato con espressioni che lo riconducono nell’alveo del più lieve reato di molestie, dichiarando “faceva un po’ così, faceva lo stupidino”, quasi a voler indicare l’esistenza di un rapporto confidenziale con l’uomo, che esclude la condotta contestata.
3) Illogicità della motivazione per travisamento delle risultanze istruttorie.
Lamenta la difesa che i giudici non hanno motivato circa l’esistenza di un nesso di causalità tra la patologia diagnosticata alla parte offesa e gli abusi sessuali, omettendo di dare conto del ragionamento logico-giuridico seguito per pervenire alla conclusione della riconducibilità dello stato psicologico della persona offesa alla condotta contestata all’imputato.
Ritenuto in diritto
Il ricorso è inammissibile in quanto propone censure di merito non sottoponibili al vaglio di questa Corte di legittimità. Esso è difatti incentrato su una nuova valutazione, richiesta alla Corte di Cassazione, degli elementi di fatto acquisiti al giudizio sul presupposto della asserita inattendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa.
Si richiamano a tale riguardo i principi enunciati dalla Suprema Corte in materia secondo i quali il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione dell’espressa previsione dell’art. 606 co. 1 lett. e) c.p.p., al solo accertamento della congruità e coerenza dell’apparato argomentativo, con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo, e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o della autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti.
Ne consegue che, laddove le censure del ricorrente non siano tali da scalfire la logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, queste devono ritenersi inammissibili perché proposte per motivi diversi da quelli consentiti, in quanto non riconducibili alla categoria di cui al richiamato art. 606 co. 1 lett. e). (Cass. S.U.n.12 del 31.5.00, S.U. n.47289 del 24.9.03, sez III n.40542 del 12.10.07, sez IV n.4842 del 2.12.03).
I giudici di merito, difatti, correttamente evidenziano la credibilità della teste parte offesa Ma. per l’assenza di ragioni di malanimo nei confronti dell’imputato, di qualsiasi risentimento che trapeli nel racconto, per la puntuale, circostanziata descrizione degli eventi e per la corretta concatenazione logica nel narrato.
La versione della persona offesa trova peraltro riscontro nella deposizione dei testi escussi fra i quali il teste Luce, appartenente all’arma dei Carabinieri, che ha riferito su fatti ai quali ha assistito personalmente, quali la conversazione tra la persona offesa e la teste Reggi all’indomani della presentazione della denuncia, le testi D.M. e F. , quest’ultima dipendente del ristorante, le quali hanno riferito di aver appreso dalla Ma. la condotta posta in essere nei suoi riguardi dal datore di lavoro. La D.M. , poi, ha confermato di aver visto direttamente il biglietto scritto dall’imputato riportante la frase “seghetta domenica”.
Parimenti inammissibile è anche il secondo motivo di ricorso proposto in quanto manifestamente infondato. I giudici di merito, difatti, hanno correttamente collocato la condotta criminosa posta in essere dall’imputato nell’ambito della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 609 bis c.p., richiamando puntualmente il principio di diritto affermato da questa Corte sul punto, secondo cui “integra il reato di violenza sessuale e non quello di molestia sessuale (art. 660 cod. pen.) la condotta consistente nel toccamento non casuale dei glutei, ancorché sopra i vestiti, essendo configurabile la contravvenzione solo in presenza di espressioni verbali a sfondo sessuale o di atti di corteggiamento invasivo ed insistito diversi dall’abuso sessuale. Se dalle espressioni verbali si passa ai toccamenti a sfondo sessuale, il delitto assume la forma tentata o consumata a seconda della natura del contatto e delle circostanze del caso” (Cass. Sez. III sentenza n. 27042 del 2010).
Manifestamente infondata è infine anche la terza doglianza mossa con riferimento al vizio motivazionale inerente il nesso di causalità tra gli abusi subiti dalla persona offesa e la malattia conseguitane. I giudici di merito hanno difatti adeguatamente e logicamente motivato sul punto in esame, richiamando puntualmente le deposizioni rese dalla Dott.ssa T. e dal Dott. m. che ebbero in cura la persona offesa all’indomani dei fatti di cui all’imputazione, riscontrando e diagnosticando un disturbo post-traumatico da stress. I medesimi, in particolare, riferivano che la depressione ansiosa della donna si accentuava con i temi della sessualità essendo ricollegabile agli abusi subiti.
Il ricorso pertanto deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle Ammende che si stima determinare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il. ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile liquidate Euro 2.500,00 oltre accessori di legge.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati significativi a norme dell’art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.

Resistenza a pubblico ufficiale. danneggiamento

Cass. Pen. Sentenza 3 febbraio – 11 maggio 2015, n. 19293
Considerato in fatto
  1. La Corte di appello di Trento con sentenza in data 22 febbraio 2013 ha confermato la sentenza emessa il 10 novembre 2011 dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trento che, all’esito del giudizio abbreviato, aveva dichiarato B.M. colpevole del reato continuato di resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato ai sensi dell’art.635 ult.co. nn.1 e 3 cod.pen. e lo aveva condannato, disapplicata la recidiva e con la diminuente per il rito, alla pena di mesi sei di reclusione, assolvendolo dal reato di maltrattamenti in famiglia per insussistenza del fatto.
    2. Avverso la predetta sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione.
  2. Con il ricorso si deduce l’illogicità e contraddittorietà della motivazione e la violazione dell’art.83 cod.pen.; si sostiene che il danneggiamento ascritto all’imputato -il quale, condotto in caserma dopo una lite familiare, aveva fatto resistenza nei confronti dei Carabinieri, rompendo nella colluttazione una sedia della sala di aspetto- era stato una conseguenza, non voluta e del tutto casuale, dell’episodio principale di resistenza;.
Ritenuto in diritto
1.          II ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato.
Nella motivazione della sentenza impugnata si afferma che nella colluttazione con i Carabinieri, intervenuti per impedire che aggredisse ulteriormente la moglie all’interno dei locali della caserma in cui i coniugi erano stati condotti dopo una lite familiare, il B. aveva volontariamente danneggiato l’arredo della caserma.
La violazione dell’art.83 cod.pen. non poteva essere dedotta per la prima volta con il ricorso per cassazione, risultando dal secondo motivo di appello che l’appellante si era limitato a sostenere che il danneggiamento della sedia era frutto di una mera casualità e, comunque, non si sarebbe trattato di un’autonoma condotta criminosa rispetto al delitto di resistenza. E’ principio giurisprudenziale consolidato che non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciarsi perché non devolute alla sua cognizione
2.          Va altresì escluso che nel caso di specie il danneggiamento possa essere considerato evento non voluto valutabile ai sensi dell’art.83 cod.pen., quindi addebitabile all’agente a solo titolo di colpa, in quanto ciò avviene solo quando l’evento non voluto sia assolutamente diverso e, cioè, di altra natura rispetto all’altro perché ove invece tale diversità sia da escludere -o perché l’evento verificatosi costituisca una sorta di progressione naturale e prevedibile di quello voluto, ovvero perché risulti di entità maggiore o più grave di quest’ultimo- anche il secondo evento va addebitato all’agente a titolo di dolo, sia pure alternativo o eventuale (Cass. sez.I 20 dicembre 1988 n.3168, Ingrassia; sez.I 11 luglio 1990 n.16264, Ricci; sez.I 2 febbraio 2010 n.21955, Agosta).
3.          Peraltro, secondo la giurisprudenza di questa Corte che il collegio condivide, l’elemento intenzionale del reato di danneggiamento può sussistere nella forma del dolo eventuale, che si configura quando l’agente si sia rappresentato, come probabile o possibile, anche un evento diverso da quello voluto e, ciò nonostante, abbia agito ugualmente accettando il rischio dei suo verificarsi. In tale caso non può farsi luogo all’applicazione dell’art. 83 cod. pen. (evento diverso da quello voluto dall’agente), in quanto l’ipotesi di responsabilità per colpa è configurabile allorquando l’evento diverso, anche se preveduto, non è voluto dall’agente (Cass. sez.V 26 novembre 1986 n.2202, Capitano).
2. Alla inammissibilità del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna dei ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in euro 1.000,00.
P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

appropriazione di denaro. truffa. peculato

Corte di Cassazione, sezione VI Penale
Sentenza 24 febbraio – 29 aprile 2015, n. 18015
fatto
  1. Con sentenza del 22 novembre 2013, la Corte d’appello di Napoli ha confermato la sentenza del 10 luglio 2009, con la quale il Gup del Tribunale di Nola ha condannato, a seguito di rito abbreviato, A.G. alla pena di anni sei di reclusione per i reati di peculato continuato (capo 1) e falso (capo B), commessi fino al gennaio 2009 (per essersi l’imputata, impiegata presso la Polizia Municipale del Comune di (omissis) , appropriata di somme di denaro consegnatele dagli utenti per pagare le multe,
  2. In risposta ai motivi d’appello, la Corte ha evidenziato: a) che A. non si limitava a svolgere una mansione meramente materiale ma, a prescindere dalla qualifica formale, svolgeva un’attività di tipo impiegatizio che comportava la cura del settore dei pagamenti delle sanzioni amministrative; b) che, in ogni caso, l’appellante appariva agli utenti titolata a ricevere le somme corrispondenti all’importo delle sanzioni elevate c) che non ricorrono i presupposti del falso grossolano – prospettata fra l’altro del tutto genericamente -, dal momento che i bollettini non apparivano ictu oculi contraffatti; d) che la pena base e gli aumenti per la continuazione sono congrui; e) che correttamente il giudice ha applicato gli aumenti per i reati ai quali è applicabile l’indulto dal momento che l’istituto estingue la sanzione ma non il reato; f) che non sussistono i presupposti per la circostanza attenuante del risarcimento del danno.
    2. Nel ricorso avverso la sentenza, l’Avv. Aniello Salvi, difensore di fiducia di A.G. , chiede l’annullamento della sentenza per violazione degli artt. 62 n. 6, 81 cpv e 314 cod. pen., per violazione della legge n. 241 del 2006 nonché per manifesta infondatezza, insufficienza e contraddittorietà della motivazione ed erronea applicazione di legge penale.
    3. Avverso la sentenza ha presentato ricorso anche l’Avv. Consiglia Fabbrocini, difensore di fiducia di A.G. , e ne ha chiesto l’annullamento per le seguenti ragioni:
    3.1. violazione di legge processuale in relazione all’art. 420-quater cod. proc. pen., per avere la Corte rigettato l’istanza del 5 novembre 2013 di rinvio dell’udienza per legittimo impedimento nonostante lo stesso difensore avesse documentato un concomitante impegno professionale con imputati detenuti;
    3.2. violazione del diritto di difesa, per essere stata l’imputata erroneamente dichiarata “assente” e non “contumace”, con conseguente diritto della stessa ad avere la notifica dell’avviso di deposito della sentenza;
    3.3. violazione di legge penale in relazione agli artt. 62 n. 6, 81 cpv e 314 cod. pen., facendo difetto sia la qualifica soggettiva, sia la condotta materiale del reato di peculato;
    3.4. eccessiva gravosità della pena inflitta ed assenza di motivazione in ordine all’entità degli aumenti per la continuazione nonché omesso riconoscimento della circostanza attenuante dell’art. 62 n. 6 cod. pen., a fronte dell’offerta di risarcimento del danno rigettata dall’ente pubblico.
    4. In udienza, il Procuratore generale Dott. E. V. Scardaccione ha chiesto che il ricorso sia rigettato..
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato con limitato riguardo alla determinazione del trattamento sanzionatorio.
2. Infondato è il primo motivo di natura processuale con il quale la ricorrente ha eccepito la nullità della sentenza per omesso rinvio dell’udienza camerale del giudizio abbreviato d’appello per legittimo impedimento del difensore, in quanto impegnato quale patrocinante in altro procedimento con detenuti.
3. Al riguardo giova rammentare che, secondo i consolidati principi di questa Corte regolatrice, il legittimo impedimento del difensore, quale causa di rinvio dell’udienza, non rileva nei procedimenti in camera di consiglio, per i quali è previsto che i difensori, il pubblico ministero e le altre parti interessate, siano sentiti solo se compaiono, sicché, ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio, é sufficiente che vi sia stata la notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza.
4. Inammissibile è il motivo con il quale il ricorrente ha eccepito la violazione del diritto di difesa, per essere stata l’imputata dichiarata erroneamente “assente” anziché “contumace”, con conseguente diritto dell’appellante a ricevere la notifica dell’avviso di deposito della sentenza.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, nel giudizio di appello contro le sentenze pronunciate con rito abbreviato non trova applicazione l’istituto della contumacia dell’imputato che, in caso di assenza, è rappresentato dal suo difensore; con la conseguenza che il termine per impugnare la decisione decorre, anche per l’imputato che non vi abbia presenziato, dalla data della lettura del dispositivo e della motivazione contestuale.
5. Infondati sono anche i motivi con i quali il ricorrente contesta l’integrazione della fattispecie di peculato ponendo in luce, per un verso, che in capo ad A.G. difetta la qualifica di pubblico ufficiale ovvero di incaricato di un pubblico servizio; per altro verso, che la condotta fraudolenta era strumentale ad ottenere disponibilità del denaro oggetto del reato e costituisce dunque un antecedente rispetto all’appropriazione, di tal che nella specie risulterebbe integrato il reato di truffa.
6. Con riguardo al primo profilo di doglianza, va posto in luce come, secondo i consolidati principi di legittimità, il reato di peculato è configurabile nella ipotesi in cui l’agente si appropri di somme di pertinenza della pubblica amministrazione che siano da lui riscosse dai privati, indipendentemente dalle modalità di riscossione ed anche a prescindere dall’irritualità del mezzo di pagamento perché in contrasto con le disposizioni normative ed organizzative dell’ufficio, laddove a costituire il possesso “per ragioni di ufficio” è sufficiente un qualsiasi rapporto che, comunque, si ricolleghi, anche di fatto, alle mansioni esercitate dall’agente.
Sotto diverso profilo, questa Corte ha evidenziato che il delitto di peculato, quale reato istantaneo, si consuma nel momento stesso in cui l’agente, in possesso di un bene altrui per ragioni di ufficio, ne dispone “uti dominus
Ancora, si è ribadito che il reato impossibile di cui al comma secondo dell’art. 49 cod. pen. è configurabile allorché la difformità dell’atto dal vero risulti riconoscibile “ictu oculi”, ovvero in base alla mera disamina dello stesso (Cass. Sez. 2, n. 5687 del 06/12/2012, P.G. in proc. Rahman Ataur, Rv. 255680; Cass. Sez. 2, n. 36631 del 15/05/2013, Procopio, Rv. 257063).
12. Manifestamente infondato è anche il motivo concernente l’omesso riconoscimento della circostanza attenuante dell’art. 62 n. 6 cod. pen., a fronte della motivazione svolta dal giudicante di merito sul punto, da ritenere adeguata e non sindacabile in questa Sede. Ed invero, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte di legittimità, ai fini della concessione dell’attenuante del risarcimento del danno, la riparazione deve essere integrale (ex plurimis Cass. Sez. 5, n. 13282 del 17/01/2013 – dep. 21/03/2013, Sanchez Jimenez, Rv. 255187).
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13. Fondato è invece il motivo concernente la dosimetria della pena, con specifico riguardo alla determinazione degli aumenti per la continuazione.
Nel commisurare la pena, i giudici di merito hanno fissato la pena base in anni tre e mesi due di reclusione; hanno ridotto detta pena per le circostanze attenuanti generiche in anni due e mesi cinque di reclusione; hanno poi aumentato la pena di un mese per il falso e, quindi, di mesi due per ciascun episodio in continuazione per complessivi anni sei e mesi sei, pervenendo alla pena complessiva di anni nove, poi ridotta per la diminuente del rito abbreviato.
Secondo il chiaro disposto normativo dell’art. 81, primo e secondo comma, cod. pen., ai fini della determinazione della pena del reato continuato, si deve innanzitutto procedere alla commisurazione della pena per il reato più grave – id est la cosiddetta pena base – e su di essa si deve poi operare l’aumento sino al triplo (della pena individuata quale base) per i cosiddetti reati satelliti. È ovvio che il concetto di “pena base” per l’illecito più grave si riferisca alla sanzione come determinata tenendo conto delle eventuali circostanze aggravanti o attenuanti concorrenti nel reato maggiore.
Ne discende che, nel caso di specie, fissata la pena base per il reato più grave in anni due e mesi cinque di reclusione, il decidente di merito non avrebbe potuto determinare l’aumento per i cosiddetti reati satelliti in misura superiore al triplo, vale a dire in misura complessivamente superiore a sette anni e tre mesi.
La sentenza deve pertanto essere annullata sul punto con rinvio alla Corte d’appello di Napoli per nuova determinazione della pena.
15. Trattandosi di annullamento limitatamente alla determinazione della pena e di rigetto nel resto del ricorso, con conseguente consolidamento del giudizio di penale responsabilità per i reati in contestazione da cui discende la responsabilità civile, la ricorrente deve essere condannata alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalla parte civile; comune di …………. , spese che liquida in complessivi 2800 Euro, oltre a IVA e CPA.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli; rigetta nel resto il ricorso.
Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalla parte civile(comune di ……, spese che liquida in complessivi 2800 Euro, oltre a IVA e CPA.