martedì 20 ottobre 2015

Abuso di ufficio



Corte  di Cassazione, sezione III Penale
Sentenza 3 dicembre 2014 – 9 aprile 2015, n. 14247
Presidente Squassoni – Relatore Di Nicola
Ritenuto in fatto
1. M.R. ricorre per cassazione avverso la sentenza del 26 novembre 2013 con la quale la Corte di appello di Torino, in parziale riforma della sentenza emessa dal tribunale della medesima città, ha rideterminato in anni sette e mesi sei di reclusione la pena infintagli per i reati previsti dagli articoli 609 bis, commi 1 e 2, 609 ter, comma 1 n. 3, codice penale perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso costringeva mediante abuso di autorità e comunque induceva  a subire atti sessuali anche abusando delle condizioni di inferiorità fisica e psichica al momento del fatto nel quale versavano le persone offese e commettendo i fatti nel corso degli anni (omissis) anche nella rivestita qualità di medico specialista in pneumologia operante presso l’ospedale (omissis) , e quindi quale incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle sue funzioni.
2. Per la cassazione dell’impugnata sentenza M.R. articola, tramite il difensore, tre motivi di gravame, qui enunciati, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen., nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Con il primo motivo deduce violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen. con riferimento alla violazione e falsa applicazione dell’articolo 609 septies, comma 4 n. 4, codice penale in relazione agli articoli 12 e 371 codice di procedura penale con conseguente improcedibilità per tardività e/o inesistenza della querela relativamente ai capi e), h) ed f), dolendosi del fatto che i giudici del merito hanno erroneamente ritenuto che il ricorrente rivestisse, per le funzioni esercitate all’interno dell’ospedale, la qualità di incaricato di pubblico servizio, laddove detta qualità non è attribuibile al medico che esegua le visite in regime cosiddetto intramoenia con la conseguenza che i reati contestati in relazione alle visite effettuate nei confronti delle parti offese P. , Po. e C. dovevano ritenersi procedibili a querela, nella specie mai presentata.
2.2. Con il secondo motivo deduce l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza della motivazione su punti decisivi del giudizio (art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.) con riferimento alla mancata assoluzione ai sensi dell’articolo 530 cpv. codice di procedura penale per i singoli episodi (visite).
Sostiene che, in relazione alle visite specificate a pagina 2 del ricorso nei confronti delle parti offese ivi indicate, la condotta, così come ricostruita, non appare “configurare alcuna rilevanza penale, con conseguente richiesta di assoluzione ai sensi dell’articolo 530, secondo comma, codice di procedura penale per i singoli episodi come sopra identificati, assoluzione disattesa dalla Corte di appello con motivazione erronea perché illogica, se non addirittura omessa”.
2.3. Con il terzo motivo denuncia difetto o manifesta illogicità della motivazione quanto al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’articolo 609 bis, ultimo comma, codice penale per i singoli episodi e del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche prevalenti e nella massima espansione (art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.).
Sostiene che, per gli episodi contestati, si dovesse applicare l’attenuante della minore gravità, “erroneamente disattesa dalla Corte di appello di Torino con motivazione illogica e comunque apparente, con difetto di argomentazioni specifiche in ordine alla medesima censura contenuta nei motivi di appello”.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato.
2. Quanto al primo motivo, con logica ed adeguata motivazione, come tale sottratta al sindacato di legittimità, la Corte piemontese è giunta a ritenere che i fatti di cui ai capi e), h) ed f) furono commessi dal ricorrente nella sua qualità di medico ospedaliero, pervenendo a tale conclusione sulla base del fatto, incontroverso e neppure contestato, che, nel caso in esame, le persone offese P. , C. e Po. si fossero rivolte in prima battuta all’imputato, per come emerso da tutte le testimonianze raccolte, perché incardinato presso l’ospedale Perciò, quanto al medico che operi in regime di “intramoenia”, va ricordato che il rapporto instauratosi tra medico e paziente è di natura pubblicistica quando il secondo si rivolge al primo non per ragioni professionali, che riguardino lo specifico professionista, ma alla struttura ospedaliera nell’ambito della quale il sanitario opera, con la conseguenza che, a tal proposito, questa Corte ha già avuto modo di affermare che è procedibile d’ufficio, ai sensi dell’art. 609-septies, comma quarto, n. 3, cod. pen., il reato di violenza sessuale commesso all’interno della struttura sanitaria ai danni di una paziente da un medico ospedaliero, rimanendo irrilevante che questi, per il rapporto di fiducia instauratosi con la paziente, abbia fissato le visite senza seguire il normale iter burocratico per l’accettazione, Consegue l’infondatezza del motivo.
3. Il secondo ed il terzo motivo di gravame sono inammissibili per aspecificità posto che la Corte territoriale ha fornito adeguate risposte (pagg. 21 e 23 della sentenza impugnata) alle doglianze formulate dal ricorrente con i motivi di appello e le ragioni della decisione non sono state oggetto, come si ricava dal tenore letterale dei motivi (v. sub. 2.2 e 2.3. del ritenuto in fatto), di specifica critica come esige l’art. 581, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. per il quale ogni impugnazione deve contenere i motivi con l’indicazione “specifica” delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono la richiesta.
Nella specie, la Corte territoriale, quanto alla generica richiesta di assoluzione in relazione a talune persone offese, ha spiegato che la doglianza, oltre ad essere connotata da estrema genericità già con i motivi di appello, fosse del tutto priva di fondamento posto che le visite mediche tra il ricorrente e le persone offese altro non erano che occasioni colte dall’imputato per compiere atti sessuali, specificando l’esito degli accertamenti processuali diretti a comprovare tale affermazione, esiti in alcun modo specificamente criticati con il motivo di ricorso.
Quanto poi al mancato riconoscimento della diminuente del fatto di minore gravità, la Corte torinese ha posto in rilievo come il diniego fosse giustificato dall’invasività dei reiterati atti sessuali realizzati dal ricorrente, che aveva più volte infilato le dita nella vagina e nel retto delle persone offese, che non esitava a spaventare dicendo falsamente che era obbligato a effettuare tali manovre per escludere tali patologie, commettendo i fatti alla luce della qualifica rivestita e del contesto pubblico nel quale operava.
Rispetto a tali affermazioni e in presenza comunque della concessione della attenuanti generiche, il ricorrente nulla ha specificamente indicato per supportare la richiesta di ribaltamento delle corrette e logiche valutazioni operate dalla Corte d’appello.
Segue il rigetto del ricorso con conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e di quelle sostenute nel grado dalle parti civili indicate nel pedissequo dispositivo.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed a quelle sostenute nel grado dalle parti civili C.A. e P.O. liquidate nella complessiva somma di Euro 3.600, Z.M. liquidate in Euro 2.200, ASL di Torino n. 2 liquidate in Euro 3.000 oltre accessori di legge e spese generali, per tutte.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs. n. 196 del 2003 in quanto imposto dalla legge.

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