venerdì 16 ottobre 2015

insulti pubblicati su social network

Corte di Cassazione Penale
Sentenza  n. 20366 del 2015
La Corte, ha delineato i limiti entro cui stare per non far scattare l’ipotesi di reato prevista dagli articoli 594 e 595 del codice penale.
Con la prima delle due sentenze che si riportano in questo articolo ovvero la n. 16712/2014 la Corte di Cassazione ha esaminato un caso relativo a insulti pubblicati sul famoso social network indirizzati a una persona anche senza scriverne il nome e letti da una cerchia ristretta di amici.
La frase che ha portato la vicenda dal mondo virtuale di internet a quello reale delle aule dei tribunali è la seguente : “attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di collega sommamente raccomandato e leccaculo…” a cui va aggiunta un’espressione volgare rivolta alla moglie del collega.
Nel primo grado di giudizio il giudice riscontrava nelle suddette frasi un’offesa tale da ledere la reputazione del destinatario delle stesse e, pertanto, il Tribunale militare di Roma pronunciava una sentenza di condanna a tre mesi di reclusione militare per diffamazione pluriaggravata nei confronti dell’imputato.
In Appello, la Corte militare di Roma , invece, pronunciava una sentenza di assoluzione poichè dette frasi erano leggibili soltanto da una stretta cerchia di soggetti e non dagli altri utenti del social network.
Il Procuratore Generale però evidenziava che la pubblicazione di quelle frasi offensive erano poste a conoscenza da parte di più “soggetti indeterminati iscritti al social network e che chiunque, collega o conoscente dell’imputato, avrebbe potuto individuare la persona offesa“.
Pertanto, la Corte di Cassazione, prima sezione penale, con la sentenza in commento, ha riconosciuto che la frase fosse “ampiamente accessibile, essendo indicata sul cosiddetto “profilo” e l’identificazione della persona offesa favorita dall’avverbio “attualmente” riferita alla funzione di comando rivestita“.
Il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico” ma la “consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza anche soltanto di due persone“.
I giudici di secondo grado non hanno adeguatamente indicato le ragioni logico-giuridiche per le quali il limitato numero delle persone in grado di identificare il soggetto passivo della frase a contenuto diffamatorio determini l’esclusione della prova della volontà dell’imputato di comunicare con più persone in grado di individuare il soggetto interessato“.
Anche quest’anno la Cassazione si è occupata di insulti sui Facebook ma questa volta i protagonisti della vicenda sono quattro ragazzi che, per i loro commenti negativi pubblicati su un articolo, sono finiti sotto processo penale.
Nel caso di specie la Corte di Piazza Cavour ha prosciolto gl iimputati per la genericità delle parole dagli stessi utilizzate che non permettevano di individuare in maniera specifica le persone lese.

Il caso, nonostante la pronuncia di non luogo a procedere del giudice dell’udienza preliminare, finiva lo stesso dentro le aule del Palazzaccio ma la Corte, con la sentenza n. 20366 del 2015  considerando non consumata la diffamazione per l’assenza di “alcuna correlazione tra i commenti apparsi su Facebook e gli autori dell’articolo“, assolveva definitivamente gli imputati.

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