giovedì 22 ottobre 2015

Peculato Appropriazione indebita. Truffa differenza

Corte di Cassazione, sezione VI Penale
Sentenza 24 febbraio – 29 aprile 2015, n. 18015
Presidente Milo – Relatore Bassi
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 22 novembre 2013, la Corte d’appello di Napoli ha confermato la sentenza del 10 luglio 2009, con la quale il Gup del Tribunale di Nola ha condannato, a seguito di rito abbreviato, A.G. alla pena di anni sei di reclusione per i reati di peculato continuato (capo 1) e falso (capo B), (per essersi l’imputata, impiegata presso la Polizia Municipale del Comune di (omissis) , appropriata di somme di denaro consegnatele dagli utenti per pagare le multe, falsificando le ricevute di pagamento, somme che non venivano mai versate all’ufficio CUAS delle Poste).
In risposta ai motivi d’appello, la Corte ha evidenziato:
a) che A. non si limitava a svolgere una mansione meramente materiale ma, a prescindere dalla qualifica formale, svolgeva un’attività di tipo impiegatizio che comportava la cura del settore dei pagamenti delle sanzioni amministrative;
b) che, in ogni caso, l’appellante appariva agli utenti titolata a ricevere le somme corrispondenti all’importo delle sanzioni elevate e veniva pertanto in possesso del denaro per ragioni del suo ufficio o servizio, mentre i bollettini falsificati di pagamento consegnati agli utenti erano volti a dissimulare l’avvenuta appropriazione;
c) che non ricorrono i presupposti del falso grossolano – prospettata fra l’altro del tutto genericamente -, dal momento che i bollettini non apparivano ictu oculi contraffatti;
d) che la pena base e gli aumenti per la continuazione sono congrui; e) che correttamente il giudice ha applicato gli aumenti per i reati ai quali è applicabile l’indulto dal momento che l’istituto estingue la sanzione ma non il reato;
f) che non sussistono i presupposti per la circostanza attenuante del risarcimento del danno.
2. Nel ricorso avverso la sentenza, l’Avv. Aniello Salvi, difensore di fiducia di A.G. , chiede l’annullamento della sentenza per violazione degli artt. 62 n. 6, 81 cpv e 314 cod. pen., per violazione della legge n. 241 del 2006 nonché per manifesta infondatezza, insufficienza e contraddittorietà della motivazione ed erronea applicazione di
 legge penale.
Rileva il ricorrente che A.G. non è pubblico ufficiale né incaricata di un pubblico servizio e non svolge in concreto la funzione di addetta alla ricezione del denaro delle contravvenzioni: nella specie è dunque integrato, non il reato di peculato, ma il reato di truffa, laddove l’imputata ha indotto in errore gli utenti in merito al fatto di essere il soggetto deputato a ricevere le somme ad estinzione delle contravvenzioni loro elevate.
Sotto diverso profilo, il ricorrente evidenzia che i bollettini di pagamento consegnati agli utenti quale ricevuta di versamento sono affetti da falso grossolano, essendo costituiti da fotocopie sulle quali erano scritti a penna ad inchiostro blu o nero l’importo, la causale ed i dati di chi aveva eseguito il versamento. Infine, il ricorrente lamenta il difetto assoluto di motivazione sulla continuazione e l’erronea quantificazione degli aumenti ex art. 81, comma 2, cod. pen., in quanto operati in misura superiore al triplo della pena base nonché in relazione a reati per i quali sarebbe applicabile l’indulto perché precedenti al 2 maggio 2006.
3. Avverso la sentenza ha presentato ricorso anche l’Avv. Consiglia Fabbrocini, difensore di fiducia di A.G. , e ne ha chiesto l’annullamento per le seguenti ragioni:
3.1. violazione di legge processuale in relazione all’art. 420-quater cod. proc. pen., per avere la Corte rigettato l’istanza del 5 novembre 2013 di rinvio dell’udienza per legittimo impedimento nonostante lo stesso difensore avesse documentato un concomitante impegno professionale con imputati detenuti;
3.2. violazione del diritto di difesa, per essere stata l’imputata erroneamente dichiarata “assente” e non “contumace”, con conseguente diritto della stessa ad avere la notifica dell’avviso di deposito della sentenza;
3.3. violazione di legge penale in relazione agli artt. 62 n. 6, 81 cpv e 314 cod. pen., facendo difetto sia la qualifica soggettiva, sia la condotta materiale del reato di peculato;
3.4. eccessiva gravosità della pena inflitta ed assenza di motivazione in ordine all’entità degli aumenti per la continuazione nonché omesso riconoscimento della circostanza attenuante dell’art. 62 n. 6 cod. pen., a fronte dell’offerta di risarcimento del danno rigettata dall’ente pubblico.

Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato con limitato riguardo alla determinazione del trattamento sanzionatorio.
 Ancora, più specificamente, questo giudice di legittimità ha affermato che al procedimento camerale del giudizio abbreviato di appello non si applica l’art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen., che impone il rinvio del procedimento in caso di impedimento del difensore. (In motivazione la Corte ha chiarito che, nella menzionata udienza camerale, la presenza delle parti è facoltativa e solo per l’imputato è espressamente previsto, dall’art. 599 comma 2, cod. proc. pen., che, ove abbia manifestato la volontà di presenziare alla udienza, questa deve essere rinviata in caso di suo legittimo impedimento). (Cass. Sez. 4, n. 33392 del 14/07/2008 – dep. 12/08/2008, Menoni, Rv. 240901).
4. Inammissibile è il motivo con il quale il ricorrente ha eccepito la violazione del diritto di difesa, per essere stata l’imputata dichiarata erroneamente “assente” anziché “contumace”, con conseguente diritto dell’appellante a ricevere la notifica dell’avviso di deposito della sentenza.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, nel giudizio di appello contro le sentenze pronunciate con rito abbreviato non trova applicazione l’istituto della contumacia dell’imputato che, in caso di assenza, è rappresentato dal suo difensore; con la conseguenza che il termine per impugnare la decisione decorre, anche per l’imputato che non vi abbia presenziato, dalla data della lettura del dispositivo e della motivazione contestuale. (Fattispecie nella quale la Corte ha dichiarato intempestivo il ricorso dell’imputato, ritenendo irrilevante la circostanza che la sentenza gli fosse stata notificata in epoca successiva alla pubblicazione avvenuta mediante lettura in udienza). (Cass. Sez. 6, n. 14830 del 26/02/2014 – dep. 31/03/2014, Alaimo, Rv. 259502).
5. Infondati sono anche i motivi con i quali il ricorrente contesta l’integrazione della fattispecie di peculato ponendo in luce, per un verso, che in capo ad A.G. difetta la qualifica di pubblico ufficiale ovvero di incaricato di un pubblico servizio;
per altro verso, che la condotta fraudolenta era strumentale ad ottenere disponibilità del denaro oggetto del reato e costituisce dunque un antecedente rispetto all’appropriazione, di tal che nella specie risulterebbe integrato il reato di truffa.
6. Con riguardo al primo profilo di doglianza, va posto in luce come, secondo i consolidati principi di legittimità, il reato di peculato è configurabile nella ipotesi in cui l’agente si appropri di somme di pertinenza della pubblica amministrazione che siano da lui riscosse dai privati, indipendentemente dalle modalità di riscossione ed anche a prescindere dall’irritualità del mezzo di pagamento perché in contrasto con le disposizioni normative ed organizzative dell’ufficio, laddove a costituire il possesso “per ragioni di ufficio” è sufficiente un qualsiasi rapporto che, comunque, si ricolleghi, anche di fatto, alle mansioni esercitate dall’agente.
In particolare, questa Corte ha affermato in una fattispecie sovrapponibile a quella di specie che, ai fini della integrazione del reato di peculato, è irrilevante che l’agente sia entrato nel possesso del bene nel rispetto o meno delle disposizioni organizzative dell’ufficio, potendo lo stesso derivare anche dall’esercizio di fatto o arbitrario di funzioni, dovendosi escludere il peculato solo quando esso sia meramente occasionale, ovvero dipendente da evento fortuito o legato al caso
Sotto diverso profilo, questa Corte ha evidenziato che il delitto di peculato, quale reato istantaneo, si consuma nel momento stesso in cui l’agente, in possesso di un bene altrui per ragioni di ufficio, ne dispone “uti dominus”. In caso di riscossione di denaro per conto della P.A., posto che tale denaro diviene subito di proprietà pubblica, l’agente non può confonderlo con il proprio, assumendo l’obbligo di erogare all’amministrazione l’equivalente, o scambiarlo con titoli di credito di sua pertinenza, perché già tale comportamento assume valenza appropriativa, almeno quando il tempo trascorso tra la riscossione ed il versamento ecceda quello ragionevolmente necessario in relazione alla complessità delle operazioni da compiere.
7. Di tali condivisibili coordinate ermeneutiche ha fatto buon governo il giudice d’appello nel ritenere integrata, nel caso di specie, la fattispecie criminosa di peculato. Ed invero, in virtù del ruolo ricoperto in seno alla pubblica amministrazione –A.G. appariva agli utenti titolata a ricevere il denaro ad estinzione delle sanzioni elevate nei loro confronti, sicché, nel versare le somme, essi erano convinti di estinguere il loro debito verso l’amministrazione.
 8. Con riguardo al secondo profilo di doglianza, va rammentato che, secondo il consolidato insegnamento di questo giudice di legittimità, il delitto di peculato è configurabile quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio pone in essere la condotta fraudolenta al solo fine di occultare l’illecito commesso, avendo egli già il possesso o comunque la disponibilità del bene oggetto di appropriazione, per ragione del suo ufficio o servizio; se, invece, la medesima condotta fraudolenta è finalizzata all’impossessamento del denaro o di altra utilità, di cui egli non ha la libera disponibilità, risulta integrato il delitto di truffa, aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 9 cod. pen.
Ancora, si è affermato che l’elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata, ai sensi dell’art. 61 n.9, cod. pen., va individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o d’altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene.
12. Manifestamente infondato è anche il motivo concernente l’omesso riconoscimento della circostanza attenuante dell’art. 62 n. 6 cod. pen., a fronte della motivazione svolta dal giudicante di merito sul punto, da ritenere adeguata e non sindacabile in questa Sede. Ed invero, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte di legittimità, ai fini della concessione dell’attenuante del risarcimento del danno, la riparazione deve essere integrale (ex plurimis Cass. Sez. 5, n. 13282 del 17/01/2013 – dep. 21/03/2013, Sanchez Jimenez, Rv. 255187).
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13. Fondato è invece il motivo concernente la dosimetria della pena, con specifico riguardo alla determinazione degli aumenti per la continuazione.
Secondo il chiaro disposto normativo dell’art. 81, primo e secondo comma, cod. pen., ai fini della determinazione della pena del reato continuato, si deve innanzitutto procedere alla commisurazione della pena per il reato più grave – id est la cosiddetta pena base – e su di essa si deve poi operare l’aumento sino al triplo (della pena individuata quale base) per i cosiddetti reati satelliti. È ovvio che il concetto di “pena base” per l’illecito più grave si riferisca alla sanzione come determinata tenendo conto delle eventuali circostanze aggravanti o attenuanti concorrenti nel reato maggiore.
Ne discende che, nel caso di specie, fissata la pena base per il reato più grave in anni due e mesi cinque di reclusione, il decidente di merito non avrebbe potuto determinare l’aumento per i cosiddetti reati satelliti in misura superiore al triplo, vale a dire in misura complessivamente superiore a sette anni e tre mesi.
La sentenza deve pertanto essere annullata sul punto con rinvio alla Corte d’appello di Napoli per nuova determinazione della pena.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli; rigetta nel resto il ricorso.
Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalla parte civile(comune di ……, spese che liquida in complessivi 2800 Euro, oltre a IVA e CPA.

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