venerdì 16 dicembre 2016

Falcone Giovanni

Giovanni Falcone
È stato tra i primi a identificare Cosa Nostra in un’organizzazione parallela allo Stato, unitaria e verticistica in un’epoca in cui si negava generalmente l’esistenza della mafia e se ne confondevano i crimini con scontri fra bande di delinquenti comuni.
Grazie al suo innovativo metodo di indagine ha posto fine all’interminabile sequela di assoluzioni per insufficienza di prove che caratterizzavano i processi di mafia in Sicilia negli anni ’70 e ’80. Il metodo si avvale di indagini finanziarie presso banche e istituti di credito in Italia e all’estero e permette di individuare il movimento di capitali sospetti. Esso è tuttora adottato a livello internazionale per combattere la criminalità organizzata.
Alla fine del 1978 Giovanni Falcone si convince a chiedere la sede di Palermo. La sua vita cambia completamente sia nel privato che nella carriera: approda alla giustizia penale e comincia a costruire la nuova lotta alla mafia.
L’attività di Giovanni Falcone nel Palazzo di Giustizia di Palermo si inserisce in un momento molto grave per la città, che nel settembre del 1979 aveva assistito all’uccisione del giudice Cesare Terranova. Il giudice Rocco Chinnici, che era stato mandato a dirigere l’Ufficio Istruzione e che da tempo invitava Giovanni Falcone a suo fianco, riesce finalmente a convincerlo. Da quel momento inizia per il magistrato l’avventura giudiziaria più importante della sua vita sia dal punto di vista professionale che umano.
Appena Falcone comincia a leggere le carte delle indagini sull’imprenditore mafioso italo-americano Rosario Spatola, si rende subito conto di essersi imbattuto in un’inchiesta che riguarda i piani alti della mafia economica e finanziaria. Un’inchiesta che, muovendo da Cosa nostra militare palermitana, passa per il paludoso mondo politico-finanziario di Michele Sindona e arriva fin negli Stati Uniti e al gruppo mafioso legato al faccendiere siciliano. Si tratta della più potente associazione criminale dell’epoca, che detiene in quegli anni il commercio mondiale della droga di cui reinveste gli enormi proventi in attività lecite dopo averli opportunamente “lavati” attraverso le banche. Aprendo quel libro Falcone capisce subito di trovarsi di fronte a un pozzo nero che contiene di tutto: una lunga catena di sangue che parte da una serie di personaggi interni al mondo affaristico mafioso e finisce negli omicidi eccellenti di servitori dello Stato come il vice questore Boris Giuliano, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile e il procuratore Gateano Costa.
Estende le ricerche al campo patrimoniale, una via fino ad allora poco esplorata, riuscendo a superare il segreto bancario e ottiene la collaborazione di banche e finanziarie nazionali ed estere per ricostruire i movimenti di capitali sospetti. Il suo metodo lo espone ulteriormente, perché permette di indagare in modo efficace sui capitali del clan mafioso degli Spatola-Inzerillo. Si decide quindi di assegnargli la scorta: è il 1980. Da quel momento la vita blindata condiziona la sua quotidianità e il rapporto sentimentale da poco nato con Francesca Morvillo, magistrato alla Procura dei Minorenni.
Alla fine, dopo tanti sacrifici e rischi corsi, le indagini danno il risultato sperato e il processo Spatola si conclude con condanne esemplari. E’ la prima incrinatura nel mito della invincibilità di Cosa nostra.
Ma la reazione non si fa attendere: il 29 luglio 1983 un’autobomba massacra Chinnici insieme alla scorta e al portinaio della sua casa in via Pipitone. Erano già stati uccisi il colonnello Russo, Boris Giuliano, il capitano Basile, Mario Francese, Pio La Torre, il presidente della Regione Pier Santi Mattarella, il procuratore Costa, Cesare Terranova, l’agente Calogero Zucchetto, il Professore Paolo Giaccone, e, come estrema sfida, la mafia aveva massacrato Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo.
All’indomani dell’assassinio di Rocco Chinnici, quale suo successore a dirigere l’Ufficio Istruzione viene mandato Antonino Caponnetto che crede nelle capacità di Giovanni Falcone, che non ostacolerà mai, proteggendolo, anzi, nelle sue iniziative con la funzione di capo dell’ufficio.
Lo invita così a far parte del nuovo gruppo investigativo: il “pool antimafia”. Il pool è concepito per affrontare la complessità del fenomeno di Cosa nostra, non più vista secondo l’opinione generale, come accolita di bande, ma, secondo l’ipotesi di Falcone, che Caponnetto condivide, e che si rivelerà fondata, come organizzazione unica con struttura verticistica al cui interno non esistono gruppi con capacità decisionale autonoma.
Il frutto più importante dell’attività del pool, composto da Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello, Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta, sarà il maxi-processo.
All’origine della megainchiesta viene posto un rapporto redatto da Ninni Cassarà, vice dirigente della squadra mobile e stretto collaboratore di Falcone.
Alla fine del 1984 il pool è al massimo dell’impegno e dei risultati: a ottobre, in Canada, Falcone ottiene le prove che gli consentiranno di arrestare il 5 novembre Vito Ciancimino con l’accusa di associazione mafiosa e di esportazione di capitali all’estero.
Qualche giorno dopo vengono arrestati per associazione di stampo mafioso anche gli intoccabili esattori di Palermo, Nino ed Ignazio Salvo.
Mentre le indagini procedono, il 28 luglio del 1985 la mafia reagisce con l’uccisione del commissario Beppe Montana, amico e braccio destro di Cassarà, e, qualche giorno, dopo, il 6 agosto, dello stesso Ninni Cassarà.
Quando Caponnetto viene informato che dal carcere è partito l’ordine di uccidere anche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fa trasferire immediatamente i due magistrati al sicuro, nel carcere dell’Asinara. Giovanni e Paolo si trovano a vivere per alcune settimane reclusi come due detenuti, insieme con loro famiglie.
L’8 novembre del 1985 il pool deposita l’ordinanza di rinvio a giudizio contro 475 imputati. Il 10 febbraio 1986 inizia il primo maxiprocesso a Cosa nostra.
Le accuse ascritte agli imputati comprendono 120 omicidi, traffico di droga, estorsione e il reato di associazione mafiosa. Le prove più significative – pazientemente riscontrate - provengono dal collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, catturato come latitante in Brasile due anni prima.
Il 16 dicembre del 1987 il presidente della Corte d’Assise, Alfonso Giordano, legge la sentenza che, incredibilmente, malgrado la mole del processo, arriva nei tempi stabiliti. Tutti, il giudice a latere Piero Grasso, il pubblico ministero Giuseppe Ayala, i giurati popolari, centinaia di avvocati, in piedi per ore ad ascoltare il lungo elenco di condanne, tra cui 19 ergastoli e 2665 anni di carcere a 339 imputati. Palermo scopre finalmente che la mafia non è impunibile.
Qualche mese dopo, nel maggio del 1986, il giudice può concedersi una breve parentesi nella tensione di quei giorni dedicandosi alla sua vita privata: si sposa con Francesca Morvillo.
Ma la reazione al grande successo conseguito col maxiprocesso non si fa attendere. Caponnetto va in pensione ed è costretto a lasciare il pool. Tutti si aspettano che sia Falcone a prendere il suo posto, anche Caponnetto, che lo considera il suo erede naturale per esperienza e capacità di indagine. Ma il Consiglio superiore della magistratura nomina alla guida dell’ufficio istruzione Antonino Meli, un magistrato di vecchia scuola che non vede di buon occhio il lavoro del pool e ne comincia lo smantellamento. Nega il principio cardine del successo delle indagini di Falcone, cioè la struttura unitaria di Cosa nostra, e asseconda invece la vecchia tesi, dimostratasi ormai superata, della mafia vista come accolita di bande. Meli frantuma i processi e li distribuisce in vari uffici, col risultato disastroso di far perdere il nesso tra vicende che, senza un filo conduttore, perdono importanza.
Due anni dopo, nel 1989, una congiura di soggetti ancor oggi non tutti individuati, decide di screditare definitivamente Falcone. L’accusa è di aver fatto ritornare in Italia il pentito Salvatore Contorno, esponente della “mafia perdente”, al fine di uccidere dei rappresentanti della “mafia vincente”. Queste falsità aberranti vengono espresse in lettere anonime, dette lettere del “corvo” ed inviate a vari rappresentanti delle istituzioni. Il 20 giugno del 1989 Falcone sfugge all’agguato tesogli nella sua villa all’Addaura: un borsone con cinquantotto candelotti di dinamite posto sulla scogliera dove Falcone suole fare il bagno, viene trovato per caso da un agente della scorta. La bomba viene disinnescata e l’attentato fallisce.
Tuttavia il clima ostile del Palazzo cresce ogni giorno di più e Falcone si rende presto conto di trovarsi isolato.
Le massime incomprensioni gli derivano soprattutto dal confronto con il Procuratore Capo Piero Giammanco, che pure un tempo gli era stato a fianco. Questi ne ostacola sistematicamente il lavoro costringendolo a limiti angusti nella manovra delle indagini: Falcone avverte che in quel Palazzo, a Palermo, non riesce più a lavorare come vorrebbe e che i quotidiani dissensi lo logorano ogni giorno di più. Decide così di accogliere l’invito del Ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli a ricoprire il ruolo di Direttore degli Affari Penali al Ministero e qui prende servizio nel novembre 1991.
Martelli dimostra subito di voler dare alla sua azione una forte connotazione antimafia e Falcone capisce quanto potrebbe essere determinante il suo ruolo nell’elaborazione di nuovi strumenti legislativi per rendere più efficace l’azione della magistratura contro la criminalità organizzata. Perciò fa in modo di semplificare e razionalizzare il rapporto tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, istituendo una forma di coordinamento tra le varie procure.
Per garantire, inoltre, la circolazione delle notizie in tutto il territorio nazionale e un’azione coordinata ed efficace suggerisce con successo la costituzione di un ufficio centrale nazionale che prenderà il nome di Direzione Nazionale Antimafia, generalmente nota come Superprocura.
Ma quando Falcone viene indicato come il naturale candidato a questo nuovo ufficio, come un copione che si ripete, subisce l’avversione generale e maggiormente dei colleghi, che lo accusano di voler impadronirsi di uno strumento di potere da lui stesso ritagliato sulla sua persona.
Sul piano della necessità di impedire la comunicazione tra i boss in carcere e i mafiosi in libertà, prende corpo il cosiddetto carcere duro: cioè una forma di carcerazione differenziata (il 41 bis) per mafiosi e terroristi.
Il 30 gennaio del 1992, con una sentenza storica, la Cassazione riconosce valido l’impianto accusatorio che aveva portato alla sentenza di primo grado e rivede, aggravandolo, il giudizio d’appello che aveva mitigato le precedenti condanne. La Suprema Corte ripristina 19 ergastoli e migliaia di anni di carcere per boss e gregari.
Ma l’apice del successo sarà proprio l’inizio della fine del giudice. Cresce l’odio della mafia nei suoi confronti e, parallelamente, cresce l’avversione politica per un magistrato che si avvicina pericolosamente al territorio inesplorato delle connivenze istituzionali. Viene giudicato talmente “pericoloso” da convincere i suoi nemici ad una soluzione finale, diversa e più cruenta di quella che ne aveva decretato l’espulsione da Palermo.
Giovanni Falcone, da parte sua, sa che il conto con la mafia è aperto e considera l’attentato alla sua persona come più di una eventualità, anzi una certezza che sarebbe prima o poi arrivata. Tuttavia va avanti per la sua strada.
Il 23 Maggio 1992, Giovanni e la moglie Francesca, di ritorno da Roma, atterrano a Palermo con un jet del Sisde, un aereo dei servizi segreti partito dall'aeroporto romano di Ciampino alle ore 16,40. Tre auto, una Croma marrone, una bianca e una azzurra li aspettano. È la scorta di Giovanni, la squadra affiatatissima che ha il compito di sorvegliarlo dopo il fallito attentato del 1989 dell'Addaura. Ma poco dopo aver imboccato l’autostrada che congiunge l’aeroporto alla città, all’altezza dello svincolo di Capaci, una terrificante esplosione (500 kg di tritolo) disintegra il corteo di auto e uccide Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Fondazionefalcone.it

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