sabato 24 dicembre 2016

Seveso

Seveso

Il 10 luglio del 1976 da una fabbrica nelle vicinanze della cittadina di Seveso, nell'hinterland milanese, si sprigionò una nube tossica contenente una notevole quantità di diossina, provocando danni alla salute delle persone e all'ambiente. L'incidente, che colpì una nazione impreparata a fronteggiare simili emergenze, portò al varo della direttiva europea per il monitoraggio degli impianti industriali a rischio e segna di fatto la nascita dell'epidemiologia ambientale nel nostro paese(red).
L’ incidente ambientale è tuttora annoverato insieme a tragedie come quelle di Chernobyl e Bhopal.
La zona contaminata si estese per decine di chilometri, coinvolgendo decine di migliaia di persone e costringendo a evacuarne alcune centinaia.
Era la prima volta che un significativo quantitativo di diossina fuoriusciva da un impianto industriale diffondendosi tra la popolazione. E fu in seguito a questo incidente che nel 1982 la Comunità Europea varò la cosiddetta "direttiva Seveso" , oggi giunta alla sua terza revisione, che prevedeva il censimento degli stabilimenti a rischio, l'identificazione delle sostanze pericolose trattate, l'approntamento di piani di prevenzione e di emergenza e altro ancora. (Paradossalmente, l'Italia recepì la direttiva solo nel 1988.)
In quel giorno del 1976, durante il ciclo di lavorazione del triclorofenolo, un composto di base molto usato per la produzione di diserbanti, la temperatura del reattore dell'impianto salì fino a 500 °C. Questa temperatura superava parecchio il limite oltre cui il triclorofenolo si trasforma in un altro composto appartenente alla vasta classe delle diossine, il TCDD (o 2,3,7,8-tetracloro-dibenzo-para-diossina), sostanza che l'International Agency for Research on Cancer classifica fra quelle cancerogene.
Per evitare l'esplosione del reattore, le valvole di sicurezza si aprirono, espellendo circa 400 chilogrammi di prodotti di reazione, fra i quali un quantitativo di TCDD compreso tra i 13 e i 18 chilogrammi. Trasportata dal vento - che spirava in direzione di Seveso - la sostanza, che sarebbe divenuta nota come "la diossina" per antonomasia, si diffuse su un'ampia area intorno alla fabbrica.
Per quanto possa sembrare incredibile, la gravità del disastro non fu percepita subito. Il sindaco di Seveso, il comune che sarebbe risultato poi il più colpito, fu avvisato il giorno successivo, e come danni riscontrati fu segnalata solo la bruciatura delle foglie degli alberi intorno all'impianto.
Che si trattasse di diossina è venuto fuori da un archivio privato, perché la struttura pubblica non era in grado né di identificare il responsabile di un episodio di intossicazione collettiva, né tanto meno di identificare i rischi per la salute.
Ma nei giorni successivi all'incidente si accumularono segnali inquietanti, che indussero i sindaci di Seveso e di Meda a proibire l'accesso all'area immediatamente circostante alla fabbrica, vietare alla popolazione di toccare ortaggi, terra, erba e animali della zona delimitata e prescrivere la più scrupolosa igiene delle mani e dei vestiti.
Solo il 24 luglio, dopo le prime analisi del terreno effettuate in seguito a morie sempre più estese di animali e al crescente numero di casi di cloracne un grave eritema che può lasciare segni permanenti e che colpì moltissimi bambini, fu recintata un'ampia zona - la cosiddetta zona A - e iniziò l'evacuazione dei residenti: 676 a Seveso e 60 a Meda.
L'esercito inizia la recinzione della zona A (ANSA)Nei giorni successivi furono poi definite altre due aree inquinate dal TCDD ma a livelli più bassi: la zona B e la zona "di rispetto" (indicata con R) sottoposte a misure precauzionali decrescenti, come il divieto di coltivare e consumare prodotti agricoli e zootecnici provenienti da quelle zone e l'allontanamento diurno dei bambini e delle donne in gravidanza.
Le iniziative per la bonifica delle aree inquinate furono varate a metà del 1977, con la successiva creazione di due grandi vasche impermeabilizzate (una di 200.000 metri cubi e una di 80.000 metri cubi) in cui negli anni successivi venne depositato il materiale inquinato: il terreno di superficie delle aree colpite (fino a 46 centimetri di profondità per la zona A), i resti delle case e una parte del loro contenuto, i resti delle piante e degli 80.000 animali morti o abbattuti in seguito alla contaminazione, e infine anche le stesse attrezzature usata per la bonifica.
In seguito al disastro fu avviato un programma di monitoraggio che coinvolse circa 280.000 persone, delle quali 6000 circa residenti nelle aree più colpite. Il 25 marzo del 1980 venne raggiunto un accordo e la società proprietaria dell’ICMESA versò 103 miliardi e 634 milioni di lire: in questa cifra era previsto un rimborso per lo Stato e la Regione Lombardia per le spese di bonifica. Venne costituita una Fondazione per la ricerca (la Fondazione Lombardia per l’Ambiente) ma dalla transazione rimasero esclusi eventuali danni successivi. I danni subiti dai privati furono liquidati direttamente dalla multinazionale per una spesa complessiva di circa 200 miliardi di lire.
Nel 2015 il Comitato 5D (che riunisce migliaia di persone che vivono nelle zone colpite dalla diossina) ha presentato al Tribunale di Monza una citazione nei confronti della Givaudan, in quanto responsabile del disastro di Seveso. Nella causa, ancora in corso, sono coinvolte 10.174 persone. ilpost.it 16.11.2016.

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