lunedì 6 marzo 2017

L’azione ordinaria per l’impugnazione del silenzio diniego.

1           L’azione ordinaria per l’impugnazione del silenzio diniego.


La giurisprudenza afferma che, quando la previsione legislativa è chiara nell'attribuire al silenzio dell'amministrazione, protratto per lo spatium temporis ivi definito, il valore legale tipico di un atto amministrativo avente contenuto negativo, inl questo caso siamo di fronte al silenzio diniego dell’istanza che può essere impugnato dal richiedente. (T.A.R. Piemonte Torino, sez. I, 8.3.2006, n. 1173).
Il g.a. si è posto la questione relativa all'esperibilità del rito speciale avverso il cd. silenzio rigetto, vale a dire nei casi in cui l'omessa pronunzia espressa dell'Amministrazione assume il valore legale di rigetto della domanda proposta dal privato.
La questione è valutata negativamente dalla giurisprudenza prevalente ( Cons. Stato, sez. V, 4 .4.2002, n. 1879)
Seguendo lo stesso indirizzo la norma dell’art. 117, d.lgs. 104/2010, assume come chiaro riferimento le ipotesi di silenzio inadempimento.
La mancata menzione nella novella legislativa delle ipotesi di silenzio rigetto (o diniego), pertanto, costituisce omissione giuridicamente significativa, con la conseguenza che devono tuttora considerarsi sottratti all'ambito applicativo dell'art. 117, d.lgs. 104/2010, tanto i casi di silenzio con valore di assenso quanto quelli con valore di rigetto della domanda, tutti soggetti al normale regime di impugnazione degli atti amministrativi.
Il silenzio rigetto/diniego può essere impugnato solo nelle forme ordinarie di rito (T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, 17 .10.2005, n. 1723).

2           L’azione ordinaria del terzo contro il silenzio assenso.

 

Nel caso di silenzio assenso - specificatamente nel caso di denuncia di inizio di attività e lo stesso può ora dirsi nel caso di segnalazione certificata di inizio di attività - la giurisprudenza prevalente ritiene che il terzo sia legittimato all'instaurazione di un giudizio di cognizione tendente ad ottenere l'accertamento dell'insussistenza dei requisiti e dei presupposti previsti dalla legge per la libera intrapresa dei lavori a seguito della domanda inoltrata alla p.a.
Il g.a. ritiene irragionevole, oltre che lesivo del principio di effettività della tutela giurisdizionale, che il terzo controinteressato incontri limiti di tutela diversi a seconda della qualificazione del titolo di cui sia in possesso l'altra parte.
Il terzo che intenda agire a tutela della propria sfera giuridica lesa da un supposto intervento sprovvisto di ogni titolo può dunque contrastarlo in giudizio non già tramite l'impugnazione tesa all'annullamento di un inesistente provvedimento amministrativo, ma assai più semplicemente richiedendo l'accertamento della insussistenza dello ius in capo al soggetto agente.
Così configurandosi il rapporto triadico tra denunciante, amministrazione e terzo controinteressato, in sede di giurisdizione esclusiva il terzo controinteressato che contesti la presentazione di una denuncia di inizio attività associata al successivo silenzio dell'autorità amministrativa, può attivare un giudizio di cognizione volto all'accertamento della corrispondenza, o meno, di quanto dichiarato dall'interessato e di quanto previsto dal progetto ai canoni stabiliti per la regolamentazione dell'attività edilizia in questione, oltre che all'eventuale difformità dell'opera realizzata rispetto al progetto anteriormente presentato in sede di d.i.a.
Per la giurisprudenza l’azione non è soggetta ad alcun termine di decadenza.
Esso è previsto esclusivamente per la disciplina del processo in sede di giurisdizione generale di legittimità.(T.A.R. Trentino Alto Adige Trento, 14.5.2008 , n. 111).

3                    L’ammissibilità di una azione costitutiva contro il silenzio inadempimento dell'amministrazione.



La dottrina considera in crisi il processo amministrativo, in quanto la tutela giurisdizionale nei confronti dell’amministrazione appare insufficiente.
Nelle controversie che si caratterizzano per la presenza di soggetti muniti di poteri di supremazia, il sistema di giustizia amministrativa non è in grado di proteggere i cittadini in maniera consona all’ampiezza e alla profondità della tutela voluta dalla costituzione
Il processo amministrativo, costruito secondo il modello impugnatorio teso alla demolizione dell’atto impugnato, mostra di non essere adeguato agli schemi di una società che necessita di provvedimenti che diano una risposta immediata alle esigenze del ricorrente.
Questi, invece, una volta ottenuta una sentenza che accerti il suo buon diritto, deve ulteriormente attivarsi affinché l’amministrazione - o, successivamente, il magistrato in sede di ottemperanza - si adegui al giudicato.
Il meccanismo processuale, poi, qualora l’amministrazione risulti inadempiente alle istanze presentate, non risulta neppure calibrato secondo schemi paritari.
La dottrina rileva che il  modello processuale mostra la sua inadeguatezza, innanzi tutto, ogni qual volta venga meno il nesso di presupposizione logica e giuridica che lega l’esperimento della possibilità di difesa al previo esercizio del potere da parte dell’autorità: in tutte le ipotesi nelle quali il soggetto privato abbia nei confronti dell’autorità una pretesa di esercizio di un potere di scelta, dal quale dipenda l’attribuzione di una utilità; la mancata emanazione dell’atto da parte del soggetto titolare del pubblico potere vanifica la possibilità di adoperare efficacemente il mezzo di tutela processuale (Murgia S., Crisi del processo amministrativo e azione di accertamento, in Dir. Proc Amm.,1996, 244).
Il divario tra bisogni di tutela e rimedi giurisdizionali è più evidente proprio nelle ipotesi di silenzio inadempimento (Caringella F., Corso di diritto amministrativo, 2004, 1300).
Il legislatore a fronte di un comportamento inerte della pubblica amministrazione è arrivato a teorizzare l’esistenza di un atto inesistente proprio per la difficoltà di staccarsi dal modello tradizionale di giudizio impugnatorio. (Caringella F., Corso di diritto processuale amministrativo, 2005, 943).
La giurisprudenza precedente ha affermato che il giudizio disciplinato dall'articolo 21 bis , l. 1034/71, benché collegato, sul piano logico - sistematico, al dovere imposto a tutte le amministrazioni pubbliche di concludere tutti i procedimenti, mediante l'adozione di provvedimenti espressi, nei casi in cui essi conseguano obbligatoriamente ad una istanza ovvero debbano essere iniziati d'ufficio, ex art. 2 , l. 7 agosto 1990, n. 241, postula pur sempre l'esercizio di una potestà amministrativa, rispetto alla quale la posizione del privato si configura come un interesso legittimo: solo in tale prospettiva, infatti, trova razionale giustificazione la ratio del predetto giudizio, volto - com'è noto - ad accertare se l'amministrazione abbia, con il silenzio, violato il predetto obbligo di provvedere (Cons. St., A. P., gennaio 2002, n. 1).
Scopo del ricorso avverso il silenzio rifiuto è, quindi, quello di ottenere un provvedimento esplicito dell'amministrazione che elimini lo stato di inerzia e assicuri al privato una decisione che investe la fondatezza o meno della sua pretesa, fermo restando, in ogni caso, che al giudice adito non è concesso di sindacare il merito del procedimento amministrativo non portato a compimento, dovendo egli limitarsi a valutare l'astratta accoglibilità della domanda del privato, senza sostituirsi agli organi di amministrazione attiva circa gli apprezzamenti e le scelte discrezionali, che restano di esclusiva competenza di questi ultimi (T.A.R. Campania Napoli, sez. IV, 2.3.2010, n. 1244).



3.1         Il  termine per l’impugnazione nella l. 241/1990.



Il soggetto che intenda reagire contro l'inerzia della p.a. aveva l'onere di seguire il rigoroso iter ordinario, caratterizzato, ai sensi dell'art. 25, t.u. 10.1.1957, n. 3, dalla presentazione di un'istanza e dal silenzio protrattosi per almeno sessanta giorni dalla successiva diffida a provvedere entro un congruo termine, comunque non inferiore a trenta giorni, notificata secondo la procedura prevista per gli atti giudiziari.
Con l’entrata in vigore della legge sull’accesso al procedimento amministrativo la giurisprudenza amministrativa appare orientata nel senso della diretta incidenza dell’art. 2, l. 241/1990, sul procedimento di formazione del silenzio, consentendone la immediata impugnabilità.
Essa ritiene che il comportamento omissivo della pubblica amministrazione possa essere impugnato avanti al giudice amministrativo una volta che sia decorso il termine previsto per la conclusione del procedimento espressamente indicato ovvero quello di trenta giorni previsto in via generale dallo stesso art. 2, l. 241/1990.
Alcune sentenze hanno, pertanto, affermato che, a seguito dell'entrata in vigore della l. 7.8.1990, n. 241, di fronte al silenzio della p.a. non sono più necessarie, ai fini della proposizione del ricorso giurisdizionale, la diffida e la messa in mora di cui all'art. 25, t.u. 10.1.1957 n. 3, atteso che, una volta decorso inutilmente il termine essenziale stabilito per l'espressa e motivata conclusione del procedimento amministrativo, l'inadempimento di tale obbligo da parte della p.a. procedente è in re ipsa e può quindi essere immediatamente denunciato in via di azione.
I primi tre commi dell'art. 2, l. 7.8.1990, n. 241, hanno introdotto nell'ordinamento, tra l'altro, un procedimento di formazione automatica del silenzio, notevolmente diverso rispetto alla duplice sequenza istanza del privato - successiva diffida giudizialmente notificata, finora utilizzata: deve, quindi, concludersi, per la non necessità, dopo la l. n. 241 del 1990, dell'utilizzo dei meccanismi previsti dall'art. 25, d.p.r. 10.1.1957, n. 3, e per la possibilità d'impugnare direttamente il silenzio-rifiuto in sede giurisdizionale una volta decorso il termine per la conclusione del procedimento  (T.A.R. Puglia, sez. I, Lecce, 25.6.1996, n. 574).
L’orientamento prevalente della giurisprudenza è, però, in senso contrario.
Esso ritiene che l’azione giurisdizionale non possa essere esperita senza che sia annunciata, mediante rituale notifica di un atto di diffida e messa in mora, la volontà del ricorrente di adire il giudice amministrativo.
La giurisprudenza ritiene che la suddetta messa in mora non sia una mera formalità.
Essa è preordinata a fissare il termine ultimo entro il quale l’amministrazione può evitare il contenzioso emanando il relativo provvedimento richiesto, sia favorevole che contrario a quanto formulato dal ricorrente nella sua istanza.
Il soggetto che intenda reagire contro l'inerzia della p.a. ha, pertanto, l'onere di seguire il rigoroso iter ordinario, caratterizzato, ai sensi dell'art. 25, t.u. 10.1.1957, n. 3, dalla presentazione di un'istanza e dal silenzio protrattosi per almeno sessanta giorni dalla successiva diffida a provvedere entro un congruo termine, comunque non inferiore a trenta giorni, notificata secondo la procedura prevista per gli atti giudiziari. (Cons. St., sez. V, 11.11.2004, n. 7331).
Solo quando il procedimento è concluso e si è formato il silenzio - inadempimento, l'interessato ha facoltà di proporre ricorso giurisdizionale, entro sessanta giorni decorrenti dalla scadenza del termine assegnato con l'atto di diffida, non essendo consentita l'immediata impugnazione del silenzio conseguente alla mancata risposta all'istanza formulata dal privato, ma non seguita dalla formale diffida dell'amministrazione (T.A.R. Campania, sez. II, Napoli, 4 .1. 2000, n. 2).
La giurisprudenza ha stabilito che non può formarsi il silenzio - rifiuto in relazione all'inadempimento da parte dell'Amministrazione di un ordine impartito dal giudice, trattandosi di rimedio concepito quale strumento di reazione all'inerzia dell'Amministrazione stessa laddove la posizione soggettiva azionata dal privato si connoti in termini di interesse legittimo. Diversamente, a fronte di un provvedimento giurisdizionale che riconosca la fondatezza della pretesa azionata in giudizio si configura una posizione di diritto soggettivo per la cui tutela l'ordinamento appresta diversi strumenti di reazione quale il giudizio per l’ottemperanza (T.A.R. Puglia Bari, sez. II, 7.5.2010, n. 1746).



3.2         I termini per ricorrere nel d.lgs. 104/2010.


Quando sussiste un comportamento inadempiente dell’ente è configurabile un’azione tesa ad ottenere un provvedimento che può essere positivo o negativo; ad essa può essere dato inizio in ogni momento per tutta la durata del comportamento inadempiente dell’amministrazione.
Al silenzio inadempimento non viene riconosciuto alcun significato o valore provvedimentale; non si tratta né del silenzio accoglimento né del silenzio diniego. (Corrado A. Tempi dimezzati per il deposito dei ricorsi. L’accesso apre il capitolo dei riti speciali, in Giuda Dir. , 2010, n. 33, 50).
Formatosi il silenzio rifiuto, inizia a decorrere il termine, previsto a pena di decadenza, entro il quale è necessario presentare il ricorso al T.A.R.
Il termine per proporre il ricorso decorre dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento e cessa, comunque, trascorso un anno da detta scadenza.
L’art. 31 e l’art. 117, d.lgs. 2 .7. 2010, n.104.,  ripropongono i principi fissati da ultimo dall’art. 7, l. 69/2009, affermando che, decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo, chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere. (Gallo C.E., Il codice del processo amministrativo: una prima lettura, in Urb. app. 2010,  1018).
L'azione può essere proposta fintanto che perdura l'inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento .
L’istanza di avvio del procedimento  può essere reiterata nel caso in cui siano scaduti i termini per proporre il ricorso ove ne ricorrano i presupposti, salvo evidentemente il fatto  che l’amministrazione abbia già preso una decisione in merito.
L’art. 32,  d.lgs. 2 .7.2010, n.104,  precisa che è sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse proposte in via principale o incidentale . Se le azioni sono soggette a riti diversi, si applica quello ordinario.






















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