Corte di Cassazione, sezione III Penale
sentenza 16 luglio – 7 ottobre 2015, n. 40270
Ritenuto in fatto
- Con
sentenza dei 22 ottobre 2014, la Corte di Appello di Roma ha confermato la
sentenza emessa dal Tribunale di Roma in 16 maggio 2011, che aveva
condannato F. F., alla pena di mesi due di reclusione con il beneficio
della sospensione condizionale, per il reato di atti osceni in luogo
pubblico (art. 527 c.p.), perché, in concorso con M. E., commetteva atti
osceni in luogo pubblico, consistiti nel consumare un rapporto sessuale
nella pubblica via, alla vista dei passanti,
- I giudici
di merito avevano ritenuto che non fosse riconoscibile la richiesta
esimente dello stato di necessità sulla base della circostanza che la F.,
di nazionalità rumena, era stata sfruttata nel mercato della prostituzione
con violenza e costrizione fisica, nonostante fosse passata in giudicato
una sentenza della Corte di Assise di appello di Roma che la riconosceva
vittima dei reato in riduzione in schiavitù a fini di sfruttamento
sessuale, posto in essere da alcuni suoi connazionali; i giudici di merito
hanno ritenuto che la stessa avrebbe potuto rivolgersi alle forze
dell’ordine per sottrarsi a tale costrizione, ed inoltre sussisteva la
consapevolezza in capo alla ricorrente di porre in essere la prestazione
sessuale richiesta dall’occasionale cliente sulla pubblica via, in un
contesto idoneo ad offendere la sensibilità dei passanti.
2. La F., a mezzo dei proprio difensore, ha proposto ricorso per Cassazione, chiedendo l’annullamento della sentenza per i seguenti motivi: Violazione ex art. 606 lett. b) c.p.p. per inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 54 c.p. ed ex art 606, lett. e) c.p.p. per travisamento della prova, illogicità e mancanza o mera apparenza della motivazione, in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi dei reato sia oggettivi che soggettivi.
Considerato in diritto
- Il
ricorso va accolto sia sotto il profilo dei vizio di mancata motivazione
della sentenza di appello, che per quanto attiene alla censura di erronea
applicazione dell’art. 54 c.p. al caso di specie.
2. Innanzitutto va precisato che, nonostante la lettura congiunta delle sentenze di condanna pronunciate nei due gradi di merito, possibile in forza di un consolidato principio della giurisprudenza di legittimità, l’iter argomentativo posto a base dell’affermazione di responsabilità della F. e, soprattutto, del negato riconoscimento della sussistenza dell’esimente dello stato di necessità, risulta lacunoso e senza esaustiva descrizione delle acquisizioni probatorie, le quali, come si desume dal ricorso, contengono anche l’accertamento della qualità di persona offesa della donna, nel delitto di riduzione in schiavitù e servitù, di prostituzione coatta connesso allo sfruttamento sessuale, posto in essere per tre anni (dalll’agosto 2004, all’agosto 2009); - l’insufficienza
motivazionale, la genericità e l’apodittica affermazione, contenuta nella
sentenza di appello, circa la necessità che la donna, pur nelle condizioni
di soggezione in cui versava, usasse maggiore cautela nell’esercizio del
meretricio, appartandosi in un luogo non alla facile vista del pubblico,
rendono evidente l’apparenza della motivazione e quindi la sostanziale
mancanza di motivazione in ordine alle ragioni della condanna e del
rigetto dell’atto di appello per mancato riconoscimento della circostanza di
cui all’art. 54 c.p.
3. Per quanto attiene all’esimente dello stato di necessità, è stata ribadito (cfr. da ultimo, Sez.2, n. 19714 del 14/4/2015, Moccardi, Rv. 263533) il principio della sua incompatibilità con situazioni di pericolo volontariamente cagionate dallo stesso soggetto attivo e della necessità che la situazione di pericolo di un danno grave alla persona non altrimenti evitabile risultasse attuale rispetto alla data del commesso reato.
4. In particolare, questa Corte ha già affermato il principio della configurabilità di tale causa di giustificazione “nei confronti di una donna straniera, ridotta in condizione di schiavitù e costretta a prostituirsi, la quale sia stata indotta a commettere i reati previsti dagli artt. 495 e 496 cod. pen. per il timore che, in caso di disobbedienza, potesse essere esposta a pericolo la vita o l’incolumità fisica dei suoi familiari” (cfr. Sez. 3, n. 19225 del 15/02/2012, Dulaj, Rv. 252620): in tale decisione è stato posto in evidenza che proprio per la condizione di sottoposizione a ripetute violenze in cui le ragazze costrette a prostituirsi si trovavano (tanto da venire minacciate prospettando l’uccisione dei propri familiari), le stesse erano state indotte a mentire sempre sulla indicazione delle proprie generalità, anche ove richieste dalle Forze dell’ordine. - 5.
Questo Collegio ritiene che, nel caso di cui è processo, verificando la
tutela degli interessi in campo nel caso di specie e gli altri requisiti
richiesti dalla disposizione di cui all’art. 54 c.p., debba dei pari
essere ravvisato la sussistenza dello stato di necessità.
6. Infatti, va affermato il principio che il corretto accertamento della liceità oggettiva del comportamento posto in essere in una situazione riconducibile allo stato di necessità presuppone, innanzitutto, la verifica processuale durante il giudizio di merito che, nel caso concreto, sia stato tutelato un interesse giuridico di natura prevalente rispetto a quello oggetto di tutela mediante la fattispecie incriminatrice violata. - 7.
Orbene, nel caso di specie, tutte queste condizioni sussistono. Ha
efficacia di cosa giudicata l’accertamento della qualità di vittima della
ricorrente, in riferimento ai reati di cui agli artt. 600, 602 e 609 bis
c.p. nonché di costrizione mediante violenza alla prostituzione, e
certamente le modalità delle condotte violente subite per anni dalla
stessa l’avevano posta in uno stato di assoggettamento continuo, con la
consapevolezza del pericolo per sé e per i suoi familiari rimasti nel
Paese d’origine, come dettagliatamente descritto al capo 3)
dell’imputazione contenuta nella sentenza emessa dalla Corte di assise di
appello di Roma in data 15 febbraio 2013 nei confronti di F. C. e S. O.
L.; pertanto la situazione di pericolo nella quale la donna si trovava,
proprio al tempo della condotta di atti osceni in luogo pubblico, è stata
conseguenza delle condotte criminali come descritte e non era certamente
evitabile per la donna porre in essere l’attività di prostituzione di
strada, con le modalità imposte dai suoi sfruttatori, né rivolgendosi alle
Forze dell’ordine, né avendo accortezza di scegliere luoghi riservati ove
esercitare la prostituzione coatta.
11. Non è, a maggior ragione, sostenibile, come semplicisticamente sintetizzato nella parte motiva della sentenza impugnata, che una vittima di schiavitù sessuale, senza alcuna capacità di determinarsi nelle scelte fondamentali della propria vita perché in condizioni di asservimento, tenuta a dimostrare il quotidiano saldo dei proventi della prostituzione coatta alla quale è costretta, spesso con la vigilanza dello sfruttatore o di un suo incaricato – senza alcuna alternativa percorribile senza alcun aiuto di sottrarsi a tale servitù per le continue violenze e minacce alle quali è sottoposta – possa, e quindi debba, mettere maggiore cura nella scelta del luogo ove effettuare la prestazione sessuale, pretendendo il rispetto di tale indicazione da parte dell’occasionale e frettoloso cliente.
12. Per le ragioni fin qui esposte, questa Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché la F. non è punibile per il reato di atti osceni in luogo pubblico alla stessa contestato, atteso che, al momento dei fatto, la stessa era vittima del delitto di riduzione in schiavitù, di prostituzione coatta e di altri gravi delitti contro la persona, come accertato con sentenza passata in giudicato – acquisita agli atti nel corso dei giudizio di merito – e quindi aveva posto in essere l’atto contestato nel capo di imputazione in uno stato di necessità, ai sensi dell’art. 54 c.p.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché
l’imputata non è punibile per avere agito in stato di necessità.
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