venerdì 29 gennaio 2016

Unioni di fatto. La tutela del convivente debole. Quesito

Unioni di fatto
Il dibattito è sui diritti civili o sui diritti economici?
In tal senso nessuno ha spiegato quali oneri questa legge può comportare per la spesa pubblica e se questa è una priorità dell’attuale governo.
Distinti saluti
A S


Risposta

Ai sensi dell'ultimo comma dell'articolo 81 della Costituzione "ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte".
Il disegno di legge si fa carico delle coperture finanziarie ,ma soprattutto impone obblighi ai conviventi.
Basta che sia certificata la convivenza dal certificato di famiglia ed il convivente più debole automaticamente acquisisce una serie di tutele a carico del dal convivente forte (purché questo sia singole)

Atti parlamentari – 11 – Senato della Repubblica – N. 2081 XVII
CAPO II DELLA DISCIPLINA DELLA CONVIVENZA Art. 11. (Della convivenza di fatto)
1. Ai fini delle disposizioni del presente Capo si intendono per: «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile. 2. Per l’individuazione dell’inizio della stabile convivenza trovano applicazione gli articoli 4 e 33 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223. Articolo 33
Certificati anagrafici.
1. L’ufficiale di anagrafe rilascia a chiunque ne faccia richiesta, fatte salve le limitazioni di legge, i certificati concernenti la residenza e lo stato di famiglia.
2. Ogni altra posizione desumibile dagli atti anagrafici, ad eccezione delle posizioni previste dal comma 2 dell’art. 35, può essere attestata o certificata, qualora non vi ostino gravi o particolari esigenze di pubblico interesse, dall’ufficiale di anagrafe d’ordine del sindaco.
3. Le certificazioni anagrafiche hanno validità di tre mesi dalla data di rilascio.


Art. 12. (Reciproca assistenza) 1. I conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario. 
2. In caso di malattia o di ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari. 3. Ciascun convivente di fatto può designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati: a) in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute; b) in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie. 4. La designazione di cui al comma 3 è effettuata in forma scritta e autografa oppure, in caso di impossibilità di redigerla, alla presenza di un testimone. Art. 13. (Permanenza nella casa di comune residenza e successione nel contratto di locazione) 1. Salvo quanto previsto dall’articolo 155- quater del codice civile, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di co- mune residenza per un periodo non inferiore a tre anni. 2. Il diritto di cui al comma 1 viene meno nel caso in cui il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova convivenza di fatto. 3. Nei casi di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione della casa di comune residenza, il convivente di fatto ha facoltà di succedergli nel contratto. Art. 14. (Inserimento nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare) 1. Nel caso in cui l’appartenenza ad un nucleo familiare costituisca titolo o causa di preferenza nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare, di tale titolo o causa di preferenza possono godere, a parità di condizioni, i conviventi di fatto. 
Art. 15. (Obbligo di mantenimento o alimentare) 1. In caso di cessazione della convivenza di fatto, ove ricorrano i presupposti di cui all’articolo 156 del codice civile, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente quanto necessario per il suo mantenimento per un periodo determinato in proporzione alla durata della convivenza. 
2. In caso di cessazione della convivenza di fatto, ove ricorrano i presupposti di cui all’articolo 438, primo comma, del codice civile, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente gli alimenti per un periodo determinato in proporzione alla durata della convivenza. 
Art. 16. (Diritti nell’attività di impresa) 1. Nella sezione VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile, dopo l’articolo 230-bis è aggiunto il seguente: «Art. 230-ter. - (Diritti del convivente). – Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato». 
Art. 17. (Forma della domanda di interdizione e di inabilitazione) 1. All’articolo 712, secondo comma, del codice di procedura civile, dopo le parole: «del coniuge» sono inserite le seguenti: «o del convivente di fatto». 2. Il convivente di fatto può essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno, qualora l’altra parte sia dichiarata interdetta o inabilitata ai sensi delle norme vigenti ovvero ricorrano i presupposti di cui all’articolo 404 del codice civile. 
Art. 18. (Risarcimento del danno causato da fatto illecito da cui è derivata la morte di una delle parti del contratto di convivenza) 1. In caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, nell’individuazione del danno risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi  criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite. 
Art. 19. (Contratto di convivenza) 1. I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la stipula di un contratto di convivenza nel quale possono altresì fissare la comune residenza. 
2. Il contratto di convivenza, le sue successive modifiche e il suo scioglimento sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, e ricevuti da un notaio in forma pubblica.
3. Ai fini dell’opponibilità ai terzi, il notaio che ha ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha autenticato le sottoscrizioni deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli 5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223. 4. Il contratto può prevedere: a) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo; b) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile; 5. Il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può essere modificato in qualunque momento nel corso della convivenza con le modalità di cui al comma 2. 6. Il trattamento dei dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche deve avvenire conformemente alla normativa prevista dal codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, garantendo il rispetto della dignità degli appartenenti al contratto di convivenza. I dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche non possono costituire elemento di discriminazione a carico delle parti del contratto di convivenza. 7. Il contratto di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizione. Nel caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni, questi si hanno per non apposti.
Art. 20. (Cause di nullità) 1. Il contratto di convivenza è affetto da nullità insanabile che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse se concluso: a) in presenza di un vincolo matrimoniale, di un’unione civile o di un altro contratto di convivenza; b) in violazione del comma 1 dell’articolo 11; c) da persona minore di età salvi i casi di autorizzazione del tribunale ai sensi dell’articolo 84 del codice civile; d) da persona interdetta giudizialmente; e) in caso di condanna per il delitto di cui all’articolo 88 del codice civile. 2. Gli effetti del contratto di convivenza restano sospesi in pendenza del procedimento di interdizione giudiziale o nel caso di rinvio a giudizio o di misura cautelare disposti per il delitto di cui all’articolo 88 del codice civile, fino a quando non sia pronunciata sentenza di proscioglimento. Art. 21. (Risoluzione del contratto di convivenza) 1. Il contratto di convivenza si risolve per: a) accordo delle parti; b) recesso unilaterale; c) matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona; d) morte di uno dei contraenti. 
2. La risoluzione per accordo delle parti o per recesso unilaterale deve essere redatta nelle forme di cui al comma 2 dell’articolo 19. 
3. Nel caso di recesso unilaterale da un contratto di convivenza il notaio che riceve o che autentica l’atto è tenuto, oltre che agli adempimenti di cui all’articolo 19, comma 3, a notificarne copia all’altro contraente all’indirizzo indicato dal recedente o risultante dal contratto. Nel caso in cui la casa familiare sia nella disponibilità esclusiva del recedente, la dichiarazione di recesso, a pena di nullità, deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l’abitazione. 
4. Nel caso di cui alla lettera c) del comma 1, il contraente che ha contratto matrimonio o unione civile deve notificare all’altro contraente, nonché al notaio che ha ricevuto il contratto di convivenza, l’estratto di matrimonio o di unione civile. 
5. Nel caso di cui alla lettera d) del comma 1, il contraente superstite o gli eredi del contraente deceduto devono notificare al notaio l’estratto dell’atto di morte affinché provveda ad annotare a margine del contratto di convivenza l’avvenuta risoluzione del contratto e a notificarlo all’anagrafe del comune di residenza.
Art. 22. (Norme applicabili) 1. Dopo l’articolo 30 della legge 31 maggio 1995, n. 218, è inserito il seguente: «Art. 30-bis. - (Contratti di convivenza). – 1. Ai contratti di convivenza disciplinati dal Capo II della legge recante regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze si applica la legge nazionale comune dei contraenti. Ai contraenti di diversa cittadinanza si applica la legge del luogo di registrazione della convivenza. 2. Ai contratti di convivenza tra cittadini italiani oppure ai quali partecipa un cittadino italiano, ovunque siano stati stipulati, si applicano le disposizioni della legge italiana vigenti in materia. 3. Sono fatte salve le norme nazionali, internazionali ed europee che regolano il caso di cittadinanza plurima».
Art. 23. (Copertura finanziaria) 1. Agli oneri derivanti dall’attuazione del Capo I, valutati complessivamente in 3,7 milioni di euro per l’anno 2016, in 6,7 milioni di euro per l’anno 2017, in 8 milioni di euro per l’anno 2018, in 9,8 milioni di euro per l’anno 2019, in 11,7 milioni di euro per l’anno 2020, in 13,7 milioni di euro per l’anno 2021, in 15,8 milioni di euro per l’anno 2022, in 17,9 milioni di euro per l’anno 2023, in 20,3 milioni di euro per l’anno 2024 e in 22,7 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2025, si provvede: a) quanto a 3,7 milioni di euro per l’anno 2016, a 1,3 milioni di euro per l’anno 2018, a 3,1 milioni di euro per l’anno 2019, a 5 milioni di euro per l’anno 2020, a 7 milioni di euro per l’anno 2021, a 9,1 milioni di euro per l’anno 2022, a 11,2 milioni di euro per l’anno 2023, a 13,6 milioni di euro per l’anno 2024 e a 16 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2025, mediante riduzione del Fondo per interventi strutturali di politica economica, di cui all’articolo 10, comma 5, del decreto-legge 29 novembre 2004, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 dicembre 2004, n. 307; b) quanto a 6,7 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2017, mediante corrispondente riduzione delle proiezioni, per l’anno 2017, dello stanziamento del fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio triennale 2015-2017, nell’ambito del programma «Fondi di riserva e speciali» della missione «Fondi da ripartire» dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2015, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al medesimo Ministero.
2. Ai sensi dell’articolo 17, comma 12, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sulla base dei dati comunicati dall’INPS, provvede al monitoraggio degli oneri di natura previdenziale ed assistenziale di cui all’articolo 3 della presente legge e riferisce in merito al Ministro dell’economia e delle finanze. Nel caso si verifichino o siano in procinto di verificarsi scostamenti rispetto alle previsioni di cui al comma 1, il Ministro dell’economia e delle finanze, sentito il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, provvede, con proprio decreto, alla riduzione, nella misura necessaria alla copertura finanziaria del maggior onere risultante dall’attività di monitoraggio, delle dotazioni finanziarie di parte corrente aventi la natura di spese rimodulabili, ai sensi dell’articolo 21, comma 5, lettera b), della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nell’ambito dello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. 3. Il Ministro dell’economia e delle finanze riferisce senza ritardo alle Camere con apposita relazione in merito alle cause degli scostamenti e all’adozione delle misure di cui al comma 2. 4. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.

giovedì 28 gennaio 2016

Condominio. Morosità dei condomini

L’amministratore di condominio deve agire contro i codomini morosi entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio annuale relativo alle quote non pagate. Egli può ottenere un decreto di ingiunzione al pagamento, immediatamente esecutivo, emesso sulla base dello stato di ripartizione approvato dall’assemblea.   A tal fine non è necessaria la preventiva autorizzazione dell’assemblea: l’amministratore, insomma, non ha l’obbligo di mettere prima in mora il condomino inadempiente, neanche quando lo preveda una clausola del regolamento di condominio .  
In linea di principio le delibere dell’assemblea di condominio prese a norma degli articoli del codice civile sono obbligatorie per tutti i condomini. Qualora dette deliberazioni risultino contrarie alla legge o al regolamento di condominio, ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l’autorità giudiziaria, chiedendone l’annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti. In forza del disposto dell’art. 71-quater, c. 1, disp. att. c.c., l’azione d’impugnazione di cui all’art. 1137 c.c. rientra a pieno titolo tra le controversie che soggiacciono all’obbligo del previo tentativo di conciliazione, cosicché il soggetto interessato a promuovere la relativa azione dovrà, prima, presentare una domanda di mediazione innanzi ad un organismo competente e, solo in caso d’infruttuoso successo della procedura conciliativa, egli sarà legittimato ad adire l’autorità giudiziaria.
La riforma del condominio ha reso più celere l’azione dell’amministratore per il recupero dei crediti condominiali.
All’amministratore non serve l’autorizzazione dell’assemblea per ottenere un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo per riscuotere i crediti dai condomini morosi.   Attenzione però: l’amministratore può agire sì contro i condomini morosi senza l’autorizzazione dell’assemblea, ma solo per le spese che siano state già approvate dall’assemblea stessa.  
Il decreto ingiuntivo, infatti, può essere emesso solo se si dà la prova scritta del diritto fatto valere; prova scritta che, nel nostro caso, è data dal documento con cui l’assemblea condominiale ha approvato le spese (poi non pagate dai condomini contro i quali si agisce).   Si tenga presente che i crediti del condominio nei confronti dei condomini nascenti da delibere diverse e relativi a spese diverse, non costituiscono un “unico” credito. Essi devono, invece, essere considerati come una pluralità di crediti, fra le stesse parti, ma con titolo e causa diversi [2]. Ciò significa che l’amministratore può dover agire con diversi decreti ingiuntivi sulla base di diverse delibere assembleari e relativamente a oneri condominiali diversi (per es. per il pagamento dei lavori di ristrutturazione del palazzo e per quello delle spese di manutenzione dell’ascensore).   Per evitare che i rapporti di amicizia portassero gli amministratori più “morbidi” a desistere dall’intraprendere azioni esecutive nei confronti dei condomini morosi, la riforma ha imposto all’amministratore medesimo l’obbligo di riscuotere – anche giudizialmente – gli oneri non corrisposti entro 6 mesi dalla chiusura del bilancio di esercizio nel quale è compreso il credito esigibile. Tuttavia l’amministratore che non avvia la procedura esecutiva per riscuotere le quote dai condomini morosi non commette automaticamente un atto di cattiva gestione. Secondo la Cassazione [3], infatti, l’amministratore assolve il proprio dovere senza incorrere in responsabilità quando prova di avere notificato ai condomini morosi almeno gli atti di precetto. Il non avere intrapreso la procedura esecutiva vera e propria può giustificarsi sulla base della non sicura solvibilità dei condomini.   Obblighi del condominio nei confronti di terzi e responsabilità dei condòmini morosi La responsabilità dei condomini per le obbligazioni assunte dal condominio nei confronti di terzi (per esempio nei confronti degli enti erogatori di energia elettrica, acqua ecc.) era governata in passato dalla regola della solidarietà tra condomini: in caso di morosità il creditore poteva agire per l’intero importo direttamente nei confronti di un solo condomino il quale, a sua volta, poteva rivalersi pro quota, nei confronti dei morosi.   Le Sezioni Unite della Cassazione avevano ribaltato tale regola introducendo quella della parziarietà: ogni condomino rispondeva dei debiti soltanto per la propria quota di competenza.
In altre parole, il creditore poteva agire nei confronti di ogni singolo condomino, ma chiedendo a questi solo la somma che quest’ultimo era tenuto a versare in ragione della ripartizione delle spese, ossia secondo i millesimi di proprietà.   La riforma del condominio ha ora reintrodotto la solidarietà del debito del condominio, precisando, però, che i creditori devono agire innanzitutto nei confronti del condomino moroso – ossia di quello non in regola con il pagamento degli oneri condominiali – e solo nel caso in cui sia impossibile soddisfarsi sul patrimonio di quest’ultimo, possono rivolgersi ai condomini in regola.
L'avvocato della ditta deve agire prima nei confronti del condomino moroso e, solo dopo aver dimostrato di aver esperito inutilmente attività di recupero del credito nei confronti del moroso, potrà rivalersi nei confronti dei vari condomini in regola soltanto per la propria quota di competenza.

domenica 24 gennaio 2016

Diffamazione aggravata se consumata attraverso i social network


Con un recente pronunciamento la Corte di Cassazione ritorna sul tema della diffamazione con il mezzo del web e, in particolar modo, con il social network Facebook.
L'art. 595 cod. pen. incrimina la condotta di chi lede la reputazione altrui comunicando con più persone.
Se ciò avviene con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di comunicazione il reato è aggravato ai sensi del 3° comma.
Secondo quanto affermato dalla Suprema Corte con la recentissima sentenza n. 24431 del 2015, rientra nella fattispecie di cui all'art. 595, comma 3, cp (anche) la pubblicazione di un commento offensivo nella bacheca della persona la cui reputazione ne è risultata pregiudicata.
Tra quei “qualsiasi mezzi di pubblicazione” la cui utilizzazione aggrava la condotta di chi lede l’altrui reputazione rientra il social network Facebook.
La Corte ipotizza dunque l’ipotesi di reato di cui all’art. 595, comma terzo, c.p. quale “fattispecie aggravata del delitto di diffamazione che trova il suo fondamento nella potenzialità, idoneità e capacità del mezzo utilizzato per la consumazione del reato a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone, ancorchè non individuate nello specifico ed apprezzabili solo in via potenziale, con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa”.
Tale decisione si pone inoltre in continuità con la sentenza n. 16712 del 16/04/2014. 
In tale occasione la Corte di Cassazione ha affermato che “ai fini della integrazione del reato di diffamazione, anche a mezzo di Internet, è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dalla indicazione nominativa”.
Secondo la Suprema Corte, la bacheca di Facebook ha la capacità potenziale di raggiungere un numero indeterminato di soggetti in quanto tale strumento racchiude un numero apprezzabile di persone e, in ogni caso, l'utilizzo di Facebook costituisce una modalità con cui gruppi di persone socializzano le rispettive esperienze di vita valorizzando il rapporto interpersonale che viene allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione. Di conseguenza, l'atto del postare un commento in bacheca configura pubblicazione e quindi diffusione dell'offesa, stante l'idoneità dello strumento a determinarne la circolazione tra un gruppo di persone numericamente apprezzabile.

venerdì 22 gennaio 2016

L. n. 164/2014 “Mutamento d’uso urbanisticamente rilevante”

La legge n. 164/2014 ha inserito nel D.P.R. 380/2001 l’art. 23-ter titolato “Mutamento d’uso urbanisticamente rilevante” il quale indica le regole sui cambi d’uso.
Obiettivo dell norma è quello di uniformare le differenti normative regionali e semplificare l’applicazione della disciplina.
La nuova disposizione statale sui cambi d’uso è stata emanata quale norma di semplificazione e liberalizzazione e dunque determina livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da assicurare in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, a termine dell’art. 117, comma 2, lett. m) della Costituzione.
L’art. 23-ter si articola in tre commi.
Il primo comma definisce cos’è il mutamento della destinazione d’uso urbanisticamente rilevante.
È cambio destinazione uso urbanisticamente rilevante, ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, con o senza opere, che comporti il passaggio ad una diversa categoria funzionale, tra le cinque seguenti:
1) residenziale ;
2) turistico-ricettiva;
3) produttiva e direzionale;
4) commerciale;
5) rurale.
Dunque il cambio destinazione uso urbanisticamente rilevante è solo quello che comporta il passaggio tra l’una e l’altra delle cinque categorie funzionalmente autonome indicate dalla legge, indipendentemente dalla realizzazione o meno di opere.
In tal modo è assicurata tutela alla zonizzazione e controllo sull’adeguatezza degli standard in relazione all’incidenza dei diversi usi.
All’interno della stessa categoria le destinazioni d’uso sono ritenute urbanisticamente omogenee, in quanto determinano carichi urbanistici sostanzialmente equivalenti.
I Comuni possono dettagliare le tipologie delle destinazioni uso degli immobili all’interno della stessa categoria funzionale (es. prevedendo gli usi di studi professionali, ambulatori, palestre, artigianato, ecc.) ma non possono modificare le “categorie funzionali” che devono essere solo quelle (cinque) stabilite dalle legge.
Il comma 2 indica il criterio per l’attribuizione della destinazione d’uso:“La destinazione d’uso di un fabbricato o di unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile”.
In presenza quindi di una “destinazione mista” nell’ambito di uno stesso fabbricato o di una unità immobiliare, la norma statale chiarisce che la destinazione d’uso è quella che risulta prevalente in termini di quantità di superficie utile, ossia quella equivalente ad almeno il 50,1%.
La superficie da considerare sarà quella autorizzata dal titolo abilitativo, ivi compreso eventuali accertamenti di conformità urbanistico-edilizia, non potendosi considerare usi in atto in contrasto con i titoli edilizi.
In assenza di titolo abilitativo si farà riferimento alla classificazione catastale attribuita in sede di primo accatastamento ovvero ad altri documenti probanti.
La definizione di superficie utile cui fare riferimento, nel silenzio della disposizione, sarà quella delle norme tecniche degli strumenti urbanistici comunali.
Il comma 3 così dispone: Le regioni adeguano la propria legislazione ai principi di cui al presente articolo entro novanta giorni dalla data della sua entrata in vigore. Decorso tale termine, trovano applicazione diretta le disposizioni del presente articolo. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito”.
Alle Regioni è assegnato il termine di giorni novanta dalla data di entrata in vigore della legge di conversione (12 novembre 2014) entro il quale adeguare la propria legislazione ai principi della legge statale.
Decoro tale termine, dunque dal 10 febbraio, l’art. 23-ter trova diretta applicazione con l’automatica sostituzione delle differenti normative regionali e delle normative dei piani urbanistici comunali.
L’ultima parte del comma, che da un lato afferma il principio che il cambio destinazione uso all’interno della stessa categoria funzionale, è sempre ammesso, ma dall’altro fa salva la diversa previsione delle disposizioni regionali e degli strumenti urbanistici comunali, indebolisce la ratio di semplificazione della disposizione e non appare molto comprensibile.
Il cambio desinazione uso deve avvenire nel rispetto delle norme della pianificazione comunale.
L'articolo 10 del D.P.R. n. 380/2001 dispone che le Regioni stabiliscano con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso degli immobili o di loro parti sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività.
L'articolo 19, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 prescrive che il permesso di costruire relativo a costruzioni o impianti destinati ad attività turistiche, commerciali o allo svolgimento di servizi comporta la corresponsione di un contributo pari all'incidenza delle opere di urbanizzazione nonché una quota non superiore al 10% del costo documentato di costruzione. Il comma 3 dell’art. 23 ter prevede che qualora la destinazione d'uso delle costruzioni non destinate alla residenza, nonché quelle nelle zone agricole, venga comunque modificata nei dieci anni successivi all'ultimazione dei lavori, il contributo di costruzione è dovuto nella misura massima corrispondente alla nuova destinazione, determinata con riferimento al momento dell'intervenuta variazione.
Ai fini della determinazione del cambio d’uso urbanisticamente rilevante bisogna analizzare sia il D.M. n°1444/1968 che l’art. 32 del D.P.R. 380/2001.
Il D.M. indica i rapporti tra gli spazi pubblici e le differenti categorie di destinazione d'uso distinguendo tra insediamenti residenziali e produttivi comprensivi di quelli industriali, commerciali e direzionali.
Mentre l'articolo 32 del TU Edilizia ricomprende tra le variazioni essenziali il mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standard e delle dotazioni territoriali previsti dal D.M. n° 1444/1968.
Si può infatti notare che il legislatore statale propugni una complessiva semplificazione della disciplina delle destinazioni d’uso, richiedendo che si riconosca un diverso carico urbanistico solo in caso di passaggio da una all’altra delle categorie funzionali, e richieda di liberalizzare il passaggio da un uso all’altro all’interno della medesima categoria, ad esclusione dei casi in cui la pianificazione urbanistica introduca limitazioni e condizioni per specifiche esigenze di interesse pubblico. Tuttavia prendendo atto che una tale innovazione necessita di una complessiva riconsiderazione della disciplina urbanistica ed edilizia che attiene alle dotazioni territoriali e pertinenziali richieste, ma anche al contributo di costruzione dovute, il legislatore statale subordina la effettiva operatività delle auspicate semplificazioni in materia all’introduzione di una legge regionale di adeguamento, fatti salvi i casi in cui manchi una disciplina di dettaglio regionale o i piani non presentino una disciplina delle destinazioni d’uso ammissibili.
Sulla base di queste indicazioni sono state emanate numerose leggi regionali sulla materia nonché diverse delibere comunali (di dubbia interpretazione) che hanno portato ad una vasta diversificazione delle destinazioni d'uso.
Dunque il cambio destinazione uso urbanisticamente rilevante è solo quello che comporta il passaggio tra l’una e l’altra delle cinque categorie funzionalmente autonome indicate dal 1 comma dell’art. 23 ter, indipendentemente dalla realizzazione o meno di opere. In tal modo è assicurata tutela alla zonizzazione e controllo sull’adeguatezza degli standard in relazione all’incidenza dei diversi usi. All’interno della stessa categoria le destinazioni d’uso sono ritenute urbanisticamente omogenee, in quanto determinano carichi urbanistici sostanzialmente equivalenti. I Comuni possono dettagliare le tipologie delle destinazioni uso degli immobili all’interno della stessa categoria funzionale (es. prevedendo gli usi di studi professionali, ambulatori, palestre, artigianato, ecc.) ma non possono modificare le “categorie funzionali” che devono essere solo quelle (cinque) stabilite dalle legge.
Nel caso della modificazione della destinazione d’uso cui si correla un maggior carico urbanistico è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione al titolare del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelle, se più elevati dovuti per la nuova destinazione impressa (cfr. C. di S. Sez. V, 30 agosto 2013, n° 4326) .
Il comma 2 dell’art. 23 indica il criterio per l’attribuzione della destinazione d’uso: “…La destinazione d’uso di un fabbricato o di unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile..”. In presenza quindi di una “destinazione mista” nell’ambito di uno stesso fabbricato o di una unità immobiliare, la norma statale chiarisce che la destinazione d’uso è quella che risulta prevalente in termini di quantità di superficie utile, ossia quella equivalente ad almeno il 50,1%. La superficie da considerare sarà quella autorizzata dal titolo abilitativo, ivi compreso eventuali accertamenti di conformità urbanistico-edilizia, non potendosi considerare usi in atto in contrasto con i titoli edilizi. In assenza di titolo abilitativo si farà riferimento alla classificazione catastale attribuita in sede di primo accatastamento ovvero ad altri documenti probanti . La definizione di superficie utile cui fare riferimento, nel silenzio della disposizione, sarà quella delle norme tecniche degli strumenti urbanistici comunali.

Il criterio della prevalenza ha il pregio, oltre di essere facilmente applicabile, anche di consentire che la restante parte del fabbricato o dell’unità immobiliare abbia una destinazione funzionale diversa, senza che ciò influisca sulla destinazione che assume rilievo ai fini di legge. Anche questa previsione, laddove indirettamente consente che utilizzi diversi convivano nel medesimo immobile ma che solo quello prevalente incida sulla qualificazione in termini di destinazione d’uso, è quindi da ricondurre all’intento del legislatore di agevolare, e quindi incentivare, gli interventi di trasformazione.

martedì 19 gennaio 2016

Prescrizione dei reati edilizi dopo la legge Cirielli

Prescrizione dei reati edilizi dopo la legge Cirielli
La legge Cirielli  ha portato ad una generale abbreviazione dei tempi prescrizionali, incidendo negativamente sulla situazione processuale, già gravata dalla difficoltà di smaltire, in tempi veloci, l’eccessivo carico di lavoro con l’unica eccezione del cd. illecito “bagatellare” o di minore gravità in particolare a tutte le contravvenzioni.
Anche per le contravvenzioni, in passato, il termine prescrizionale era sempre più breve: tre anni per tutte le contravvenzioni punite con la pena detentiva (sola, congiunta o alternativa a quella pecuniaria) e addirittura due anni per quelle contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda. Per effetto invece della riforma, il limite prescrizionale sale per tutte le contravvenzioni (comunque punite, anche solo con la pena pecuniaria) a quattro anni.
Per il principio costituzionale dell'irretroattività della norma penale sfavorevole di cui all'art. 25 C., ove le nuove disposizioni abbiano l'effetto di produrre un incremento dei termini prescrizionali, esse potranno trovare applicazione solo con riferimento a fatti che si siano realizzati successivamente all'entrata in vigore della legge stessa. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 393 del 23 novembre 2006, ha dibattuto e deciso sulla questione. Quanto detto vale esclusivamente per gli aspetti penali del reato di abuso edilizio, in quanto la violazione amministrativa - e la conseguente applicazione delle misure repressive previste dalla legge - non è soggetta ad alcun termine.

Come interagisce col calcolo della prescrizione la sospensione del processo.
L’incremento dei termini prescrizionali interagisce sul calcolo della prescrizione nei casi di sospensione del processo.
Un orientamento giurisprudenziale afferma che una eventuale sospensione del processo concessa senza che ricorrano le condizioni per l'ottenimento della concessione in sanatoria ex artt. 44 della L. 47/85 ovvero del condono edilizio ex art. 32 della L. 269/03, deve considerarsi tamquam non esset con conseguente maturazione del termine prescrizionale dopo la scadenza del termine massimo quinquennale ex art. 157 cod. pen. (salve eventuali sospensioni disposte per altra causa).
Detto orientamento ha trovato ulteriori applicazioni in pronunce della terza Sezione, quali, tra le tante, la n. 563 del 17 novembre 2005, Martinico, Rv. 233011, secondo cui la sospensione per reati edilizi prevista dall'art. 44 della L. 47/85 in relazione alla domanda di condono edilizio presentata ai sensi dell'art. 32 del D.L. 260/03 convertito nella L. 326/03, non può essere disposta in relazione ad opere non condonabili.
La eventuale sospensione disposta dal Giudice di appello deve considerarsi inesistente con le ovvie ricadute in tema di computo dei termini di prescrizione del reato. Su questo stesso filone interpretativo si colloca altra pronuncia della Sez. 3 n. 9670 del 26.1.2011, Rizzo ed altro, Rv. 949606 con la quale è stato ribadito il principio della inapplicabilità della sospensione del processo ex art. 159 cod. pen. in tema di reati edilizi laddove si verta nella ipotesi di opere edilizie non condonabili.
La Cass. Pen. Ord. Sez. 3, n. 49652 Anno 2015 ritiene invece diverso il criterio informatore cui si ispira la sospensione del processo in materia di reati urbanistici, la quale - per i casi regolati dagli artt. 38 e 44 della L. 47/85 e dall'art. 39 della L. 724/94 e per quelli regolamentati dall'art. 32 della L. 326/03 (assimilabile a quelli previsti dal menzionato art. 39) - in tanto potrà essere applicata in quanto l'opera edilizia risulti astrattamente sanabile o condonabile, previa valutazione preventiva da parte del giudice, ovvero ex post.
Una volta accertato da parte del giudice, nel corso del processo di merito, che il rilascio della concessione edilizia è stato negato o non poteva essere disposto, considererà tamquam non esset la sospensione medio tempore disposta, con inevitabile refluenza sul corso della prescrizione.
Nel caso, invece, ricadente sotto il paradigma dell'art. 13 della L. 47/85, trattandosi di sospensione del processo accordata su richiesta dell'imputato, anche laddove la domanda non dovesse essere accolta in esito all'iter della procedura azionata dal privato, la sospensione del processo penale opererebbe sempre e di essa si deve tenere conto ai fini del computo del termine prescrizionale, proprio perché conseguente ad una istanza difensiva che prescinde dal giudizio preventivo da parte del giudice sulla assentibilità dell'opera.
Se così è, si profila un contrasto interpretativo sulla estensibilità anche alla disciplina prevista dal combinato disposto degli artt. 13 e 22 della L. 47/85 (oggi artt. 36 e 45 del D.P.R. 380/01) delle regole riguardanti gli effetti della sospensione del processo sulla prescrizione laddove si verta in ipotesi disciplinate degli artt. 44 e 38 della L. 47/85 ovvero dagli artt. 39 della L. 724/94 e 32 della L. 326/03.
La regola generale secondo la quale in caso di inaccoglibilità della sanatoria non può ritenersi la sospensione del procedimento penale (con le ovvie conseguenze con riguardo alla prescrizione del reato) e ciò indipendentemente dal fatto che il giudice abbia disposto o negato la sospensione del procedimento, dovendosi nel primo caso ritenere la sospensione inesistente", varrebbe anche per quei casi nei quali le istanze di rinvio presentate dall'imputato (o dal difensore) rivolte ad ottenere la sospensione del processo in attesa del rilascio del provvedimento amministrativo ai sensi dell'art. 13 della L. 47/85 (oggi 36 D.P.R. 380/01), siano state accolte dal giudice. In tal caso, invece, dovrebbe trovare applicazione in tale ultima ipotesi il disposto di cui all'art. 159 comma 1 par. 3) del cod. pen. che àncora la sospensione del processo ad apposita istanza difensiva.
Per la sez. 3 pen. appare quindi necessario un intervento risolutore della Suprema Corte al fine di indicare se il periodo di sospensione per reati edilizi, disposta dal giudice a seguito di presentazione della istanza di concessione in sanatoria ai sensi dell'art. 13 della L. 47/85 (oggi art. 36 del D.P.R. 380/01) per opere originariamente o successivamente non assentibili sia assoggettato, o meno, all'identico regime previsto per le sospensioni disposte dal giudice in relazione ad istanze avanzate dal privato in via amministrativa dirette ad ottenere la sanatoria ex art. 44 della L. 47/85, ovvero ex art. 38 della stessa legge, ovvero ancora in relazione ad istanze avanzate ai sensi dell'art. 39 della L. 724/94 ovvero ai sensi dell'art. 32 del D.L. 269/03, convertito nella L. 326/03, per opere originariamente o successivamente non condonabili.
A tal fine la sez. 3 pen.ha richiesto alle Sez. Un. di verificare se il periodo di sospensione disposto dal giudice nelle ipotesi di presentazione di istanza per la concessione in sanatoria ai sensi dell'art. 13 della L. 47/85 debba, o meno, essere considerato in tutto o in parte ai fini del computo dei termini di prescrizione del reato edilizio, e se, in caso di successive istanze di rinvio del processo dinnanzi al giudice penale ed all'esito negativo della domanda amministrativa di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, si applichino, o meno, le disposizioni previste dall'art. 159 comma 10 par. 3) del codice penale per effetto di richieste di rinvio su istanze del privato.

semplificazione amministrativa. Quesito

Egr. Avv.
ma quale sbandierata semplificazione amministrativa! a rivolgersi ad un ufficio pubblico si trovano solo ostacoli e complicazioni. Nessuno sembra sappia cosa deve fare e quindi inventa ostacoli per non decidere.
Se non ti va bene ti invitano a produrre un ricorso alla magistratura.
I costi e i tempi della giustizia aiutano?
Questi mirano a sfasciare il paese.
Saluti
GG


Risposta
Finché avremo questi amministratori e questi dirigenti è difficile uscirne

giovedì 7 gennaio 2016

canone RAI 2016

Il canone RAI si paga solo sulla prima casa e una sola volta nella famiglia, a condizione che i coniugi e/o i figli siano tutti residenti nello stesso immobile. Nel caso di coppia di coniugi con residenze in due immobili diversi, su entrambi gli immobili la società elettrica addebiterà, nella bolletta, il canone. Lo stesso dicasi per i figli: se questi ultimi cambiano residenza dovranno pagare il canone nell’immobile anche se in locazione o in comodato.

 • L’importo del Canone Rai è stato ridotto da 113,50 a 100 euro l'anno.

 • Il canone si pagherà in bolletta dal 1 luglio 2016 e comprenderà le rate dei mesi precedenti . Dal 2017 invece sarà diviso in 10 rate da 10 euro, da Gennaio a Ottobre (20 euro a bolletta). Quindi non si pagherà sulla bolletta dell'ultimo bimestre dell'anno.

 • Nella residenza anagrafica del contribuente che ha un contratto di energia elettrica, da ora, si presume la detenzione di un televisore, tale presunzione va, eventualmente, superata presentando regolare autocertificazione, con validità un anno, all’Agenzia delle Entrate. Il decreto non fa riferimento al possesso di smartphone, tablet e PC.

 • Il pagamento avverrà con la bolletta sia per chi ha un contratto con una compagnia elettrica delmercato libero che per chi è coperto dal servizio di maggior tutela (la stragrande maggioranza degli italiani). 

lunedì 4 gennaio 2016

In Italia c'è la ripresa economica?

Nel 2015 sono fallite 10500 imprese .
I prezzi degli immobili continuano a scendere i giovani non trovano lavoro e quando va bene aprono una partita iva.
Sono  i segnali della ripresa?