Nel diritto amministrativo la
P.A. ha generalmente la possibilità di riesaminare i propri atti e revocarli.
Secondo la definizione più
condivisa, la revoca è l’atto di ritiro con effetto non retroattivo che
presuppone non un vizio di legittimità, ma una nuova valutazione dell’opportunità
del provvedimento ritirato.
La revoca del provvedimento
amministrativo è disciplinata dall’art. 21-quinquies
l.241/1990, introdotto dalla l.15/2005, secondo cui “per motivi di pubblico
interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova
valutazione dell’interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo
ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha
emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina
l’inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti”.
In tale disposto normativo viene
ripresa l’impostazione giurisprudenziale e dottrinale, attraverso la
formulazione di un’ipotesi di caducazione del provvedimento di primo grado che
prescinde quindi dall’esistenza di vizi di legittimità e che produce effetti ex nunc, salvaguardando quelli medio tempore prodotti dall’atto
revocato. (F.Caringella, Manuale di diritto amministrativo, 2012, p. 1472.).
La revoca, dunque, incide
sull’efficacia del provvedimento: il provvedimento amministrativo revocato,
pertanto, non viene eliminato retroattivamente, ma non è più ritenuto idoneo a
produrre ulteriori effetti in contrasto con l’interesse pubblico
L’art. 21-quinquies ha regolamentato tre presupposti alternativi che
legittimano l’adozione del provvedimento di revoca:
a) sopravvenuti motivi di
pubblico interesse;
b) mutamento della situazione di
fatto;
c) nuova valutazione
dell’interesse pubblico originario.
Dalla norma in esame, la revoca
può essere disposta nel caso di sopravvenienze (mutamento della situazione di
fatto ovvero sopravvenuti motivi di interesse pubblico) ed in caso di diversa
valutazione dell’interesse pubblico originario (jus poenitendi, che comporta una riconsiderazione dell’originaria
situazione di fatto).
La ratio di tale istituto è, dunque, l’incompatibilità fra il
perdurare degli effetti di un provvedimento già adottato ed interessi ritenuti
dalla P.A preminenti.
Perché sia ammissibile, è
necessario che il mutamento dello stato materiale delle cose comporti un
mutamento della valutazione concreta dell’interesse pubblico. (F.Caringella,op.
cit., 2012, 1473)
La revoca è finalizzata alla
rivalutazione dell’interesse pubblico: essa è espressione di amministrazione
attiva, che si realizza, con effetto ex
nunc, modificando un rapporto precedentemente creato attraverso
l’emanazione di un atto amministrativo.
Giurisprudenza costante richiede,
ai fini della legittimità dei provvedimenti in discorso, l’attualità
dell’interesse pubblico alla rimozione degli effetti dell’atto originario.
(T.A.R Campania, Napoli, Sez.
III, n.4246/2011; Cons.St.Sez.V, n.2244/2010).
In primo luogo, con riguardo ai
sopravvenuti motivi di interesse pubblico, è stata affermata l’illegittimità
del provvedimento con il quale sono stati revocati in autotutela il bando e
tutti gli atti di gara per sopravvenuti concreti motivi di interesse pubblico,
determinati dalla necessità di non incorrere nelle negative conseguenze
susseguenti al mancato rispetto del c.d. “patto di stabilità” con la
motivazione correlata ai limiti alla attività di spesa, in presenza di
indisponibilità sopravvenuta delle risorse finanziarie necessarie (T.A.R
Sicilia, Catania, Sez. III, n.2490/2011).
E’ stato, inoltre, dichiarato
legittimo il provvedimento di revoca di una gara di appalto - disposta in una
fase non ancora definita della procedura concorsuale, ancora prima del
consolidarsi delle posizioni delle parti e quando il contratto non è stato
ancora concluso - laddove tale provvedimento è motivato con riferimento al
risparmio economico che deriverebbe dalla revoca stessa, posto che l'art. 21- quinquies
l. n. 241/1990, consente un ripensamento da parte della
amministrazione là dove questa ritenga di operare motivatamente una nuova
valutazione dell'interesse pubblico originario. (Cons. Stato, sez. III, n. 2291/2011).
Con particolare riguardo al
disposto di cui all'art. 21 quinquies comma 1, l. 7 agosto 1990 n. 241,
introdotto dalla l. 11 febbraio 2005 n. 15, per sopravvenuti motivi di pubblico
interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova
valutazione dell'interesse pubblico originario, il provvedimento di revoca deve
essere adeguatamente motivato quando incide su posizioni in precedenza
acquisite dal privato, non solo con riferimento ai motivi di interesse pubblico
che giustificano il ritiro dell'atto, ma anche in considerazione delle
posizioni consolidate in capo al privato e all'affidamento ingenerato nel
destinatario dell'atto da revocare (cfr. ex multis Consiglio Stato , sez. V, 18
gennaio 2011 , n. 283).
Nel caso di specie, l'Amministrazione
Regionale Calabrese ha revocato il finanziamento di 83.000 euro concesso al
progetto del Consorzio Scuola Lavoro Calabria, quale contributo assegnato per
un corso di Tecnico specialista in gestione della coltivazione, produzione e
trasformazione vitivinicola, destinatario di finanziamento nell'ambito del POR
Calabria 2000/2006.
La finalità dei progetti ammessi
a finanziamento è quello di realizzare un percorso formativo post-secondario,
destinato a creare particolari figure di qualificata professionalità.
La convenzione stipulata dal
Consorzio con la Regione ha per oggetto la definizione dei rapporti tra i due
enti "allo scopo di determinare un canale di formazione non universitaria
denominato "Istruzione Formazione Tecnico Superiore".
Il Consorzio è stato ritenuto
idoneo per l'affidamento di n. 1 progetto formativo.
Alla luce di tali circostanze, la
revoca totale del finanziamento concesso con decreto del 2002, ai sensi
dell'art. 21- quinquies della l. n.241/1990
e ss.mm., per mancata assunzione dei corsisti e mancata produzione di specifica
polizza fideiussoria da parte del partner Agricola , è priva di idonea
motivazione e carente dei presupposti richiesti per l'esercizio in autotutela,
nonché illegittimamente lesiva del legittimo affidamento.
La revoca per sopravvenuti motivi
di ordine pubblico, soprattutto qualora adottata a distanza di tempo dall'atto
oggetto di revoca ed in presenza, come nel caso di specie, di motivi idonei a
creare un legittimo affidamento, con relativa assunzione di spese, necessitava
di idonea motivazione che esplicitasse i presupposti di cui all'art. 21- quinquies.
Il provvedimento impugnato,
invece, non indica in alcun modo quali siano i sopravvenuti motivi di pubblico
interesse, né i mutamenti nella situazione di fatto, né ancora su quali
considerazioni si fondi la nuova valutazione dell'interesse pubblico originario
sulla cui base è stata disposta la revoca del contributo concesso 7 anni prima.
Ravvisando un pubblico interesse
a dare unica ed esclusiva prevalenza alla finalità dell'occupazione, anziché a
quella della formazione, l'Amministrazione Regionale ridetermina in radice ed
in modo rilevante il contenuto del bando e degli atti attuativi, con mutamento
delle stesse finalità dei progetti per i quali erano previste partecipazioni finanziarie
delle Stato e di privati.
Come precisato di recente, il
principio di tutela del legittimo affidamento "...si traduce in un limite
all'adozione di provvedimenti negativi o sfavorevoli emanati a notevole
distanza temporale dal verificarsi della fattispecie legittimante, ovvero in
presenza di elementi che rendano razionalmente ammissibile la conservazione di
effetti prodotti dal provvedimenti illegittimi, ovvero in presenza di un
contegno tenuto dall'Amministrazione che sia idoneo a suscitare falsi affidamenti,
ovvero ancora in presenza di mutamenti normativi o giurisprudenziali che
rendano incerta per il destinatario la validità o l'efficacia di atti emanati
dall'Amministrazione" (TAR Puglia, Bari, sez. I, 9 maggio 2011 n. 688. T.A.R.
Calabria, Catanzaro, Sez.II, n.149/2012).
In merito al presupposto della
nuova valutazione dell’interesse pubblico originario (c.d. jus poenitendi) la revoca di provvedimenti amministrativi è,
quindi, consentita non solo in base a sopravvenienze, ma anche per una nuova valutazione
dell'interesse pubblico originario (Cons. Stato, V, 6 ottobre 2010, n. 7334;
v., anche Cons. Stato, VI, 17 marzo 2010, n. 1554).
Nel caso di specie, il Comune di
Manduria indiceva con bando una gara avente a oggetto i lavori di
riqualificazione e ristrutturazione del locale Palazzo Municipale (per un
importo a base d'asta di 2.000.000 di euro). La selezione veniva aggiudicata in
via provvisoria alla Società Lu. Sa. Impresa di Costruzione s.r.l; i verbali di
gara venivano quindi approvati; in seguito l'aggiudicazione dei lavori veniva
congelata ed, infine, veniva annullata dalla delibera di Giunta n. 54 dell'11
marzo 2011 per ragioni inerenti a problematiche di tipo finanziario e
organizzativo. La motivazione del provvedimento di ritiro era appunto
costituita da una nuova valutazione dell'interesse pubblico, posto che
l'Amministrazione, preso atto di un proprio disequilibrio di bilancio di circa
1,6 milioni di euro, delle difficoltà logistiche esistenti per il trasferimento
degli uffici durante l'esecuzione dei lavori (l'aspetto organizzativo relativo
al trasferimento mostra aspetti di criticità in quanto, da una parte, l'appalto
non prevede un frazionamento dei lavori e, dall'altro, la mancata propedeutica
indagine atta alla individuazione di strutture idonee alla bisogna impedisce, di
fatto, un immediato trasloco) e di quelle economiche pure riscontrate (l'onere
riveniente dal pagamento di canoni di locazione di immobili di privati non è
sostenibile per le casse comunali), mutava il proprio originario indirizzo e si
determinava, così, all'annullamento degli atti di gara.
Nell'esercizio dello jus poenitendi l'Amministrazione gode,
soprattutto nel caso di scelte aventi carattere di ampio respiro, di significativi
margini di discrezionalità: pertanto, la motivazione adottata dal Comune di
Manduria può certamente ritenersi idonea a supportare la scelta compiuta. (T.A.R.
Puglia, Lecce Sez.III n.139/2012).
Il legislatore con la nuova
disciplina positiva data all'istituto della revoca introdotta nel 2005 ha, in
definitiva, dilatato la preesistente nozione elaborata dall'insegnamento
dottrinario e giurisprudenziale, ricomprendendo in essa anche il potere di
rivedere il proprio operato in corso di svolgimento e di modificarlo, perché
evidentemente ritenuto affetto da inopportunità, in virtù di una rinnovata
diversa valutazione dell'interesse pubblico originario.
Tale potere è stato ulteriormente
precisato - può essere esercitato anche per eliminare degli atti amministrativi
della serie di evidenza pubblica ed anche in caso di esistenza del contratto,
nell'ipotesi, ad esempio, di una diversa scelta organizzativa e gestionale del
servizio svolto da privati; e tale scelta, ove congruamente motivata,
appartiene alla sfera del merito amministrativo e non è sindacabile dal giudice
amministrativo in assenza di profili di sviamento apprezzabili in sede di
legittimità (cfr. Cons. St., sez. VI, 6 maggio 2011, n. 2713, e sez. VI, 17
marzo 2010, n. 1554).
In tal caso sorge, per effetto
della revoca legittima di cui al predetto art. 21-quinquies, un diritto
all'indennizzo derivante dai principi generali sulla tutela dell'affidamento
nei rapporti di durata, affidato alla cognizione esclusiva del giudice
amministrativo.
(T.A.R. Abruzzo Pescara
n.321/2011)
Infine, il presupposto del mutamento
della situazione di fatto si verifica, ad esempio,
quando il beneficiario di un finanziamento pubblico, finalizzato alla
realizzazione di un certo investimento per una produzione da mantenere nel
tempo, distoglie le somme dalla destinazione prevista. La revoca del finanziamento sanziona un comportamento illecito,
ma è determinata soprattutto da circostanze di fatto sopravvenute incompatibili con gli scopi del
provvedimento originario. (G.Corso,
Manuale di diritto amministrativo, p. 307)
Va rilevato che sussistono alcuni
limiti all’esercizio del potere di revoca con riguardo alle categorie di atti
revocabili.
Poiché la revoca incide
sull’efficacia del provvedimento, la stessa può avere ad oggetto i soli
provvedimenti amministrativi ad efficacia durevole attualmente operante, ancora
idonei a proporre effetti nel momento in cui la P.A. provvede a rivalutare
l’opportunità del provvedimento, anche a fronte di eventuali sopravvenienze di
fatto e di diritto.
Pertanto, non sono revocabili i
provvedimenti ad efficacia istantanea ed i provvedimenti che hanno già esaurito
i loro effetti nel momento in cui la P.A. potrebbe disporne la revoca, come ad
esempio nel caso di ordine già eseguito o di concessione oramai estinta.(R.Chieppa,
R.Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, 2011, p.507).
Obbligo d’indennizzo
In ordine alla tutela dell’affidamento, l’art. 21- quinquies, comma 1, l.241/1990,
introdotto dalla l.15/2005, prevede che “ove la revoca comporta un pregiudizio
in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo
di provvedere al loro indennizzo. Le controversie in materie di determinazione
e corresponsione dell’indennizzo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo”.
La P.A. ha il potere di revocare il provvedimento, salvo
l’obbligo di corrispondere un indennizzo, se la revoca in autotutela comporta
pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati.
Il legislatore ha parametrato l’indennizzo al solo danno
emergente, escludendo, invece, il lucro cessante ed ha specificato che l’indennizzo deve essere
quantificato in ordine alla tutela dell’affidamento: ovvero, tenendo conto
dell’affidamento che il privato aveva riposto (o poteva ragionevolmente
riporre) sull’atto revocato.
La norma dispone che l’indennizzo venga quantificato
tenendo conto sia della conoscenza o della conoscibilità da parte del privato
della contrarietà dell’atto amministrativo oggetto di revoca all’interesse
pubblico, sia dell’eventuale concorso del contraente o di terzi nell’erronea
valutazione in cui è incorsa la P.A.
L'obbligo di indennizzo gravante sulla Pubblica
Amministrazione, come previsto e definito nella sua misura dall'art. 21-
quinquies, non presuppone elementi di responsabilità della stessa, ma si fonda
su valori puramente equitativi considerati dal legislatore, onde consentire il
giusto bilanciamento tra il perseguimento dell'interesse pubblico attuale da
parte dell'amministrazione e la sfera patrimoniale del destinatario
(incolpevole) dell'atto di revoca, cui non possono essere addossati
integralmente i conseguenti sacrifici.
Ricorre, dunque, l'ipotesi che suole definirsi come di
responsabilità della Pubblica Amministrazione per attività legittima (forma
conosciuta dal nostro ordinamento, come conseguente ad atti leciti, fin dall'art. 46 l. 25 giugno 1865 n. 2359), la quale, lungi dal trovare il
proprio presupposto in fatti o atti illeciti ovvero in atti illegittimi
imputabili alla stessa amministrazione, più propriamente risponde ad intenti
equitativi, e, a stretto rigore, non potrebbe essere definita utilizzando il
termine "responsabilità".
Tale ipotesi differisce nettamente da quella
risarcitoria, di modo che anche le due azioni devono essere tenute distinte,
sia con riferimento alla causa petendi, sia con riferimento al petitum.
La causa petendi, nel giudizio volto ad ottenere
l'indennizzo, deve essere ravvisata nella legittimità dell'atto adottato
dall'amministrazione, ovvero nella liceità della condotta da questa tenuta, e
che ha causato il pregiudizio; mentre nel giudizio risarcitorio, essa consiste
nel fatto o nell'atto produttivo del danno.
Quanto al petitum, nel giudizio per responsabilità da
atti legittimi o leciti, esso è limitato al pregiudizio immediatamente subito,
ed è quindi limitato al cd. danno emergente, mentre nel giudizio risarcitorio
esso si estende - fermi, ovviamente, i necessari presupposti probatori - a
tutto il pregiudizio (danno emergente e lucro cessante), conseguente
all'illegittima violazione della sfera giuridico - patrimoniale del soggetto
leso.
Vengono ristorate al destinatario del provvedimento di
revoca solo le eventuali spese che abbia sostenuto facendo affidamento
sull’efficacia o, nel caso di revoca di un atto ad efficacia durevole, sulla
perdurante efficacia, del provvedimento revocato.
Per l’ottenimento del ristoro integrale, anche del lucro
cessante, si dovrà dimostrare che la revoca è illegittima e si dovrà richiedere
il risarcimento del danno, in conseguenza del fatto illecito compiuto dalla
P.A.
Pertanto, il destinatario del provvedimento di revoca non
potrà ottenere, a titolo d’indennizzo, il ristoro del guadagno che, grazie al
provvedimento revocato, avrebbe potuto conseguire.
Secondo quanto affermato dalla giurisprudenza, presupposto
dell’indennizzo è la legittimità della revoca (trattasi di responsabilità per atti
legittimi), spettando altrimenti il risarcimento del danno. (Cons. St. Sez. V.
n.671/2010).
Illegittimità indennizzo. Risarcimento del danno.
Diversamente da quanto affermato per l'indennizzo,
l'obbligazione della pubblica amministrazione per responsabilità
extracontrattuale ha natura risarcitoria e si fonda, ai sensi dell’art. 1337
c.c., sulla violazione dei principi di correttezza e buona fede "nello
svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto".
Come ha chiarito anche l'Adunanza Plenaria (dec. 5
settembre 2005 n. 6), l'accertamento della eventuale responsabilità
precontrattuale dell'amministrazione non è esclusa dalla dichiarata legittimità
del provvedimento (di annullamento o, in particolare, di revoca) assunto in via
di autotutela, posto che, se "la revoca dell'aggiudicazione e degli atti
della relativa procedura (vale) a porre al riparo l'interesse pubblico dalla
stipula di un contratto che l'amministrazione non avrebbe potuto fronteggiare
per carenza delle risorse finanziarie occorrenti".
Ai fini della configurabilità della responsabilità
precontrattuale della p.a. non si deve tener conto della legittimità
dell'esercizio della funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento
amministrativo, ma della correttezza del comportamento complessivamente tenuto
dall'Amministrazione durante il corso delle trattative e della formazione del
contratto, alla luce dell'obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede
ai sensi dell'art. 1337 c.c. (Cons. St., sez. V, 7 settembre 2009 n.
5245).
Può dirsi, infatti, sufficientemente condiviso che la
responsabilità precontrattuale comporta obbligo di risarcimento del danno nei
limiti del cd. interesse negativo, e cioè dell'interesse del soggetto a non
essere leso nell'esercizio della sua libertà negoziale. (laddove l'interesse
positivo è interesse all'esecuzione del contratto).
Mentre l'interesse positivo consiste nella perdita che il
soggetto avrebbe evitato (danno emergente) e nel vantaggio economico che
avrebbe conseguito (lucro cessante) se il contratto fosse stato eseguito, al
contrario il danno proprio dell'interesse negativo consiste nel pregiudizio che
il soggetto subisce per avere inutilmente confidato nella conclusione e nella
validità del contratto ovvero per avere stipulato un contratto che senza
l'altrui ingerenza non avrebbe stipulato o avrebbe stipulato a condizioni
diverse.
Ne consegue che, nel caso di mancata conclusione del
contratto, il soggetto avrà diritto al risarcimento del danno consistente
innanzi tutto nelle spese inutilmente sostenute, e consistente inoltre nella
perdita di favorevoli occasioni contrattuali, cioè di ulteriori possibilità
vantaggiose sfuggite al contraente a causa della trattativa inutilmente
intercorsa, ovvero a causa dell'inutile stipulazione del contratto.
A tali voci, ritiene il Collegio che deve essere aggiunto
il cd. "danno curriculare", cioè quel danno consistente
nell'impossibilità di far valere, nelle future contrattazioni, il requisito
economico pari al valore dell'appalto non eseguito.
Quanto alle "voci" del danno risarcibile, esse
consistono (Cons. Stato, sez. V, n. 491/2008; sez. VI, n. 2384/2010):
a) nel danno emergente, costituito dalle spese e dai
costi sostenuti per la preparazione dell'offerta e per la partecipazione alla
procedura (secondo Cons. Stato, sez. VI, 21 maggio 2009
n. 3144, solo in caso
di illegittima esclusione dalla gara);
b) nel lucro cessante, determinato nel 10% del valore
dell'appalto, precisandosi anche che il lucro cessante è innanzi tutto
determinato sulla base dell'offerta economica presentata al seggio di gara (Cons. Stato, sez. V, 6 aprile 2009 n.
2143);
c) una ulteriore percentuale del valore dell'appalto,
"a titolo di perdita di chance, legata alla impossibilità di far valere,
nelle future contrattazioni, il requisito economico pari al valore dell'appalto
non eseguito", cd. "danno curriculare" (in senso conforme,Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2008 n.
2751; sez. V., 23 luglio 2009 n. 4594;
Secondo Cons. Stato, sez. VI, n. 3144/2009, la percentuale del "danno
curriculare" va calcolata sulla misura del lucro cessante e non già
sull'importo dell'appalto.
d) il danno, equitativamente liquidato, per il mancato
ammortamento di attrezzature e macchinari;
e) infine, il danno esistenziale, posto che "il
diritto all'immagine, concretizzantesi nella considerazione che un soggetto ha
di sé e nella reputazione di cui gode, non può essere considerato appannaggio
esclusivo della persona fisica e va anzi riconosciuto anche alle persone
giuridiche".
L'esame della sussistenza del
danno da perdita di chance interviene:
- o attraverso la constatazione
in concreto della sua esistenza, ottenuta attraverso elementi probatori (ad
esempio, si è in presenza di un contratto eseguito o in esecuzione, che avrebbe
dovuto essere certamente eseguito da una diversa impresa, in luogo di quella
beneficiaria di aggiudicazione illegittima);
- o attraverso una articolazione di argomentazioni logiche,
che, sulla base di un processo deduttivo rigorosamente sorvegliato, inducono a
concludere per la sua sussistenza;
- ovvero ancora attraverso un processo deduttivo secondo
il criterio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, del c.d.
"più probabile che non" (Cass. civ., n. 22022/2010), e cioè "alla luce di una
regola di giudizio che ben può essere integrata dai dati della comune esperienza,
evincibili dall'osservazione dei fenomeni sociali" (Cass., sez. III civ.,
n. 22837/2010).
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