martedì 2 ottobre 2012

Cimiteri. 12 Giurisdizione ordinaria. 13 Giurisdizione penale. Giurisdizione contabile.


Capitolo 12
LA GIURISDIZIONE ORDINARIA.

1. La tutela possessoria.

Lo ius sepulchri si compone di un complesso differenziato di situazioni giuridiche. Il diritto primario al sepolcro consistente nella duplice facoltà di essere sepolti (ius sepulchri) e di seppellire altri (ius inferendi in sepulchrum) in un dato sepolcro, e un diritto cd. secondario che ha come contenuto la facoltà di accedere al sepolcro.
Il diritto primario, in quanto diritto patrimoniale di natura reale, è tutelabile in via possessoria. (S. GIULIANO, Famiglia, parentela, ius sepulchri. Nota a Pretura Genova, 30 Dicembre 1995, in Dir. fam., 1997, 1, 224).
Per esercitare l’azione possessoria l’attore deve dimostrare l’assenza da parte del convenuto del diritto di seppellire altri.
La giurisprudenza ha precisato che non sussiste turbativa del possesso quando un congiunto del concessionario originario tumula nel sepolcro familiare la propria madre (moglie di un figlio del fondatore del sepolcro), pur senza il consenso degli altri contitolari e senza dare a questi ultimi preventivo avviso del seppellimento, avendo anzi mendacemente comunicato all'autorità comunale cimiteriale che i compossessori avevano acconsentito all'inumazione (Pret. Genova, 30 dicembre 1995, in Dir. fam., 1997, 1, 223).
In mancanza dell'atto di concessione originale dell'autorità comunale bisogna far riferimento alle situazioni di fatto già accertate per stabilire di qual tipo di sepolcro si tratti.
Nella fattispecie, il concessionario originario vi aveva tumulato, prima della propria morte, due stretti congiunti e da tale circostanza si poteva evincere che si trattasse di un sepolcro familiare.
Quindi, il diritto di essere tumulato in esso si acquista per il solo fatto di trovarsi in un determinato rapporto di parentela con il fondatore, cioè iure sanguinis e non iure successionis.
Ai fini della tumulazione, pertanto, è rilevante il rapporto di parentela, che, in materia, è inteso in senso più ampio di quello corrente, in quanto si fa riferimento ai regolamenti comunali di polizia mortuaria.
Nella fattispecie la giurisprudenza ha rilevato che l'art. 35 del regolamento di polizia mortuaria del Comune di Genova, per esempio, prevede, infatti, come membri della famiglia del concessionario originario, e quindi aventi diritto alla tumulazione - fino ad esaurimento della capienza del sepolcro - il coniuge, gli ascendenti e i discendenti in linea retta, qualunque sia il grado di parentela, e i rispettivi coniugi, gli affini ed i collaterali fino al quarto grado.
Sulla base delle considerazioni sopra esposte, la madre del convenuto aveva diritto ad essere tumulata nel sepolcro in questione, in quanto moglie di un figlio dell'originario concessionario e quindi al secondo posto nella graduatoria delle persone che potevano esser seppellite nel sepolcro familiare. Il convenuto, quindi, non ha commesso spoglio.
Il convenuto, poi, non si è reso nemmeno colpevole di aver sottaciuto l'avvenuta tumulazione della propria madre, in quanto nessuna norma prevede che occorra il consenso degli altri familiari per seppellire un familiare nell'accezione del regolamento comunale nel sepolcro di famiglia.
Lo spoglio è ravvisabile solo qualora sia stato costituito un sepolcro familiare, riservato, nella volontà dei fondatori, a ricevere esclusivamente i corpi dei membri delle famiglie dei fondatori stessi, quando il compossessore di tale sepolcro immetta la salma di persona estranea alle famiglie stesse, in quanto, in siffatto modo, viene a violare la destinazione specifica del sepolcro (Cass. Civ., 24 maggio 1982 n. 2736, in Foro it. Rep., 1982, v. Possesso, 71).



2. L’esecuzione dei lavori.

Le controversie derivanti dall’esecuzione del contratto di appalto rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, salvo il ricorso alla competenza arbitrale. L’indirizzo è confermato dal Codice dei contratti pubblici (N. CENTOFANTI, Il formulario del diritto amministrativo, 2006, 409).
La dottrina prevalente segue l’indirizzo giurisprudenziale dominante che affida al giudice ordinario le controversie relative alla fase dell’esecuzione del contratto di appalto che attengono a posizioni di diritto soggettivo (V. CARBONE, Sezioni Unite, Adunanza Plenaria T.A.R. Calabria a confronto sulla nuova giurisdizione esclusiva dopo il d.lg. n. 80/1998, in Corr. Giur., 2000, 602).
Se v'è incertezza nell’identificazione della posizione soggettiva coinvolta nell'azione della pubblica amministrazione, ai fini del riparto della giurisdizione, deve valere, perché più conforme a criteri di ragionevolezza costituzionale, la naturale presunzione di devoluzione della controversia al giudice ordinario.
Nella fattispecie, pur impugnandosi formalmente anche la delibera con la quale il Comune aveva affidato ad altra azienda gli stessi servizi gestiti dalla ricorrente, sostanzialmente si agiva contro il provvedimento, ritenuto implicito, di risoluzione della precedente convenzione. (T.A.R. Lazio Latina, 08 settembre 2004, n. 778, in Foro amm. TAR, 2004, 2596).
La giurisprudenza, infatti, afferma che, alla luce di una lettura costituzionale della relativa disciplina, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo le controversie derivanti dalle procedure di affidamento dei lavori, mentre per quelle che traggono origine dall'esecuzione del contratto non v'è alcuna deroga alla giurisdizione del giudice ordinario.
L'inadempimento nella corresponsione dei canoni devoluti dal concessionario e cioè del tutto susseguente a tutta la questione relativa all'affidamento dei lavori e del servizio, non rientra nella giurisdizione amministrativa.
La Corte ha pure specificato che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la cognizione della controversia sorta a seguito dell'impugnazione da parte dell'appaltatore della rescissione del contratto intimata dalla pubblica amministrazione (Cass. Civ., sez. un., 18 aprile 2002, n. 5640).
Il T.A.R. ha anche chiarito che l'atto di rescissione di un contratto di appalto, adottato da una p.a. ai sensi dell'art. 340, L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, non ha portata di provvedimento autoritativo ma inerisce ad un rapporto giuridico di diritto privato e quindi a situazioni giuridiche riconducibili a posizioni di diritto soggettivo in cui le due parti si raffrontano su un piano paritetico e per le quali la sede naturale di tutela è il giudice ordinario (T.A.R. Calabria Catanzaro, sez. II, 11 maggio 2004, n. 1061, in Foro amm. TAR, 2004, 1563)
Il ricorso afferente la rescissione del contratto di appalto per la realizzazione e gestione del servizio di illuminazione votiva del cimitero per mancato versamento di canoni all'amministrazione comunale deve essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione.
Tale controversia verte su di una fase – che è quella dell'esecuzione del rapporto - logicamente successiva a quella dell'affidamento dei lavori e dei servizi, riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dagli artt. 6 e 7 l. 19 luglio 2000, n. 205 (T.A.R. Calabria Catanzaro, sez. II, 11 maggio 2004, n. 1061, in Foro amm. TAR, 2004, 1563).
Da notare che l’art. 244, D. L.vo 163/2006, devolve, invece, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo un secondo gruppo di controversie relative ai provvedimenti sanzionatori emessi dall'Autorità, al divieto di rinnovo tacito dei contratti, alla clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nonché quelle relative ai provvedimenti applicativi dell'adeguamento dei prezzi.


3. Il risarcimento del danno per omissione di custodia.

La giurisprudenza si è posta il problema se i principi fissati dal regolamento cimiteriale siano fonte di responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione per condotta omissiva.
I regolamenti statali, quale espressione di un potere normativo secondario derivante direttamente dalla legge, a norma dell'art. 1 delle preleggi sono fonte di diritto oggettivo e per il principio iura novit curia vanno applicati dal giudice.
L'art. 52, D.P.R. 285/1990, in particolare, afferma che tutti i cimiteri, sia comunali che consorziali, devono assicurare un servizio di custodia.
Tale affermazione evidenzia che il Comune, cui appartiene il cimitero, è tenuto ad assicurare il servizio di custodia.
La giurisprudenza non giunge alla conclusione che il servizio debba essere ininterrotto sì da garantire l'utilizzazione della cella mortuaria in qualsiasi momento senza alcuna attesa ed a prescindere dal tempestivo avviso del personale addetto.
La condotta omissiva può essere fonte di responsabilità aquiliana della p.a., ove si concretizzi nell'inosservanza di una specifica norma, istitutiva dell'obbligo inadempiuto, oppure si ponga come violazione del principio generale di prudenza e diligenza - il cosiddetto obbligo del neminem laedere - di cui è espressione l'art. 2043 c.c. (Cass. Civ., sez. III, 29 aprile, 1996, n. 3939).
E’ peraltro necessario che il comportamento della p.a. sia produttivo di danno. Il danno deve essere ingiusto nel senso che deve ledere un interesse giuridicamente protetto senza che rilevi se si tratta di diritto soggettivo o interesse legittimo.
L'evento dannoso deve essere imputabile a dolo o colpa della p.a. da apprezzare in relazione alle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione che vanno rispettate nell'esercizio della funzione amministrativa.
La giurisprudenza escludere la configurabilità della colpa in re ipsa sulla base del dato dell'inadempimento dell'obbligo.
L'elemento soggettivo richiesto dall'art. 2043 c.c., non è insito nella sola illegittimità dell'esercizio della funzione amministrativa e che non sussiste pertanto, in re ipsa, per l'accertata illegittimità dell'atto amministrativo ma che va apprezzato caso per caso (Cass. Civ., sez. III, 10 agosto 2002, n. 12144).
La responsabilità aquiliana della p.a. per condotta omissiva deve concretizzarsi nella inosservanza di una specifica norma.
La giurisprudenza ritiene, però, che l'obbligo del Comune di attivarsi per assicurare un servizio di custodia in tutti i cimiteri non implica che il servizio sia ininterrotto sì da garantire l'utilizzazione della cella mortuaria in qualsiasi momento, senza alcuna attesa ed a prescindere dal tempestivo avviso del personale addetto.
Non è stato ritenuto rilevante il comportamento omissivo del Comune ai fini della individuazione della colpa e, pertanto, non è stato riconosciuto il fatto colposo soggetto a risarcimento del danno, ex art. 2043 c.c. (Cass. Civ., sez. III, 9 marzo 2004, n. 4762, in Giust. civ. Mass., 2004, 3).


4. La nullità della compravendita.

L’art. 93, D.P.R. 285/1990, esclude la possibilità di cedere il suolo avuto in concessione per realizzare cappelle.
Può essere, infatti, consentita, su richiesta di concessionari, la tumulazione di salme di persone che risultino essere state con loro conviventi, nonché di salme di persone che abbiano acquisito particolari benemerenze nei confronti dei concessionari, secondo i criteri stabiliti nei regolamenti comunali.
Il D.P.R. n. 285/1990, nel rispetto delle esigenze pubblicistiche dettate anche da motivi sanitari, devolvono unicamente ai Comuni la disponibilità del suolo adibito ad aree destinate alla costruzione di sepolture, abilitando gli stessi Comuni a concedere a privati e ad enti l'uso di tali aree.
Nel caso di specie gli artt. 79 e 80 del regolamento cimiteriale del Comune di Napoli prevedono che è consentita la subconcessione tra privati per le cappelle, le edicole ed i monumenti dopo un quinquennio dalla costruzione, e subordinatamente al pagamento al Comune di un diritto equivalente ai quattro quinti dell'importo del suolo, su cui sorge la costruzione, valutato alla stregua della tariffa vigente all'epoca della subconcessione.
L'atto di trasferimento che viola, come nella specie, la suddetta norma è nullo.
La compravendita inoltre rientra nell'ambito degli atti vietati al notaio ex art. 28, n. 1, L. 89/1913.
Il costante orientamento giurisprudenziale afferma che l'art. 28, n. 1, L. notarile n. 89 del 1913 - che vieta al notaio di ricevere atti espressamente proibiti dalla legge o manifestamente contrari al buon costume o all'ordine pubblico - si riferisce non solo agli atti specificamente vietati, ma a tutti gli atti contrari a disposizioni di legge e, cioè, non aderenti alle norme giuridiche di ordine formale e sostanziale per essi previste a pena di nullità o annullabilità (Cass. Civ., sez. III, 10 novembre 1992, n. 12081, in Vita not., 1993, 950).
La giurisprudenza citata non ha ritenuto rilevante la differenziazione tra concessione e trasferimento della proprietà.
Al riguardo la Corte di Appello ha esattamente osservato che se si consentisse - sulla base della sola differenza ontologica tra concessione e trasferimento della proprietà - la stipula tra privati di atti di compravendita di cappelle funerarie, si verrebbero ad eludere gli interessi di natura pubblica, che si sono intesi salvaguardare con le disposizioni di polizia mortuaria, e si limiterebbe, fino ad annullarlo, quel diritto, anche di natura finanziaria, che gli artt. 79 e 80 del regolamento comunale hanno riconosciuto in relazione ad ipotesi di subconcessione tra privati (Cass. Civ., sez. III, 19 novembre 1993, n. 11404).
 Capitolo 13
LA GIURISDIZIONE PENALE.

1. La tutela penale dei defunti.

La tutela penale sui beni pubblici si articola in due filoni principali.
Il primo è quello che sanziona i comportamenti che devono tenere gli incaricati a raccogliere le denunce di morte; il secondo è quello che tutela la cosiddetta pietà che si deve ai defunti.
Il reato di omissione di referto colpisce colui che hanno l’obbligo di effettuare denuncia di morte quando egli, pur avendo il sospetto che la morte sia dovuta a reato, non dà comunicazione all'autorità giudiziaria.
Per la dottrina i reati contro la pietà dei defunti sono reati che offendono le manifestazioni di quel sentimento di individuale e collettivo che si esplica col quasi religioso rispetto verso i defunti e i riti che accompagnano le sepolture mortuarie.
Il sentimento è considerato come una forza etico sociale conservatrice e promotrice di civiltà. Esso è assunto dallo Stato come bene politico e giuridico da proteggere penalmente.
Essa rileva che il termine pietà corrisponde a quello della pietas latina.
Esso esprime l’amore riverente dovuto alle entità che trascendono la vita dei singoli e che per tale riflesso impongono il nostro rispetto e la nostro culto.
La venerazione dei morti risponde ad un sentimento radicato intensamente nell’anima umana. (F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, II, agg. a cura di L. CONTI, 1977, 661).
La dottrina rileva che il sentimento di pietà verso o defunti è penalmente protetto rispetto a fatti che aggrediscono tre oggetti materiali diversi: il sepolcro; le operazioni pietose; il cadavere oltre alla contravvenzione che tutela le manifestazioni oltraggiose verso i defunti (G. FIANDACA, Pietà defunti (delitti contro la), in Enc. Giur., 1990, 1).


2. L’omissione di referto.

Il comportamento del sanitario che deve effettuare la denuncia di morte può assumere rilievi penali quando egli ha il sospetto che la morte sia dovuta a reato.
Il medico incaricato deve sospendere le operazioni e darne immediata comunicazione all'autorità giudiziaria, ex art. 39, D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285.
L’art. 365, c.p., punisce con la multa fino a 516 euro chi, avendo nell'esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere d'ufficio, omette o ritarda di riferirne all'autorità giudiziaria indicata nell'art.
361, c.p.
L’omissione di referto è un reato omissivo proprio che si esaurisce, per espressa scelta del legislatore, nel mancato compimento dell’azione dovuta.
Non occorre che l’omissione si traduca in un mancato impedimento di un evento lesivo che si aveva l’obbligo giuridico di impedire come per i reati omissivi impropri (G. FIANDACA, Omissione (diritto penale), in Dig. Disc. pen., 1994, 548).
Perché sussista l’obbligo del referto non è sufficiente la semplice qualità del sanitario, ma occorre che questo abbia prestato la sua opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto perseguibile di ufficio.
Non può ravvisarsi il reato nei confronti del sanitario che non possa prestare attualmente la sua attività professionale (C. ERRA, Denuncia penale (omessa o ritardata), in Enc. Dir., 1964, 205).
Ai fini della sussistenza dell'elemento psicologico del delitto di omissione di referto che è reato di pericolo e non di danno, occorre, oltre alla coscienza e volontà di omettere o ritardare il referto da parte dell'esercente la professione sanitaria, che questi si trovi in presenza di fatti i quali presentino i caratteri di un delitto perseguibile d'ufficio.
Per verificare la configurabilità di tale reato, e della responsabilità anche civile che ne discende a carico del sanitario, occorre che il giudice accerti, con valutazione ex ante e tenendo conto delle peculiarità del caso concreto, se il sanitario abbia avuto conoscenza di elementi di fatto dai quali desumere, in termini di astratta possibilità, la configurabilità di un delitto perseguibile d'ufficio.
Egli deve avere avuto la coscienza e la volontà di omettere o ritardare il referto, rimanendo esclusa la configurabilità del dolo qualora dalle circostanze del caso concreto cui egli si trovi di fronte emerga la ragionevole probabilità che l'accadimento si sia verificato per cause naturali o accidentali.
Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che ha escluso la responsabilità del sanitario che non ha sospeso l'autopsia per dare immediata notizia all'autorità giudiziaria, in quanto dalle circostanze di fatto non sono emersi elementi atti a far ritenere che la morte della paziente non sia dovuta a cause naturali (Cass. Civ., sez. III, 26 marzo 2004, n. 6051, in Giust. civ. Mass., 2004, 3).
Non compete al sanitario alcun potere di delibazione della configurabilità di estremi di reato, dovendo la sua valutazione limitarsi al solo esame delle modalità del fatto portato a sua conoscenza.
Ove non risulti, in base ad elementi certi ed obiettivi che il fatto si sia verificato indipendentemente da condotte commissive od omissive di chi aveva l'obbligo giuridico di impedire l'evento, il sanitario è tenuto all'obbligo del referto.
Pertanto l'omessa segnalazione alla competente autorità da parte del sanitario di ipotesi di reato perseguibili d'ufficio, integra gli estremi del delitto di cui all'art. 365 c.p. (Cass. Pen., sez. VI, 18 dicembre 1998, n. 1473, in Giust. pen., 1999, II, 687).


3. La profanazione di tombe. a) La violazione di sepolcro.

I reati contro la pietà dei defunti che hanno per oggetto il sepolcro comprendono due fattispecie diverse: la violazione di sepolcro e il vilipendio delle tombe.
L’art. 407, c.p., punisce con la reclusione da uno a cinque anni chiunque viola una tomba, un sepolcro o un'urna.
La condotta criminosa che il giudice deve valutare deve fare riferimento a fatti e/o atteggiamenti che la comunità sociale considera violazioni.
La dottrina considera tra le condotte criminose tipiche più ricorrenti l’abbattimento o lo scoprimento o lo scoperchiamento delle tombe o del sepolcro.
Entrambi i termini indicano il luogo atto a dare riposo ai cadaveri; il sepolcro è caratterizzato rispetto alla tomba da una maggiore monumentabilità.
La giurisprudenza ha precisato che realizza i reati di violazione di sepolcro, occultamento di cadavere ed estorsione chi, dopo avere sottratto da un loculo di una cappella cimiteriale di confraternita una salma, prefiguri la restituzione delle ossa solo a fronte dell'esborso di una somma di non poco conto, apparentemente legittimata come dovuta ad una confraternita per lavori di restauro della cappella, ma sostanzialmente e sicuramente del tutto arbitrariamente pretesa perché assolutamente sproporzionata ai lavori da compiere (Trib. Bari, 18 giugno 2004).
La sussistenza del reato di violazione di sepolcro non è esclusa dalla circostanza che il sepolcro, la tomba o l'urna oggetto della violazione non si trovino in un cimitero consacrato.
La fattispecie di cui all'art. 407, c.p. tutela il sentimento della pietà verso i defunti, il quale è suscettibile di offesa a prescindere dalla situazione in cui si trova il luogo violato. (Cass. Pen., sez. II, 10 giugno 2003, n. 34145, in Cass. pen., 2005, 12, 3894).
Per la dottrina per concertare l’elemento soggettivo non basta la coscienza e la volontà di violare la tomba o l’urna. E’ necessario che l’agente abbia almeno la consapevolezza di potere offendere il sentimento di pietà verso i morti cioè la riverenza ad essi dovuta. Il dolo è escluso nella carenza di tale consapevolezza da parte dell’agente (F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, II, agg. a cura di L. CONTI, 1977, 663).
La dottrina sottolinea che l’azione deve ricadere su di una tomba o un’urna contenente resti umani.
L’art. 407, c.p. tende a proteggere i cadaveri e le ceneri umane mediante la tutela delle tombe in cui sono disposti; la norma non è tesa a tutelare le tombe come oggetti del culto funerario.
Il delitto viene meno in tutti i casi in cui il fatto commesso è coperto da cause di giustificazione. Ad esempio nel caso di esumazioni ordinarie, che si eseguono dopo un decennio dalla inumazione, ex art. 82, D.P.R. 285/1990, o di esumazioni straordinarie ordinate dall’autorità giudiziaria (Cass. Pen., sez. III, 1 aprile 1971, in Cass. Pen. Mass., 1971, 1699).
La fattispecie prevista dal reato è sostanzialmente diversa dalle condotte meramente contrarie alle disposizioni del regolamento della polizia mortuaria.
La fattispecie, prima prevista dall’art. 108, D.P.R. 803/1975, dispone che i contravventori delle disposizioni della polizia mortuaria sono soggetti alla sanzione dell’ammenda prevista dall’art. 358, R.D. 1265/1934.
La contravvenzione è stata successivamente depenalizzata dall’art. 32, L. 24 novembre 1981, n. 689.
L’illecito amministrativo è ora sanzionato con la sanzione pecuniaria dall’art. 107, D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 (G. FIANDACA, Pietà defunti (delitti contro la), in Enc. Giur., 1990, 2).


4. b) Il vilipendio delle tombe.

L’art. 408, c.p., punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni chiunque, in cimiteri o in altri luoghi di sepoltura, commette vilipendio di tombe, sepolcri o urne, o di cose destinate al culto dei defunti, ovvero a difesa o ad ornamento dei cimiteri.
L’elemento oggettivo del reato consiste nel vilipendio.
Secondo la dottrina per stabilire quando sussiste vilipendio delle tombe ci si deve riferire a concetti definiti normativi sociali (G. FIANDACA, Pietà defunti (delitti contro la), in Enc. Giur., 1990, 3).
La modalità di realizzazione del fatto è a forma libera; il vilipendio, pertanto, può realizzarsi con atti, parole o scritti.
L’ambito di tutela della norma incriminatrice comprende oltre alle tombe, ai sepolcri e alle urne anche gli altri oggetti destinati al culto dei morti come croci, lapidi, o altre immagini simboliche di culto di ogni religione poste ad ornamento dei cimiteri.
La giurisprudenza ha ravvisato il delitto di vilipendio delle tombe, previsto dall'art. 408, c.p., nel fatto volontario e cosciente di chi intenda esternare il proprio dispregio su cose poste nei luoghi destinati a dimora delle persone decedute ed aventi la funzione di richiamare e ricordare la pietà dei defunti, danneggiandole, lordandole o imprimendovi segni grafici vilipendiosi, o anche rimuovendole in tutto o in parte ed eventualmente sostituendole con altre diverse per significato, origine e rilevanza sociale.
Il fine del vilipendio non rileva.
Il reato consiste anche se l’agente abbia commesso il fatto per arrecare offesa non al defunto, ma alla persona che aveva fatto sistemare la tomba per onorare e ricordare il defunto. (Cass. Pen., sez. III, 29 marzo 1985, in Cass. pen., 1986, 1559).

5. Il turbamento di funerale.

L’art. 409, c.p. punisce con la reclusione fino a un anno, chiunque impedisce o turba un funerale o un servizio funebre.
Si tratta di una fattispecie incriminatrice che trova applicazione, fuori dei casi previsti dagli artt. 405 e segg., c.p. che sanzionano la turbativa di riti religiosi.
La Corte costituzionale ha sancito la illegittimità costituzionale dell’art. 405 c.p., nella parte in cui, per i fatti di turbamento di funzioni religiose del culto cattolico, prevede pene più severe, anziché le pene diminuite stabilite dall'art. 406 del medesimo codice per gli stessi fatti commessi contro gli altri culti. (Corte cost., 9 luglio 2002, n. 327, in Giur. it., 2003, 218).
L’elemento materiale del reato consiste nell’ostacolare lo svolgimento di un funerale o di un servizio funebre in modo che non giunga a compimento ovvero nell’alterarne il decorso in maniera tale da farlo deviare dalle forme prestabilite.


6. I reati contro il cadavere. a) Il vilipendio di cadavere.

Gli artt. 410, 411, 412 e 413 c.p. configurano quattro distinte fattispecie incriminatrici che hanno per oggetto il cadavere.
Detti articoli estendono la tutela penale anche alle ceneri comprendendo sia quelle derivanti da cremazione autorizzata sia a quelle prodotte dalla vivocombustione per causa accidentale o delittuosa o da un processo di cremazione irregolare (A. ROSSI VANINI, Pietà defunti (delitti contro), in Dig. Disc. Pen., 1995, 577).
Per la giurisprudenza la nozione di cadavere comprende anche resti umani consistenti nello scheletro od in parte di esso, purché si tratti di resti tuttora capaci di suscitare il sentimento della pietà verso i defunti (Cass. Pen., sez. II, 10 giugno 2003, n. 34145, in Cass. pen., 2005, 12, 3852).
L’art. 410, c.p., punisce con la reclusione da uno a tre anni chiunque commette atti di vilipendio sopra un cadavere o sulle sue ceneri.
Il reato di vilipendio di cadavere è integrato da qualunque manipolazione dei resti umani che risulti obiettivamente idonea ad offendere il sentimento di pietà verso i defunti, e nel frattempo sia vietata da disposizioni regolamentari (come per il caso dell'esumazione parziale di cadavere) o comunque attuata con modalità non necessarie all'espletamento dell'attività lecita cui risulti eventualmente finalizzata.
Nell'espletamento di attività che rendono necessaria la manipolazione dei cadaveri, quali quelle afferenti all'uso di cadaveri per esigenze di studio o all'espletamento di indagini necroscopiche per l'accertamento dei reati deve essere evitato l'impiego di modalità, che - essendo estranee alle tecniche richieste dalla natura delle indagini scientifiche o peritali espletate ovvero che siano vietate da prescrizioni regolamentari, ex art. 82, D.P.R. 285/1990, con riferimento alla esumazione parziale del cadavere - costituiscano obiettivamente atti idonei ad offendere il sentimento di pietà verso i defunti.
Anche con riferimento alle attività legittime sopra precisate, pertanto, il fatto di porre in essere sui cadaveri comportamenti idonei ad offendere il sentimento di pietà verso i defunti, non resi necessari da prescrizioni tecniche dettate dal tipo di intervento o addirittura vietati, con la consapevolezza del loro carattere incompatibile con le prescrizioni proprie del tipo di attività svolto, integra il reato di cui all'art. 410 c.p..
Infatti, secondo il consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità (Cass. Pen., sez. III, 26 gennaio 1942, in Giust. Pen., 1942, II, 705) che non è stato mai contrastato da pronunce di segno opposto, il dolo del reato di cui all'art. 410 c.p. è generico, di talché l'elemento psicologico del reato, nel caso in esame, è integrato dalla consapevolezza del fatto che l'azione posta in essere non è conforme alle prescrizioni o esigenze tecniche afferenti al tipo attività espletata ed è idonea ad offendere il sentimento di pietà verso i defunti. Si pensi alla fattispecie relativa alla esumazione di un corpo destinato ad urna ossario, smembrato dall'operatore addetto perché solo parzialmente mineralizzato, con conservazione nell'urna di parte dello scheletro e dispersione nell'ambiente delle porzioni non ancora decomposte del cadavere.
Il reato sussiste qualora l’agente ha proceduto allo smembramento dei resti del cadavere, la maggior parte dei quali andava successivamente dispersa per incuria dell'imputato, consegnando alle parti offese una piccola cassa contenente solo il teschio, qualche osso dello scheletro del defunto oltre a resti di altri cadaveri (Cass. Pen., sez. III, 21 febbraio 2003, n. 17050, in Cass. pen., 2004, 1649).
Diversamente la giurisprudenza ha definito che il riporre forzatamente i resti di un cadavere nella celletta ad essi predestinata a seguito della estumulazione non realizza il reato di vilipendio di cadavere, giacché vengono a mancare gli atti materiali compiuti sul cadavere connotati da palese disprezzo, dal dispregio, dal senso di disistima nei confronti del cadavere stesso. (Trib. Bari, 08 novembre 2005, in Giur. Merito, 2006, 4, 1000).
L’art. 410, comma 2, c.p., prevede una circostanza aggravante qualora il colpevole deturpa o mutila il cadavere, o commette, comunque, su questo atti di brutalità o di oscenità.
In tal caso il reato è punito con la reclusione da tre a sei anni.


7. b) La distruzione, soppressione o sottrazione di cadavere.

L’art. 411, c.p., punisce con la reclusione da due a sette anni chiunque distrugge, sopprime o sottrae un cadavere, o una parte di esso, ovvero ne sottrae o disperde le ceneri. La pena è aumentata se il fatto è commesso in cimiteri o in altri luoghi di sepoltura, di deposito o di custodia.
La dottrina rileva che la fattispecie criminosa è a forma vincolata perché tipizza la condotta indicando le modalità ritenute alternative alla distruzione.
La distruzione comporta che il cadavere preso di mira sia disintegrato al punto di perdere la sua essenza specifica, come ad esempio lo scioglimento del cadavere nell’acido.
La soppressione presuppone la rimozione del cadavere dal luogo in cui si trova per farne perdere per sempre le tracce, come quando esso sia gettato in mare.
Il ritrovamento del cadavere non esclude la soppressione purché il nascondimento avvenga in modo da assicurare, con alto grado di probabilità, la definitiva sottrazione del cadavere alle ricerche altrui (Cass. Pen., sez. III, 21 gennaio 2005, n. 5772).
La sottrazione consiste in una illegittima asportazione del cadavere dal luogo in cui esso deve per tradizione essere ricoverato (G. FIANDACA, Pietà defunti (delitti contro la), in Enc. Giur., 1990, 4).
Nessun dubbio, poi, che la fattispecie criminosa risulti integrata con il solo dolo generico essendo sufficiente la volontà cosciente e libera di sottrarre i resti umani senza averne diritto, essendo indifferente il fine propostosi dall'agente (Cass. Pen., sez. III, 5139/1983).
La giurisprudenza ha confermato responsabili del delitto di cui all'art. 411 c.p., a titolo di dolo eventuale, il titolare e l'addetto di una ditta appaltatrice dei lavori di sistemazione di un cimitero, i quali, avendo ivi rinvenuto numerosi cadaveri inumati nel passato e non precedentemente rimossi, anziché porli a disposizione dei responsabili dei servizi cimiteriali, li avevano trasportati in un terreno in aperta campagna, ove li avevano sotterrati, mescolando alla rinfusa con il terreno i poveri resti (Cass. Pen., sez. III, 21 gennaio 2005, n. 5772).
Il dolo richiesto per la configurazione del delitto di sottrazione e soppressione può essere non solo "diretto", e ciò avviene quando la sottrazione o soppressione sia stata compiuta secondo l'intenzione dell'agente, ma anche "eventuale", come si verifica quando l'agente, indipendentemente dal fine perseguito con il celamento, abbia accettato il rischio del verificarsi della definitiva soppressione o sottrazione del cadavere (Cass. Pen., sez. III, 21 gennaio 2005, n. 5772).
Il reato di cui all'art. 411 c.p. distruzione, soppressione o sottrazione di cadavere pur realizzandosi con il nascondimento di un cadavere si differenzia dal reato di cui all'art. 412 c.p. occultamento di cadavere.
L'occultamento è considerato come un nascondimento temporaneo che postula a priori la certezza del ritrovamento.
La soppressione o sottrazione vanno intese quale nascondimento effettuato in modo tale che il cadavere sia definitivamente sottratto alle ricerche.
Peraltro la sottrazione va valutata non in senso assoluto bensì relativo, sulla base di presunzioni fondate su elementi obiettivi, quali il luogo prescelto e le modalità adottate, con apprezzamento ex ante, non rilevando in proposito che il cadavere sia eventualmente ritrovato fortuitamente o a seguito di difficili ricerche, atteso che la durata effettiva del nascondimento non costituisce elemento di distinzione fra le due ipotesi di reato (Cass. Pen., sez. III, 6 maggio 2004, n. 27290, in Cass. pen., 2005, 11 3361).


7.1. La dispersione delle ceneri.

La modifica apportata all’art. 411, c.p., dall'art. 2, L. 30 marzo 2001, n. 130, prevede che non costituisce reato la dispersione delle ceneri di cadavere autorizzata dall'ufficiale dello stato civile sulla base di espressa volontà del defunto.
La dispersione delle ceneri non autorizzata dall'ufficiale dello stato civile, o effettuata con modalità diverse rispetto a quanto indicato dal defunto, è punita con la reclusione da due mesi a un anno e con la multa da 2.582 euro a 12.911 euro.
Il reato si realizza sia se le ceneri sono disperse in luoghi non consentiti sia se è effettuata da persona non prevista dalla legge.
L'art. 3, L. 30 marzo 2001, n. 130, consente, infatti, la dispersione delle ceneri nel rispetto della volontà del defunto unicamente in aree a ciò appositamente destinate all'interno dei cimiteri o in natura o in aree private; la dispersione in aree private deve avvenire all'aperto e con il consenso dei proprietari, e non può comunque dare luogo ad attività aventi fini di lucro; la dispersione delle ceneri è in ogni caso vietata nei centri abitati, come definiti dall'art. 3, comma 1, numero 8), del D.L.vo 30 aprile 1992, n. 285; la dispersione in mare, nei laghi e nei fiumi è consentita nei tratti liberi da natanti e da manufatti.
La dispersione delle ceneri può essere eseguita solamente dai soggetti individuati dalla L. 130/2001, ossia dal coniuge o da altro familiare avente diritto, dall'esecutore testamentario o dal rappresentante legale dell'associazione riconosciuta che abbia tra i propri fini statutari quello della cremazione dei cadaveri dei propri associati, cui il defunto risultava iscritto o, in mancanza, dal personale autorizzato dal Comune.
Particolare difficoltà di accertamento del reato è costituita dal fatto che le ceneri possono essere affidate alla custodia dei familiari senza che siano dettate disposizioni per accertare la correttezza della loro conservazione.
La giurisprudenza precedente all’entrata in vigore della L.130/2001, ha rilevato che il reato di cui all'art. 411 c.p. è integrato, sotto il profilo psicologico, dal dolo generico; essa ha comunque escluso che ogni condotta configuri l'elemento materiale del delitto de quo.
È stata considerata punibile solo l’azione che leda l'interesse giuridico tutelato dalla norma e cioè il sentimento di pietà verso i defunti. Si pensi alla fattispecie relativa alla dispersione in mare delle ceneri di una salma, in esecuzione delle ultime volontà del defunto stesso (Trib. Roma, 28 novembre 1994, in Cass. pen., 1995, 1386).



8. L’occultamento di cadavere.

L’art. 412, c.p. punisce con la reclusione fino a tre anni chiunque occulta un cadavere, o una parte di esso, ovvero ne nasconde le ceneri.
L'occultamento è considerato come un nascondimento temporaneo che postula a priori la certezza del ritrovamento.
Perché possa integrarsi il reato di occultamento di cadavere non è necessario che la condotta sia posta in essere quando il corpo è già privo di vita, ma occorre solo che essa sia intenzionalmente diretta a realizzare l'occultamento del cadavere.
Il trasporto in un posto nascosto del corpo di una persona che sta per morire al fine di occultarne il cadavere costituisce il delitto previsto dall'art. 412 c.p., anche se la morte avviene dopo l'occultamento (Cass. Pen., sez. V, 20 settembre 1993, in Cass. pen., 1995, 567).
Il delitto di cui all'art. 412 c.p. si consuma nel momento e nel luogo in cui si verifica in conseguenza dell'azione del colpevole un evento costituente occultamento, e, dunque, ha natura di reato istantaneo con effetti permanenti (Cass. Pen., sez. I, 24 aprile 1990, in Giust. pen., 1991, II, 104).
La circostanza attenuante del ravvedimento operoso prevista dalla seconda parte dell'art. 62, n. 6, c.p. ha pacificamente natura soggettiva ed è ravvisabile solo se l'azione è determinata da motivi interni e non influenzata da fattori quali l'arresto e lo stato di detenzione. Si pensi alla fattispecie in cui l'imputato aveva confessato ed indicato il luogo in cui aveva occultato il cadavere a seguito dell'arresto avvenuto per altro reato (Cass. Pen., sez. I, 9 giugno 2004, n. 28554, in Cass. pen., 2005, 7/8, 2238).
Il reato di cui all'art. 411 c.p., nelle ipotesi di soppressione e di sottrazione, si realizza, come quello di cui all'art. 412 c.p. (occultamento di cadavere), con un nascondimento di cadavere, ma mentre in quest'ultima ipotesi il celamento è temporaneo e postula "a priori" la certezza del ritrovamento, nella prima il nascondimento è potenzialmente permanente considerando in una sottrazione definitiva alle altrui ricerche.
Tale definitività va valutata non in senso assoluto ma relativo, sulla base di attendibili presunzioni fondate su elementi obiettivi (luogo prescelto, modalità adottate) con apprezzamento ex ante, nulla rilevando agli effetti del reato già consumato se il cadavere sia ritrovato fortuitamente o a seguito di difficili ricerche, non essendo, la durata del nascondimento elemento indefettibile di distinzione tra le ipotesi criminose considerate.
Nella specie il cadavere, assicurato ad una grossa pietra, era stato gettato in un canale profondo tre metri, confluente a breve distanza nel mare, e ritrovato dopo 4 giorni a seguito di lunghe ricerche dei carabinieri del nucleo subacqueo (Cass. Pen., sez. V, 11 gennaio 1985, in Giust. pen., 1986, II, 401).
Mentre nel delitto di occultamento di cadavere il celamento dello stesso deve essere temporaneo, ossia operato deliberatamente in modo che il cadavere sia in seguito necessariamente ritrovato e non occorrono particolari accorgimenti nel nascondimento, nel delitto di soppressione o sottrazione di cadavere il nascondimento deve avvenire in modo da assicurare, con alto grado di probabilità, la definitiva sottrazione del cadavere alle ricerche altrui (Cass. Pen., sez. III, 21 gennaio 2005, n. 5772).
Per la dottrina il criterio distintivo fra i due reati risiede nell’esame della volontà del colpevole (F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, II, agg. a cura di L. CONTI, 1977, 665).




9. L’uso illegittimo di cadavere.

L’art. 413, c.p., punisce con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a 516 euro chiunque disseziona o altrimenti adopera un cadavere, o una parte di esso, a scopi scientifici o didattici, in casi non consentiti dalla legge.
Il reato presuppone il mancato rispetto delle condizioni previste da espresse disposizioni di legge che consentono di disporre liberamente di un cadavere per fini scientifici e didattici.
L’art. 40, D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, legittima la consegna alle sale anatomiche universitarie dei cadaveri destinati, a norma dell'art. 32 T.U delle leggi sulla istruzione superiore, approvato con R.D. 31 agosto, 1933, n. 1592, e mod., all'insegnamento ed alle indagini scientifiche.
Essa deve avvenire dopo trascorso il periodo di osservazione prescritto.
La pena è aumentata se il fatto è commesso su un cadavere, o su una parte di esso, che il colpevole sappia essere stato da altri mutilato, occultato o sottratto.
Nuove fattispecie incriminatrici che si possono ricondurre all’uso illegittimo del cadavere sono previste dalla L. 2 dicembre 1975, n. 644, che disciplina i prelievi di parti di cadavere a scopo di trapianto terapeutico.
Le fattispecie criminose vanno dal reato di colui che acconsente al prelievo dopo la sua morte di parti del proprio corpo, ex art. 19, L. 2 dicembre 1975, n. 644 (C. M. D'ARRIGO, Il contratto e il corpo: meritevolezza e liceità degli atti di disposizione dell'integrità fisica, in Familia, 2005, 4-5, 777) a quello
di chi effettua operazioni di prelievo in violazione delle disposizioni della L. 644/1975 od operazioni di trapianto in ospedali o istituti non autorizzati, ex art. 21, L. 2 dicembre 1975, n. 644.


10. Le manifestazioni oltraggiose verso i defunti.

L’art. 724, comma 2, c.p., punisce le manifestazioni oltraggiose verso i defunti.
Chiunque pubblicamente compie qualsiasi pubblica manifestazione oltraggiosa verso i defunti è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 51 euro a 309 euro.
Se la manifestazione oltraggiosa costituisce offesa alla memoria di un defunto specificatamente individuato si applica l’art. 597 c.p.
La facoltà di querela spetta ai prossimi congiunti, all'adottante e all'adottato (A. ROSSI VANINI, Pietà defunti (delitti contro), in Dig. Disc. Pen., 1995, 574).
La dottrina rileva che le applicazioni dell'art. 724 c.p. sono rare, a conferma di una diminuita reattività sociale verso la bestemmia, sia come offesa al sentimento religioso che come episodio di malcostume.
Tale sentenza è segno di una progressiva attenuazione della sostanza criminosa della bestemmia, come di altri reati contro il sentimento religioso, sintetizzabile in termini di secolarizzazione della fattispecie, alla luce dell'evolversi della sensibilità e delle esigenze di tutela legate ai valori della fede (G. SANTACROCE, La bestemmia contro le persone o i simboli della religione cattolica tra sentimento religioso e buon costume. Nota a Pretura Avezzano, 20 Novembre 1996, in Giur. Merito, 1997, 1, 96).

 Capitolo 14
LA GIURISDIZIONE CONTABILE.

1. La giurisdizione della Corte dei Conti. Il giudizio di conto.

La giurisdizione della Corte dei Conti si ripartisce fra il giudizio di conto e il giudizio di responsabilità amministrativa (P. VIRGA, Diritto amministrativo. Atti e ricorsi, 2, 1987, 472).
Il giudizio di conto è disciplinato dagli artt. 44 e segg. del TU 1214/1934, mod. L. 19/1994; la giurisdizione è esercitata dalle sezioni giurisdizionali regionali.
La presentazione del conto costituisce in giudizio l'agente dell'amministrazione.
Sono considerati agenti: i tesorieri, i ricevitori, i cassieri, gli agenti incaricati di riscuotere, di conservare, di maneggiare denaro pubblico o di tenere in custodia valori, anche se senza legale autorizzazione.
La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave. Essa si estende agli eredi nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi, ex art. 1, L. 14 gennaio 1994, n. 20e mod.
La giurisprudenza conferma che il giudice contabile deve ricercare la colpa grave dell'agente pubblico per potere affermare la sua responsabilità (Corte Conti reg. Lombardia, sez. giurisd., 4 aprile 2006, n. 241, in Foro amm. TAR, 2006, 4, 1513).
Il necessario requisito soggettivo della colpa grave va inteso non secondo un'astratta nozione, ma valutando il fattuale e concreto atteggiarsi dell'organizzazione amministrativa in cui opera l'agente.
La giurisprudenza, a tal fine, ha condideratoal disorganizzaizone ammnsitrativa coem esimente. Essa ha, infatti, affermato che non è gravemente censurabile un comportamento dettato da incertezza operativa ed interpretativa della normativa ad opera della struttura in cui il soggetto si trova ad agire (Corte Conti, sez. I, 27 gennaio 2006, n. 26, in Foro amm. CDS, 2006, 1, 264).
Sussiste ovviamente la responsabilità contabile del funzionario comunale, con incarico di direttore del cimitero e del suo collaboratore che nel caso in cui usando bollettini falsificati abbiano distratto a proprio favore somme corrisposte all’amministrazione per diritti cimiteriali (Corte Conti, reg. Puglia, sez. giur., 26 luglio 1993, n. 48).

2. Il giudizio di responsabilità amministrativa.

Il giudizio di responsabilità amministrativa investe, invece, i funzionari, gli impiegati e gli agenti civili e militari, che nell'esercizio delle loro funzioni cagionino danno allo Stato o ad altra amministrazione dalla quale dipendano (Cass. Civ., sez. un., 20 giugno 2006, n. 14101).
La responsabilità amministrativa è caratterizzata:
- da un rapporto di dipendenza o di servizio nei confronti dello Stato che comprende anche i funzionari onorari ed i ministri.
- da un comportamento anche solo colposo, derivante da negligenza o dalla mancata applicazione della legge, che trova esimente solo nella forza maggiore, quale ad esempio la mancanza organizzativa o l'organico insufficiente.
- da un danno erariale patrimoniale derivante all'amministrazione, che sia direttamente riconducibile all'evento.
Il danno non deve essere assoggettabile a compensazione col beneficio che l'amministrazione ne abbia eventualmente ricavato.
Il giudizio non ha alcun rapporto con l'accertamento della illegittimità degli atti dell'amministrazione.
L'accertamento della responsabilità amministrativa contabile prescinde dall'accertamento dell'illegittimità degli atti dell'amministrazione.
La verifica del danno erariale è indipendente dall'impugnazione di atti amministrativi: per i rapporti giudice amministrativo-giudice contabile, non non vi è alcuna pregiudiziale.
Qualora il danno erariale sia stato cagionato da un provvedimento amministrativo il giudice contabile conosce dell'illegittimità dell'atto al fine della verifica in via di uno degli elementi della più complessa fattispecie di responsabilità amministrativa.
Nel giudizio contabile l'eventuale ritenuta legittimità dell'atto è del tutto irrilevante (Cass. Civ., sez. un., 3 novembre 2005, n. 21291).
Nel giudizio di responsabilità amministrativo-contabile la valutazione del giudice investe in primo luogo il comportamento dell'amministratore o dipendente pubblico nella gestione di beni pubblici o mezzi finanziari pubblici o nello svolgimento di un'attività giuridica materiale, al fine di accertare la rispondenza a legge e anche a regole non giuridiche di efficienza, di efficacia e di buon andamento.
Il danno risarcibile non viene in evidenza secondo gli schemi astratti civilistici, né è utile il riferimento alla distinzione tra le categorie del debito di valore e del debito di valuta nel riflesso che la p.a. in ultima analisi, a seguito degli illeciti comportamenti dannosi, non acquisisce entrate dovute o eroga spese non consentite che si traducono sempre in somme di denaro; con l'ulteriore conseguenza che è applicabile l'art. 1224 c.c. e che, correttamente, la rivalutazione monetaria è compresa nella somma di cui è stata pronunciata condanna (Corte Conti, sez. riun., 9 luglio 1993, n. 893/A, RCC, 1993, fasc. 6, 62).
La giurisprudenza ritiene che la Corte dei Conti è competente a conoscere della controversia in materia di diritto dell'esattore-tesoriere del comune al compenso commisurato all'aggio sugli introiti derivanti da concessione di loculi cimiteriali, in quanto va esclusa l'addotta natura privatistica del rapporto intercorrente tra il privato e l'ente locale in ordine alla richiesta e fornitura dei loculi, ai sensi della normativa vigente in materia (Corte Conti, sez. II, 1 giugno 1987, n. 97, in Riv. corte conti, 1987, 1184).
L’orientamento della Corte dei Conti afferma che non spettano gli aggi esattoriali in favore del Tesoriere di un Comune per le entrate da proventi cimiteriali (Corte Conti reg. Sardegna, sez. giurisd., 17 aprile 1998, n. 128, in Riv. corte conti, 1998, fasc. 4, 178).


3. Il danno erariale.

La giurisprudenza afferma che concretizza danno erariale la lesione del fondamentale principio di interesse pubblico sulla corretta conservazione e gestione dei mezzi economici dell'azione amministrativa, dovendosi qualificare tali tutte le risorse costituite dal danaro, dai beni fisici, dai diritti reali o di credito e dai diritti su ogni altra utilità anche immateriale (Corte Conti reg. Umbria, sez. giurisd., 28 giugno 2004, n. 275, in Riv. Corte Conti, 2004, f. 3, 176).
L’ipotesi più evidente di responsabilità per danno erariale deriva dal fatto che l’amministratore non ha applicato la legge nella gestione dei beni pubblici.
In tale maniera egli ha reso economicamente svantaggioso all’erario gli atti di disposizione di detti beni.
Vi è responsabilità anche nel caso in cui l’amministrazione ometta la dovuta attività di controllo. L'approvazione, da parte della giunta municipale, della revisione prezzi richiesta dall'impresa appaltatrice di un'opera pubblica ed il pagamento di interessi non dovuti secondo le disposizioni contrattuali, concretano atti di gestione patrimoniale, per questo gli eventuali danni derivati all'erario comunale in conseguenza di siffatte attività degli amministratori rientrano nella previsione ex art. 260 t.u. legge comunale e provinciale e, quindi, nella giurisdizione della Corte dei conti. Nella specie si trattava di costruzione di loculi cimiteriali (Corte Conti, sez. giur. Sicilia, 2 febbraio 1987, n. 1589, in Riv. corte conti, 1987, 277).

1 commento:

Unknown ha detto...

la convivente ha diritto di possesso della chiave della cappella gentilizia?

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