Corte di Cassazione, sezione V Penale
Sentenza 20 gennaio – 5 marzo 2015, n. 9693
Ritenuto in fatto
Sentenza 20 gennaio – 5 marzo 2015, n. 9693
Ritenuto in fatto
1. Il Giudice di pace di Recanati, con sentenza del
24/2/2014, ha condannato V.T. a pena di giustizia per lesioni personali
semplici in danno di E.L., colpendolo ai testicoli con un calcio.
2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per
cassazione, nell’interesse dell’imputata, l’avv. G.G., dolendosi del mancato
riconoscimento della legittima difesa. Deduce che la sentenza è priva di un
apparato logico-argomentativo idoneo a sostenere la conclusione cui è
pervenuta, in quanto omette di valutare adeguatamente la tesi difensiva –
imperniata sulla necessità dell’imputata di difendersi da un atteggiamento
aggressivo dell’uomo – e di spiegare perché la tesi accusatoria abbia maggiore
credibilità di quella difensiva. Lamenta un travisamento delle dichiarazioni
dell’imputata – che ha parlato della possibilità di aver “toccato” l’uomo per
divincolarsi da lui e non ha ammesso di averlo deliberatamente colpito – e la
sottovalutazione delle dichiarazioni dei teste G., che accolse la donna
allorché, dopo il fatto, giunse trafelata nel suo ufficio ed evidentemente
impaurita.
Considerato in diritto
Il ricorso è manifestamente infondato. L’affermazione
di responsabilità è avvenuta sulla base delle dichiarazioni della persona
offesa, assistite da idoneo certificato medico, che attesta lesioni
perfettamente compatibili col racconto dell’uomo. Si tratta, quindi, di
pronuncia emessa sulla base di testimonianza adeguatamente riscontrata,
senz’altra idonea a sorreggere la conclusione cui è pervenuto il giudicante.
Non appare corretta l’affermazione della ricorrente, secondo cui peso decisivo
è stato dato alla confessione dell’imputata, essendosi il giudice di pace
limitato a rilevare che l’imputata non ha negato che, nel divincolarsi, possa
aver colpito il marito. Peraltro, la legittima difesa è rimasta – nella
prospettazione difensiva – solo una ipotesi, non suffragata da alcuna evenienza
processuale e svalutata dalla mancata specificazione delle circostanze in cui
si sarebbe spiegata, nonché dalla mancata indicazione dei pericolo che
incombeva sulla donna (non ha indicato quale sia stata l’azione offensiva posta
in essere dal marito, a cui avrebbe dovuto reagire). La tesi rivela,
oltretutto, la sua aleatorietà laddove non vengono indicate le conseguenze
patite dall’aggressione: circostanza senz’altro improbabile, trattandosi di
“aggressione” proveniente da un soggetto che era – nella tesi difensiva –
violento. Né la motivazione appare illogica nella valutazione delle
dichiarazioni del teste G., che, per non essere stato presente ai fatti, non
poteva sapere come si erano svolti. Peraltro, la circostanza che la donna
giunse da lui “trafelata” o anche “impaurita” non significa affatto che fosse
stata aggredita, potendolo essere solo perché temeva la reazione dell’uomo che
era stato da lei colpito.
In conclusione, sebbene la sentenza non sia di agevole
lettura e contenga passaggi non perfettamente comprensibili (come rimarcato dal
ricorrente, che preferisce fare una diversa – e per lui più favorevole –
qualificazione delle cadute relative a quei passaggi), niente autorizza a
ritenere che sia anche illogica o apodittica, essendo comunque ancorata ad
obbiettive risultanze processuali e non essendo contraddetta da una diversa
ricostruzione della vicenda ad opera della ricorrente.
Il ricorso è pertanto inammissibile. Consegue, ai
sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle
spese processuali e di una somma a favore della Cassa delle ammende, che si
reputa equo quantificare in € 1.000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000 a
favore della Cassa delle ammende.
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