regime dei minimi per aprire la partita
Iva
Il nuovo regime dei minimi per aprire la partita
Iva cambia dal primo gennaio 2015 e assorbe i precedenti due regimi di imposta
ossia quello che si chiama spesso forfettone o forfettino e il regime dei
minimi precedente dal primo gennaio 2012 e per il quale in questo articolo potete
leggere una piccola guida con consigli pratici ed un vademecum per l’apertura
della partita Iva e la gestione della vostra attività.
Il reddito imponibile derivante dal percepimento e l’incasso dei ricavi della vostra nuova attività sarà soggetto ad una tassazione sostitutiva Irpef del 15% (in luogo della precedente del 5%) e ripeto del quindici per cento, tassazione estremamente vantaggiosa nel rispetto dei requisiti di seguito indicati anche se non come quella introdotta dal Governo Monto del 5% che resterà in vigore ancora per l’anno di imposta 2015 ed è stato confermato per il 2016 dalla nuova Legge di Stabilità 2016 con qualche ritocco.
Il reddito imponibile derivante dal percepimento e l’incasso dei ricavi della vostra nuova attività sarà soggetto ad una tassazione sostitutiva Irpef del 15% (in luogo della precedente del 5%) e ripeto del quindici per cento, tassazione estremamente vantaggiosa nel rispetto dei requisiti di seguito indicati anche se non come quella introdotta dal Governo Monto del 5% che resterà in vigore ancora per l’anno di imposta 2015 ed è stato confermato per il 2016 dalla nuova Legge di Stabilità 2016 con qualche ritocco.
Novità derivanti dalla Legge di
Stabilità 2016
In estrema
sintesi dovrebbero essere ritoccati al rialzo il limite dei ricavi di 10 mila
euro e dovrebbe essero estesa la possibilità di accedere anche per coloro che
svolgevano attività affine o di lavoro dipendente purchè il volume dei ricavi
nelle precedenti dichiarazioni era inferiore a 30 mila euro.
Il nuovo
regime con aliquota al 15% è definito dalla legge 190 del 2014 e si chiama regime forfettario dei
lavoratori autonomi con partita Iva e si differenzia dal regime dei minimi
con aliquota al 5%
Se il tuo datore di lavoro
vuole farti passare dal contratto attuale alla partita Iva sai già che perderai
ogni tutela e buona parte dello stipendio. Potresti rimanere fottuto.
Se ricorrono almeno due
di queste condizioni devi sapere che sei una finta partita Iva,
ovvero una persona che svolge un lavoro dipendente mascherato da lavoro
autonomo.
Fino ai 35 anni puoi usufruire
del regime fiscale dei minimi, che consiste in una tassazione totale di circa
il 33% di quello che guadagni, così divisi: 5% di Irpef e 28% di Inps.
Questo discorso vale per chi ha la “gestione separata”, cioè tutti quei lavoratori
generici che non usufruiscono di casse previdenziali di settore (come
giornalisti, avvocati, commercianti) e con la clausola che i ricavi siano entro
i 30.000 euro l’anno (per l’anno in corso il limite potrebbe aumentare a
65.000). Superati i 35 anni e i 30.000 euro di reddito l’Irpef sale dal 5% al
23% creando una pressione contributiva totale del 51%. Insomma, se hai più di
35 anni sei un po’ fottuto.
Alla pressione
contributiva devi
aggiungere gli acconti sulle tasse dell’anno successivo.
Funziona così: tra giugno e agosto 2014 inizierai a pagare le rate delle tasse
relative alla tua dichiarazione dei redditi del 2013. Ma assieme a queste
dovrai pagare anche l’acconto sulle tasse dell’anno successivo, quindi sul 2014
che è in corso (che in teoria dovresti pagare nel 2015). Questo acconto
consiste nel 50% di quanto hai appena pagato per le tasse del 2013. In breve:
hai dichiarato 21.000 euro di ricavi per il 2013 e hai pagato 7.000 euro (33%)
di tasse? Bene, dovrai pagare subito altri 3.500 euro, come acconto dell’anno
successivo. Questa cifra verrà poi scalata dalle tasse che ti ritroverai a
pagare l’anno successivo. Ma non te ne accorgerai neanche, perché l’anno
successivo ti ritroverai a pagare comunque l’acconto dell’anno dopo ancora, il
2015. E così via.
Difficilmente potrai fare a
meno di rivolgerti e pagare un commercialista per fare la dichiarazione dei
redditi. Vuoi provarci?
La partita Iva per
essere sostenibile prevede che tu, svolgendo il tuo lavoro, abbia dei costi. La benzina per l’auto, metà di quanto
spendi per l’affitto se lavori in casa, i biglietti del treno o di aereo, il
ristorante: tutte queste cose si possono detrarre, ma non tutte al 100%. Hai
ricavi per 21.000 euro l’anno? Bene, se hai avuto 6.000 euro di costi, il tuo
reddito è di 15.000 euro, e su quelli pagherai un terzo di tasse (al regime dei
minimi). Se nel tuo lavoro non hai costi aprire una partita Iva è difficilmente
sostenibile. Facciamo un esempio: su un reddito lordo di 12.000 euro – i miseri mille euro al mese – ci si trova a
dover pagare 4.000 euro di tasse più 2.000 di acconto e 1.000 (circa) di
commercialista. Un totale di 7.000 euro di tasse, e in tasca ne rimangono meno
della metà, 5.000. Oltre i 35 anni, poi, si paga molto di più. Insomma, se non
fai i conti sei fottuto.
Se usufruisci del regime
fiscale dei minimi puoi detrarre un elenco molto ristretto di costi,
diversamente da chi ha più di 35 anni, che paga un 51% di tasse (28% Inps + 23%
Irpef) ma può detrarre molte più cose.
La cosa migliore che puoi fare
è capire in anticipo, mese per mese, quanti costi dovrai fare entro la fine
dell’anno per abbassare il reddito, e pagare una cifra sostenibile di tasse.
Metti da parte un terzo (o più)
dei tuoi guadagni dal primo momento: così facendo eviti il rischio, molto
comune, di non rientrare più con le cifre una volta che inizierai a pagare le
tasse.
Non avrai alcun diritto o
tutela: ammortizzatori sociali, malattia, assicurazioni o ferie. Ti capita una
disgrazia, il tuo committente ti abbandona da un giorno all’altro? Sei
fottuto. Non dire che non te l’avevamo detto.
Attività
abituale al disopra dei 5000 obbligo di aprire partita IVA
La partita IVA, come dice il nome riguarda l’IVA, la quale è regolamentata dal D.P.R. 633/72 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), che recita così:
La partita IVA, come dice il nome riguarda l’IVA, la quale è regolamentata dal D.P.R. 633/72 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), che recita così:
“imposta
sul valore aggiunto si applica sulle cessioni di beni e le prestazioni di
servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o
nell’esercizio di arti e professioni e sulle importazioni da chiunque
effettuate”
Ora, se tu crei e
vendi collanine (notare il diminutivo, non ho detto “collane”), stai di fatto
esercitando un’arte o una professione (creatore o creatrice di collane). Quindi
sei una persona soggetta all’IVA e come tale dovresti aprire la partita IVA,
giusto? Sbagliato! Già, perché siamo sicuri che tu stai effettivamente
esercitando un’arte o una professione? La tua creazione di collanine è un hobby
o una professione a tutti gli effetti? Come si fa a capirlo? Non certo con le
interpretazioni personali, ma andando nuovamente a consultare cosa dice la legge.
Sempre nel D.P.R. 633/72, all’articolo 5 troviamo:
“Per esercizio di
arti e professioni si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di qualsiasi
attività di lavoro autonomo da parte di persone fisiche ovvero da parte di
società semplici o di associazioni senza personalità giuridica costituite tra
persone fisiche per l’esercizio in forma associata delle attività stesse.”
Ora,
fai attenzione alla parola: “abituale”. Questo è il
punto cruciale. Il tuo hobby diventa una vera e propria attività commerciale se
viene esercitato in modo abituale e non occasionale. Quindi, sintetizzando:
1.
L’obbligo di apertura della partita IVA dipende
dal carattere di abitualità o di occasionalità con cui viene svolta l’attività
(art. 5 DPA 633/1972 DPR 633/72).
2.
Nel caso di abitualità occorre aprire la
partita IVA
3.
Nel caso di occasionalità non occorre aprire
partita IVA
Quindi, se la tua attività è saltuaria, non hai alcun
obbligo di apertura di partita IVA. L’unico obbligo che hai è quello di
dichiarare tutti i tuoi redditi nell’apposito modello 730 o Unico che dir si
voglia. Ora, come si fa a distinguere tra attività abituale e attività
occasionale? Qui casca l’asino, perché non sembra esserci una legge che
definisca in modo inequivocabile come stabilire se un’attività è occasionale o
continuativa. A partire dal 2003 però, qualcuno ha introdotto il concetto di lavoro occasionale all’interno della
normativa italiana. Dal 2003 perciò, esiste la legge delega n. 30/2003 (meglio
nota come legge Biagi) che stabilisce dei limiti perché l’attività sia da
considerare occasionale e cioè:
1.
Prestazione di durata inferiore a 30 giorni
2.
Importo
annuo massimo di 5.000 euro
Se una delle due
condizioni non è soddisfatta, allora si parla di attività abituale, la quale è
soggetta all’IVA e pertanto occorre aprire la partita IVA. Ora, tu potresti
pensare che il riferimento alla legge Biagi sia una mia libera interpretazione,
ma non è così. Il riferimento a tale legge viene fatto dall’INPS che dichiara
testualmente:
“Si elencano i
principali riferimenti normativi in materia di lavoro occasionale di tipo
accessorio, partendo dalla Legge delega n. 30/2003 (legge Biagi n.d.a.) che ha
introdotto per la prima volta le prestazioni occasionali di tipo accessorio
(art. 4 c. 1 lettera d), poi disciplinate dal D.Lgs n. 276/2003 (artt. 70-73).
L’ultimo riferimento normativo, in ordine cronologico, è la Legge n. 191/2009
(Finanziaria 2010), che ha apportato significative modifiche all’art. 70 in
merito al campo di applicazione del lavoro occasionale accessorio, inserendo
ulteriori attività ed ampliando la platea di possibili committenti e prestatori.”
So
cosa stai pensando: il famoso tetto dei 5.000 euro vale solo ai fini
dell’iscrizione alla gestione separata INPS! Ok, se non credi a me e all’INPS,
allora dovresti credere al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
quando parla di lavoro
accessorio.
Detto tra noi,
credo che il tetto dei 5.000 euro sia stato pensato utilizzando il buonsenso.
Al di sotto di tale cifra infatti, l’apertura della partita IVA non ha senso,
perché i costi obbligatori per legge, supererebbero i ricavi. Una volta aperta
la partita IVA infatti, occorre registrarsi obbligatoriamente presso l’INPS,
versando un minimo di 3.200 euro l’anno, versare le imposte sul reddito
percepito, pagare il compenso di un commercialista, etc. Insomma, sotto tale
cifra si è in perdita. Bene, spero di aver chiarito una volta per tutte la
questione della partita IVA.
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