venerdì 30 giugno 2017

La grande scommessa racconta in un film la crisi finanziaria del 2008


Immaginate che Michael Mann si metta in testa di voler raccontare in un film la crisi finanziaria del 2008: quella legata ai mutui subprime, che ha portato al fallimento di banche d’affari ritenute inscalfibili, ha creato milioni di disoccupati e una depressione di cui sentiamo le conseguenze ancora oggi. E che ha svelato il volto oscuro del capitalismo finanziario.
Immaginate, però, che prima di mettersi al lavoro sul film, Mann abbia battuto la testa, abbandonato la tradizionale serietà (magari spettacolare ma pur sempre sobrio), per diventare un buontempone che, magari, non disdegna un consumo massiccio d’erba.
La grande scommessa è un film a suo modo sovversivo: perché racconta nel dettaglio, e con un linguaggio cinematografico hollywoodiano comprensibile a chiunque, le profonde e perverse storture di un sistema capitalistico andato fuori controllo.
La storia, che segue le vicende parallele e incrociate di diversi investitori e gestori di fondi che scommisero sul crollo delle obbligazioni bancarie sui mutui immobiliari, intuendo prima di tutti l’imminenza di una crisi che andò poi ben oltre le loro previsioni, è infatti raccontata attraverso la voce di uno di loro, interpretato da Ryan Gosling.
Nei punti in cui i tecnicismi finanziari rischiano di mandare in bambola lo spettatore, ecco che McKay tira poi fuori dal cilindro dei siparietti esplicativi, il primo dei quali vede protagonista una Margot Robbie che sorseggia champagne in vasca da bagno - tanto per dare l’idea del tono.
Inaspettatamente, però, gli anarchismi formali di McKay e le leggerezze del film (che ha qualche momento di pura comicità) non sviliscono i suoi contenuti e la loro serietà; perfino la loro drammaticità: al contrario li aiutano e li supportano..
La fusione dei registri de La grande scommessa si concretizza soprattutto nel personaggio (e nell’interpretazione) di Steve Carell, gestore di un fondo di Wall Street reso a tratti esilarante da un cattivo carattere al limite del patologico, dotato di spessore psicologico grazie a un trauma familiare e rappresentante lo sguardo più sconcertato e critico di fronte alla stupidità e alla fraudolenza delle grandi banche (“Tell me the difference between stupid and illegal and I'll have my wife's brother arrested,” gli dice a un certo punto il banchiere interpretato da Gosling.
Di adulto, nel mondo raccontato da Adam McKay, non c’è proprio nulla. Ci sono ragazzini troppo cresciuti che non conoscono il senso di parole come responsabilità, come morale, come etica. Eterni adolescenti incapaci di comprendere le conseguenze dei loro gesti, resi ciechi dalla prospettiva del guadagno, della BMW serie 7, di un aereo privato, di strip club e ville con piscina destinate a rimanere vuote.

Per giocare, c’è il cinema. La finanza e l’economia, quelle, dovrebbero essere qualcosa di più serio. Al cinema posso viaggiare nello spazio o perdere il lavoro, e di conseguenze reali non ce ne solo; mentre per ogni gioco di Wall Street, la vita e i lavori di milioni di persone sono a rischio. Qui c’è Brad Pitt in persona a ricordarlo: e che sia Hollywood a doverlo ribadire, continua a essere un paradosso.

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