A che serve votare? È una domanda che molti cittadini
europei cominciano a farsi. Da ultimi i tedeschi. Sono andati alle urne, la
Merkel ha preso molti più voti di chiunque altro, il 60% nei sondaggi dice di
auspicarsi un governo da lei diretto, ma il governo non si fa, e per farlo sarà
forse necessario far fuori la Merkel. Qualcosa si è inceppato perfino nella
democrazia tedesca, di proverbiale stabilità.
Oppure prendete i cittadini britannici. La bellezza di
diciotto mesi fa decisero di uscire dall’Unione Europea. Sono ancora là.
Uscendo volevano riprendersi i loro soldi, e invece il prossimo mese dovranno
dire quanto sono disposti a scucire per poter andarsene. Procedure,
compromessi, trattative, più inflazione e svalutazione della sterlina: sembrava
così semplice mettere una croce sul «Leave».
Per non parlare dei cittadini catalani, i quali hanno
scoperto che neanche con il voto possono spaccare la Spagna.
La galleria potrebbe comprendere gli spagnoli, che dopo due
elezioni e sei mesi di prorogatio di Rajoy si aggrappano a un governo di
minoranza; o i belgi e gli olandesi, che hanno dovuto aspettare rispettivamente
dodici e sette mesi prima che il Parlamento decidesse chi aveva vinto le
elezioni.
Va ovviamente aggiunto il caso italiano, dove se c’è una
cosa certa delle prossime urne è che quasi certamente non daranno una
maggioranza; e dove siamo ormai al quarto governo di fila (Gentiloni, Renzi,
Letta, Monti) privo di un mandato elettorale.
Non è questione di tecnica.
Nel Regno Unito nemmeno il leggendario «first-past-the-post»
il primo dopo il traguardo del voto, il più implacabile dei maggioritari, è
riuscito a dare una maggioranza alla povera May, che aveva chiamato le elezioni
per suonarle ai laburisti ed è stata suonata.
Perfino il presidenzialismo, l’unico sistema in grado di garantire
un vincitore, comincia a perdere colpi: Trump è diventato presidente con meno
voti della seconda arrivata.
Resta saldamente in sella il solo Macron, asceso all’Eliseo
con appena il 24% del primo turno.
La democrazia è destinata ad avere un futuro, o rischia di
essere insidiata dai modelli di «democratura», nei quali il popolo, il «demos»,
accetta col voto di avere un capo come se fosse in una dittatura?
Bisogna dunque che gli uomini di buona volontà si mettano al
capezzale della democrazia malata, e cerchino un modo per ripiantarla in un
mondo così diverso da quello in cui nacque.
Il primo passo dovrebbe consistere nel qualificarla, nel
darle l’aggettivo giusto.
Democrazia non è solo elezioni: anche in Russia e in Iran si
vota. Ma ciò che distingue una «democrazia liberale» è la «rule of law», e cioè
la supremazia della Legge, cui ogni cosa è subordinata.
È proprio questo che tiene in piedi la Germania o la Spagna
mentre attendono un governo: tutto procede secondo la legge.
Ed è esattamente la Legge ciò che ha impedito agli
indipendentisti catalani di andarsene con un referendum, o che costringe gli
inglesi a negoziare per uscire dall’Ue.
Dovremmo dunque curare lo stato di diritto come l’asset più
prezioso della democrazia, forse perfino più del voto popolare. E proteggerlo
dalle mire dei politici di turno che vorrebbero dettar legge.
Il secondo punto è che difficilmente una democrazia liberale
può prosperare senza partiti democratici e possibilmente popolari.
Più partiti personali nascono, più movimenti estemporanei si
affermano, più le elezioni diventano un taxi per ambizioni private, più debole
sarà la democrazia.
In questo campo, ahinoi, noi italiani abbiamo anticipato
molte tendenze pericolose.
Infine c’è un problema anche più complicato da risolvere:
l’emigrazione della sovranità dagli Stati nazionali verso consessi
internazionali che per loro natura non possono decidere democraticamente (le
sedi europee assegnate a sorteggio ne sono un esempio).
Moneta, commercio, investimenti, circolazione dei capitali e
degli esseri umani, politica estera, sono tutte materie sulle quali l’elettore
sa ormai di non avere più molto potere. Bisognerebbe dunque riempire i
parlamenti di altri poteri: di controllo e revisione, per esempio, in materia
di nomine, di spesa pubblica, di allocazione delle risorse e di assegnazione
degli appalti, per farne dei baluardi contro la corruzione e lo sperpero, garantendo
tempi e strumenti alle opposizioni che vigilano sul potere.
Rimpatriare una parte delle competenze affidate al
Parlamento europeo. Ridare alle Camere il ruolo di sedi del dibattito
informato, per esempio sulle delicatissime questioni bioetiche.
Assegnare loro il potere di scrutinare i ministri prima
della nomina e di convocare il primo ministro ogni settimana a rispondere in
diretta tv. Bisogna trovare nuovi e validi motivi per convincere gli elettori a
non disertare lo spettacolo della democrazia, e a non trasformare il parlamento
in un’aula sorda e grigia. Antonio Polito Corriere.it 23.11.2017.
La bufala
è una delle poche volte che condivido ogni parola . Complimenti a Polito
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