sabato 12 maggio 2018

Comuni italiani avallano la pratica della maternità surrogata


Sono ormai una ventina i Comuni italiani che iscrivono all’anagrafe i bimbi di coppie gay, di fatto avallando la pratica della maternità surrogata. Il quotidiano La Verità li ha messi in fila: Torino, Gabicce Mare (PU), Catania, Grosseto, Roma, i comuni piemontesi di Moncalieri, Settimo, Piossasco, Collegno, Caselette, Gassino, Borgaro, Chieri, Nichelino e Beinasco. E ancora Milano, Napoli, Bologna e Crema. Una lunga lista di amministrazioni – ma sarebbe più opportuno parlare di amministratori – che per una deriva ideologica violano la legge italiana. E anche se grandi conquiste civili nel tempo sono state ottenute con delle forzature non è questo il caso. Checché ne dicano i fautori dell’utero in affitto.
Una volta tanto vale appellarsi all’Europa per capire quale sia la verità dietro la maternità surrogata: un enorme traffico di interessi economici, che per lo più non risponde all’umanamente comprensibile desiderio di avere figli, ma alla richiesta di mercato di ricchi capricciosi. Etero o gay che siano. Più volte, in questi anni, Strasburgo è stata interpellata sul tema, con spinte poderose affinché si esprimesse a favore. Più volte Strasburgo ha resistito, tenendo fede ai suoi patti costitutivi, quella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che nel capitolo “Diritto all’integrità della persona”, vieta in via assoluta «di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro». Che rifiuta insomma l’idea che in questa parte di mondo ci si possa vendere un rene o, ugualmente, affittare l’utero.
Raramente i profili delle madri surrogate assurgono alle cronache, ma quando capita si scopre che si parla di ragazze giovanissime, già madri di altri figli, magari single e con un lavoro modesto. Notizie di casalinghe di Beverly Hills o di avvocatesse liberal di Harvard che hanno affittato l’utero, invece, non ne sono mai giunte. Ma sia chiaro: la faccenda non riguarda solo i vip. A Roma sono stati registrati 250 casi di bambini nati in Ucraina e portati in Italia da coppie che li hanno iscritti all’anagrafe come propri. Una vicenda un po’ sospetta, di cui ha dato conto Il Messaggero, spiegando che c’è un’inchiesta aperta sui «membri dell’organizzazione che gestiva le trasferte».
Dicono coloro che sfruttano la pratica dell’utero in affitto che non c’è mercimonio.  «Le cose non stanno affatto così: una gestazione per altri in Canada costa mediamente 120 mila dollari, somma che viene eufemisticamente definita “rimborso spese”», hanno scritto al direttore di Repubblica Mario Calabresi in una lettera aperta che però non sembra aver avuto la stessa visibilità dell’articolo sulla “famiglia arcobaleno” di Torino.
«Si paga una donna per confezionare un prodotto-bambino. Non si tratta di altruismo né di dono, come si sostiene più avanti: far credere che le donne si mettano “generosamente” e gratuitamente a disposizione di sconosciuti, con grave pregiudizio per la propria salute fisica e psichica, è offensivo e profondamente misogino», hanno scritto ancora le rappresentanti di Rua, le cui posizioni hanno poi trovato spazio sul Manifesto. «Il corpo di una donna non è suo perché lo metta sul mercato nella capacità materna, e nemmeno il neonato è una proprietà cedibile», si legge nell’articolo sulle «madri lesbiche che tirano la volata alla Gpa (Gestazione per altri, ndr)» e che si conclude, questo sì, con un richiamo ai diritti dei bambini: «Chiedetelo al neonato chi è sua madre, quando si fa strada per raggiungere il capezzolo che lo nutrirà, quando si sente rassicurato dalla presenza del corpo materno». secoloditalia.it/2018/05/



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