Il 18 dicembre è stata presentata in Corte di
Cassazione la Proposta di Legge d’Iniziativa Popolare “Disegno Legge
Delega Commissione Rodotà Beni Comuni, Sociali e Sovrani”. Si tratta di una
proposta normativa importante che intende ergersi a difesa dei Beni
Comuni secondo lo spirito e le indicazioni che hanno animato i lavori
della Commissione
Rodotà e che vede tra i principali promotori Alberto Lucarelli e
Ugo Mattei, che furono anche tra gli ispiratori dei referendum a sostegno
dell’acqua pubblica del 2011.
Le valutazioni di Paolo Maddalena, Vice Presidente Emerito
della Corte Costituzionale e Presidente dell’associazione “Attuare la
Costituzione”.
“L’Associazione “Attuare la Costituzione”, di fronte
all’iniziativa di trasformare in proposta di legge di iniziativa popolare lo
schema di disegno di legge della Commissione Rodotà, ha il dovere di far sapere
a tutti che lo schema della Commissione Rodotà, come si legge nella relazione
della sua presentazione al Senato del 2010, ha la finalità di rendere più
agevole i procedimenti di contabilità relativi alla “svendita” e alla
“privatizzazione”, nonché alla “vendita e riaffitto” degli immobili pubblici.
I beni comuni, in questo schema, sono soltanto “uno
specchietto per le allodole” e non viene minimamente sostenuta la loro
affermazione e diffusione. Anzi, privatizzando e svendendo, si agisce contro
l’espansione di questi beni.
Deve inoltre precisarsi che la Commissione Rodotà si è
riunita soltanto 11 volte, mentre l’iniziativa di questo schema di disegno di
legge è partita dai burocrati del Ministero delle finanze (e probabilmente
scritta da questi stessi burocrati).
Dal nostro punto di vista i beni comuni sono quei beni che
se arricchiti arricchiscono tutti, se impoveriti impoveriscono la società nel
suo complesso. Che si tratti di una piazza, di un giardino, di un immobile
abbandonato, della memoria storica, c’è un riconoscimento attivo da parte della
Comunità, che nasce dalla responsabilità universale di cura verso i beni
comuni. Una cura da cui tutti possono trarre beneficio, anche chi non può o non
vuole attivarsi in prima persona, per tutelarli, mantenerli, valorizzarli”. Labsus
del 21 dicembre 2018.
Paolo Maddalena,
Come si nota, per queste persone, “i beni comuni” sono beni
di valore: “arricchiscono tutti”. E, riguardando “tutti”, sono necessariamente
da considerare un bene “nella disponibilità di tutti” (proprietà pubblica,
servitù pubblica, compressione delle facoltà del proprietario privato, obbligo
del privato di tutelare l’utilità pubblica che la cosa produce). Essi inoltre,
“hanno un riconoscimento attivo da parte della Comunità”, in sostanza debbono
essere “giuridicamente riconosciuti”, e cioè “tutelati, mantenuti,
valorizzati”. E infine richiedono che tutti si prendano cura di loro,
“attivandosi in prima persona”, anche se ci sono persone che non possono o non
vogliono attivarsi, non ostante ne “traggano beneficio”.
Si può aggiungere, sul piano scientifico, che questi beni,
come ha affermato il Rodotà, “esprimono utilità funzionali all’esercizio dei
diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona”.
Appare evidente da quanto poco sopra riportato che, non è
possibile offrire una “definizione” onnicomprensiva di detti beni, non essendo
logicamente ammissibile includere nei limiti di un concetto una idea che, in
sostanza, rappresenta tutto quello che è naturalmente “bello e buono” per
l’uomo.
D’altro canto, è da sottolineare che questa attenzione da
parte di tutti i cittadini verso i beni comuni trae origine dal fatto che negli
ultimi decenni si è proceduto alla svendita quasi totale dei beni del Popolo,
mediante: le micidiali “privatizzazioni” (si trasforma il soggetto pubblico
proprietario in una SPA di diritto privato e , “occultamente”, diremmo, si
trasferisce la ricchezza di tutti a pochi soggetti non si sa come prescelti),
le “delocalizzazioni”, con i conseguenti licenziamenti del personale (la
disoccupazione ha raggiunto livelli impressionanti) e le “svendite”, un vero e
proprio accaparramento (legalmente riconosciuto) da parte dei governanti
di beni di tutti ceduti a prezzo vile a singoli privati. Di qui la
nascita, nell’immaginario collettivo di una tendenza a richiedere sempre più
spazi liberi per la fruizione di tutti, una tensione, diremmo, a ricostituire
il “patrimonio pubblico” del Popolo, dannosamente svenduto.
Queste aspettative sono completamente disattese dallo schema
di disegno di legge sui beni comuni, che si vorrebbe trasformare in una legge
di iniziativa popolare. Tale disegno, infatti, lungi dal voler perseguire un
ampliamento della tutela dell’interesse pubblico per la fruizione dei beni
comuni, persegue il fine opposto di “privatizzare” e “svendere” i beni che sono
in proprietà pubblica del Popolo, e, in genere, i beni di “interesse pubblico”.
L’idea era nata in seguito al lavoro che era stato avviato
in quella sede per la costruzione di un “conto patrimoniale” delle
amministrazioni pubbliche basato sui criteri della “contabilità
internazionale”. Nello svolgimento di tale compito, e alla luce dei primi
processi di valorizzazione e “privatizzazione” di alcuni gruppi di cespiti pubblici
(immobili e crediti), era emersa la necessità di poter contare su un contesto
giuridico dei beni che fosse al passo con i tempi e in grado di definire
criteri generali e direttive sulla gestione e sulla eventuale “dismissione” dei
beni in eccesso delle funzioni pubbliche, e soprattutto sulla possibilità che
tali “dismissioni” (ed eventuali operazioni di “vendita e riaffitto” dei beni)
fossero realizzate nell’interesse generale della collettività facendo salvo un
orizzonte di medio e di lungo periodo”.
Basta pensare che il fine del disegno è quello della
”costruzione di un conto patrimoniale delle amministrazioni pubbliche basato
sui criteri della contabilità internazionale”; che nel passo citato i concetti
sono quelli della “privatizzazione” di alcuni gruppi di cespiti pubblici; che
la parola “dismissioni” è usata due volte; e che si parla di “operazioni di
vendita e riaffitto” (considerato che l’Amministrazione ha l’abitudine di
vendere gli immobili pubblici, per poi riaffittarli a cifre stratosferiche), per
rendersi conto quanto è errato il convincimento secondo il quale questo disegno
di legge serve a realizzare la migliore fruizione dei “beni comuni” e quanto
sia sbagliato ripresentare al Parlamento questo schema di legge, conferendogli
la veste di una proposta di legge di iniziativa popolare.
Che si tratti di una finalità contabilistica e burocratica e
non di sistemazione giuridica volta alla migliore gestione e fruizione dei
“beni pubblici”, emerge poi dalle singole disposizioni, le quali appaiono
in palese contrasto con quanto dispongono la nostra Costituzione e i principi
generali del nostro ordinamento giuridico.
Il primo, fondamentale errore è quello di considerare
lo Stato come una “Persona giuridica pubblica” e non come una “Comunità politica”,
e cioè una “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, nella quale la
“sovranità” spetta al Popolo. Ne consegue che la ostentata “abolizione” del
“Demanio pubblico” venga presentata nel testo come la soppressione di un organo
della Pubblica Amministrazione e non di un organo dello Stato comunità,
oscurando nella mente del lettore l’idea che si tratta di beni appartenenti al
Popolo sovrano, per la cui “privatizzazione” e “svendita” si vogliono porre i
presupposti giuridici necessari per attuare procedimenti contabili più agevoli
e più semplici.
Un secondo errore è da ravvisare nella mancata citazione
dell’art. 42, primo comma, della Costituzione, il quale afferma che “La
proprietà è pubblica e privata”, sottintendendosi, come rilevò subito il Giannini,
che “proprietà pubblica” significa “proprietà collettiva demaniale”,
una “proprietà” cioè che appartiene al Popolo a titolo di sovranità.
A questo proposito si legge nel testo che “all’esercizio
(dell’azione di risarcimento) dei danni arrecati al bene comune è legittimato
in via esclusiva lo Stato”, aggiungendo che, per quanto riguarda i beni
cosiddetti di “appartenenza pubblica necessaria”, possono agire con
“l’azione inibitoria e con l’azione di risarcimento del danno soltanto lo Stato
e le (altre) persone giuridiche pubbliche”.
Il fatto è estremamente grave: tutto quello che sinora si è
detto sull’intervento spontaneo dei cittadini a proposito della tutela, anche
giurisdizionale, dei “beni comuni”, in questo schema di disegno di legge,
svanisce inesorabilmente.
Il terzo errore che vogliamo ricordare (ma tanti se ne
possono ancora rintracciare) è quello di aver tolto ogni forma di
“partecipazione” popolare alla “gestione” dei beni comuni.
Su questo punto molto si è scritto. E il premio Nobel
conferito alla Ostrom riguardava proprio questa materia: la gestione
dei beni comuni da parte delle collettività. Ma su questo importante tema,
il disegno di legge tace.
Ci sarebbe, come è ovvio, ancora molto da dire, ma quanto
scritto sinora porta ad una inconfutabile conclusione: tolto di mezzo il
“Popolo sovrano” e la “proprietà collettiva demaniale”, nonché la
“partecipazione” dei cittadini alla gestione dei beni comuni, il
legislatore diventa pienamente libero di stabilire (prescindendo dal tema
dell’appartenenza al Popolo) il regime giuridico dei beni comuni e dei beni
pubblici necessari, riservati alla Collettività.
L’obiettivo che si voleva raggiungere, è stato raggiunto:
infatti, tutto diviene più facilmente perseguibile da parte dei burocrati che
intendono costruire una “contabilità pubblica”, di carattere internazionale, e
cioè un tipo di contabilità che facilita le “privatizzazioni” e le “svendite”
tanto care alla ideologia neoliberista.
D’altro canto, il fallimento del neoliberismo, al quale il
disegno della Commissione Rodotà è ispirato, è sotto gli occhi di tutti. Gli
eventi hanno inconfutabilmente dimostrato che l’affermazione secondo la quale
la ricchezza deve essere nelle mani di pochi, che occorre una “forte
competitività” e che lo Stato, cioè il Popolo complessivamente considerato, non
deve entrare nell’economia, ha infatti creato un “sistema economico predatorio”,
il quale, usando i “meccanismi” della “privatizzazione”, della
“delocalizzazione” e delle “svendite” (obliterando completamente il tema delle
“nazionalizzazione” di industrie strategiche) ha prodotto effetti “devastanti”
per la nostra economia e ha reso l’Italia molto poco influente sul piano
mondiale ed europeo.
Ed è da sottolineare inoltre che ciò è avvenuto proprio
perché non si è tenuto conto delle norme imperative che la Costituzione
(art. 42) detta a proposito del concetto di “proprietà pubblica e
privata” e, a partire dall’assassinio di Aldo Moro in poi, i governi hanno
fatto a gara nell’emettere leggi incostituzionali alla cui base c’è la nozione
borghese, e ora neoliberista, della “proprietà privata”, una nozione (in
pieno contrasto con la Costituzione) che esalta il potere del privato,
considerando recessivo l’interesse pubblico e favorendo quel “meccanismo” di
svendite e privatizzazioni cui poco sopra si è fatto riferimento.
Appare allora evidente che, se davvero si vuole dare spazio
alla diffusione dei beni comuni, occorre innanzitutto fare il contrario di
quanto fa lo schema di legge in questione: occorre subordinare l’interesse
del privato all’interesse della Collettività, esattamente come detta la
Costituzione, la quale (è necessario ricordarlo) fu emanata quando ancora non
era nata l’idea balorda del neoliberismo ed era diffuso tra gli economisti
l’idea, di stampo keynesiano, secondo la quale il sistema economico
diventa effettivamente “produttivo” se si distribuisce la ricchezza alla base
della piramide sociale e se lo Stato, e cioè il Popolo, interviene come
“protagonista dell’economia”.
Considerato che dottrina e giurisprudenza sono state
abbagliate dall’erronea ideologia neoliberista, senza tener in nessun conto il
concetto di “proprietà privata” derivante da una lettura del codice civile
eseguita alla luce delle norme costituzionali, si impone che sia trasformata in
legge una “interpretazione costituzionalmente orientata” di alcune disposizioni
che il codice civile detta in materia di proprietà. Così facendo, rimettendo
cioè sotto le norme costituzionali queste poche norme dettate dal codice
civile, sarà impossibile procedere a operazioni di “privatizzazioni”, di
“delocalizzazioni” e di “svendite”, che hanno drasticamente impoverito il “patrimonio
pubblico” italiano, rendendo assai difficile la diffusione e la fruizione del
“beni comuni”.
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