5 CAPITOLO
L’ATTO AMMINISTRATIVO. VIZI.
L’ATTO AMMINISTRATIVO. VIZI.
1 Atto, provvedimento e procedimento amministrativo.
L’atto
amministrativo è qualunque atto imputabile all’amministrazione.
L’atto
può non comportare una incisione diretta su posizioni giuridiche di altri
soggetti pubblici o privati; in tal caso si definisce mero atto come ad esempio
un rapporto interno con il quale l’amministrazione prende conoscenza di un
determinato fatto. CENTOFANTI N., CENTOFANTI P. e FAVAGROSSA M. , Formulario del diritto amministrativo
2012, 31.
Si
definisce, invece, provvedimento l’atto col quale la pubblica amministrazione
esprime la sua volontà di incidere su posizione giuridiche di un soggetto che
può essere pubblico o privato.
Questa
distinzione chiarisce anche gli aspetti della eventuale tutela che è ammessa
solo per i provvedimenti che esauriscono, sotto il profilo procedurale, la fase
preparatoria. Questa, infatti, non è soggetta ad impugnazione che è possibile
solo quando il provvedimento diventa definitivo.
L’azione
amministrativa si sviluppa attraverso una serie di atti e/o provvedimenti
logicamente coordinati al fine dell’adozione di un provvedimento finale, avente
effetti esecutivi, che è espressione della volontà della pubblica
amministrazione.
La serie di atti
che convergono nel provvedimento amministrativo nella loro fase dinamica
costituisce il procedimento amministrativo.
I principi cui
deve necessariamente ispirarsi il procedimento sono stati via via definiti
dalla giurisprudenza e dalla dottrina.
E’ mancata,
infatti, in Italia fino alla L. 241/1990 una legge generale sul procedimento
amministrativo.
2 L’autotutela.
La pubblica
amministrazione ha la possibilità di riformare i suoi atti, anche senza la
richiesta del privato interessato al provvedimento, e può provvedere a risolvere
i conflitti che eventualmente sorgono con altri soggetti nell'attuazione dei
propri provvedimenti.
Esso è
considerato come uno dei poteri della pubblica amministrazione oltre a quelli
di autonomia e autarchia. F. BENVENUTI, Disegno dell’amministrazione
italiana, 1996, 276.
L'autore ritiene
l'autotutela una delle funzioni della pubblica amministrazione.
Egli distingue
l’autotutela spontanea - che si manifesta negli atti di annullamento, revoca e
abrogazione - da quella necessaria - che comprende gli atti sostitutivi e di
approvazione - e da quella contenziosa che si verifica nel caso di ricorso
amministrativo.
Altri autori,
nel classificare i procedimenti amministrativi, definiscono di secondo grado
quelli che hanno ad oggetto altri procedimenti amministrativi.
Nel procedimento
di secondo grado l'amministrazione riprende in considerazione i provvedimenti
già emanati, per motivi di legittimità (annullamento) o di merito (revoca),
ripercorrendo le fasi procedimentali previste a pena di illegittimità e dando,
puntualmente, idonea motivazione del pubblico interesse che muove
l'amministrazione nell'esercizio del suo potere. M. S. GIANNINI, Diritto
amministrativo, 1988, 981.
La L. 15/2005,
inserendo nella L. 241/1990 il capo IV bis, definisce normativamente caratteri
e situazioni patologiche dell’atto amministrativo che il legislatore ha sempre
lasciato, in precedenza, alla costruzione giurisprudenziale e dottrinale.
La normativa non
vuole certo essere esaustiva della trattazione dei caratteri dell'atto amministrativo,
ma vuole semmai porre dei principi già, peraltro, affermati dalla
giurisprudenza.
L’art.
19, L. 241/1990, sost. art. 3, D.L. 35/2005, afferma il potere
dell’amministrazione competente di assumere, in via di autotutela,
determinazioni di revoca o di annullamento.
Il
riferimento espresso agli istituti di autotutela decisoria fa ritenere alla
dottrina che il legislatore abbia voluto seguire la teoria che qualifica la DIA
come atto abilitativo tacito formatosi a seguito della denuncia del privato. CENTOFANTI N., CENTOFANTI P. e FAVAGROSSA M. , Formulario del diritto amministrativo
2012, 62.
3 La nullità.
La dottrina è
stata divisa, fino all’entrata in vigore della L. 15/2005, sulle regole da
applicare al regime della nullità del provvedimento amministrativo in assenza
di una disciplina specifica.
Taluni
sostengono che devono applicarsi le regole previste per il contratto, mentre
altri, che costituiscono l'indirizzo prevalente, affermano l’autonomia del
diritto amministrativo dalle norme privatistiche.
L’art. 21 septies,
L. 7 agosto 1990, n. 241, consacra l’esistenza della categoria della nullità
del provvedimento amministrativo.
Essa
codifica quelli che sono gli indirizzi giurisprudenziali prevalenti.
Il
legislatore recepisce l’elaborazione giurisprudenziale in materia di nullità
dell’atto amministrativo, codificando tra le cause di nullità la carenza di
potere in astratto e quella particolare ipotesi di carenza di potere in
concreto data dalla violazione o dalla elusione del giudicato.
Il legislatore riconosce
la categoria della nullità strutturale del provvedimento amministrativo
annoverando come causa di nullità la mancanza degli elementi essenziali
dell’atto.
La nuova norma
comprende testualmente fra le cause di nullità il difetto di attribuzione ed il
provvedimento adottato in violazione del giudicato, due ipotesi che la dottrina
classifica come carenza di potere.
La dottrina nota
che il legislatore classifica come nullità ipotesi che sono classificate di
norma come inesistenza, nel senso che dette situazioni impediscono la stessa
classificazione dell’atto come provvedimento amministrativo.
La
giurisprudenza assegna alle norme interne del procedimento il compito di
determinare la differenza fra nullità ed irregolarità.
Il verbale è un
documento che dà conto di come si è svolta una determinata attività in forme
non scritte, per la cui stesura è incaricato un soggetto verbalizzante che
assume la qualità di soggetto che rende atti di certezza legale. Pertanto
l'unico elemento necessario per l'esistenza dell'atto è la sottoscrizione del
soggetto che lo forma, mentre la mancata sottoscrizione degli altri membri
componenti la commissione, anche se prevista da norme interne, determina
soltanto una irregolarità e non certo la illegittimità dell'atto. Cons. St., sez. IV, 4 maggio 2004, n. 2742, Foro
Amm. Cons. St., 2004, 1349.
La
giurisprudenza ha precisato che il principio del consolidamento dei
provvedimenti non impugnati e della non doverosità dell'attivazione del
procedimento di autotutela non viene derogato quando il vizio dedotto è
costituito dalla violazione del diritto comunitario.
Nell'ordinamento
comunitario la sola illegittimità dell'atto non è elemento sufficiente per
giustificare la sua rimozione in via amministrativa, in quanto è necessaria una
attenta ponderazione degli altri interessi coinvolti, tra cui quello del
destinatario che ha fatto affidamento sul provvedimento illegittimo.
Il provvedimento
adottato in violazione del diritto comunitario non comporta la nullità, in
quanto l'entrata in vigore dell'art.
21 septies della L. 241/1990 ha codificato le ipotesi di nullità del
provvedimento amministrativo, che costituiscono quindi un numero chiuso e
all'interno delle quali non rientra il vizio consistente nella violazione del
diritto comunitario.
L’art. 21 septies,
L. 7 agosto 1990, n. 241, introduce l’istituto della nullità strutturale che,
nell’ottica civilistica, comprende le ipotesi di indeterminatezza,
impossibilità ed illiceità del contenuto del provvedimento.
Per contro, la
teoria finora dominante - definita autonomistica - ritiene che il provvedimento
amministrativo costituisca espressione dell’autonomia dell’amministrazione e
che, pertanto, ad esso non siano applicabili le concezioni civiliste relative
alla nullità; tale teoria riconduce i difetti nell’alveo delle possibilità di
un semplice annullamento del provvedimento al fine di salvaguardare l’esistenza
stessa dei provvedimenti.
Pacifica è
invece la giurisprudenza nel ritenere che, una volta annullato il provvedimento
amministrativo, sia travolto anche il rapporto contrattuale che lo stesso
provvedimento ha originato. L’inefficacia dell'atto amministrativo - ex tunc
travolto dall'annullamento giurisdizionale - comporta, infatti, anche la
caducazione immediata, non necessitante di pronunce costitutive, degli effetti
del negozio sottostante. Cons.
St., sez. VI, 19 novembre 2003, n. 7470, Foro Amm. Cons. St., 2003,
Il difetto di
attribuzione si manifesta soprattutto nel vizio dell’incompetenza che si
realizza quando una amministrazione pubblica esercita un potere che spetta ad
altra amministrazione, ex art. 21 septies, L. 7 agosto 1990, n.
241. L’incompetenza può essere relativa o assoluta.
L'incompetenza è
relativa quando il vizio discende dalle norme relative al riparto delle
funzioni nell’ambito della stessa amministrazione.
Così, ad
esempio, è viziato un provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva
emanato dal sindaco invece che dal dirigente del servizio.
La fattispecie
della incompetenza assoluta, che determina la nullità dell'atto amministrativo,
si verifica nei casi di espressa previsione della legge o quando vi è una
totale estraneità dell'organo che provvede al plesso organizzativo cui compete
l'adozione dell'atto in base alla ripartizione corretta delle attribuzioni.
Si pensi ad una
espropriazione effettuata dal comune mentre la competenza per quel procedimento
spetta allo Stato.
L’incompetenza
relativa comporta l’annullabilità dell’atto.
Essa può essere
sanata. La giurisprudenza ritiene che, in base ai principi di conservazione
degli atti e di economia dei giudizi, la competenza sopravvenuta sia
equiparabile alla convalida quanto ad efficacia sanante. T.A.R.
Friuli Venezia Giulia, 21 febbraio 2002, n. 30, Foro Amm.
T.A.R., 2002, 431.
L’incompetenza
assoluta comporta la nullità dell’atto.
Un
altro caso di nullità per carenza di potere si realizza nel provvedimento in
contrasto con il dispositivo contenuto in una sentenza del giudice
amministrativo passata in giudicato, ex art. 21 septies, L. 7.8.1990, n.
241.
La
giurisprudenza, per ravvisare detta fattispecie, richiede che l’amministrazione
ponga in essere la medesima attività ritenuta illegittima con la sentenza
passata in giudicato.
Affinché ricorra
il vizio di violazione o elusione del giudicato non è sufficiente che la nuova
azione amministrativa posta in essere dall'amministrazione dopo la formazione
del giudicato alteri l'assetto degli interessi definito dalla pronunzia passata
in giudicato; è necessario, invece, che l'amministrazione eserciti nuovamente
la medesima potestà pubblica, già illegittimamente esercitata, in contrasto con
il puntuale contenuto precettivo del giudicato amministrativo. Cons. St., sez.
IV, 6 ottobre 2003, n. 5820, Foro Amm. Cons. St., 2003, 2914, 3693 nota
Mancini.
La dottrina
ritiene inutile la norma poiché la tutela, in tal caso, avviene attraverso il
giudizio di ottemperanza.
La
disposizione si limita ad esplicare quanto è già ricavabile aliunde dal
regime del giudizio di ottemperanza.
Sul
punto la giurisprudenza è pacifica.
Il ricorso per
ottemperanza è ammissibile in ogni caso, anche dopo l'adozione di atti
esecutivi a contenuto discrezionale, senza necessità di operare la tradizionale
dicotomia concettuale tra elusione ovvero violazione del giudicato, qualora il petitum
sostanziale del ricorso attenga all'oggetto proprio del giudizio
d'ottemperanza, miri cioè a far valere non già la difformità dell'atto
sopravvenuto rispetto alla legge sostanziale, bensì la difformità specifica
dell'atto stesso rispetto all'obbligo processuale di attenersi esattamente
all'accertamento contenuto nella sentenza da eseguire. Cons. St., sez. VI, 10 febbraio 2004,
n. 501, Foro Amm. Cons. St., 2004, 481.
Se il giudicato
non fissa limiti precisi all’azione dell’amministrazione, l’azione di tutela
deve rivolgersi contro l’atto amministrativo ritenuto lesivo con i normali
sistemi di impugnazione davanti al giudice amministrativo.
4 La annullabilità.
La pubblica
amministrazione ha la possibilità di riformare i suoi atti, anche senza la
richiesta del privato interessato al provvedimento, e può provvedere a
risolvere i conflitti che eventualmente insorgano con altri soggetti
nell'attuazione dei propri provvedimenti. F. BENVENUTI, Appunti di diritto
amministrativo, 1959, 152.
L’art. 21 octies,
L. 7 agosto1990, n. 241, riafferma il principio che stabilisce l’annullabilità
dell’atto amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso
di potere o da incompetenza. G. CARUSO, Svolta per le regole sull’invalidità
formale, in Guida Dir. 2005, 79.
5 Le eccezioni.
L’art. 21 octies,
L. 7 agosto 1990, n. 241, introduce due importanti eccezioni al principio
dell’annullabilità degli atti amministrativi.
In primo luogo
non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato.
In secondo luogo
il provvedimento amministrativo non è annullabile per mancata comunicazione
dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che
il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello che
in concreto è stato adottato.
Una parte della
dottrina ritiene equivoco il riferimento alla natura vincolata del
provvedimento e lo stesso potere del giudice di stabilire se, col rispetto
delle norme violate, l’atto avrebbe potuto avere lo stesso contenuto.
Vincolato può
essere l’an, se emanare l’atto è atto dovuto a seguito di una corretta
valutazione dei presupposti; vincolato può essere il quando, se l’atto
deve essere emanato in relazione a determinate circostanze temporali. Lo stesso
stabilire il grado del vincolo può essere scelta discrezionale per cui è la
medesima amministrazione che deve decidere.
Il potere
attribuito al giudice di decidere se, col rispetto delle norme violate, l’atto
avrebbe potuto avere lo stesso contenuto significa attribuirgli una potestà che
non è sua tipica, ma che peraltro gli è preclusa dalla sua posizione di
terzietà rispetto alla domanda di annullamento presentata dal ricorrente.
Conseguente è la
censura di incostituzionalità della norma perché trasforma la giustizia
amministrativa in una ulteriore fase della azione amministrativa.
Altra dottrina
sostiene che dette disposizioni costituiscono applicazione del principio del
raggiungimento dello scopo, enunciato dall’art. 156, comma 3, c.p.c.
Esso afferma,
infatti, che la nullità non può essere mai pronunciata se l’atto ha raggiunto
lo scopo cui è destinato.
Altri autori
osservano che il legislatore si muove nell’ottica del raggiungimento del
risultato e che tale ratio paralizza ogni attività di tutela con
evidente lesione dell’art. 113, cost. E. FOLLIERI, L’annullabilità dell’atto
amministrativo, in Urb. App., 2005, 625.
Nel diritto
amministrativo lo scopo non è quello dell’atto procedimentale o delle formalità
omesse, bensì il fine che l’azione amministrativa deve perseguire. Esso è
costituito dall’adozione di una decisione provvedimentale legittima.
La dottrina
rileva che, nel giudicare fattispecie rientranti nella prima ipotesi relativa
alla impossibilità di annullare l’atto redatto in violazione alle norme
procedimentali, qualora il suo contenuto dispositivo non possa essere diverso
da quello adottato, il giudice è chiamato a cambiare il suo ruolo
Il giudice è
chiamato dalla nuova normativa a ricostruire il corretto contenuto dispositivo
dei provvedimenti vincolati, a prescindere dall’eventuale presenza di vizi
formali e procedimentali, perché i provvedimenti di contenuto corretto
raggiungono il loro obiettivo e soddisfano l’interesse pubblico, anche se
presentano imperfezioni formali.
Nel caso di
mancata acquisizione di un parere l’annullamento non deve essere disposto
qualora l’atto sia vincolato.
La
giurisprudenza ha affermato che il provvedimento con cui il comune dispone
l'annullamento di autorizzazioni commerciali rilasciate sulla base dell'erroneo
presupposto dell'iscrizione dei richiedenti al registro degli esercenti il
commercio (nella fattispecie, sulla base di una falsa attestazione della sua
sussistenza non deve essere preceduto dal parere della commissione comunale
prevista dagli artt. 11 e 16, L. 11 giugno 1971, n. 426. Detta interpretazione
è fondata sulla considerazione del suo carattere vincolato e, in quanto tale,
non implicante alcuna valutazione discrezionale, come si ricava dall'art. 31,
L. 426/1971, secondo cui la cancellazione dal registro degli esercenti ha come
conseguenza la doverosa revoca dell'autorizzazione.
Ciò anche in
conformità al principio di recente introdotto nell'ordinamento dall'art. 21 octies,
comma 2, L. 7.8.1990, n. 241, secondo cui l'annullamento di provvedimenti
vincolati per vizi formali non può essere pronunciato allorché appaia palese
che il loro contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato. T.A.R.
Lazio Latina, 16 maggio 2005, n. 383.
Ai sensi
dell'art. 21 octies, l. n. 241 del 1990, non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma
degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che
il suo contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato. T.A.R.
Campania Napoli, sez. II, 30 ottobre 2006, n. 9243, in Foro
amm. TAR, 2006, 10, 3292.
Non può
individuarsi alcuna violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del
procedimento nel caso in cui il ricorrente non avrebbe potuto arrecare alcun
apporto sostanziale alle scelte dell'Amministrazione.
Detta situazione
si verifica quando il quadro normativo di riferimento o convenzionale non
presenta margini di incertezza sufficientemente apprezzabili e l'eventuale
annullamento del provvedimento finale per accertata violazione dell'obbligo di
formale comunicazione non priverebbe l'Amministrazione del potere di adottare
un nuovo provvedimento di contenuto analogo. T.A.R. Campania Napoli, sez. VII,
26 ottobre 2006, n. 9127, in Il merito, 2006, 12, 94.
Il giudice deve
valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e, quindi, non deve
annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla
legittimità sostanziale del provvedimento impugnato. T.A.R.
Puglia Lecce, sez. II, 12 settembre 2006, n. 4412, in Foro
amm. TAR, 2006, 9, 3057.
La
giurisprudenza afferma che l'amministrazione è tenuta ad esibire nel giudizio
una prova tale da introdurre elementi di fatto oggettivamente verificabili,
idonei a dimostrare in concreto che in nessun altro modo, non lesivo per la
posizione del ricorrente, si sarebbe potuto raggiungere lo scopo. T.A.R. Lazio,
sez. II, 25 ottobre 2005, n. 9804.
La norma produce
il definitivo ribaltamento del tradizionale principio del cosiddetto divieto di
motivazione postuma.
Essa riduce il
novero dei vizi patologici a quelli di natura sostanziale e limita la potestà
caducatoria del giudice amministrativo.
Si è, infatti,
già osservato che una volta ammesso, in termini generali con la L. 21 luglio
2000, n. 205, che anche dall'esercizio dell'attività provvedimentale della p.a.
possono scaturire illeciti risarcibili ai sensi dell'art. 2043 c.c., si impone
un ripensamento dell'assunto della immodificabilità della motivazione.
La L. 205/2000,
con la previsione dei motivi aggiunti, comporta che l'adozione di un ulteriore
provvedimento volto ad emendare un vizio dell'atto oggetto del gravame non pone
più fine automaticamente al relativo giudizio (oggi strutturato come giudizio
sul rapporto), ma abilita l'interessato ad integrare la sua originaria
impugnativa.
La
giurisprudenza afferma che ogni ricaduta patologica dei vizi attinenti alla
forma degli atti amministrativi, o a violazioni procedimentali, è da escludersi
alla luce dell'art. 21 octies, L. 241 del 1990, secondo cui non è
annullabile (vale a dire, illegittimo) il provvedimento amministrativo adottato
in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per
la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato;
la formula innovativa della legge deve indurre anche al definitivo ribaltamento
del tradizionale principio del cd. divieto di motivazione postuma e, riducendo
il novero dei vizi patologici a quelli di natura sostanziale, limita la potestà
caducatoria del giudice amministrativo.
L'obbligo
della comunicazione di avvio del procedimento amministrativo, previsto dal
richiamato art. 7, L. n. 241/1990, sussiste quando, in relazione alle ragioni
che giustificano l'adozione del provvedimento, e a qualsiasi altro possibile
profilo, la comunicazione stessa apporti una qualche utilità all'azione
amministrativa, affinché questa, sul piano del merito e della legittimità,
riceva arricchimento dalla partecipazione del destinatario del provvedimento.
In mancanza della suddetta utilità viene meno l'obbligo di comunicazione.
T.A.R. Campania Napoli, sez. VII, 26 ottobre 2006, n. 9127, in Il merito,
2006, 12, 94.
6 L’incompetenza relativa.
La
giurisprudenza non è uniforme nel considerare applicabile l’art. 21 octies,
comma 2, L. 241/1990 ai provvedimenti viziati da incompetenza.
Secondo un primo
orientamento le norme non attributive della competenza sono senz’altro
riconducibili alle disposizioni che disciplinano il procedimento
amministrativo. Esse sono, infatti, volte ad individuare l’organo indicato a
disporre l’emanazione del provvedimento. T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 29
novembre 2005, n. 2484.
Altra
giurisprudenza sostiene la tesi opposta escludendo l’incompetenza dall’ambito
di applicazione della norma.
Da una lettura
combinata del primo e del secondo comma dell'art. 21 octies, L. 241/1990,
si desume che, quando è accertata l'incompetenza relativa dell'organo adottante
- da non confondere con l'incompetenza assoluta, disciplinata dall'art. 21 septies,
comma 1, della L. 241/1990 - il provvedimento deve essere necessariamente
annullato, non potendo trovare applicazione la disposizione che ne preclude
l'annullamento laddove sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Tale
disposizione si riferisce soltanto ai casi in cui il provvedimento sia stato
adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma.
Né sembra
possibile includere le norme sulla competenza tra le norme sul procedimento
amministrativo o tra quelle sulla forma degli atti.
Dal primo comma
dell'art. 21 octies, L. 241/1990, si rileva che il legislatore ha inteso
confermare la tripartizione dei vizi di legittimità dell'atto amministrativo,
in base alla quale la violazione delle norme sulla competenza configura il
vizio di incompetenza, mentre la violazione di norme sul procedimento o sulla
forma rientra nell'ambito più generale della violazione di legge.
Inoltre, devono
ritenersi norme sul procedimento tutte quelle relative al modus operandi
dell'Amministrazione ed alla partecipazione procedimentale del destinatario del
provvedimento finale, delle altre Amministrazioni interessate e dei soggetti
indicati dall'art. 9 della legge n. 241/1990, mentre devono ritenersi norme
sulla forma quelle relative ai requisiti formali degli atti endoprocedimentali
e del provvedimento finale. T.A.R. Campania, Napoli, sez. IV, 23 marzo 2005, n.
3780, in Guida Dir., n. 27, 2005, 83.
7 L’atto redatto in mancanza di comunicazione dell’avvio del procedimento.
Altre sono le
ragioni che consentono all’amministrazione di sanare l’atto qualora esso sia
redatto in mancanza di comunicazione dell’avvio del procedimento.
La dottrina
rileva che si tratta di una sanatoria processuale tesa a evidenziare che la
carenza procedimentale non ha inciso sul contenuto del provvedimento.
La
giurisprudenza puntualizza che la carenza di comunicazione di avvio di
procedimento non comporta l’annullamento dell’atto se l’atto è a contenuto
vincolato e, pertanto, la mancata osservanza degli aspetti formali non provoca
modifiche al suo contenuto.
La
regola vale tanto più ove detto avviso non viene ad avere nessuna influenza
sull'esito finale del procedimento, in conformità al principio di recente
introdotto nell'ordinamento dall'art. 21 octies, comma 2, L. 241/1990,
introdotto dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, secondo cui l'annullamento di
provvedimenti vincolati per vizi formali non può essere pronunciato allorché
appaia palese che il loro contenuto dispositivo non può in ogni caso essere
diverso da quello in concreto adottato.
Tale innovazione
trova supporto in un orientamento giurisprudenziale precedente all’entrata in
vigore della L. 15/2005 che è più attento alle forme che alla sostanza; il
suddetto indirizzo ritiene non annullabili i provvedimenti nei quali la
partecipazione del privato risulti meramente formale tale da non potere
incidere sul contenuto del provvedimento.
Il privato, per
giungere alla demolizione del provvedimento, deve, pertanto, dimostrare che la
sua partecipazione avrebbe potuto cambiare sostanzialmente l’atto.
Parte della
dottrina critica questa tendenza che porta ad un diritto amministrativo sempre
meno paritario perché le garanzie per il privato diventano mere forme mentre
l'azione di tutela del privato rimane soggetta a termini perentori di
decadenza.
La giurisprudenza
ha, infatti, affermato che l'obbligo della p.a. di provvedere alla
comunicazione di avvio del procedimento nei riguardi di quei soggetti sui quali
il provvedimento sia destinato a produrre effetti diretti non può che
configurarsi in senso sostanziale e non formale.
Detto obbligo,
pertanto, è stato ritenuto rispettato ogni qualvolta l'amministrazione,
relativamente allo svolgimento di un procedimento amministrativo semplice o
complesso prodromico all'adozione di un provvedimento finale, possa effettivamente
beneficiare della partecipazione del privato mediante l'acquisizione di un
contributo rappresentativo dei suoi interessi e non anche nelle ipotesi in cui
il provvedimento sarebbe stato in ogni caso adottato in quanto atto necessitato
o vincolato o qualora la comunicazione stessa non avrebbe potuto esplicare
alcuna positiva efficacia in relazione alla possibilità del privato di
partecipare al procedimento stesso.
8 La mancata comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza.
L’art. 10 bis,
L. 241/1990 prevede che nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile
del procedimento, prima della formale adozione di un provvedimento negativo,
comunichi tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento
della domanda.
Gli istanti
hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni entro il
termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione.
La norma vincola
immediatamente le amministrazioni statali e gli enti pubblici nazionali.
La modifica
dell’art. 29 della L. 241/1990, proposta dall’art. 7, L. 69/2009, estende
l’applicazione della legge anche alle società con prevalente capitale pubblico
limitatamente all’esercizio delle funzioni amministrative.
Il provvedimento
deve riferire dell’istruttoria effettuata e deve dare conto delle ragioni che,
in relazione alla situazione esistente, si frappongono alla domanda del
privato.
Una parte della
giurisprudenza ritiene che la mancata attuazione della disposizione non
consenta di applicare il disposto dell'art. 21 octies, L. 241/1990, non
essendo stato dimostrato, in presenza di un provvedimento a natura non
vincolata, nemmeno in questa sede, che il contenuto dispositivo del
provvedimento impugnato non avrebbe potuto avere diverso contenuto. Qualora
l'amministrazione abbia disatteso la disposizione di cui al nuovo art. 10 bis
della legge sul procedimento risultata preclusa per la parte interessata la
facoltà di presentare osservazioni al diniego con conseguente possibilità di
annullare il provvedimento impugnato.
In particolare
la giurisprudenza ha precisato che, in tema di rilascio di autorizzazione
paesaggistica, la mancata comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento
della domanda costituisce rilevante profilo di illegittimità del provvedimento
gravato, in quanto l'art. 146, comma 9, D. L.vo 22 gennaio 2004, n. 42, prevede
espressamente l'obbligo della comunicazione del preavviso di rigetto di cui
all'art. 10 bis, L. 7 agosto 1990, n. 241. T.A.R. Sicilia Palermo, sez.
I, 22 giugno 2006, n. 1510, in Foro amm. TAR, 2006, 6, 2223.
La regola
partecipativa posta dall'art. 10 bis, L. 7 agosto 1990, n. 241, non può
essere intesa in senso meccanico e formalistico, avendo la stessa non già una
ragione formale, ma sostanziale ossia dare la possibilità al richiedente in un
procedimento amministrativo di venire a conoscenza delle ragioni che
impediscono l'accoglimento della sua istanza, prima che il provvedimento
negativo sia divenuto definitivo. Pertanto, laddove il destinatario del
provvedimento finale abbia avuto modo, nel corso del procedimento, di venire a
conoscenza delle ragioni impeditive all'accoglimento della sua istanza ed abbia
potuto confutare efficacemente, la riproposizione delle stesse risulta non solo
inutile, ma dispendiosa e contraria ai principi di efficacia e buon andamento
dell'amministrazione. T.A.R.
Puglia Lecce, sez. II, 24 agosto 2006, n. 4281, in Foro
amm. TAR, 2006, 7-8, 2679.
La
giurisprudenza distingue questa ipotesi partecipativa da quella prevista per i
procedimenti di secondo grado. Non sussistono i presupposti per l'applicazione
dell'art. 10 bis, L. n. 241 del 1990, che impone la previa comunicazione
dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza quando il provvedimento
impugnato non ha ad oggetto la reiezione in via originaria dell'istanza di
autorizzazione, ma la caducazione dell'atto favorevole adottato in prime cure.
Tale atto,
catalogabile tra i provvedimenti di secondo grado, affida le aspettative
partecipative del soggetto interessato al diverso strumento comunicativo di cui
all'art. 7, L. n. 241 del 1990. T.A.R.
Campania Salerno, sez. II, 3 agosto 2006, n. 1125, in Foro
amm. TAR, 2006, 7-8, 2625.
Altra
giurisprudenza intende ampliare l’applicazione della regola della non
annullabilità.
Questo indirizzo
ritiene applicabile l’art. 21 octies, comma 2, L. 241/1990 in detta
fattispecie perché - al pari dell’ipotesi di omessa comunicazione dell’avvio
del procedimento - anche in questo caso l’amministrazione procedente è tenuta
ad iniziare un contraddittorio con il destinatario dell’emanando provvedimento
al fine di raccogliere un contributo istruttorio da parte del soggetto passivo
del procedimento. T.A.R.
Veneto, sez. II, 7 settembre 2005, n. 3421.
9 La annullabilità d’ufficio.
L'annullamento
d'ufficio di un atto amministrativo inerisce all'essenza stessa della funzione
svolta dalla pubblica amministrazione che è quella del perseguimento del
pubblico interesse.
Qualora l'atto
non sia conforme a questo obiettivo, l'autorità che l'ha emesso, a prescindere
da ogni intervento esterno, ha la possibilità di rimuovere l'atto stesso con
efficacia ex tunc, annullandolo.
Tale potere è
esercitato dalla amministrazione che ha emanato l'atto, salvo restando il
potere degli interessati, sui quali cadono gli effetti dell'atto, di agire in
sede amministrativa ovvero in sede giurisdizionale per ottenere dei
provvedimenti o delle sentenze che impongano alla amministrazione un diverso
comportamento.
Non esistono
però dei limiti logicamente precisi che obblighino la pubblica amministrazione
a rivedere gli effetti dei suoi atti, per verificare la loro annullabilità,
anche perché normalmente gli atti amministrativi, attraverso il procedimento
che devono seguire per la loro approvazione - ovvero attraverso il successivo
riscontro di un eventuale organo consultivo o di controllo - normalmente
dovrebbero garantire il rispetto di ogni requisito di legittimità.
L'eccezionalità
è, infatti, il requisito principe caratterizzante detto potere della pubblica
amministrazione poiché esso deve manifestarsi solo qualora il procedimento
amministrativo originario non abbia sortito gli effetti desiderati.
Dato che
l'amministrazione deve agire nel modo più idoneo per perseguire il pubblico
interesse, essa deve tutelarsi proprio in quei casi eccezionali in cui i suoi
provvedimenti non hanno sortito gli effetti desiderati.
La dottrina,
infatti, ritiene che, perché si possa esplicare il potere di autotutela,
debbano sussistere due requisiti fondamentali: deve sussistere una
illegittimità originaria dell'atto amministrativo e, conseguentemente, deve
essere evidente l'interesse pubblico giustificativo dell'atto di autotutela.
La dottrina,
peraltro, sostiene che anche la inopportunità dell'atto giustifica la procedura
di annullamento d'ufficio. M. S. GIANNINI, Diritto amministrativo, 1988,
1060.
Il
legislatore, fortemente condizionato da una politica di risparmio della spesa
pubblica, ha introdotto una norma nella finanziaria 2005 che codifica
l’annullamento dei provvedimenti di esecuzione che siano ancora in corso
limitandone il potere entro i tre anni dal momento in cui il provvedimento
abbia acquisito efficacia e con l'indennizzo del danno recato al privato, art.
1, L. 30 dicembre 2004, n. 311.
L’indirizzo è
ripreso dalla legge sulle nuove norme per l’azione amministrativa che prevede
una espressa disposizione che disciplina l’annullamento d’ufficio dei
provvedimenti amministrativi illegittimi.
In tale caso la
norma richiede una idonea motivazione e la valutazione degli interessi dei
destinatari, elimina la espressa limitazione temporale, mentre sottace
l’obbligo dell’indennizzo, art. 21 nonies, L. 7 agosto 1990, n. 241,
intr. art. 14, L. 11 febbraio 2005, n. 15.
La
giurisprudenza precedente all’entrata in vigore della L. 15/2005 ha sempre
valutato la necessità di un’idonea motivazione dell’interesse pubblico.
L'esercizio del
potere di autotutela da parte della p.a. richiede non solo l'esistenza di un
vizio dell'atto da rimuovere, ma anche l'esistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla rimozione dell'atto, che non si identifica nel mero
ripristino della legalità violata, e la sua comparazione con gli interessi
privati sacrificati quando, per effetto del provvedimento ritenuto illegittimo,
siano sorte posizioni giuridiche qualificate e consolidate nel tempo. T.A.R.
Campania Napoli, sez. IV, 9 febbraio 2004, n. 1968, Foro Amm.
T.A.R., 2004, 473.
L’interesse
pubblico all’annullamento deve essere esplicitato soprattutto quando sia
trascorso un notevole lasso di tempo dall’emanazione del provvedimento che si
vuole annullare.
La valutazione
del tempo trascorso viene meno qualora si tratti di recuperare somme
indebitamente erogate.
La
giurisprudenza ha dichiarato legittimi i provvedimenti di autotutela (revoca e
annullamento) inerenti a contributi pubblici anche quando adottati a notevole
distanza di tempo considerato che, trattandosi di erogazione di pubblico
denaro, l'interesse al recupero è intrinseco nella natura stessa del
finanziamento e non viene meno per il lungo decorso del tempo, rimanendo
impregiudicato il diritto dell'amministrazione di far rientrare nelle proprie
casse il denaro non più rispondente allo scopo per il quale era stato erogato. T.A.R.
Campania Napoli, sez. V, 18 dicembre 2003, n. 15468.
10 La convalida dei provvedimenti annullabili.
La convalida è
l’atto col quale l’amministrazione riconosce un vizio dell'atto amministrativo
e consiste in una dichiarazione espressamente diretta ad eliminare il vizio.
Essa provvede a
sanare l’illegittimità consentendo all’atto di superare ogni azione di annullamento.
La
giurisprudenza ha dichiarato che, per convalidare gli effetti di un
provvedimento viziato da sola incompetenza, è sufficiente l'intento dell'organo
amministrativo competente di condividere il contenuto dell'atto e i presupposti
sottostanti alla sua emanazione, senza reiterare il procedimento o rinnovare la
motivazione, che deve essere ricercata nell'atto convalidato. T.A.R. Sardegna,
17 gennaio 2004, n. 15, Foro Amm. T.A.R., 2004, 271.
Un indirizzo
della giurisprudenza riconosce la possibilità di convalidare atti viziati anche
se gli stessi sono stati ritualmente impugnati presso il giudice
amministrativo. T.A.R. Molise, 10 maggio 2004, n. 275.
Altro indirizzo
giurisprudenziale nega la convalida di atti viziati per violazione di legge od
eccesso di potere impugnati presso il giudice amministrativo.
Poiché solo con
riguardo al vizio di incompetenza relativa, di carattere meramente formale, la
legge consente la convalida retroattiva in pendenza di giudizio, nel silenzio
della legge, con riguardo agli altri vizi deve escludersi la possibilità di
convalida in pendenza di giudizio. Viene fatto salvo il potere di autotutela
della p.a. nei riguardi dei propri atti, potere che esplica effetti ex nunc
e che non viene meno neppure quando l'atto, del cui annullamento si tratta, sia
stato impugnato in sede giurisdizionale. T.A.R.
Veneto, sez. I, 31 marzo 2003, n. 2174, Foro Amm. T.A.R., 2003, 854.
La
giurisprudenza attribuisce anche alla convalida, come all’annullamento di
ufficio, efficacia retroattiva ex tunc a partire dal momento
dell’emanazione dell’atto.
L’art. 21 nonies,
2 comma, L. 7 agosto 1990, n. 241, ribadisce la possibilità di convalida di
provvedimenti annullabili in presenza di ragioni di ordine pubblico ed entro un
termine ragionevole, tralasciando ogni coordinamento con la normativa
precedente.
La normativa
sembra estendere la possibilità per la pubblica amministrazione di addivenire
alla convalida dell’atto amministrativo in ogni ipotesi di impugnazione
inibendo l’azione di tutela.
La tutela,
quindi, è destinata a spostarsi sull’esame dei limiti della possibilità di
convalida.
11 La revoca.
Nel potere di
autotutela si inquadra anche la revoca del provvedimento.
L’istituto trova
la sua diversa ratio nel potere generale dell’amministrazione di
rivedere i suoi atti per motivi di merito
Tale potere, che
consente all’amministrazione di porre nel nulla con efficacia ex nunc i
suoi atti, residuo di quello assoluto del sovrano, è temperato dalla necessità
di motivazione e trova limite nelle posizioni giuridiche acquisite dai
destinatati dell’atto che si intende revocare.
La
giurisprudenza ha affermato, ad esempio, che il provvedimento di declassazione
di un albergo a categoria di livello inferiore, in presenza di accertate
carenze ravvisabili nelle condizioni generali delle camere e delle zone comuni
inferiori agli standard qualitativi richiesti per una struttura classificata a
4 stelle, è un atto di revoca o riforma, fondato su un interesse pubblico
attuale, rappresentato in motivazione, costituito dall'esigenza di garantire
alla clientela alberghiera l'effettiva sussistenza dei servizi, delle dotazioni
e del livello qualitativo corrispondenti alla classe assegnata a quella
determinata struttura. T.A.R. Valle d'Aosta, 24 settembre 2004, n. 96.
L’art. 21
quinquies, L. 7 agosto 1990, n. 241, afferma che, per sopravvenuti
motivi di pubblico interesse o nel caso di mutamento della situazione di fatto
o di nuova valutazione del provvedimento amministrativo, l’atto può essere
revocato.
La norma non
contempla la necessità che l’amministrazione valuti e motivi il provvedimento
in rapporto all’avvenuto consolidamento delle posizioni dei soggetti passivi
come è invece richiesto finora dalla giurisprudenza prevalente.
In particolare
la giurisprudenza precedente ha richiesto che l’interesse pubblico alla revoca
sia valutato in rapporto al tempo trascorso dall’emanazione del provvedimento.
La deroga
all'obbligo di motivazione trova un limite di estensione nel consolidamento dei
vantaggi conseguiti dal privato, talché anche nell'ipotesi del ritiro assume
rilevanza il tempo trascorso tra il conseguimento del beneficio e
l'eliminazione dell'atto che lo aveva attribuito. Cons. giust. amm. Sicilia,
sez. giurisd., 20 dicembre 2000, n. 496.
La norma
afferma, inoltre, che, se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti
direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di corrispondere un
indennizzo, parallelamente al principio sancito in materia di recesso da
accordi procedimentali.
L’art. 21 sexies,
L. 7 agosto 990, n. 241, precisa che l’istituto della revoca non è estensibile
alla materia di contratti con la pubblica amministrazione.
Le disposizioni
sul recesso della pubblica amministrazione non rientrano nella materia dei
provvedimenti, ma in quella contrattuale.
Il recesso
unilaterale nei contratti è ammesso solo nei casi previsti dalla legge o dal
contratto, come ad esempio nel caso di appalto di opere pubbliche.
12 I criteri per la quantificazione dell’indennizzo.
Qualora la
revoca di un provvedimento amministrativo incida su rapporti negoziali il
legislatore provvede direttamente a definire la quantificazione dell’indennizzo
da corrispondere al privato da parte dell'amministrazione.
L'indennizzo
deve essere parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia
dell'eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della
contrarietà dell'atto amministrativo oggetto di revoca all'interesse pubblico,
sia dell'eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all'erronea
valutazione della compatibilità di tale atto con l'interesse pubblico, ex
art.
21-quinquies, comma 1 bis, L. 7 agosto 1990, n. 241, mod. art. 13,
comma 8 duodevicies, D.L. 31 gennaio 2007, n. 7.
La
disposizione in esame parametra l’indennizzo al solo danno emergente escludendo
il lucro cessante. La norma specifica che l’indennizzo deve essere quantificato
tenendo conto dell’affidamento che il privato ha riposto sull’atto revocato.
L’indennizzo
deve essere determinato valutando la possibile conoscenza da parte del soggetto
privato destinatario del provvedimento del fatto che l’atto amministrativo sia
contrario all’interesse pubblico.
Detta
conoscenza ridimensiona l’affidamento che il privato può fare sull’atto e
quindi giustifica la diminuzione del risarcimento.
Resta
però il problema di come provare che il privato era informato di tale contrarietà.
Il
destinatario non deve avere concorso a formare un eventuale erroneo
convincimento da parte dell’amministrazione di realizzare coll’emanazione del
provvedimento un interesse pubblico.
La dottrina
evidenzia che la norma non accenna alla rilevanza che acquista nella pratica il
tempo trascorso dall’emanazione dell’atto revocato per determinare la
decurtazione del risarcimento; tale mancata considerazione porta a riconoscere
un sommo potere alla pubblica amministrazione.
Essa
potrebbe ad ogni tornata elettorale disconoscere gli atti posti in essere dalla
amministrazione precedente.
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