LE
IMMISSIONI
La
disciplina dell’art. 844, c.c..
Il
proprietario di un fondo ha tutela nei confronti dei confinanti nell’ottica
dell’equilibrio fra le diverse posizioni che è principio fondamentale da
salvaguardare nei rapporti di vicinato.
I rapporti possono
riguardare non solo le opere che vengono edificate a confine, ma anche gli
effetti che una attività esercitata sul fondo può produrre sul fondo confinante
che vengono definite immissioni dalla dottrina (Maugeri 1999, 31).
L’art. 844
c.c. dispone un principio di reciproca tolleranza per i fatti negativi che
possono turbare il normale godimento del fondo.
Esso dispone
che debbono essere sopportati dal confinante se rientrano nella norma e dando
all’autorità giudiziaria in compito di fissare i criteri per definire
l'attività come lecita..
Il
proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo di calore, le
esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e altre simili propagazioni derivanti dal
fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità avendo anche
riguardo alla condizione dei luoghi.
Nell’applicare
questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della
produzione con le ragioni della proprietà.
Può tenere
conto della priorità di un determinato uso.
(Art. 844
c.c.).
Nel definire
le immissioni, che sono attività o stati di fatto esterni al fondo, la dottrina
è concorde nel ritenere che esse devono essere contraddistinte dall’aspetto
materiale e continuo del fatto lesivo.
Le
immissioni sono propagazioni di fattori disturbanti causate dall’opera
dell’uomo.
Esse hanno
per oggetto tutte le entità idonee a recare molestia, come fumo, calore, gas,
odori, rumori, scuotimenti ed altri simili elementi, quali la polvere e i raggi
Rontgen
(Massimo
Bianca 1999, 231).
L’immissione
deve avere un carattere materiale. Essa deve produrre conseguenze fisicamente
misurabili sul fondo vicino, come, ad esempio, il fatto che siano presenti
radiazioni nocive all’organismo.
Non
rientrano nell’ambito del concetto di immissioni quei fatti o quelle opere che
causano limitazioni nella veduta o che provocano sottrazione di luce o aria al
fondo del vicino; esse trovano tutela nell’art. 833 o negli artt. 873 ss. c.c.
Né rientrano
nel concetto di immissioni le cosiddette immissioni morali, come, ad esempio,
quelle causate dalla vicinanza di locali adibiti a spettacoli pornografici, che
trovano altro tipo di tutela nella legge penale.
Dalla
disciplina del codice civile si ricava che le immissioni sono di tre tipi:
tollerabili, intollerabili, ma ammissibili e intollerabili.
Le
immissioni tollerabili sono ammesse in quanto, pur recando un disturbo al
vicino, non superano i parametri fissati dall’uso o dal legislatore: contro di
esse non vi è tutela e devono essere accettate dal confinante
Sono
intollerabili ma ammissibili le immissioni che, pur superando la soglia della
normale tollerabilità, possono essere consentite dal giudice attraverso una
verifica che porti alla conclusione che esse sono sopportabili nel caso
concreto, salvo la corresponsione di un indennizzo per il diminuito valore del
fondo.
Le
immissioni intollerabili devono essere sospese e il danno prodotto deve essere
risarcito.
Le
immissioni che comportano un facere in alienum.
Le
immissioni disciplinate dall’art. 844 c.c. devono essere caratterizzate da un
attività mediata o indiretta i cui effetti si producono sul fondo che si
ritiene danneggiato.
Diversamente
le immissioni che comportano un facere in alienum ossia un attività
diretta del soggetto attivo dell’immissione non trovano collocazione nella
fattispecie dell’art. 844 c.c.
Nel caso in
cui l’immissione sia oggetto di una attività del titolare del fondo confinante
che determina il realizzarsi di un fatto illecito nei confronti del vicino non
si ha alcuna ragione per considerare se tale attività rientri nella normale
tollerabilità ma essa concretizza un fatto illecito che deve trovare tutela con
la normali azioni a difesa della proprietà o del possesso.
La
disposizione dell'art. 844 c.c., che consente al proprietario del fondo di
impedire le immissioni di fumo, calore, rumori, scuotimenti e simili
propagazioni provenienti dal fondo del vicino, che superino la normale
tollerabilità, si riferisce a quei fenomeni collaterali a legittime attività
umane, di norma produttive, che si propagano da un fondo ad un altro con mezzi
naturali e non è, pertanto, applicabile per la caduta di massi e pietre
provenienti da un fondo utilizzato per la discarica di materiale, in relazione
alla quale non vi è un generico dovere di sopportazione entro i limiti della
tollerabilità.
Nel caso di
specie la Corte ha affermato che la discarica di materiale pietroso, non
essendo questo per sua natura nociva o pericolosa, non rientra tra le attività
considerate dall'art. 890 c.c.
(Cass. civ.,
sez. III, 16 giugno 1992 n. 7411, GCM, 1992, fasc. 6).
Diversa è
l’ipotesi un cui l’attività umana provochi una immissione solo come causa
indiretta dell’attività dell’uomo.
In tal caso
trova disciplina la norma sulle immissioni e si dove valutare se il fatto
superi a soglia della norma le tollerabilità.
Sebbene
l'art. 844 c.c. contenga un elenco esemplificativo delle immissioni
suscettibili di divieto, posto che, in esso, dopo la espressa menzione di
alcune di tali immissioni, seguono le parole "e simili propagazioni",
tuttavia il carattere eccezionale dei limiti posti all'estrinsecazione del
diritto di proprietà fa sì che la tassatività sussista nel genus se non
nella specie.
Pertanto,
considerando sia le caratteristiche delle immissioni espressamente menzionate,
sia la necessità che si tratti di propagazioni, sia, infine, la ratio
della norma, il suo dettato è passibile di applicazione, per interpretazione
estensiva, a ipotesi che presentino i requisiti: della materialità
dell'immissione, e cioè necessità che essa cada sotto i sensi dell'uomo ovvero
influisca oggettivamente sul suo organismo, ad esempio, radiazioni nocive, o su
apparecchiature, ad esempio, correnti elettriche ed onde elettromagnetiche; del
carattere indiretto o mediato dell'immissione, nel senso che essa non consista in un facere in alienum, ma costituisca
ripercussione di fatti compiuti direttamente o indirettamente dall'uomo, nel
fondo da cui si propaga; dell'attualità di una situazione di intollerabilità,
non semplice pericolo di essa, derivante da una continuità, o almeno
periodicità, anche se non ad intervalli regolari, dell'immissione.
Tali
requisiti ricorrono nel caso di infiltrazione d'acqua nel fondo altrui,
prodotta dall'assidua irrigazione del fondo proprio, coltivato a marcita.
(Cass. civ.,
sez. II, 6 marzo 1979 n. 1404, GCM, 1979, fasc. 3).
Sotto il
profilo soggettivo della responsabilità l’immissione può essere contestata al
possessore del fondo solo se l’attività è imputabile a quest’ultimo.
In caso
contrario qualora siano altri i soggetti che causano una attività dannosa per
il proprietario confinante solo questi possono essere i soggetti passivi
dell’azione da intentarsi dal soggetto colpito dagli effetti dannosi dovuti al
comportamento di questi ultimi.
Si tratta
però di fattispecie diverse da quelle regolate dall’art. 844 c.c., poiché è
evidente che si tratta di un facere in alienum da parte peraltro di
soggetti che non hanno alcun rapporto con la titolarità del fondo confinante il
cui proprietario non può essere imputato per l’attività di terzi di cui non
abbia la diretta responsabilità.
Coerentemente
con questa impostazione la dottrina e la giurisprudenza hanno escluso
l’applicazione dell’art. 844 c.c. sia nell’ipotesi di ragazzi che, giocando a
calcio in un fondo, abbiano scavalcato il muro di cinta per recuperare il
pallone sia nell’ipotesi di clienti di un locale che abbiano invaso il fondo
confinante dell’attore (Maugeri 1999, 43).
Parimenti è
stata esclusa l’applicazione dell’art. 844 c.c. nell’ipotesi di sconfinamento
in un fondo privato di cinghiali selvatici ceh non siano sotto la proprietà o
il controllo di alcun soggetto pubblico o privato.
In tema di
responsabilità per illecito, per l'affermazione dell'an debeatur
va accertata la sussistenza della colpa, la quale, in senso tecnico giuridico,
consiste in un comportamento cosciente dell'agente che, senza volontà di
arrecare danno ad altri, sia causa di un evento lesivo per negligenza,
imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di regole o norme di condotta;
mentre la prevedibilità o imprevedibilità del danno rileva solo riguardo al quantum
debeatur, poiché in materia contrattuale è risarcibile solo il danno
prevedibile (art. 1225 c.c.), mentre in materia extracontrattuale va risarcito
anche il danno imprevedibile, dato che l'art. 2056 c.c. sulla determinazione
del risarcimento in tale campo, non richiama l'art. 1225 c.c.
Affinché una
condotta omissiva possa essere assunta come fonte di responsabilità per danni
non basta il riconoscimento di una generica antidoverosità sociale nella
condotta del soggetto che non abbia impedito il fatto dannoso, ma occorre
l'individuazione a suo carico di un vero e proprio obbligo giuridico di
impedire l'evento lamentato (argomenta dall'art. 40 c.p.), obbligo che può derivare o direttamente da una norma ovvero da
uno specifico rapporto intercorrente tra il titolare dell'interesse leso ed il
soggetto chiamato a rispondere della lesione e deve essere accertato caso per
caso.
Nella
specie, in applicazione dell'enunciato principio è stata ritenuta corretta la
pronuncia di merito che aveva escluso l'esistenza di una responsabilità per
condotta omissiva da parte dell'Azienda di Stato per le foreste demaniali per i
danni causati da cinghiali, per il fatto che tale azienda non aveva alcun
obbligo di impedire che i cinghiali penetrassero nelle foreste demaniali, né
che ne uscissero
(Cass. civ.,
sez. III, 28 aprile 1979 n. 2488, GA, 1980, 225).
La normale
tollerabilità e la condizione dei luoghi.
Secondo
l’interpretazione giurisprudenziale, l’accertamento sulla normalità
dell’immissione non può essere basato su criteri generali di ordine statistico
o matematico, ma deve considerare la situazione complessiva della zona in cui è
ubicato il fondo.
In tema di
immissioni, l'accertamento delle cause che determinano immissioni moleste nel
fondo altrui non influisce sul giudizio di tollerabilità delle stesse, da
effettuarsi, secondo i criteri all'uopo indicati dall'art. 844 c.c., cui è
estraneo il criterio della colpa.
Pertanto,
una volta accertata l'esistenza della propagazione molesta e stabilito, secondo
i criteri dettati dall'art. 844 c.c., il suo grado di tollerabilità,
l'individuazione delle cause può servire soltanto per stabilire le eventuali
misure da adottare per la sua eliminazione
(Cass. civ.,
sez. II, 3 novembre 2000, n. 14353, GCM, 2000, 2246).
Per quanto
riguarda, ad esempio, le immissioni di rumore, una soglia di tollerabilità
generale non esiste, ma bisogna definirla caso per caso, tenendo come punto di
riferimento il rumore di fondo già presente nella zona in rapporto alla sua
destinazione urbanistica.
E’ certo che
una zona industriale è soggetta ad una soglia di tollerabilità superiore a
quella prevista in una zona residenziale.
Le
immissioni di rumore vengono valutate come intollerabili se influiscono sul
rumore di fondo con una certa percentuale.
Per
stabilire se le immissioni - nella specie rumori, fumo ed esalazioni
provenienti da un opificio di panificazione che si propagano dall'immobile del
vicino su quello altrui superano la normale tollerabilità occorre avere
riguardo alla destinazione della zona ove sono situati gli immobili, perché se
è prevalentemente abitativa, il contemperamento delle ragioni della proprietà
con quelle della produzione deve esser effettuato dando prevalenza alle
esigenze personali di vita del proprietario dell'immobile adibito ad abitazione
rispetto alle utilità economiche derivanti dall'esercizio di attività
produttive o commerciali nell'immobile del vicino
(Cass. civ.,
sez. II, 18 aprile 2001, n. 5697, GCM, 2001, 817).
Il concetto
di tollerabilità, del resto, riguarda sostanzialmente la destinazione economica
del fondo.
L’interpretazione
giurisprudenziale afferma però che, nella valutazione delle conseguenze delle
immissioni, anche se va tenuto conto dello stato del fisico e della psiche
delle persone colpite, è importante dar rilievo alla reattività dell’uomo
medio, prescindendo dalle condizioni che riguardano i soggetti interessati.
Il giudizio
di normale tollerabilità operato dalla giurisprudenza dominante si risolve, in
definitiva, nella valutazione dell’incidenza economica della lesione apportata
dalle immissioni, comparando la destinazione del fondo che la subisce con il godimento
fondiario tipico di una zona determinata. Assume quindi un ruolo assorbente il
riferimento, del resto contenuto nella norma medesima, alla condizione dei
luoghi
(Salvi 1988,
4).
La
condizione dei luoghi deve essere valutata, secondo la giurisprudenza, sotto il
profilo sociale, vale a dire con riferimento alle caratteristiche che le
derivano dalle attività che abitualmente vi sono svolte e dal tipo di vita e
dalle abitudini della gente che vi vive e vi lavora.
L’indice di
tollerabilità delle immissioni in zone destinate in tutto o in parte ad
attività industriali, di conseguenza, deve essere molto più elevato di quello
stabilito in località considerate rurali o in un quartiere cittadino.
Il limite di
tollerabilità deve essere verificato per ogni singola fattispecie essendo
demandato il relativo giudizio al giudice di merito.
Le
disposizioni contenute nell'art. 844 c.c. da una parte, e nel d.p.c.m. 28 marzo
1983, che fissa i limiti massimi di accettabilità delle concentrazioni e di
esposizione relativi ad inquinanti dell'aria
nell'ambiente
esterno, dall'altra, hanno finalità e campi di applicazione distinti, essendo
l'una posta a presidio del diritto di proprietà, perseguendo l'altra la tutela
igienico - sanitaria delle persone o comunità esposte.
Ne consegue
che, in caso di controversia attinente alla tutela della proprietà immobiliare
dalle immissioni, il giudice di merito, cui è rimessa la relativa indagine,
tenuto conto, in concreto, della condizione dei luoghi ed, eventualmente, anche
delle esigenze della produzione, da contemperare con quelle della proprietà,
può ritenere che le immissioni superino il limite della normale tollerabilità
nonostante il mancato superamento dei limiti massimi di inquinamento
atmosferico fissati dal d.p.c.m. 28 marzo 1983.
(Cass. civ.,
sez. II, 6 giugno 2000, n. 7545, RGE, 2000, I, 1086).
Ai fini
dell'applicazione del criterio relativo della normale tollerabilità delle
immissioni, si deve ritenere precluso il ricorso ai rigidi parametri fissati da
leggi speciali regolanti determinate attività produttive, dovendosi, piuttosto,
avere riguardo alle condizioni dei luoghi, al contesto sociale e produttivo nel
quale si svolge l'attività che si assume lesiva e all'entità degli interessi in
conflitto.
Nella
specie, la Cassazione ha confermato la decisione di appello, in cui il
riferimento ai limiti di tollerabilità fissati dalla legislazione speciale
antinquinamento - il d.p.r. n. 203 del 1988, in materia di qualità dell'aria -
era stato utilizzato al solo fine di porre in rilievo il divario tra questi
ultimi e i dati relativi alla concreta situazione oggettiva.
(Cass. civ.,
sez. II, 11 novembre 1997, n. 11118, GI, 1998, 1810).
Nel caso di
rumore generato dalla presenza di animali la normale tollerabilità viene
accertata mediante controlli sul posto che, necessariamente, sono condizionati
dal sopralluogo effettuato.
Non
sussistono immissioni intollerabili nell'abbaiare di due cani qualora il fatto,
accertato mediante consulenza tecnica, sia stato preceduto da opportune
stimolazioni degli animali che - malgrado la presenza di estranei in ora notturna
nei pressi della proprietà a cui erano stati preposti come custodi - non
abbiano ritenuto di dover mostrare alcun inequivoco segno di disapprovazione,
ivi compresi quelli rumorosi.
L'eccessiva
intensità dei rumori rilevata deve essere considerata, avuto riguardo alle
circostanze di tempo, di luogo e di persone, come un fatto normale, prevedibile
e, tutto sommato, pienamente giustificato.
La normativa
in tema di immissioni è applicabile anche per la protezione dei valori
personali, allorché si verifichi la lesione di talune forme di proprietà come
quella del luogo di abitazione, che comprendono anche il valore della salute
come benessere psicofisico, fermo restando che grava su chi agisce l'onere di
provare il danno subito
(Trib.
Perugia, 7 febbraio 1998, RGU, 1999, 373 nota Zuddas).
Per le
attività pericolose la verifica dei danni provocati dalle
immissioni è
stata ritenuta preventiva rispetto all'azione prevista dall’art. 890 c.c. per
la verifica della congruità delle distanze che devono essere tenute dal
confine.
Per
stabilire se l'installazione di una caldaia a gas metano per il riscaldamento
domestico provoca danni alla proprietà vicina, deve applicarsi la disciplina
prevista dall'art. 890 c.c., per l'insita potenziale pericolosità e nocività
del combustibile, e pertanto, soprattutto se l'impianto è difforme dalla
normativa di cui alla l. 6 dicembre 1971, n. 1083, occorre prima escludere che
vi sia pericolo per la salubrità e sicurezza della proprietà altrui.
E’ doveroso,
quindi, accertare, ai sensi dell'art. 844 c.c., se le immissioni provenienti
dal relativo tubo di scarico arrechino disagi o molestie intollerabili.
(Cass. civ.,
sez. II, 1 agosto 1997, n. 7143, RGE, 1998, I, 299).
La priorità
d’uso.
Il giudice
nell’applicare la normativa sulle immissioni può tenere conto, ex art. 844, 2°
co., c.c. della priorità di un determinato uso.
La normativa
è secondo la dottrina posta a garanzia della stabilità dei valori dei fondi
ponendo rilievo al fatto che le mutate condizioni di una zona comportino che le
immissioni prima tollerabili cessino di esserlo per i suoi abitanti.
Si può fare
l’esempio di immissioni prima tollerabili in una zona industriale cessino di
esserlo perché la zona, per effetto di cambiamento di destinazione urbanistica
venga considerata residenziale.
Le modifiche
e gli incrementi di valore di una zona o di un singolo fondo che subisce
l’immissione non debbono necessariamente riflettersi su chi abbia fatto
affidamento sull’esercizio in un primo momento lecito del proprio fondo
(Maugeri
1999, 237).
Si deve,
invece, escludere la possibilità di utilizzare il criterio della priorità nel
caso in cui le immissioni siano intollerabili sin dall’inizio, poiché in tal
caso il principio renderebbe lecita una attività che è da considerarsi illecita
ab origine.
La
giurisprudenza ha fatto una scarsissima utilizzazione del criterio in questione
ritenendo che lo stesso sia superato sia dall’accertamento della normale
tollerabilità compiuto dal giudice e da fatto che il normale mutamento delle
condizioni degli impianti da cui provengono le immissioni lo pongono a non
avere alcun rilievo ai fini della decisione.
In materia
di immissioni dannose il criterio del preuso cui fa riferimento l'art. 844
comma 2 c.c. ha carattere sussidiario e facoltativo, sicché il giudice del
merito nella valutazione della normale tollerabilità delle immissioni, non è
tenuto a farvi ricorso quando, in base agli opportuni accertamenti di fatto, e
secondo il suo apprezzamento, incensurabile se adeguatamente motivato, ritenga
superata la soglia di tollerabilità.
Nella specie
si tratta della tollerabilità di immissioni di natura olfattiva
(Cass. civ.,
sez. II, 10 gennaio 1996, n. 161, RGE, 1996, I, 494).
Il criterio
prevalente rimane per la giurisprudenza quello della situazione oggettiva rilevata
la momento della contestazione.
Il criterio
del preuso, secondo il dettato dell'art. 844, 2° co., c.c. ha carattere
facoltativo e sussidiario. In ogni caso, la priorità di uso va considerata
nella sua obiettività, cioè con riferimento ai fondi o all'organizzazione e
produzione industriale nei loro reciproci rapporti, e non già in relazione al
momento dell'acquisto della proprietà o della titolarità d'impresa da parte dei
soggetti tra i quali è sorta controversia
(App.
Catania, 14 gennaio 1992, NGCC, 1992, I, 888, nota Maugeri).
La
costituzione delle servitù di immissione per usucapione e per destinazione del
padre di famiglia.
La
giurisprudenza ha escluso la possibilità di costituire delle servitù di
immissione per usucapione o per destinazione del padre di famiglia
Non è
configurabile l'acquisto della servitù di immissione né per usucapione né per
destinazione del padre di famiglia in quanto:
a) se
l’immissione rientra, a norma dell’art. 844 c.c., nei limiti della liceità, si
è fuori dall’ipotesi della servitù rientrando l’immissione nell’ambito delle
facoltà di chi ne è autore;
b) se
l’immissione fuoriesce dai limiti della liceità - come avviene nel caso di
immissioni eccedente la normale tollerabilità – non è possibile acquistare per
usucapione l’esercizio di facoltà che la legge non consente.
Per ragioni
analoghe è, altresì, giuridicamente non configurabile l’acquisto della servitù
di immissione per destinazione del padre di famiglia
(App.
Catania, 14 gennaio 1992, NGCC, 1992, I, 888, nota Maugeri).
La dottrina
contesta la tesi sostenuta dalla giurisprudenza.
In primo
luogo si afferma che la giurisprudenza in tema di immissioni ritiene lecite le
immissioni superiori alla normale tollerabilità, ma rispondenti alle esigenze
della industria che vengono sottoposte al pagamento di un indennizzo e possono
continuare ad esercitarsi (Maugeri 1999, 249).
Viene poi
fatto notare che le argomentazioni giuridiche non appaiono fondate dal momento
che tutte le servitù consistono nel potere di esercitare delle facoltà che
altrimenti sono vietate dalla legge; mentre l’art. 1061 c.c. prevede che le
servitù apparenti possono acquistarsi per usucapione (Salvi 1979, 283).
Il limite
alla costituzione delle servitù può ravvisarsi nella normativa regolamentare
che fissi dei limiti a garanzia del pubblico interesse che evidentemente non
può essere derogato da accordi delle parti.
La dottrina
prevalente, quindi, ammette la derogabilità dell’art. 844 c.c. sia nel senso di
rendere possibile una immissione superiore alla normale tollerabilità sia nel
senso inverso di concordare in sede pattizia un limite più basso di quello
previsto per legge e ritenere possibile la costituzione volontaria di servitù
di immissioni i limiti sono quelli previsti dall’art. 1061 c.c.
Può dirsi
che tale servitù possa essere usucapita o costituita per destinazione del padre
di famiglia in quanto riesca a dimostrare che possono ricorrere dei casi in cui
tali servitù siano corredate da opere visibili e permanenti destinate al loro
esercizio
(Maugeri
1999, 249).
I
regolamenti che fissano standard di tollerabilità in materia di rumore. Effetti.
I
regolamenti ministeriali che fissano in determinate situazioni soglie di
tollerabilità - come, ad esempio, qualora di debbano disciplinare le attività
rumorose - creano solo parametri oggettivi che, nel caso concreto, non limitano
l’accertamento del giudice tendente a valutare il superamento della normale
tollerabilità.
Ciò risponde
al principio generale secondo il quale le autorizzazioni escludono solo
l’esistenza di interessi generali tali da giustificare l’impedimento totale o
parziale di una certa attività, ma non escludono la sussistenza di motivi
ostativi di carattere privato ed è per questo che vengono rilasciate con la
clausola di salvezza dei dritti dei terzi.
Parte della
dottrina ha sostenuto che la giurisprudenza, pur non attribuendo rilevanza
l’autorizzazione sul piano della valutazione della normale tollerabilità, ha
attribuito a questa il ruolo di porre una presunzione di utilità della attività
svolta in relazione a quanto autorizzato.
Essa ha,
pertanto, negato la possibilità di emettere provvedimenti inibitori contro
attività autorizzate, consentendo ai vicini solo le azioni relative al
risarcimento del danno (Salvi 1979, 135).
Altra dottrina,
invece, ritiene possibile l’emanazione di provvedimenti inibitori anche in
presenza di provvedimenti della pubblica amministrazione, poiché l’attività
assentita non può svolgersi in contrasto con i principi fissati dalla normativa
civilistica (Maugeri 1999, 118).
La
giurisprudenza ha, conseguentemente, distinto quelli che sono i criteri
pubblicistici che dichiarano legittime le immissioni per un determinato settore
e il limite di tollerabilità delle stesse immissioni a norma dell’art. 844 c.c.
I criteri
fissati dal d.p.c.m. 1 marzo 1991 sono relativi in quanto determinano un limite
massimo che è dato dalla differenza tra il livello equivalente del rumore
ambientale e quello del rumore residuo.
Esso è
fissato in 5 dB (A) durante il periodo diurno e in 3 dB (A)durante il periodo
diurno.
La misura
deve essere effettuata, ex art. 2, d.p.c.m. 1 marzo 1991,
Posto che il
criterio più idoneo a fornire la misura dell'effettiva incidenza del rumore
sulla salute è quello c.d. dell'eccedenza rispetto al rumore di fondo, va
ordinato - in via d'urgenza - ai resistenti di astenersi dal compiere
immissioni acustiche superiori alla normale tollerabilità.
Nella
specie, il limite massimo è stato fissata in 26 dB, vale a dire 3 dB al di
sopra del rumore di fondo, avendo il giudice ritenuto inapplicabile il d.p.c.m.
1 marzo 1991 - che assume come parametro di confronto il c.d. rumore
equivalente - in quanto illegittimo
(Pret. Monza
19 luglio 1991, RCP, 1991, 904).
I criteri di
cui all’art. 844 c.c. non ricevono infatti alcuna deroga ad opera del d.p.c.m.
1 marzo 1991, poiché le due normative tutelano interessi diversi.
Il d.p.c.m.
1 marzo 1991 il quale fissa le modalità di rilevamento dei rumori al pari dei
regolamenti comunali limitativi dell'attività rumorosa, essendo rivolto alla
tutela della quiete pubblica, riguarda soltanto i rapporti fra l'esercente
l'attività rumorosa e la collettività in cui esso opera, creando a suo carico
precisi obblighi verso gli enti preposti alla vigilanza.
Le
disposizioni in esso contenute non escludono, pertanto, l'applicabilità
dell'art. 844 c.c. nei rapporti fra i proprietari dei fondi vicini e richiede
l'accertamento, caso per caso, della liceità o illiceità delle immissioni
(Cass. civ.,
sez. II, 13 settembre 2000, n. 12080, RGE, 2000, I, 1053).
Nel caso
concreto in cui si verifichi una turbativa per effetto delle immissioni, il
mancato superamento degli indici fissati dal regolamento non esclude di per sé
la possibilità di richiedere un accertamento che verifichi nella fattispecie
l’insorgenza di un effettivo disturbo.
Le leggi e i
regolamenti che disciplinano le attività produttive, segnatamente i regolamenti
comunali che limitano quelle rumorose, hanno carattere pubblicistico e operano
nei rapporti tra i privati e le pubbliche amministrazioni, non essendo
richiamate dall'art. 844 c.c., che detta la disciplina delle immissioni, che,
ai sensi della ricordata norma del codice civile, va verificata tenendo
presente anche, ma non solo, la condizione giuridica dei luoghi
(Cass. civ.,
sez. II, 12 febbraio 2000, n. 1565, RGE, 2000, I, 570).
I
regolamenti limitativi delle attività rumorose, essendo rivolti alla tutela
della quiete pubblica, riguardano soltanto i rapporti fra l'esercente di una
delle suddette attività e la collettività in cui esso opera, creando a carico
del primo precisi obblighi verso gli enti preposti alla vigilanza.
Tali
disposizioni, però, non escludono l'applicabilità né dell'art. 844 c.c., né
degli altri principi che tutelano la salute nei rapporti interprivati che
richiedono l'accertamento caso per caso della tollerabilità o meno delle
immissioni di rumori e della loro concreta lesività per il riposo e la quiete
di ogni soggetto interessato
(Cass. civ.,
sez. III, 3 febbraio 1999, n. 915, GI, 2000, 510 nota Greca)
La
previsione dell'art. 844 c.c. è tesa non tanto a proteggere la proprietà in
senso difensivo, quanto a tutelarne il diritto di piena utilizzazione e di
massima espansione.
Ai fini
dell'individuazione della normale tollerabilità non può essere utilizzato il
quadro normativo esistente, rappresentato, ad esempio, in tema di inquinamento
acustico dalla l. 26 ottobre 1995, n. 447 e dal d.p.c.m. 1 marzo 1991.
Il criterio
utilizzato dal giudice per accertare, nel caso concreto, il limite di
sopportabilità delle immissioni sonore è quello della rumorosità di fondo, cioè
del plafond di rumore costante sul quale si inseriscono quelli prodotti
dalle fonti delle immissioni ritenute intollerabili.
Le norme che
disciplinano in via generale i livelli di accettabilità delle immissioni
sonore, in quanto mirano ad assicurare alla collettività il rispetto di livelli
minimi di quiete, perseguono finalità di interesse pubblico e sono, quindi,
destinate a regolare i rapporti fra i privati e la p.a., e non già i rapporti
di natura patrimoniale tra i privati, alla cui disciplina è destinato l'art.
844 c.c.
Pertanto,
anche se le immissioni non superano i limiti fissati dalle norme di interesse
generale, il giudizio sulla loro tollerabilità, ai sensi dell'art. 844 c.c., va
effettuato ugualmente e con riferimento alla situazione concreta
(Cass. civ.,
sez. II, 2 giugno 1999, n. 5398, RGE, 1999, I, 960. Trib. Perugia, 8
novembre 1997, RGA, 1998, 125).
I
regolamenti che fissano standard di tollerabilità in materia di inquinamento
atmosferico. Effetti.
La legge
antismog 615/1966 è stata sostituita dal d.p.r. 24.5.1988, n. 203, che reca
norme in materia della qualità dell’aria in rapporto all’inquinamento, e
dall’atto di indirizzo per la sua attuazione, approvato con d.p.c.m. 21.7.1989
(Centofanti 2001, 177).
Il d.p.r.
24.5.1988, n. 203, all’art. 1, assume un concetto ampio di inquinamento
atmosferico, con la conseguenza della sottoposizione alla suddetta disciplina
normativa di tutte le attività degli impianti destinati alla produzione, al
commercio, all'artigianato, ai servizi da cui derivi anche soltanto uno degli
effetti contemplati, come l’alterazione delle normali condizioni ambientali,
l’alterazione della salubrità, un pericolo o un danno alla salute,
l’alterazione di risorse biologiche ed ecoesistenti, la compromissione di usi
legittimi da parte di terzi.
Per aversi
inquinamento atmosferico non è necessario il pericolo di danno alla salute
dell'uomo, per la presenza di sostanze inquinanti o tossiche o nocive, ma è
sufficiente che l'alterazione dell'atmosfera incida negativamente sui beni
naturali o anche semplicemente sull'uso di essi
(Cass. pen., sez. I, 7.6.1996, RP, 1996, 1097).
Con d.m. 12
luglio 1990 sono state introdotte le linee guida per il contenimento delle
immissioni inquinanti degli impianti industriali ed i valori minimi e massimi
di emissione.
La complessa
normativa è stata valuta dalla giurisprudenza in rapporto alla disciplina
dettata dall’art. 844 c.c.
La
giurisprudenza ritiene che devono essere valutate autonomamente le immissioni
provenienti da attività conformi alla disciplina relativa all’inquinamento
atmosferico poiché le due discipline hanno fini diversi: quella civilistica è
volta a tutelare la proprietà, quella pubblicistica, invece, è diretta a
tutelare la salute dei cittadini
L’intervento
del giudice è, quindi ammesso al fine di verificare se nel caso concreto vi sia
un danno al fondo che le subisce.
In tal caso
l’attore deve essere risarcito secondo i principi della responsabilità
aquiliana.
In caso di
effetti pregiudizievoli subiti da immobili siti in prossimità di uno stabilimento
a causa delle immissioni di polveri provenienti da questo, possono essere
ritenute intollerabili ai sensi dell'art. 844 c.c. anche le immissioni che non
superino i limiti fissati dalla l. 13 luglio 1966, n. 615, sull'inquinamento
atmosferico
(App.
Napoli, 14 maggio 1992, AL, 1993, 311. Trib. Napoli 15 febbraio 1988,
Rass. dir. civ., 1990, 902. Trib. Napoli 22 febbraio 1983, DG, 1983,
354. Trib. Vigevano 3 novembre 1981, FI, 1982, I, 2650. Cass. civ., sez.
II, 18 agosto 1981, n. 4937).
Data la
diversità degli oggetti tutelati dall'art. 844 c.c. e dalla legge contro
l'inquinamento atmosferico n. 615 del 13 luglio 1966, norme destinate
rispettivamente alla salvaguardia della proprietà l'una e dell'ambiente nel
complesso l'altra, non è incompatibile che un medesimo comportamento risulti
illecito ai sensi della prima per quanto non lesivo dei limiti legali
determinati dalla seconda
La l. 13
luglio 1966, n. 615, recante provvedimento contro l'inquinamento atmosferico,
disciplina comportamenti i quali prescindono da qualsiasi collegamento con la
proprietà fondiaria, e vengono presi in considerazione in sé e per sé,
nell'interesse collettivo alla salvaguardia della salute in generale, e non per
stabilire, caso per caso, i limiti di equilibrio nell'utilizzazione della
proprietà fondiaria.
Ne consegue
che in materia di conflitti tra fondi vicini i comportamenti dannosi che non
rientrano nella previsione della disciplina delle immissioni, di cui all'art.
844 c.p.c., possono trovare la loro sanzione in quella dell'illecito aquiliano,
nella quale acquistano rilievo tutti gli elementi di prevedibilità concreta che
impongono di risarcire il danno derivante dal proprio comportamento colposo, ma
non nella disciplina della citata legge antinquinamento, che ha una diversa
sfera di operatività.
(Cass. civ.,
sez. II, 28 marzo 1980, n. 2062, FI, 1980, I, 2191).
Concordemente
la dottrina ritiene mantiene fermo il giudizio di separazione dei due sistemi
che formano gli oggetti delle due normative (Maugeri 1999, 160).
Le
disposizioni contenute nell'art. 844 c.c. per un verso e nella l. 13 luglio
1966, n. 615, nonché nel regolamento approvato con d.p.r. 15 aprile 1971, n.
322, per un altro, tutelano oggetti diversi ed hanno distinti campi di
applicazione, essendo destinate, rispettivamente, a proteggere l'una la
proprietà, l'altra la salute pubblica dai pericoli derivanti dall'inquinamento
atmosferico.
Pertanto, è
da escludersi che le disposizioni della legge n. 615 del 1966 contro
l'inquinamento atmosferico debbano necessariamente trovare applicazione nel
caso di controversia concernente la tutela della proprietà immobiliare da
immissioni eccedenti la normale tollerabilità.
(Cass. civ.,
sez. II, 1 febbraio 1993, n. 1226, FI, 1993, I, 1452).
La norma di
cui all'art. 844 c.c. e la l. 615 del 1966 contro l'inquinamento atmosferico
tutelano oggetti diversi essendo destinati, rispettivamente, alla salvaguardia
della proprietà fondiaria l'una, e alla tutela della salute pubblica l'altra,
talché non è inconcepibile che il medesimo comportamento risulti illecito ai
sensi della prima e non in violazione della seconda.
(Cass. civ.,
sez. III, 20 dicembre 1990, n. 12091).
Altro
problema è quello di considerare intollerabili d inammissibili le immissioni
che superano i limiti ministeriali con la conseguenza di considerare in tal
caso i provvedimenti inibitori ovvero considerare le immissioni intollerabili
ma ammissibili disponendo, quindi, il risarcimento ma consentendo lo svolgersi
dell’attività che le immissioni provocano.
La giurisprudenza
sembra orientata su questo secondo indirizzo.
In tema di
immissioni in alienum, il criterio posto dall'art. 844, 2° co., c.c. del
contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà
non implica che nelle zone a prevalente vocazione industriale debbano
considerarsi lecite e tollerabili, per il solo fatto della destinazione
dell'area interessata al fenomeno immissivo, tutte le immissioni prodotte
dall'esercizio delle industrie, ma può rilevare in funzione dell'individuazione
del contenuto della sanzione da applicare.
E’
attribuito al giudice il potere di astenersi, nella riconosciuta preminenza dell'interesse
delle imprese, dall'adozione di misure inibitorie e di far luogo invece a
statuizioni che con il sacrificio della piena tutela della proprietà,
consentano la prosecuzione dell'attività industriale inquinante, dietro il
pagamento di un congruo indennizzo.
Nella specie
la S.C. ha confermato la decisione di merito la quale riscontrata
l'intollerabilità di propagazioni di pulviscolo minerale prodotte da uno
stabilimento industriale e nella ritenuta inopportunità di statuizioni intese
ad inibirne la prosecuzione, aveva attribuito ai proprietari di fondi contigui
indennità destinate a compensare il sacrificio derivante ai loro diritti
dominicali dalla prosecuzione del fenomeno immissivo
(Cass. civ.,
sez. II, 1 febbraio 1993, n. 1226, FI, 1993, I, 1452).
Le
disposizioni contenute nell'art. 844 c.c. da una parte, e nel d.p.c.m. 28 marzo
1983, che fissa i limiti massimi di accettabilità delle concentrazioni e di
esposizione relativi ad inquinanti dell'aria nell'ambiente esterno, dall'altra,
hanno finalità e campi di applicazione distinti, essendo l'una posta a presidio
del diritto di proprietà, perseguendo l'altra la tutela igienico - sanitaria
delle persone o comunità esposte.
Ne consegue
che, in caso di controversia attinente alla tutela della proprietà immobiliare
dalle immissioni, il giudice di merito, cui è rimessa la relativa indagine,
tenuto conto, in concreto, della condizione dei luoghi ed, eventualmente, anche
delle esigenze della produzione, da contemperare con quelle della proprietà,
può ritenere che le immissioni superino il limite della normale tollerabilità
nonostante il mancato superamento dei limiti massimi di inquinamento
atmosferico fissati dal citato d.p.c.m.
(Cass. civ.,
sez. II, 6 giugno 2000, n. 7545, RGE, 2000, I, 1086).
Altro
indirizzo giurisprudenziale ammette il ricorso a provvedimenti inibitori.
Le
disposizioni della l. 13 luglio 1966, n. 615, contenente provvedimenti contro
l'inquinamento atmosferico disciplinano comportamenti che prescindono da
qualsiasi collegamento con la proprietà fondiaria e che vengono presi in
considerazione in sé e per sé nell'interesse collettivo alla salvaguardia della
salute in generale e non per stabilire i limiti di equilibrio nella
utilizzazione di tale proprietà, che rimangono affidati alla disciplina delle
immissioni, ex art. 844 c.c., senza trovare sanzione nella detta legge avente
una diversa portata e sfera di applicazione.
Pertanto, in
materia di conflitti tra fondi vicini, il comportamento dannoso del
proprietario di uno di essi - quale emissione di fumo prodotto da combustione
dalla finestra di un locale adibito a panificio - pur essendo contrario alle
dette norme contro l'inquinamento atmosferico, non attribuisce ex se al
proprietario di un appartamento nell'edificio in condominio con il primo il
diritto di chiederne l'eliminazione, se non nel caso in cui egli dimostri che
l'emissione di fumo nel suo appartamento supera il limite della normale
tollerabilità ai sensi dell'art. 844 c.c.
(Cass. civ.,
sez. II, 16 marzo 1988 n. 2470, RCP, 1990, 159).
La dottrina
considera l’azione esperita dal proprietario del fondo danneggiato per
conseguire l’eliminazione delle cause delle immissioni rientri tra le azioni
negatorie, di natura reale, a tutela della proprietà, perché essa è volta a
fare accettare in via definitiva l’illegittimità delle immissioni e ad ottenere
il compimento delle modifiche strutturali del bene indispensabili per farle
cessare, e che l’azione inibitoria, ex art. 844 c.c., può essere esperita dal
soggetto leso per ottenere la cessazione delle esalazioni nocive alla salute,
salvo il cumulo con l'azione per la responsabilità aquiliana, prevista
dall’art. 2043 c.c., oltre che colla domanda di risarcimento del danno in forma
specifica, ex art. 2058 c.c. (Pardolesi 1977, I, 1144).
la domanda
di indennizzo per il diminuito valore del fondo a causa delle immissioni
eccedenti la normale tollerabilità è del tutto diversa da quella di
risarcimento dei danni derivanti dalle stesse immissioni, poiché, mentre la
prima, fondata sull'art. 844 c.c., ha natura reale e mira al conseguimento di
un indennizzo da attività lecita, che compensi il pregiudizio subito dal fondo
a causa delle immissioni, la seconda, fondata sull'art. 2043 c.c., ha natura
personale, essendo volta a risarcire il proprietario del fondo vicino dei danni
arrecatigli dalle immissioni, sotto tale profilo considerato come fatto
illecito
(Cass. civ.,
sez. II, 6 giugno 2000, n. 7545, RGE, 2000, I, 1086. Cass. civ., Sez.
U., 15 ottobre 1998, n. 10186).
La dottrina
osserva come i giudici non motivano alcun modo la loro scelta di agganciare o
meno l’intollerabilità alla violazione degli standard (Maugeri 1999, 169).
Diversamente
l’azione penale non può essere lasciata alla discrezionalità del giudice e nel
caso di emissioni che siano astrattamente idonee ad arrecare fastidio no può
configurasi il reato previsto dall'art. 674 c.p. se no sono stati superati i
limiti imposti dalla legge.
Ai fini
della configurabilità del reato previsto dalla seconda parte dell'art. 674 c.p.
- che punisce l’emissione di gas, vapori o fumi atti a molestare le persone -
l'espressione "nei casi non consentiti dalla legge" costituisce una
precisa indicazione circa la necessità che tale emissione avvenga in violazione
delle norme che regolano l'inquinamento atmosferico, nella specie, del d.p.r.
n. 203 del 1988.
Ne consegue
che, poiché la legge contiene una sorta di presunzione di legittimità delle
emissioni di fumi, vapori o gas che non superino la soglia fissata dalle leggi
speciali in materia, ai fini dell'affermazione di responsabilità per il reato
indicato non basta l'affermazione che le emissioni stesse siano astrattamente
idonee ad arrecare fastidio, ma è indispensabile la puntuale e specifica
dimostrazione che esse superino gli standard fissati dalla legge - nel quale
caso il reato previsto dall'art. 674 c.p. concorre con quello eventualmente
previsto dalla legge speciale.
Quando, pur
essendo le emissioni contenute nei limiti di legge, abbiano arrecato e
arrechino concretamente fastidio alle persone, superando la normale
tollerabilità, si applicheranno le norme di carattere civilistico contenute
nell'art. 844 c.c.
Fattispecie
concernente l'emissione di fumo dagli impianti di un oleificio.
(Cass. pen.,
sez. I, 16 giugno 2000, n. 8094, CED, 2000).
Le
immissioni derivanti da un’attività tollerabile. I criteri tecnici di riduzione.
Le
immissioni che derivano da una attività tollerabile devono essere sopportate
dal confinante.
Egli ha
l’onere, se ritiene che la normale tollerabilità sia superata, di ricorrere
alla magistratura perché disponga un giudizio di accertamento per definire se
il limite è stato violato.
La dottrina
si chiede se nel giudizio di tollerabilità possano avere influenza i rimedi
tecnici adottati dal confinante per ridurre, prima della richiesta del vicino,
il danno proveniente dalle immissioni.
Ossia se il
proprietario che ha adottato gli accorgimenti tecnici possibili per ridurre al
massimo gli effetti provenienti dalle immissioni sia da considerarsi in regola
ovvero se il giudizio del magistrato debba tenere conto dei risultati oggettivi
provenienti dalla domanda dell’attore e dalla perizia disposta dal consulente
tecnico di ufficio (Maugeri 1999, 93).
Ragionando
al contrario ci si chiede se il giudizio del giudice debba essere improntato a
maggior rigore qualora le immissioni possano essere eliminate mediante
accorgimenti tecnici normali, adottabili senza grave sacrificio per
l’emittente.
La
giurisprudenza esclude che la tollerabilità debba essere valutata con minore rigore
nel caso in cui tutte le misure siano state adottate.
I rimedi
adottati sono rilevanti, ai fini del giudizio di tollerabilità, solo se
raggiungo l’effetto di ricondurre le emissioni a valori accettabili.
La
possibilità di eliminare o di ridurre le immissioni con l’adozione di idonei
accorgimenti tecnici può influire nella valutazione della tollerabilità delle
immissioni stesse, nel senso di fare considerare intollerabile ciò che può
essere eliminato senza soverchio sacrificio e con mezzi normali; ma ciò non
consente di affermare, in via di illazione, ceh possano valutarsi con minor
rigore quelle immissioni rispetto alle quali ogni rimedio sia stato adottato e
si sia rilevato, o non possa che rilevarsi, inutile
(Cass. civ.,
sez. II, 10 ottobre 1975, n. 3241, RGI, 1975, 1452).
La dottrina
peraltro considera non significativo l’orientamento giurisprudenziale che
riconosce importanza al fatto che l’immissione posa essere evitata con bassi
costi.
Nel caso in
cui ciò non sia stato fatto, la valutazione della responsabilità dell’agente è
stata considerata maggiore in sede di giudizio (Maugeri 1999, 93).
L’orientamento
giurisprudenziale prevalente considera che le immissioni che derivano da
un’attività collegata alle esigenze di produzione e che siano eliminabili solo
con misure tecniche eccessivamente onerose sono lecite, anche se risultano
essere superiori alla normale tollerabilità.
Il
proprietario del fondo che le patisce ha diritto ad un’indennità che viene
valutata in relazione al diminuito valore della proprietà.
La dottrina
ha criticato l’interpretazione data dalla giurisprudenza all’art. 844, 2° co.,
c.c. poiché essa viene considerata eccessivamente favorevole alle attività
produttive, sotto un duplice aspetto.
Viene
anzitutto contestato il fondamento normativo, dato che manca nell’art. 844 c.c.
un’esplicita disposizione in tale senso.
La suddetta
legge, infatti, sembra non lasciare nessuna alternativa fra le immissioni
ritenute inferiori al livello di normale tollerabilità - che viene determinato
anche tenendo presente le esigenze di produzione - che sono considerate lecite,
e le immissioni così dette intollerabili, che sono ritenute illecite e che,
oltre a provocare il risarcimento del danno, devono essere vietate.
Secondo tale
interpretazione, però, risultano essere maggiormente tutelate le attività
immissive prodotte da imprese industriali poiché, vista l’importanza che hanno
le esigenze di produzione nel giudizio di tollerabilità, difficilmente esse
vengono dichiarate illecite.
I
proprietari danneggiati, pertanto, sarebbero privati anche della tutela del
risarcimento avendo diritto sola alla corresponsione di una indennità per la
perdita di valore del fondo.
In tema di
immissioni in alienum, il criterio posto dall'art. 844, 2° co., c.c. del
contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà
non implica che nelle zone a prevalente vocazione industriale debbano
considerarsi lecite e tollerabili, per il solo fatto della destinazione
dell'area interessata al fenomeno immissivo, tutte le immissioni prodotte
dall'esercizio delle industrie, ma può rilevare in funzione dell'individuazione
del contenuto della sanzione da applicare nel senso cioè di attribuire al
giudice il potere di astenersi, nella riconosciuta preminenza dell'interesse
delle imprese, dall'adozione di misure inibitorie e di far luogo invece a
statuizioni che, con il sacrificio della piena tutela della proprietà,
consentano la prosecuzione dell'attività industriale inquinante, dietro il
pagamento di un congruo indennizzo.
Nella specie
la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito la quale, riscontrata
l'intollerabilità di propagazioni di pulviscolo minerale prodotte da uno
stabilimento industriale e nella ritenuta inopportunità di statuizioni intese
ad inibirne la prosecuzione, aveva attribuito ai proprietari di fondi contigui
indennità destinate a compensare il sacrificio derivante ai loro diritti
dominicali dalla prosecuzione del fenomeno immissivo
(Cass. civ.,
sez. II, 1 febbraio 1993, n. 1226, FI, 1993, I, 1452).
La dottrina
inquadra la fattispecie fra i casi di responsabilità civile e, in particolare,
in quello della responsabilità oggettiva per rischio d’impresa. Secondo la
normativa presa in esame non si consente la creazione di un rischio, ma la
formazione di un danno, certo e duraturo e, di conseguenza, viene limitata la
tutela accordata a chi lo subisce, rispetto a quella risultante dall’art. 844,
1° co., c.c.
Il
fondamento su cui si basa l’attribuzione dell’indennità va quindi individuato
nei principi regolatori della proprietà e non in quelli della responsabilità
civile, in quanto va cercato nel collegamento fra limitazione del diritto e
rispondenza dell’attività immissiva all’interesse generale (Salvi 1979, 249).
Sono
importanti le suddette considerazioni, in particolare, ai fini della
determinazione del quantum dell’indennità e della legittimazione attiva
e passiva.
Le
immissioni intollerabili ma ammissibili. Il contemperamento fra esigenze della produzione e ragioni della
società.
La
giurisprudenza, per valutare se immissioni eccedenti la normale tollerabilità
siano tuttavia lecite, dietro corresponsione di un’indennità, segue un duplice
criterio. In primo luogo il paragonare gli usi dei due fondi sotto il profilo
della rispondenza alle esigenze della produzione; in secondo luogo il
considerare se è possibile adottare misure tecniche che riducano l’entità delle
immissioni.
L’attività
industriale è, in via di principio, ritenuta prevalente su forme non produttive
di godimento immobiliare.
In tema di
immissioni in alienum, il criterio del contemperamento delle esigenze
della produzione con le ragioni della proprietà, posto dall'art. 844, 2° co.,
c.c., non implica che, nelle zone a prevalente vocazione industriale, debbano
necessariamente considerarsi lecite e tollerabili, per il solo fatto della
destinazione urbanistica data dalla competente p.a. all'area interessata dal
fenomeno, le immissioni di qualsiasi natura ed entità determinate dall'attività
produttiva, ma implica solo che, nella riconosciuta preminenza dell'interesse
collettivo, in termini di prodotto e di occupazione, alla prosecuzione
dell'attività immissiva, possa essere effettuata una valutazione comparativa
degli interessi dedotti in giudizio ai fini della determinazione del contenuto
della sanzione da applicare.
Ciò si
realizza con l'attribuire al giudice, una volta che abbia riconosciuto
l'esigenza del mantenimento dell'attività produttiva, il potere di astenersi
dall'adozione di misure inibitorie, e di far luogo, invece, a statuizioni che,
pur con il sacrificio della piena tutela della proprietà individuale,
consentano la prosecuzione dell'attività immissiva dietro pagamento di un
congruo indennizzo, sempre che detta attività rimanga nei limiti della normale
tollerabilità, configurandosi come dannosa, ma lecita.
Ove, invece,
tali limiti siano superati, si è in presenza di un'attività illegittima,
traducentesi in fatti illeciti generatori di danno risarcibile, ex art. 2043
c.c.
(Cass. civ.,
sez. II, 29 novembre 1999, n. 13334, GCM, 1999, 2394).
Quando,
invece, sul fondo viene svolta un’attività agricola la valutazione cambia,
perché anche tale destinazione è considerata rispondente in via di principio
alle esigenze della produzione.
Si deve procedere,
in tale ipotesi, ad una valutazione comparativa fra le due utilizzazioni,
seguendo il criterio della tutela dell’interesse della collettività.
Tale
interesse, d’altronde, viene identificato con la produzione di maggiore valore
e, talvolta, anche con il mantenimento dell’occupazione operaia, di conseguenza
l’attività industriale risulta quasi sempre predominante su quella agricola.
Una volta
formulato il giudizio di prevalenza, viene valutata la possibilità di
utilizzare misure tecniche adeguate per ridurre le immissioni nocive al limite
di tollerabilità.
In questa
fase, oltre ad accertare che esistano tecnologie idonee, si deve esprimere
anche una valutazione economico finanziaria, di modo che l’eventuale adozione
delle suddette misure tecniche non venga ad incidere in maniera eccessiva sui
costi, così da danneggiare la produzione industriale (Salvi 1988, 5).
La dottrina
ritiene che il contemperamento tra le esigenze della produzione e le ragioni
della proprietà possa esplicare una funzione di utilità sociale; esso deve
essere opportunamente razionalizzato, basando interamente il giudizio sulla
relazione fra il costo della eliminazione o della riduzione delle immissioni e
il nocumento da esse portato alle proprietà vicine (Trimarchi 1961, 347).
In questo
modo sarebbe possibile, infatti, sia risarcire il proprietario cui si è imposto
di sopportare le immissioni che lo danneggiano sia costringere l’azienda che
causa le immissioni nocive a riportare nei costi d’impresa le attività
antieconomiche esterne da essa provocate.
Altra
dottrina preferisce basare questo giudizio di contemperamento sui parametri
adottati dalla legge o dai regolamenti che delineano quantomeno oggettivamente
dei limiti, salvo, sul caso concreto, il giudizio del giudice ordinario.
Anche
prescindendo dalle difficoltà di effettuare, in sede di giudizio civile,
un’analisi tecnicamente valida del rapporto fra costi e i benefici delle
diverse soluzioni prospettabili, si può tuttavia osservare che una valutazione
in termini puramente economici non sembra esaustiva della comparazione di
interessi necessaria in sede di applicazione della norma. Questa, infatti,
postula comunque la risoluzione del conflitto interprivato mediante il ricorso
a criteri metaindividuali di comparazione degli interessi confliggenti.
Ma né
l’interesse all’incremento della produzione, né quello alla minimizzazione dei
costi sociali appaiono, isolatamente considerati, sufficienti a fondare il
giudizio di contemperamento; non si può infatti ritenere che in essi si esaurisca
la ‘utilità sociale’, come parametro costituzionale di valutazione delle
situazioni soggettive patrimoniali, ai sensi degli artt. 41 e 42 Cost.
Si può
piuttosto prospettare un ricorso agli standard massimi di emissione di
sostanze inquinanti previsti dalla legislazione di settore (cfr. ad es. la l.
n. 615/1966, il d.p.r. n. 322/1971, e, soprattutto, l’art. 4, l. n. 833/1978;
nonché le direttive CEE in materia di impatto ambientale), come fonti di
integrazione del giudizio di contemperamento, quanto meno nel senso di ritenere
comunque suscettibili di inibizione giudiziale le immissioni che eccedano quei
livelli, qualora naturalmente superino nel fondo la soglia di tollerabilità
(Salvi 1988,
5).
La
determinazione dell’ammontare dell’indennità.
L’attività
immissiva considerata lecita può proseguire, sempre che non superi il criterio
della normale tollerabilità.
In tal caso,
il soggetto che crea il disturbo deve effettuare il pagamento di un congruo
indennizzo.
L’attività
deve rimanere nei limiti della normale tollerabilità; essa, quindi, pur
configurandosi come attività dannosa per il confinante, viene considerata
lecita dall’ordinamento che, tuttavia, subordina il suo esercizio
all’indennizzo.
In tema di
immissioni, con riferimento alle zone a prevalente vocazione industriale, il
giudice, una volta che abbia riconosciuto l'esigenza del mantenimento
dell'attività produttiva, può astenersi dall'adozione di misure inibitorie, e
far luogo, invece, a statuizioni che, pur con il sacrificio della piena tutela
della proprietà individuale, consentano la prosecuzione dell'attività immissiva
dietro il pagamento di un congruo indennizzo, sempre che detta attività rimanga
nei limiti della normale tollerabilità, configurandosi come dannosa, ma lecita;
ove, invece, tali limiti siano stati superati, si è in presenza di illegittima
attività, che si traduce in fatti illeciti generatori di danno risarcibile, ex
art. 2043 c.c.
(Cass. civ.,
sez. II, 29 novembre 1999, n. 13334, GC, 2000, I, 339 nota Triola, DR,
2000, 636, nota Laghezza, RCP, 2000, 1364, nota Acerbis).
Per quanto
riguarda la determinazione dell’ammontare dell’indennità essa non si può né
ricondurre ad un generico principio di equità né all’applicazione integrale dei
principi nell’ambito del risarcimento del danno, ma solamente deve essere
riferita alla struttura e alla funzione della fattispecie.
L’indennità,
secondo l’interpretazione giurisprudenziale, va quantificata in base alla
differenza fra il reddito che il fondo avrebbe se le immissioni fossero
contenute in un limite di tollerabilità considerato normale e quello
corrispondente alla diminuzione di valore che il fondo ha subito.
Viene
considerata, a questo scopo, la destinazione effettiva della proprietà e non il
suo effettivo valore di scambio che, ad esempio, in caso di un mutamento di
destinazione, potrebbe essere maggiore, anche se tale criterio sembra essere
molto restrittivo.
La dottrina
esclude dal pagamento dell’indennità i danni diversi da quelli collegati al
godimento del fondo, come i danni alla persona che sono infatti oggetto di una
tutela autonoma.
L’inadeguatezza
della regola giurisprudenziale concerne però la mancata protezione di interessi
pur sempre riconducibili al godimento fondiario, ma diversi dalla rendita di
posizione: e in particolare di quelli connessi a un’attività imprenditoriale
anche del proprietario (derivante dall’utilizzazione del fondo per l’esercizio
di un’impresa agraria, turistica, ricreativa); nonché di quelli propri di
soggetti, diversi dal proprietario, titolari di un diritto di godimento sul
fondo altrui. Si può auspicare pertanto l’introduzione di parametri più
aggiornati, desumibli, con gli opportuni adattamenti, dalla legislazione di
settore (in materia di espropriazione e di affitto di immobili urbani ed
agrari), e dalle disposizioni del codice sul risarcimento del danno, in
particolare gli artt. 1226, 1227, 2056, 2° co., c.c.
L’indennità,
inoltre, deve risarcire le conseguenze delle immissioni per tutto il tempo
della loro durata, così come si può prevedere, e quindi sia quelle antecedenti
la sentenza sia quelle che seguiranno - i così detti danni futuri
(Salvi 1988,
3).
Le
immissioni intollerabili. Il superamento del limite della normale tollerabilità.
Le
immissioni che superano ogni limite di possibile accettazione e che non sono
giustificate dalle esigenza della produzione si definiscono intollerabili e
devono essere vietate con l’ordine, dato dal giudice ordinario, di cessazione
dell’immissione.
La dottrina
afferma che più esattamente detto ordine ha ad oggetto la riconduzione delle
immissioni ad un livello che sia al di sotto della soglia della tollerabilità.
Le
propagazioni nel fondo del vicino che oltrepassino il limite della normale
tollerabilità costituiscono un fatto illecito perseguibile, in via cumulativa,
con l'azione diretta a farle cessare (avente carattere reale e natura
negatoria) e con quella intesa ad ottenere il risarcimento del pregiudizio che
ne sia derivato (di natura personale), a prescindere dalla circostanza che il
pregiudizio medesimo abbia assunto i connotati della temporaneità e non della
definitività
(Cass. civ.,
sez. II, 2 giugno 2000, n. 7420, RGE, 2000, I, 1087).
Questo
risultato può essere perseguito attraverso la cessazione della attività che
provoca il danno oppure attraverso l’adozione di accorgimenti tecnici idonei a
ridurre l’entità delle immissioni al livello della normale tollerabilità al
fine del raggiungimento della tutela del diritto costituzionale alla salute.
La tutela
del diritto alla salute di cui all'art. 32 cost. impone di ritenere
illegittime
non solo le immissioni idonee ad arrecare un concreto e dimostrabile danno alla
persona, ma anche quelle che possano provocare un mero turbamento del benessere
psicofisico, qualora siano di intensità tale da superare la normale
tollerabilità; le immissioni inferiori a tale limite, invece, sono da ritenersi
illegittime solo ove l'attore sia in grado di dimostrarne l'effettiva dannosità
nel caso concreto
(Pret.
Torino, 31 dicembre 1997, GI, 1999, 302).
La tutela
giurisdizionale. Competenza del giudice di pace.
La tutela
giurisdizionale delle immissioni si articola attraverso distinte azioni.
a) La prima
ha contenuto inibitorio ed è tesa a fare interrompere le immissioni attraverso
un provvedimento sospensivo della magistratura.
b) La
seconda consente al proprietario di domandare un indennizzo per il diminuito
valore del fondo.
c) La terza
consente al soggetto attivo dell’azione di essere risarcito per il tempo del
pregiudizio subito.
La
giurisdizione è del giudice ordinario trattandosi di dritti soggettivi.
Spetta al
giudice ordinario la cognizione della domanda diretta a far cessare il fatto
illecito, configurato dalle immissioni intollerabili, ed a conseguire il
risarcimento del danno, in quanto con essa si deduce la lesione di diritti
soggettivi, senza investire alcun provvedimento amministrativo.
Nella
specie, la S.C. ha ritenuto irrilevante la circostanza che l'autorità
amministrativa competente, nell'effettuare i controlli richiesti al fine del
rinnovo della licenza, non avesse ritenuto di imporre opere o vincoli al
proprietario immittente
(Cass. civ.,
Sez. U., 15 ottobre 1998, n. 10186, GC, 1999, I, 2411).
La
competenza è devoluta al giudice di pace.
4. (Il
giudice di pace) è competente qualunque ne sia il valore:
3) per le
cause relative ai rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a
civile abitazione in materia di immissioni di fumo o di calore, esalazioni,
rumori, scotimenti e simili propagazioni che superino al normale tollerabilità.
(Art. 7, 4°
co., n. 3, c.p.c.).
L’attribuzione
di competenza al giudice di pace in questa materia costituisce una innovazione
voluta dalla dottrina, che ha visto nel nuovo giudice di pace un organo da preporre
a difesa delle regole di civile tolleranza e convivenza, e da quanti hanno
osservato che proprio in ordine a queste problematiche l’elevato costo della
giustizia ha privato il cittadino della tutela giudiziaria (Bartolini 1996,
367).
Rientra
nella competenza per materia del giudice di pace, ai sensi del n. 3, 4° co.,
art. 7 c.p.c., la controversia concernente l'immissione di rumori intollerabili
- ex art. 844 c.c. - ancorché il sistema di aerazione che ne è causa riguardi
locali di edificio che, sito in zona abitativa urbana, non sia adibito ad
abitazione.
Nella specie
s'è ritenuto che l'uso non propriamente abitativo dell'immobile non osti alla
ravvisabilità della speciale competenza per materia del giudice di pace, ove
non si tratti di immissioni industriali o agricole, lontano dai centri urbani
(Giudice di
pace Canicatti, 4 dicembre 1997, GM, 1998, 414).
L'azione
negatoria o confessoria ovvero risarcitoria in tema di immissioni proposta
nella controversia tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile
abitazione rientra, in virtù dell'art. 7, 4° co., c.p.c., nella competenza per
materia del giudice di pace.
(Pret.
Monza, 8 luglio 1997, FI, 1997, I, 3446).
La
competenza del giudice di pace è tuttavia rimasta vincolata a precisi limiti di
individuazione: questa, infatti, concerne i proprietari e detentori, sia pure a
qualunque titolo, di immobili adibiti a civile abitazione.
Ne sono,
pertanto, escluse le utilizzazioni di immobili adibiti ad uso agricolo,
commerciale e industriale nonché le aziende.
La
limitazione si estende, quindi, al fenomeno delle immissioni industriali e al
traffico urbano che rientrano nella competenza del tribunale.
Appartengono
alla cognizione del Giudice di pace tutte le controversie originate da
immissioni eccedenti la normale tollerabilità - naturalmente sempre che vengano
in rilievo i rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti ad
abitazione - quale che sia l'oggetto della domanda e la natura dell'azione (a
difesa della proprietà, piuttosto che dei diritti della personalità spettanti
anche al semplice detentore dell'immobile in cui si verificano le immissioni),
a nulla rilevando che questa sia diretta ad ottenere un provvedimento di
carattere inibitorio, ex art. 844 c.c., piuttosto che la condanna al
risarcimento dei danni subiti a causa delle immissioni intollerabili, ex art.
2043 c.c.
(Trib.
Milano, 29 marzo 1999, Gmil, 2000, 203).
La domanda
diverge ha come obiettivo quello di accertare se l’immissione supera la normale
tollerabilità essa, quindi, diverge dalle azioni che affermano il mancato
rispetto della disciplina delle distanze.
Essa,
pertanto, non può essere proposta per la prima volta nel ricorso in appello.
E' nuova la
domanda di arretramento della fabbrica o deposito nocivi o pericolosi situati
sul fondo del vicino in violazione delle distanze indicate dall'art. 890 c.c.
rispetto a quella di cessazione per intollerabilità, ai sensi dell'art. 844
c.c., delle immissioni emananti dalle medesime, introduttiva del giudizio.
Per l'una
occorre accertare se l'installazione viola le distanze previste dai
regolamenti, o, in mancanza, quelle necessarie ad evitare qualsiasi danno alla
solidità, salubrità e sicurezza del fondo vicino; per l'altra se l'immissione
supera la normale tollerabilità, contemperando le esigenze della produzione con
le ragioni della proprietà ed eventualmente considerando la priorità dell'uso.
(Cass. civ.,
sez. II, 30 marzo 2001, n. 4712, GCM, 2001, 633).
La
giurisdizione ordinaria nei confronti di atti della pubblica amministrazione.
La giurisdizione amministrativa.
La dottrina
riconosce concordemente al giudice ordinario la competenza generale nelle cause
che riguardano diritti ed in cui sia parte la pubblica amministrazione (Satta
1997, 72).
La
giurisdizione ordinaria rimane qualora il soggetto che ha compiuto una
immissione dannosa sia una pubblica amministrazione.
Qualora il
provvedimento amministrativo leda diritti soggettivi la amministrazione può
essere condannata al risarcimento del danno arrecato.
La
giurisprudenza ha affermato che la pubblica amministrazione è soggetta ai
procedimenti esecutivi come qualsiasi altro debitore.
La tutela
risarcitoria dei proprietari a fronte di immissioni intollerabili opera anche
nei confronti delle attività istituzionali svolte dalla p.a.
La relativa
azione può essere proposta avanti al giudice ordinario, essendo coinvolto un
diritto soggettivo, non affievolito da atti di natura ablatoria e non
implicando interferenza sull'attività discrezionale dell'amministrazione, ma
solo il riscontro di un trasmodare dell'attività stessa in un gratuito
sacrificio della proprietà non consentito dall'ordinamento.
Per le
immissioni intollerabili causate da attività della p.a. va affermata la
responsabilità solidale della p.a. e del gestore del pubblico servizio, essendo
l'attività stessa imputabile sia all'amministrazione concedente, sia al
concessionario che si attenga alle modalità volute dall'ente e determinate
nell'atto di concessione.
Nella specie
si tratta di immissioni provenienti da una pubblica discarica gestita, dapprima tramite concessionario e
successivamente in modo diretto, da un comune
(Cass. civ.,
Sez. U., 10 dicembre 1984 n. 6476, RCP, 1985, 649).
La
competenza giurisdizionale del giudice ordinario, sulla domanda con la quale il
proprietario di un lago, ovvero il titolare di una azienda di piscicoltura ivi
esercitata, insorga contro atti e comportamenti della pubblica amministrazione,
lesivi di dette posizioni di diritto soggettivo, e non trovanti fondamento
nell'esercizio di un potere,discrezionale idoneo a degradare tale posizione in
meri interessi legittimi, non viene meno per il fatto che l'attore, oltre al
ristoro dei danni, abbia anche richiesto una pronuncia che implichi
annullamento, modifica o revoca di provvedimento amministrativo, ovvero abbia
funzione sostitutiva del medesimo, con condanna dell'amministrazione ad un facere.
Atteso che ciò implica solo il dovere di detto giudice, nel rispetto dei limiti
interni dei suoi poteri giurisdizionali, di astenersi dall'emanare l'indicata
pronuncia.
Nella specie
si tratta di scarichi e di immissioni inquinanti le acque
(Cass. civ.,
Sez. U., 26 gennaio 1979, n. 600, GCM, 1979, 270).
La
giurisdizione amministrativa è titolare delle controversie relative alle
censure ai provvedimenti amministrativi che possano avere attinenza con il
problema delle immissioni, come, ad esempio, se si deve valutare la legittimità
di un provvedimento che autorizza delle immissioni lesive.
E'
illegittima la revoca della licenza di esercizio di una discoteca, adattata dal
comune nell'esercizio di funzioni di polizia amministrativa di sua competenza,
contro le immissioni sonore, senza che nella procedura sia intervenuto il
prefetto
(T.A.R.
Abruzzi, sez. L'Aquila, 28 novembre 1979, n. 434, FI, 1981, III, 369).
La
legittimazione attiva.
Ai sensi
dell’ex art. 844 c.c., l’azione è compresa nella così detta tutela generica dei
diritti reali, nella quale rientrano le azioni inibitorie e di risarcimento, e
non nella tutela reale in senso stretto, ai sensi dell’art. 949, 1° co., c.c.
(Proto Pisani 1974, I, 434, ss.).
Il fatto di
essere proprietari del bene tutelato dalla legge coincide, in via di principio,
con la legittimazione attiva che, quindi, deve appartenere in modo immediato e
autonomo a tutti i titolari di diritti, reali e personali, di godimento del
fondo sottoposto alle immissioni, superando le ultime incertezze
nell’interpretazione giurisprudenziale.
L'azione
prevista dall'art. 844 c.c. per far cessare le immissioni provenienti dal fondo
vicino che eccedano la normale tollerabilità compete non solo al proprietario o
al titolare di un diritto reale di godimento che abbia il possesso del fondo
oggetto di immissione moleste, ma anche, analogicamente ex art. 12 preleggi, al
conduttore, ex art. 1585, 2° co., c.c., stante l'identità della ragione di
tutela sottesa alle due situazioni.
Quando,
peraltro, tale azione venga esercitata da chi sia titolare di un diritto
personale di godimento, non potendo avere natura reale, non è soggetta alle
norme sulla competenza di cui all'art. 15 c.p.c. ma, deve assimilarsi a quelle
di cui all'art. 14 c.p.c., con la conseguenza che in caso di contestazione da
parte del convenuto, del valore presuntivamente rientrante nella competenza del
giudice adito, ove non risultino elementi in base ai quali determinare il costo
dei lavori e delle opere occorrenti per eliminare le immissioni intollerabili,
la controversia va considerata di valore indeterminabile e, quindi, rientrante
ai sensi dell'art. 9, 2° co., c.p.c. nella competenza del tribunale.
(Cass. civ.,
sez. II, 21 febbraio 1994, n. 1653, GCM, 1994, 187).
La dottrina
sostiene, comunque, una interpretazione letterale della norma riducendo le
possibili estensioni della legittimazione attiva a soggetti non portatori di un
interesse rapportato alla tutela del fondo.
Non pare
invece che la legittimazione possa essere estesa a soggetti diversi,
individuali o collettivi; né che possa essere intesa come requisito strumentale
per il perseguimento dell’interesse generale alla tutela della salute o
dell’ambiente
(Salvi 1988,
6).
La tutela
accordata alla proprietà fondiaria viene definita dall’art. 844 c.c.; si può
poi estendere giustamente detta norma alla tutela di altri diritti di godimento
del fondo, sia reali che personali.
Tale
disposizione, invece, non si può applicare alla tutela di beni giuridici
profondamente diversi, come la salute o l’ambiente, in quanto essa risulterebbe
da un lato troppo debole dal punto di vista interpretativo, poiché contrasta in
modo evidente con il contenuto, la struttura e la funzione della legge proposta
del codice, dall’altro inutile dal punto di vista della politica del diritto.
E’ infatti
ammissibile la tutela civile della salute ed eventualmente dell’ambiente se è
fondata sull’interpretazione sistematica dell’art. 32, 1° co., cost.
Solo sulla
base delle norme costituzionali può quindi essere attribuita o negata, a
soggetti individuali o collettivi, la legittimazione ad agire in giudizio
civile contro episodi di inquinamento, a tutela della salute e dell’ambiente.
Il dettato
dell’art. 844, invece, non può essere assunto né per affermare né per negare
tale tutela né per definirne l’ambito e le modalità.
Il
proprietario fondiario può agire a tutela del suo diritto reale sul fondo, ai
sensi dell’ex art. 844, e a tutela del suo diritto alla salute, ai sensi
dell’ex art. 32 cost. e degli artt. 2043 e ss. c.c.; inoltre, per il
risarcimento dei danni alla persona che non sono compresi nell’indennità, ai
sensi dell’art. 844, 2° co., c.c.
Il
proprietario resta legittimato ad agire, per il tempo in cui ha subito il
danno, anche se nel corso del giudizio ha alienato il fondo
Nel caso di
immissioni moleste eccedenti la normale tollerabilità, di cui all'art. 844
c.c., l'alienazione del fondo, verificatasi nel corso del giudizio diretto ad
ottenere il risarcimento dei danni, non spiega alcuna influenza sulla
legittimazione dell'originario proprietario a proseguire tale giudizio, almeno
limitatamente ai danni prodotti all'immobile prima del suo trasferimento,
sempre che non risulti che sia stato ceduto all'acquirente anche il diritto di
credito al ristoro dei danni stessi.
(Cass. civ.,
sez. II, 29 novembre 1999, n. 13334, RCP, 2000, 1364, nota Acerbis).
I principi
costituzionali nell’ambito dell’iniziativa economica e della proprietà e i
principi definiti dalla nuova legislazione specifica del settore continuano a
svolgere il loro ruolo per quanto attiene la reinterpretazione dei criteri
previsti dall’art. 844 c.c.
Il soggetto
passivo.
Non
necessariamente il proprietario del fondo dal quale provengono le immissioni è
responsabile del pagamento dell’indennità per immissioni intollerabili, ma
lecite.
E’ il
titolare dell’attività che le causa, che è anche titolare dell’interesse –
considerato coincidente con l’interesse generale - per cui viene imposta la
corresponsione dell’indennizzo, che deve risarcire la lesione del diritto del fondo
vicino.
Il
litisconsorte necessario non è il proprietario del fondo immittente, ai sensi
dell’art. 102 c.p.c., dato che non è soggetto del rapporto (Salvi 1988, 7).
Egli ha
certamente un interesse per quanto riguarda la decisione sulla liceità delle immissioni,
dato che può essere avvantaggiato o danneggiato dall’esito del giudizio perché
esso condiziona i possibili modi di utilizzare il fondo, ma si tratta di un
interesse eventuale e indiretto.
Il
proprietario del fondo da cui provengono le molestie può tuttavia essere
chiamato in causa per altri fini: su richiesta del convenuto, ex art. 106,
c.p.c., e ai fini di cui all’art. 1585, 1° co., c.c.; oppure su richiesta dello
stesso proprietario, ex art. 105, 2° co., c.p.c.
Qualora poi
il detentore del fondo sul quale avviene l’attività che provoca le immissioni,
avendo pagato l’indennità, faccia rivalsa nei confronti del proprietario del
fondo stesso, la situazione deve essere valutata caso per caso sulla base del
contenuto del rapporto che giustifica la detenzione.
Il
legittimato passivo è il produttore dell’immissione che può anche non essere il
titolare dell’industria.
L'azione
diretta a far valere il divieto di immissioni eccedenti la normale
tollerabilità, ex art. 844 c.c., può essere esperita anche nei confronti
dell'autore materiale delle immissioni, che non sia proprietario dell'immobile
da cui derivano e, quindi, anche nei confronti del locatario di questo stesso
immobile, quando soltanto a costui debba essere imposto un facere o un non
facere, suscettibile di esecuzione forzata in caso di diniego.
(Cass. civ.,
sez. II, 1 dicembre 2000, n. 15392, GCM, 2000, 2533).
La
giurisprudenza ha ritenuto legittimato passivo l’esecutore dei lavori e non il
proprietario dell’immobile su cui questi venivano eseguiti.
Nel giudizio
cautelare iniziato per ottenere la cessazione o la riduzione nei limiti della
normale tollerabilità delle immissioni sonore prodotte da un cantiere edile, la
legittimazione passiva spetta all'autore materiale delle immissioni e non al
proprietario dell'immobile ove vengono svolti i lavori rumorosi.
(Trib. S.
Maria Capua Vetere, 25 novembre 1997, GIUS, 1998, 639).
La dottrina
configura il legittimato passivo come il titolare del dovere connesso alla
gestione dell’azienda.
L’obbligazione
è, dunque, reale e concerne la proprietà dell’azienda (De Martino, Resta e
Pugliese 1976, 212).
Essa vincola
il proprietario attuale e si trasmette con la cosa; in una eventuale cessione
sono solidamente obbligati il precedente proprietario ed il nuovo.
Nel caso di
immissioni industriali il legittimato passivo può fare valere la legittimità
delle immissioni se rientrano nei limiti di legge.
Nel
giudizio, il convenuto eccepirà, normalmente, di avere il ‘diritto’ di compiere
le immissioni, sulla base dei criteri fissati dalla norma. Ma tale ‘diritto’
non costituisce comunque una situazione giuridica autonoma e qualificata sul
fondo immesso (neppure in caso di applicazione del 2° co. dell’art. 844, non
essendo tale fattispecie interpretabile come costituzione di servitù coattiva),
bensì il riflesso della limitazione dell’ambito di tutela accordato al
proprietario di tale fondo
(Salvi 1988,
6).
Nell’accertamento
fatto in giudizio viene valutata la legittimità delle ingerenze e non
l’esistenza di un diritto del convenuto, che, al limite, può essere considerato
in modo superficiale e ininfluente.
L’autore del
fatto dannoso, secondo i principi normativi, è il legittimato passivo che è
obbligato al risarcimento del danno provocato da immissioni illecite.
E’ obbligato
al risarcimento il proprietario non detentore solo nel caso che il fatto
dannoso risulti a lui imputabile, ai sensi degli artt. 2043 ss, e non per il
mero fatto di aver concesso l’immobile.
L’azione
inibitoria.
Le
immissioni intollerabili possono essere impedite mediante un’azione tesa ad
ottenere una condanna che comporti la cessazione delle turbative (Bianca 1999,
247).
La dottrina,
per quanto riguarda le emissioni inquinanti, propone il rimedio inibitorio e
anche la giurisprudenza comincia a sostenere questa soluzione (Gambaro 1995,
525).
La funzione
di prevenzione può operare solo attraverso specifici ordini del giudice che
impongano a colui che ha creato una situazione di pericolo di astenersi da
certe condotte o di adottare determinate cautele.
La norma
sostanziale di riferimento sarà sempre il principio generale del neminem
ledere, ma esso per divenire operante in funzione preventiva necessita di
concretizzarsi in ordini che si attaglino a specifiche occasioni di pericolo.
Perciò i
rimedi preventivi non possono essere tipizzati in ipotesi rigide, ma si
sostanziano in un attribuzione di poteri al giudice di emanare gli ordini di
fare o di non fare in presenza di certi presupposti generali
(Gambaro
1995, 919).
La normativa
del resto impone dei limiti sempre più cogenti alle emissioni inquinanti e, di
conseguenza, alla maggior parte delle situazioni in cui si verificano emissioni
industriali viene applicato questo rimedio, dato che, se le immissioni
intollerabili derivano da emissioni proibite, il giudice non ha scelta.
L’inibizione
può riguardare solo l’emissione e non l’attività produttiva e, quindi, è troppo
generica l’espressione della dottrina che riferisce l’azione inibitoria alla
continuazione di una certa attività.
La parte in
causa, pertanto, può richiedere e il giudice può adottare il provvedimento
inibitorio purché sussista un pericolo di danno dipendente dal comportamento del
convenuto.
Quando si
domanda un provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c. a tutela del diritto alla
salute, il pregiudizio affermato è da considerarsi sempre irreparabile e
imminente.
(Pret.
Torino, 31 dicembre 1997, GI, 1999, 302).
La funzione
del provvedimento inibitorio sta nell’ordine di contenere le emissioni in una
certa misura adatta a far rientrare l’attività che la provoca nell’ambito di
quella che è considerata la normale tollerabilità.
E'
ammissibile la richiesta in via cautelare di inibitoria dell'attività
produttiva di rumori molesti qualora la violazione lamentata sia attuale,
dovendosi tutelare l'esigenza di un immediato venire meno delle fonti di
disturbo.
(Trib.
Perugia, 15 giugno 1999, RGU, 1999, 751).
L'azione
inibitoria ex art. 844 c.c. può essere esperita per conseguire la cessazione
delle esalazioni nocive alla salute, salvo, per l'ottenimento del risarcimento
del danno, il cumulo con l'azione per la responsabilità aquilana prevista
dall'art. 2043 c.c.
(Cass. civ.,
Sez. U., 15 ottobre 1998, n. 10186, RGA, 1999, 500 nota De Cesaris. App.
Venezia, 31 maggio 1985, GI, 1987, I, 2, 493).
E’ colui che
provoca le emissioni nocive che deve scegliere se continuare l’attività
produttiva dopo aver adottato gli idonei accorgimenti tecnici o cessarla per
evitare la spesa della loro adozione.
Le
disposizioni dell’art. 844 c.c. non permettono che il giudice censuri il fatto
che l’emittente eserciti un’attività anormale nel suo fondo, ma solamente che
egli blocchi, se del caso, immissioni inquinanti sul fondo altrui.
Il giudice
può naturalmente ordinare la cessazione dell’attività se l’imprenditore non
adotta gli opportuni accorgimenti e, quindi, continua a ripetere le emissioni
dannose.
L’accertamento
del giudice è relativo al caso concreto e può essere necessario anche se le
immissioni risultano essere contenute entro i parametri fissati dai regolamenti
che le disciplinano.
Rientra
nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda diretta ad ottenere
l'esecuzione di opere idonee ad eliminare le immissioni, in quanto la parte
agisce a tutela dei diritti soggettivi lesi dalle immissioni, senza investire
alcun provvedimento amministrativo.
Nel caso di
specie la S.C. ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario in un caso
in cui erano state ordinate opere di insonorizzazione per evitare immissioni di
rumore, benché fosse stata rinnovata la licenza al locale officina e l'USSL non
avesse riscontrato alcuna anomalia.
(Cass. civ.,
Sez. U., 15 ottobre 1998, n. 10186, GCM, 1998, 2086).
I giudici,
per quanto riguarda gli accorgimenti tecnici che devono essere imposti
all’emittente perché cessino le immissioni intollerabili, utilizzano spesso
nelle loro pronunce le indicazioni fornite dai consulenti tecnici d’ufficio.
Sembra più
logico, invece, che il giudice si limiti ad ordinare nella sua inibitoria che
il fenomeno dell’immissione nociva venga eliminato o ridotto nei termini
consentiti, lasciando l’individuazione degli accorgimenti tecnici necessari
alla libera scelta dell’emittente.
L'azione
diretta a far cessare le immissioni rumorose intollerabili e nocive alla salute
rientra nello schema delle azioni negatorie di natura reale e può cumularsi con
l'azione diretta a conseguire il risarcimento del danno subito, anche in forma
specifica
(Cass. civ.,
Sez. U., 15 ottobre 1998, n. 10186, FI, 1999, I, 922).
Le
immissioni costituiscono molestie del possesso e, pertanto, il possessore del
fondo può agire con l’azione, ex art. 1170 c.c., che ha come obiettivo quello
di farle cessare (Bianca 1999, 858).
La molestia,
causata dall’immissione, ostacola e rende più gravoso il possesso. Essa non
priva, dunque, a differenza dello spoglio, il possessore del godimento del
bene, ma ne turba l’esercizio.
In tal caso
la molestia si estrinseca in una attività che è necessariamente materiale.
La
cessazione della molestia, anteriormente alla proposizione dell’azione, fa
venire meno il presupposto della stessa.
La molestia
deve esser esaurita e non presentare alcun pericolo concreto ed attuale di
manifestarsi ulteriormente.
In tal caso
all’attore resta l’azione risarcitoria per il periodo del perdurare
dell’immissione dannosa.
Il
provvedimento, adottato ai sensi dell'art. 700 c.p.c., di inibizione a un
circolo ricreativo allo svolgimento di attività comportanti una rumorosità
superiore a una determinata soglia (nella specie tre decibel) è da ritenere
dato sia per la tutela del diritto alla salute della parte istante, sia per la
tutela del suo diritto, in qualità di proprietario e possessore di appartamento
contiguo, a escludere o limitare le immissioni provenienti dal circolo
medesimo, a norma dell'art. 844 c.c.
(Cass. pen.,
sez. I, 5 marzo 1998, n. 3769, CP, 1999, 2843).
In ogni caso
l’azione inibitoria non preclude la contestuale richiesta di risarcimento del
danno o del risarcimento in forma specifica.
L'azione
esperita dal proprietario del fondo danneggiato per conseguire l'eliminazione
delle cause di immissioni rientra tra le azioni negatorie, di natura reale, a
tutela della proprietà.
Essa è volta
a far accertare in via definitiva l'illegittimità delle immissioni e ad
ottenere il compimento delle modifiche strutturali del bene indispensabili per
farle cessare.
L'azione
inibitoria, ex art. 844 c.c. può essere esperita dal soggetto leso per
consentire la cessazione delle esalazioni nocive alla salute, salvo il cumulo
con l'azione per la responsabilità aquiliana prevista dall'art. 2043 c.c.
nonché con la domanda di risarcimento del danno in forma specifica, ex art.
2058 c.c.
(Cass. civ.,
Sez. U., 15 ottobre 1998, n. 10186, GCM, 1998, 2086).
La mancata
ottemperanza alla sentenza del giudice ordinario fa incorrere il soggetto
attivo dell’immissione nelle sanzioni disposte dalla legge penale.
Qualora,
sulla base dell'art. 844 c.c. che pone limiti alle immissioni di rumori dannose
provenienti dai fondi vicini, venga emessa ordinanza in via d'urgenza, ex art.
700 c.p.c., al fine di tutelare la salute e il diritto di proprietà o il
possesso dei vicini, la violazione di tale provvedimento integra il delitto
previsto dall'art. 388, 2° co., c.p. e non la contravvenzione di cui all'art.
650 stesso codice.
(Cass. pen.
sez. I, 5 marzo 1998, n. 3769, RP, 1998, 580).
La domanda
di indennizzo per il diminuito valore del fondo.
Nel riconoscere
l’indennizzo per il diminuito valore del fondo la giurisprudenza tuttavia si
basa sul fondamento normativo dei principi costituzionali nell’ambito della
proprietà privata e, in particolare, sul principio per cui se il contenuto del
diritto di proprietà subisce una sostanziale diminuzione, provocata da un atto
singolare, e quindi non per intere categorie di beni e nell’interesse generale,
il proprietario deve essere indennizzato.
Nell’ipotesi
considerata, infatti, l’indennità non svolge la funzione di integrare
economicamente il soggetto che ha subito l’intervento lesivo, ma di attribuire
un corrispettivo al titolare di un bene per le conseguenze derivanti dalla
limitazione del contenuto del suo diritto. Per questo la giurisprudenza esclude
che l’indennità possa configurarsi come risarcimento del danno, ex art. 2043
c.c.
(Salvi 1988,
2).
La domanda
di indennizzo per il diminuito valore del fondo a causa delle immissioni
eccedenti la normale tollerabilità è del tutto diversa da quella di
risarcimento dei danni derivanti dalle stesse immissioni.
La prima,
fondata sull'art. 844 c.c., ha natura reale e mira al conseguimento di un
indennizzo da attività lecita, che compensi il pregiudizio subito dal fondo a
causa delle immissioni.
La seconda,
fondata sull'art. 2043 c.c., ha natura personale, essendo volta a risarcire il
proprietario del fondo vicino dei danni arrecatigli dalle immissioni,
considerate, in tal caso, come fatto illecito.
Sotto il
profilo processuale le due azioni sono distinte e, pertanto, in sede di
appello, nel caso di presentazione di entrambe le richieste si devono osservare
i termini processuali per le relative impugnative
Ne consegue
che la statuizione, adottata dal giudice di primo grado, di rigetto della
domanda risarcitoria e di accoglimento di quella indennitaria, ed appellata dal
condannato, in difetto di appello incidentale in ordine al rigetto della prima,
deve ritenersi passata in giudicato su tale punto, sul quale, pertanto, il
giudice di appello non può più pronunciarsi.
(Cass. civ.,
sez. II, 6 giugno 2000, n. 7545, RGE, 2000, I, 1086).
La
giurisprudenza esclude che ci possa essere compensazione tra tale risarcimento
e l’avvenuto incremento del valore del fondo per l’insediamento industriale.
In ogni caso
è affermato dalla dottrina più autorevole che la rendita di posizione è semmai
acquisita per la conformazione della proprietà privata, effettuata con la
destinazione di zona attribuita dallo strumento urbanistico esistente, e non
per la realizzazione della singola opera attuativa del piano stesso (Gambaro
1995, 250).
La
cosiddetta compensatio lucri cum damno opera solo allorché a favore
della parte danneggiata si verifichi, oltre al pregiudizio, anche un incremento
patrimoniale che costituisca conseguenza immediata e diretta del comportamento
illecito che ha causato il pregiudizio stesso, e non quando, invece, il
vantaggio, del cui valore economico si chieda l'imputazione in conto al valore
economico del pregiudizio, derivi non da detto comportamento illecito, ma da
circostanze oggettive ad esso del tutto estranee.
Pertanto, è
da escludere che possa prendersi in considerazione, ai fini di una sua
detrazione dalla entità economica del danno prodotto da immissioni industriali,
l'eventuale maggior valore che l'immobile da queste interessato possa aver
acquisito per essersi venuto a trovare in zona di sviluppo industriale a
seguito dell'approvazione del locale piano regolatore.
(Cass. civ.,
sez. II, 29 novembre 1999, n. 13334, GCM, 1999, 2394).
La tutela
risarcitoria.
Chi ha subito
un danno ai beni o alla persona in conseguenza delle immissioni può richiedere
in via aggiuntiva o esclusiva il risarcimento del danno (Bianca 1999, 249).
Per potere
ottenere il risarcimento, il giudice di merito deve ritenere intollerabili le
immissioni e deve dare una adeguata motivazione del suo convincimento.
Secondo la
regola della responsabilità civile il danneggiato che ricorra in giudizio per
ottenere il risarcimento del danno deve dare la prova di quest’ultimo.
Non occorre
dare una prova specifica della colpa.
Essa risulta
presuntivamente dall’inosservanza degli standard necessari a salvaguardare il
diritto del vicino alla normale utilizzazione dell’immobile.
L'art. 844
c.c. impone, nei limiti della normale tollerabilità e dell'eventuale contemperamento
delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, l'obbligo di
sopportazione delle propagazioni inevitabili determinate dall'uso delle
proprietà attuato nel contesto delle norme generali e speciali che ne
disciplinano l'esercizio.
Al di fuori
di tali limiti, si è in presenza di un'attività illegittima, di fronte alla
quale non ha ragion d'essere l'imposizione di un sacrificio all'altrui diritto
di proprietà o di godimento e non sono quindi applicabili i criteri dettati
dall'art. 844 c.c. ma, venendo in considerazione, in tali ipotesi, unicamente
l'illecità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello
schema generale dell'azione di risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c. che può
essere proposta anche cumulativamente con l'azione ex art. 844 c.c.
(Cass. civ.,
sez. II, 6 dicembre 2000, n. 15509, GCM, 2000, 2558).
Certa
dottrina richiama la teoria della responsabilità oggettiva per il solo fatto di
esercitare un particolare tipo di attività imprenditoriale che provoca
situazioni potenzialmente dannose.
La
fattispecie di cui all’art. 844 c.c. concreta una ipotesi di responsabilità
oggettiva perché l’evento dannoso deriva da una attività imprenditoriale che
crea – inevitabilmente – un rischio per i vicini, rischio che deve riversarsi
sull’impresa.
(Alpa 1974,
I, 15).
Il richiamo
alla teoria della responsabilità oggettiva non è, però, accettato unanimemente
dalla dottrina, poiché il potere di impedire le immissioni intollerabili
rientra nei rimedi a tutela della proprietà, mentre il risarcimento del danno
attiene alla responsabilità aquiliana e presuppone di regola che il danno sia
imputabile a dolo o colpa del danneggiante.
Egli può
provare a sua discolpa, totale o parziale, che le immissioni sono state
provocate da un evento estraneo alla sua sfera di controllo (Massimo Bianca
1999, 249).
Il danno può
essere sia di tipo biologico sia anche morale.
Coloro che,
a causa di immissioni provenienti dal fondo del vicino e qualificabili come
illecite, in quanto eccedenti la normale tollerabilità ex art. 844 c.c.,
subiscono un danno, non necessariamente di carattere biologico, ma anche
semplicemente di tipo esistenziale, ossia un danno consistente in un turbamento
delle normali attività dell'individuo e della serenità personale cui ciascun
soggetto ha diritto, devono essere risarciti ai sensi dell'art. 2043 c.c.
(Trib.
Milano, 21 ottobre 1999, NGCC, 2000,I, 558 nota Morlotti).
La
sottoposizione ad immissioni acustiche eccedenti la normale tollerabilità
determina - a carico dei soggetti che le subiscono - una lesione della salute,
in quanto il fenomeno immissivo appare idoneo come tale, a provocare stress, fastidio,
esasperazione e tensione psicologica.
Ne consegue
che il danno biologico sarà risarcibile a prescindere dalla prova
dell'esistenza di patologie e dalla dimostrazione dell'avvenuto impedimento
delle manifestazioni e delle attività extralavorative non retribuite ordinarie
che esprimono la salute in senso fisio - psichico
In presenza
di immissioni sonore che superino il limite della normale tollerabilità vi è
lesione del bene salute nel momento stesso della realizzazione del fatto
illecito, con conseguente esonero del danneggiato dalla prova dell'esistenza di
patologie conseguenti alla lesione; pertanto la risarcibilità del danno
biologico deve essere collegata all'esistenza e alla sopportazione di
un'esposizione ad intollerabili e fortemente lesive immissioni acustiche,
idonee a compromettere le utilità della vita di relazione non godute
(Trib.
Milano, 25 giugno 1998, AL, 1998, 723).
E’
proponibile l’azione prevista dell'art. 46 della l. n. 2359/1865, ora sost.
dall’art. 44, d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327, qualora il danno derivi
dall’esecuzione di un’opera pubblica.
Le
immissioni provenienti da un'opera pubblica possono costituire ragioni di danno
indennizzabile ai sensi dell'art. 46 della l. n. 2359 del 1865 a condizione che
nei confronti della proprietà che le subisce costituiscano fattore di danno
particolare permanente, superiore alla normale tollerabilità
(Cass. civ.,
sez. I, 19 novembre 1999, n. 12853, GCM, 1999, 2302).
L’azione di
risoluzione del contratto per i vizi della cosa venduta.
La dottrina
e la giurisprudenza si sono poste il problema se sussista la garanzia per vizi
della cosa venduta nel caso di un bene immobile al costruttore o al
proprietario del quale sia noto il vizio dovuto alle immissioni di rumori,
provocati da difetti della costruzione dell’appartamento sovrastante.
La
giurisprudenza ritiene che sussista la garanzia per vizi qualora la cosa
venduta presenti difetti che la rendano inidonea all’uso cui è destinata o ne
diminuiscano in misura apprezzabile il valore, mentre eventuali profili di
colpa dell’alienante rilevano, ex art. 1424 c.c. ai soli eventuali fini
risarcitori.
Nel caso di
vendita di immobile soggetto a rumori derivanti da quello del vicino, il
venditore risponde della garanzia per i vizi della cosa venduta, senza che
rilevi il fatto che la sua responsabilità possa concorrere con quella del
vicino a titolo di immissioni
(Cass. civ.,
sez. II, 22 agosto 1998, n. 8338, FI, 1999, I, 188 nota Scoditti,
Pardolesi, NGCC 1999, I, 449 nota Carsana).
In tema di
compravendita, l'obbligazione di garanzia gravante sul venditore discende dal
fatto oggettivo del trasferimento di un bene affetto da vizi che lo rendano
inidoneo all'uso cui è destinato o ne diminuiscano in misura apprezzabile il
valore, mentre eventuali profili di colpa dell'alienante rilevano, ex art. 1424
c.c., ai soli, eventuali e diversi fini risarcitori.
Ne consegue
che, in caso di immissioni, eccedenti o meno la normale tollerabilità la
preesistenza del vizio rispetto alla conclusione del contratto di compravendita
rende responsabile il venditore per aver alienato un bene oggettivamente
affetto da un determinato difetto, senza che rilevi, in contrario, né la
astratta possibilità della coesistenza di tale profilo di responsabilità con
quello, concorrente ma a diverso titolo, del vicino, ai sensi dell'art. 844
c.c., né il mancato superamento della soglia di normale tollerabilità delle
immissioni, poiché il predetto limite è specificamente stabilito per la
proponibilità della sola azione, ex art. 844 c.c.
Nell'affermare
il principio di diritto esposto in massima, la S.C. ha cassato la sentenza del
giudice di merito - che aveva escluso la legittimazione passiva dell'alienante
attesa la estraneità del vizio alla res empta - disponendo che il
giudice del rinvio procedesse all'accertamento relativo alla concreta ed
apprezzabile diminuzione del valore dell'appartamento alienato per effetto del
vizio denunciato.
Nella specie
si tratta della rumorosità delle tubazioni del bagno sito nell'appartamento
immediatamente superiore a quello alienato
(Cass.
civile, sez. II, 22 agosto 1998, n. 8338, CG, 1998, 1155).
L’orientamento
giurisprudenziale risolve il problema adottando la soluzione favorevole
all’acquirente, in quanto ritiene sussistere la garanzia per vizi anche in
presenza della possibilità della coesistenza di tale profilo di responsabilità
del venditore con quello concorrente, ma a diverso titolo, del condomino.
Diversamente
,la Corte di Appello di Milano, la cui decisione è stata cassata (Cass. civile,
sez. II, 22 agosto 1998, n. 8338), ha escluso la legittimazione passiva
dell’alienante costruttore sulla base dell’estraneità del vizio alla cosa
oggetto di compravendita, in quanto la rumorosità non è insita
nell’appartamento venduto, ma proviene dalla sovrastante abitazione acquistata
da un terzo dal comune venditore costruttore.
La dottrina
nota come il limite della normale tollerabilità disposto dall’art. 844 c.c. in
tema di immissioni in caso dell’azione di garanzia perda i confini che gli sono
propri sicché il vizio è facilmente ravvisabile.
La diversità
ontologica tra le due azioni ha dato luogo a un affermazione pericolosa nel
senso che il mancato superamento della soglia d normale tollerabilità delle
immissioni, rileva per la proponibilità della sola azione ex art. 844 c.c., ma
non anche ai fini della garanzia per vizi, dove il predetto limite non sarebbe
specificatamente stabilito.
Il punto
debole della decisione è appunto la consistenza e il fastidio del rumore, non
continuo e non intollerabile, per il quale tuttavia l’originario
costruttore–venditore, solo perché a conoscenza del vizio, deve prestare
garanzia, ove il giudice del rinvio accerti la concreta ed apprezzabile
diminuzione di valore dell’appartamento alienato per effetto del vizio
denunciato
(Carbone
1998, 1157).
La dottrina
considera il vizio del bene venduto come un’imperfezione materiale,
un’alterazione patologica della cosa che incide sulla sua utilizzabilità o sul
suo valore e che, con riguardo alle opere, si ravvisa nelle anomalie di forma,
struttura e composizione (Bianca 1993, 885).
Nei
confronti dei difetti intrinseci della cosa venduta l’ordinamento appresta per
l’acquirente una duplice tutela: la risoluzione del contratto o la cosiddetta quanti
minoris, ossia la riduzione del prezzo, poste sullo stesso piano, sicché
l’acquirente che agisca in garanzia per i vizi della cosa venduta non può
esercitare l’azione per la riduzione del prezzo (Carbone 1998, 1157).
Per
l’orientamento giurisprudenziale prevalente fra le obbligazioni principali del
venditore, ex art. 1476, n. 3, c.c. vi è quella di garantire il compratore dai
vizi della cosa vnnenduta solo che i limiti dell’oggetto da garantire non si
riferiscono solo al bene oggetto di compravendita, ma comprendono anche il
fabbricato complessivo cui l’unità immobiliare appartiene i cui vizi sono, però
nel caso di specie, noti al venditore.
La garanzia
per vizi appare l’unica che fornisce una tutela completa al compratore anche
perché l’azione di cui all’art. 844, c.c. non può trovare accoglimento ove le
immissioni non superino la soglia minima della normale tollerabilità.
In via di
principio la rumorosità, anche a prescindere dalla tollerabilità e dalla
gravità rende, comunque, l’immobile inidoneo all’uso cui esso è destinato,
diminuendone in modo apprezzabile il valore.
E’ da
segnalare che la giurisprudenza richiede, in ogni caso, che venga accertata
l’esistenza, la gravità e la riconoscibilità del vizio dal giudice di merito ai
fini della pronuncia sulla domanda.
L'accertamento,
da parte del giudice di merito, dell'esistenza, gravità, apparenza e
riconoscibilità dei vizi della cosa compravenduta, ai fini della pronuncia
sulla domanda redibitoria, costituisce apprezzamento di merito insindacabile in
sede di legittimità, se sorretto da motivazione adeguata e priva di vizi logici
e giuridici
(Cass. civ., sez. II, 30 agosto 1994, n. 7589, GCM,
1994, 1117).
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