La
società ricorrente ha impugnato gli atti con i quali il Comune di Venezia ha
rimosso in autotutela gli effetti legittimanti della s.c.i.a. presentata, in
data 18 marzo 2015, in relazione all'attività di affittacamere esercitata
in Venezia, San Polo n. 2696, e le ha intimato la chiusura dell’attività
ricettiva.
Il
ricorso e i motivi aggiunti meritano accoglimento
In primo
luogo perché gli atti impugnati, ovvero il cd. annullamento in autotutela della
s.c.i.a. e la successiva diffida alla chiusura dell’attività di affittacamere, diversamente da quanto
sostenuto dal Comune nei propri scritti difensivi, non appaiono fondati sui
verbali di accertamento conseguenti ai sopralluoghi effettuati dalla Polizia
Municipale in data 9 luglio e 26 novembre 2015 (neppure menzionati nei provvedimenti
impugnati), bensì su violazioni minori, molte delle quali risalenti al 2007.
Vi è
dunque una sfasatura tra la struttura argomentativa dei provvedimenti
impugnati, che non risultano incentrati sulle violazioni riscontrate dalla
Polizia Municipale in data 9 luglio e 26 novembre 2015, e le difese svolte in
giudizio dall’Ente Locale, che cercano di giustificare l’operato del Comune
richiamando le violazioni accertate in esito a tali sopralluoghi.
L’atto
del 5 febbraio 2016, che ha rimosso in autotutela gli effetti legittimanti
della s.c.i.a. presentata dalla ricorrente il 18 marzo 2015, non contiene una
puntuale e specifica motivazione in ordine alle ragioni d’interesse pubblico,
attuale e concreto, diverse dal ripristino della legalità violata, poste a
fondamento dell’esercizio del potere di autotutela decisoria.
Il
Comune ha violato le garanzie previste dall’art. 19, comma 4, legge n. 241 del
1990 che in presenza di una s.c.i.a. illegittima, consente certamente
all’Amministrazione di intervenire anche oltre il termine perentorio di 60
giorni (30 giorni in materia edilizia) previsto dal comma 3, ma solo alle
condizioni - e seguendo il procedimento - cui la legge subordina l’esercizio
del potere di annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi e,
quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili di illegittimità
dell’attività assentita per effetto della s.c.i.a. ormai perfezionatasi, dell’affidamento
ingeneratosi in capo al privato per effetto del decorso del tempo, e, comunque,
esternando le ragioni di interesse pubblico a sostegno del provvedimento
repressivo.
La
d.i.a./s.c.i.a., una volta decorsi i termini per l’esercizio del potere inibitorio-repressivo,
costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo
equiparabile quoad effectum al rilascio del provvedimento espresso), che può
essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso
l’esercizio del potere di autotutela decisoria nel rispetto delle prescrizioni
recate dall’art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990. Pertanto, scaduto il
termine perentorio previsto dalla legge per verificare la sussistenza dei
relativi presupposti, deve considerarsi illegittima l’adozione di un
provvedimento repressivo/ripristinatorio o di autotutela adottato senza le
garanzie e i presupposti richiesti dall’art. 21 nonies l. n. 241/1990 per
l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio (cfr., in questi termini,
Cons. Stato, sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4780; T.A.R. Lazio - Roma, 8
gennaio 2015, n. 192; T. A. R. Veneto, Sez. III, 10 settembre 2015, n. 958). Tar Veneto (Sezione Terza) 23.6.2016, n. 893
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