5.
Il procedimento disciplinare.
Il potere disciplinare incide sul rapporto di
appartenenza del soggetto, in questo caso il pubblico dipendente, a
un’istituzione e, di conseguenza, determina il sorgere di una varietà di
principi giuridici che ne regolano l’esercizio.
Ai sensi dell’art. 55, comma 3, D.L. vo 165/2001, la
tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti
collettivi.
Il comma 2 dello stesso articolo contiene un’altra
disposizione di particolare rilievo sull’argomento, in quanto si limita a
dichiarare applicabili solamente l’art. 2106, c.c. e l’art. 7, commi 1, 5, 8,
L. 20 maggio 1970, n. 500, senza rinviare integralmente alla normativa
privatistica.
Nel procedimento disciplinare previsto
dal citato art. 55, l’interessato può impugnare il provvedimento disciplinare
immediatamente davanti al giudice, prescindendo dal ricorso al collegio
arbitrale, in modo analogo, peraltro, a quanto, ai sensi dell’art. 7, L. 300/1970,
è consentito al dipendente privato. T.A.R. Piemonte, sez. II, 4 febbraio 1999,
n. 58.
E’ possibile, del resto, ricorrere al cosiddetto
patteggiamento disciplinare, previsto nel nostro sistema normativo dal comma 6
del citato art. 55, D.L. vo 165/2001, che consente di ottenere la riduzione
della sanzione non ancora irrogata in cambio della sua incondizionata
accettazione. S. S. MEZZACAPO, Giudizio
disciplinare: debutta anche l’arbitro unico, in Guida Dir. Dossier, 2001, n. 5, 113.
In base a tale disposizione, infatti, qualora vi sia
il consenso dell’interessato, la sanzione applicabile può essere ridotta, senza
che vi sia più però la possibilità di impugnarla.
Il dipendente sotto accusa può solo chiedere e non
pretendere che venga applicato il meccanismo riduttivo succitato, dato che è
una facoltà discrezionale dell’amministrazione esercitarlo. T.A.R. Veneto, 9
febbraio 1999, n. 117; T.A.R. Milano, 10 novembre 1999, n. 3659.
6. Il
tentativo obbligatorio di conciliazione.
Il tentativo obbligatorio di conciliazione delle
controversie individuali, di cui all’art. 69 del D.L.vo 29 del 1993 e mod., non
ha avuto grande fortuna in campo privato e, probabilmente, è destinato ad aver
ancor meno seguito nelle controversie di pubblico impiego.
L’attore ha l’obbligo prima di ricorre al tribunale
del lavoro, con l’entrata in vigore del D.LGS. 19 febbraio 1998, n. 51, a
condizione di procedibilità della domanda di tentare la conciliazione.
La dottrina nota come tale tentativo non sia
previsto nelle residue controversie di competenza del giudice amministrativo.
G. NOVIELLO P. SORDI G.N. CARUGNO V. TENORE, Le controversie sul pubblico impiego privatizzato e gli uffici del
contenzioso, 1999, 67.
Il tentativo di conciliazione deve essere svolto,
secondo le procedure previste dai contratti collettivi, davanti al Collegio di
conciliazione istituito presso la Direzione provinciale del lavoro e della
massima occupazione, nella cui circoscrizione si trova l’ufficio presso il
quale il lavoratore è addetto.
La richiesta di conciliazione, che può essere
avanzata dal lavoratore o dalla stessa amministrazione deve essere spedita a
mezzo raccomandata R.R. all Ufficio di conciliazione e all’altra parte deve
essere
Il nuovo art. 69 bis, comma 8, prevede che la
conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica
amministrazione, in adesione alla proposta formulata dal collegio di cui al
primo comma, ovvero in sede giudiziale ai sensi dell’art. 420, comma primo,
secondo e terzo del codice di procedura civile, non può dar luogo a
responsabilità amministrativa.
Qualora siano trascorsi inutilmente 90 giorni dalla
presentazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione, è
prevista dalla normativa la procedibilità della domanda giudiziale, ai sensi
dell’art. 69, comma 2 del nuovo testo introdotto dall'art. 31 del decreto
delegato. Si può intuire, quindi, quale sarà la situazione effettiva.
L’art. 28 del D.L.vo 80 del 1998, inserendo un nuovo
art. 59 bis nel decreto legislativo 29/1993, attribuisce al collegio di
conciliazione - di cui all’art. 32 - la competenza a decidere eventuali
impugnative delle sanzioni disciplinari da parte dei lavoratori, qualora nei
contratti di lavoro non siano previste apposite procedure di conciliazione ed
arbitrato.
7. Il ricorso
al Tribunale del lavoro.
Il ricorso al Tribunale del lavoro, con l’entrata in
vigore del D.LGS. 19 febbraio 1998, n. 51, si sviluppa secondo il dettato
dell’art. 414 c.p.c.
Il ricorso deve indicare:
-
il giudice presso il quale si radica l’azione che, ai sensi dell’art.
413 c.p.c., è quello nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio al quale il
dipendente addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto;
-
il nome, il cognome nonché la residenza od il domicilio eletto nel
comune in cui ha sede il giudice adito, la denominazione dell’amministrazione
convenuta ed il suo domicilio;
-
la documentazione che dimostri l’esperimento del tentativo di
conciliazione;
-
la determinazione dell’oggetto della domanda e l’esposizione dei fatti
e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative
conclusioni;
-
l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende
avvalersi e, in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione.
Il ricorso è depositato nella cancelleria del
giudice.
Il giudice fissa con decreto la data dell’udienza.
L’attore ha l’obbligo di notificare il ricorso
unitamente al decreto entro dieci giorni dalla sua pronuncia
all’amministrazione destinataria.
La notifica, relativa a procedimenti contro amministrazioni
dello Stato, va eseguita presso gli uffici dell’Avvocatura dello stato
competente per territorio, art. 41 D. LGS. 80/1998. G. NOVIELLO P. SORDI G.N.
CARUGNO V. TENORE, Le controversie sul
pubblico impiego privatizzato e gli uffici del contenzioso, 1999, 129.
8. L’interpretazione
dei contratti collettivi.
L’arbitrato previsto nei contratti collettivi sembra
però avere maggiori possibilità di funzionare con efficacia.
L’art. 30 del D.L.vo 80/1998, che aggiunge l’art. 68
bis al D.L.vo 29 del 1993, dispone l’accertamento pregiudiziale sull’efficacia,
sulla validità e sull’interpretazione dei contratti collettivi.
Ne consegue che, qualora per definire una
controversia sia necessario l’accertamento della regola esplicitamente definita
dal contratto collettivo sul punto in esame, il giudice deve sospendere il
processo e disporre la comunicazione degli atti della causa all’ARAN ed ai
sindacati. G. NOVIELLO P. SORDI G.N. CARUGNO V. TENORE, Le controversie sul pubblico impiego privatizzato e gli uffici del
contenzioso, 1999, 82.
La norma consente di ottenere un’interpretazione
autentica del contratto di lavoro.
Entro trenta giorni l’ARAN deve convocare i
sindacati; l’accordo deve poi essere raggiunto entro i successivi 90 giorni,
trascorsi i quali si considera conclusa in modo negativo la procedura.
Il giudice in tale caso decide solo sulla questione
pregiudiziale, ossia, obbligatoriamente, con sentenza non definitiva.
Questa è soggetta solo a ricorso per cassazione, che
è fattibile anche per violazione o errata applicazione dei contratti o degli
accordi collettivi, le cui parti contraenti possono non solo portare informazioni
e osservazioni - come avviene nel rito ordinario del lavoro - ma anche
intervenire nel processo oltre i termini ordinari ed impugnare la sentenza,
facendo valere una loro autonoma e speciale legittimazione.
Il giudice, poi, che non intenda adeguarsi al parere
già formulato dalla Suprema corte su una determinata questione ha l’identico
obbligo di pronunziarsi con sentenza immediatamente ricorribile per cassazione,
ai sensi dell’art. 68 bis, comma 7 del D.L.vo 29/1993.
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