Ce. Leaders europei
Da David Cameron a François
Hollande, da Matteo Renzi agli scandinavi: per molti leader europei,
democratici tradizionali d'ogni colore, il 2016 è stato l'annus horribilis.
Francia. Potenzialmente il
quadro più pericoloso, tenendo anche conto che Parigi è membro permanente del
Consiglio di sicurezza e dispone di potenti forze armate soprattutto con
trecento bombe atomiche. Crisi sociale, declino industriale, tensioni etniche
ed economiche tra banlieues e centri dei ceti alti, hanno esasperato la
mancanza di leadership di François Hollande.
La paura del mondo è che un
giorno sieda all'Eliseo, con sul tavolo la valigetta dei codici delle trecento
testate nucleari a raggio intercontinentale, Marine Le Pen, leader populista e
in parte erede cultural politica di Petain e Laval, insomma di Vichy.
Nel Ps resta il caos, la speranza
dei democratici terrorizzati dal Front National è il neogollista
iperconservatore François Fillon.
Regno Unito. David Cameron aveva
commesso l'errore di scommettere tutto sul referendum della Brexit legando il
suo destino ai risultati. Ha sottovalutato i veri umori popolari: paura dei
migranti, impoverimento nelle periferie.
Quando Boris Johnson suo rivale
nei Tories e a destra Nigel Farage e gli altri dell'Ukip hanno cavalcato la
tigre del Brexit, dell'uscita dalla Ue per tornare sovrani, hanno vinto. A lui
con un discorso dignitoso ma commosso davanti al cancello numero 10 di Downing
Street non è restato che presentare le sue dimissioni.
Spagna. Mariano Rajoy,
leader del Partito popolare (membro dei Popolari europei, insomma
democristiano) seguendo le ricette d'austerità tedesche e i consigli di Draghi
aveva cominciato a rilanciare l'economia spagnola. Ma troppo alta è rimasta la
disoccupazione giovanile, troppo pesante il fardello delle conseguenze della
bolla immobiliare per milioni di famiglie.
Così alle elezioni, ripetute due
volte, non è riuscito a vincere. Alla fine, in un paese diviso tra partiti
tradizionali, populisti di sinistra (Podemos) e centristi (Ciudadanos), Rajoy
si ritrova a guidare un governo d'emergenza che si regge non sulle proprie
forze ma solo sull'astensione di altri gruppi.
Germania. Angela Merkel ha
deciso di ripresentarsi ma rischia grosso, con coraggio. Da quando nel 2015 ha
deciso di accogliere milioni di migranti in tutto il Vecchio continente, ha
suscitato umori e paure xenofobe a casa come in Austria o Scandinavia, dove i
migranti passavano o puntavano ad andare. Con Alternative fuer Deutschland è
sorto per la prima volta un partito nazionalista e antieuropeo a destra della
Cdu-Csu.
Austria. Volo della destra
per la paura dei migranti, spazzati via alle presidenziali i partiti storici
che governavano insieme col cancelliere socialdemocratico Werner Feymann da
decenni, cioè appunto socialdemocratici stessi e cristiano popolari. Volo della
Fpoe, la destra radicale di Heinz Christian Strache.
In extremis Alexander van
der Bellen, indipendente ex leader verde, ha salvato i valori storici. Vedremo
come andrà alle parlamentari attese per l'anno prossimo o per il 2018.
Centroest. Già al potere da
prima, nazional conservatori populisti ed euroscettici come il polacco Jaroslaw
Kaczynski e l'ungherese Viktor Orbàn hanno approfittato
dell'aria generale per consolidare le loro tendenze autoritarie: chiusure di
giornali, linea ancor più dura sui migranti, e in Polonia leggi durissime
contro le manifestazioni di piazza e controllo in stile turco, iraniano o
cinese su chiunque usi internet.
In Polonia la società civile
resiste, ma quasi ovunque al centroest prevalgono nazionalismi xenofobi e 'no'
alla Ue che pure inonda le ex colonie di Mosca con miliardi di aiuti.
Repubblica Ceca. In ottobre,
si vota nella Repubblica Ceca. I sondaggi danno 10 punti di vantaggio sui
socialdemocratici a Andrej Babis, una sorta di Berlusconi locale, che guida un
partito fondato cinque anni fa, dal nome iperpopulista Azione dei Cittadini
Insoddisfatti. Ministro delle finanze, imprenditore miliardario, ha vinto le
elezioni regionali e per il Senato conquistando nove delle 13 regioni in lizza,
mentre i democratici sociali (Cssd) del premier Bohuslav Sobotka hanno vinto
solo in due regioni
Scandinavia. I populisti fin
dal 2015 sono in ascesa ovunque. In due paesi cioè Norvegia e Finlandia partiti
xenofobi sono junior partner dei governi conservatori rispettivamente guidati
da Erna Solberg e Juha Sipila.
In Danimarca i populisti
antimigranti del Dansk Folkeparti condizionano dall'esterno al Folketing
(Parlamento) le scelte del centrodestra guidato dal premier Lars Lokke
Rasmussen.
Tutto ciò in paesi floridi (solo
la Finlandia è in recessione e colpita da problemi sociali gravi) ma
terrorizzati da migranti e paura di perdita d'identità, e dalla crescente
incapacità dei partiti storici di parlare con gli elettori e ascoltarli.
La prova del fuoco saranno le
elezioni parlamentari di settembre 2017: i populisti xenofobi ed euroscettici
guidati dal giovane Jimmie Akesson, gli SverigeDemokraterna (democratici di
Svezia) potrebbero persino divenire primo o secondo partito, spodestare il
governo di sinistra riformatore del premier Stefan Loefvén. repubblica.it/esteri/2016/12/05/
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