Economia MEF. Bit Tax
Giorno dopo giorno la crescita
vertiginosa dei colossi del web erode un pezzo dello stato sociale italiano.
Schiacciate dalla feroce concorrenza su internet, le imprese tradizionali
incassano sempre meno e pagano sempre meno imposte allargando una voragine
scavata nelle casse dell’erario dalle multinazionali della digital economy che
fatturano nei comodi paradisi fiscali i ricavi realizzati in Italia. Ma
l’Italia potrebbe essere la prima a correre ai ripari con la digital tax allo
studio del Parlamento.
I grandi operatori spesso pagano
una quota risibile di tasse sui redditi prodotti in Italia, ma anche in altre
nazioni, perché hanno allestito le loro sedi operative in paesi europei a
fiscalità privilegiata come Irlanda, Olanda, Belgio e Lussemburgo i quali, in
cambio degli enormi investimenti e dei posti di lavoro che vengono garantiti,
hanno abbattuto la tassazione sui redditi delle imprese rinunciando a gran
parte, se non addirittura in tutto al gettito fiscale prodotto da aziende che
fanno miliardi in tutto il mondo. Grazie al fatto che la maggior parte delle
attività avviene sul web e che questo non richiede la presenza fisica nel
mercato in cui si opera, dato che si può interagire con i clienti da un paese
diverso da quello in cui si trova l’azienda, queste imprese sono in grado di
non ricorrere a quella che tecnicamente viene definita una «stabile
organizzazione», un concetto oramai arcaico perché è legato allo stabilimento
fisico.
Spesso, però, la «stabile
organizzazione» c’è ma non si vede, è occulta, come dimostrano le inchieste
della Procura di Milano che hanno “convinto” Apple e Google a versare al fisco,
rispettivamente, 318 e 306 milioni.
Quanto vale e quanto costa tutto
questo? Non ci sono dati certi sulla digital economy, ma uno studio Ocse parla
di una perdita a livello mondiale di entrate fiscali tra 100 e 250 miliardi di
dollari, ovvero tra il 4 e il 10% del gettito globale proveniente dalle
imprese.
«Bisogna far emergere i redditi
della digital economy consentendo all’Agenzia delle Entrate di accertare gli
affari che questi colossi fanno in Italia», dichiara il senatore Massimo
Mucchetti (Pd), presidente della Commissione Industria del Senato che ha presentato
un disegno di legge introducendo la web tax
Non è l’unica iniziativa in
questo campo: all’inizio dell’anno scorso, l’allora sottosegretario Enrico
Zanetti annunciò che una digital tax sarebbe stata operativa a partire dal
2017, ma poi non se ne fece più niente e la questione venne accantonata dal
governo Renzi, lo stesso che a metà 2016 ha nominato Commissario per il
digitale il vicepresidente di Amazon Diego Piacentini; un’altra proposta
presentata dall’on. Stefano Quintarelli (Scelta Civica) è all’esame della
Camera e quella del collega Francesco Boccia (Pd) fu approvata e sospesa.
«La tassazione dei profitti sul
web è un problema fondamentale per lo sviluppo del mondo anche perché
l’economia digitale riduce sensibilmente i posti di lavoro», ha detto il
procuratore di Milano Francesco Greco sentito dalla Commissione del Senato
durante le audizioni collaterali all’esame del ddl Mucchetti.
Dopo Apple e Google, il suo
ufficio investiga anche su Amazon contestando un’evasione da 130 milioni, e
Facebook. «Hanno accettato la stabile occulta, evidentemente qualche problema
ce l’hanno», ha aggiunto il magistrato. Senza interventi queste aziende continueranno
a godere di «indebiti vantaggi concorrenziali» nei confronti dei
commercianti tradizionali.
Questo potrebbe portare a un
aumento dalla pressione fiscale che, facendo aumentare i prezzi in Italia,
paradossalmente favorirebbe ancora di più chi risiede nei paesi a fiscalità
agevolata.
«Ci si dovrebbe muovere su piani
diversi da quelli tradizionali», ha sostenuto Franco Gallo, presidente emerito
della Corte costituzionale sulla rivista «Diritto Mercato Tecnologia»
riproponendo l’idea della bit tax, si parla di 0,000001 centesimi di dollaro a
bit da applicare sui dati trasmessi via internet.
Per Gallo, genererebbe «enormi
introiti», potrebbe essere riscossa dai provider e «liquidata paese per paese»,
anche se c’è il rischio che venga scaricata sui consumatori. Un’idea che piace
a Greco secondo il quale, però, deve essere certo che a versarla siano coloro
che, fornendo servizi o vendendo prodotti, beneficiano delle autostrade
digitali che «i cittadini già pagano lautamente».
Per decidere se una «stabile
organizzazione», per quanto virtuale su internet, abbia una concretezza, il
disegno di legge prevede che l’impresa che risiede all’estero debba aver svolto
in Italia in sei mesi almeno 150 transazioni per un totale di un milione di euro.
Il 55% degli italiani è favorevole a una qualche tassazione sui profitti
realizzati via internet, ma facendo attenzione ad evitare ricadute negative
sugli utenti. Indispensabile un accordo tra stati. Il governo ne parlerà la
settimana prossima a Bari alla riunione dei ministri delle finanze dei paesi
del G7.corriere.it.4.5.2017.
L’Ottimista.
Sono felice che anche chi guadagna somme enormi facendo concorrenza a chi guadagna
il minimo per sopravvivere debba pagare le tasse. Sperando che il legislatore sia
dello stesso parere e proceda velocemente.
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