Montecatini
Dopo
la vacanza a Levico Giani diventava ogni giorno più stanco.
Lui
continua ad andare al lavoro.
Era
un artista del gelato.
Osserva
con amore la crema prendere forma, mentre la pala meccanica della macchina
rimestava gli ingredienti: latte, zucchero e uova in grossi bidoni; poi effettuava
un prelievo con una paletta e ne controllava la consistenza.
Nicheto
lo vedeva triste e cercava di andare più spesso in gelateria finito il dopo
scuola.
Non
era brillante a scuola Nicheto perché lo avevano mandato alla primina e non
aveva frequentato l’asilo.
Per
questo aveva preso cinque in italiano dalla madre Teodosia ed aveva frignato
non poco perché era certo che Giani sicuramente non sarebbe stato contento.
Temeva
che la malattia si sarebbe aggravata per il dispiacere.
Giani
non se la era presa molto pensando che ci sarebbe stato posto in gelateria
anche per un illetterato.
Nicheto
stava lì ad attendere seduto, intento a leccare un cono di crema appena fatta.
“Magna
ancora che xe bon, sta solo atento a no sciopar.” diceva Giani sorridendo a
quel divoratore di gelati.
Nicheto
aspettava che lavorazione fosse finita per consegnare il gelato ai ristoranti
della città con ‘aiuto del Marsian.
Giani
continuava a lavorare mentre la malattia lo divorava, aveva un sorriso triste,
ma non si lamentava; lui parlava, mentre affondava la paletta per prendere un
campione del gelato dalla macchina, del progetto di una vacanza a Montecatini
con la Cetta.
Bisognava
partire prima di Pasqua perché lui doveva lavorare durante i giorni di festa e
di vacanza per gli altri.
I
medici affermavano che la cura delle acque avrebbe potuto giovargli.
Nicheto
non intuiva il dramma che stava vivendo Giani che sapeva di partire per la sua
ultima vacanza con le persone che amava e che fra poco doveva lasciare per un
lungo viaggio senza ritorno.
Solo
la fede in Dio e la fiducia nella Bice e Donato, cui sapeva di potere affidare
la sua famigliola, poteva fargli affrontare il futuro con serenità.
Avvisata
suor Teodosia assicurava Nicheto:
“Basta
fare i compiti che ti assegno.” aveva detto “Divertiti con i tuoi genitori.”
Nicheto
non immaginava proprio che un destino crudele voleva che questa fosse l’ultima
vacanza da trascorrere con Giani.
Certamente
Giani non poteva pensare che la cura delle acque proposta dai medici potesse
risolvere i suoi problemi di salute.
Giani
non si fidava più di guidare, aveva venduto persino la Balila per cui avevano
preso il treno per raggiungere di Montecatini.
Giunti
alla stazione Giani aveva deciso di fare un giro in carrozzella per cercare un
albergo.
Non
avevano fatto prenotazioni da Venezia; perché Montecatini era una stazione
termale piena di alberghi, ma erano tutti occupati.
Avevano
pernottato in un Albergo lussuoso.
I
camerieri avevano una divisa splendente, erano saliti su di uno scalone
imponente, regale. Le camere erano ampie e spaziose.
Il
servizio era eccellente, ma Giani fatti rapidamente i conti aveva deciso che il
giorno seguente bisognava trovare un altro Hotel o i giorni di vacanza si
sarebbero drasticamente ridotti.
Giani
aveva scelto un albergo un po’ più modesto, ma altrettanto confortevole.
Nicheto
era molto contento perché vi alloggiava un intero corpo di ballo che faceva
spettacoli nella cittadina termale.
A
Montecatini c’era un teatro dove rappresentavano tutte le sere l’operetta con
cantanti e ballerini.
Nicheto
aveva garantito alle ballerine la sua presenza ad applaudire allo spettacolo.
Nicheto
era contento di stare finalmente tutto il giorno con suo padre.
E’
bello stare con lui in vacanza senza l’assillo del lavoro e della scuola.
Giani
aveva sempre una idea nuova per passare il tempo facendo cose piacevoli, non c’era
un minuto vuoto nel programma che realizzava per l’indomani.
Era
una fortuna che i medici lo avessero mandato a fare la cura delle acque a
Montecatini.
Passata
la mattina alle Terme per la cura, il pomeriggio Giani si inventava sempre
qualcosa.
Lo
stabilimento termale era alla sommità di una collina.
C’era
un gran via vai di persone, tutti molto eleganti, non c’erano molti bambini, ma
Nicheto non ci faceva molto caso perché era contento di stare con suo padre.
La vacanza cementava i rapporti.
Vivere insieme tutto il giorno
senza avere impegni di lavoro o di scuola dava la possibilità di raccontarsi di
stringere di più il legame con le persone care.
Le
verdi colline che circondavano la città davano una sensazione di quiete e di
benessere.
Con
il torpedone erano andati a fare una scampagnata a Collodi.
Nicheto
raccontava la storia di Pinocchio a Giani assicurava di non conoscerla e si
fingeva interessato alle avventure del burattino.
Giocavano
a chi trovava per primo la strada di uscita del labirinto nella Villa.
Nicheto
aveva avuto un attimo di incertezza, ma Giani lo aveva rassicurato e gli aveva
fatto trovare la strada per uscire.
La
felicità sembrava lì a portata di mano vicinissima eppure così lontana per
quella stupida circostanza della malattia.
Nicheto
passava delle ore sperperando una fortuna nella sala giochi del casino di
Montecatini raccogliendo i punti delle vincite alle varie partite con quelle
macchinette mangia soldi.
Come
premio di un pomeriggio intenso aveva ottenuto una bambolina di pezza vestita
col costume tipico siciliano che sarebbe stata collocata poi al centro del
salotto di casa a ricordo di una vacanza felice.
Alla
sera c’era il caffè concerto.
Nicheto
si divertiva ad ascoltare “Signorinella pallida.”.
Il
cantante era bravissimo nell’interpretare questa storia così romantica.
Lui
accompagnava da consumato attore la triste storia d’amore con dolci movimenti
delle mani suadenti come la sua voce.
Il
pubblico applaudiva calorosamente.
Gianni chiedeva sempre tutte
le sere al cantante di interpretare questa canzone perché faceva piacere alla Cetta.
La Cetta seguiva e si divertiva,
ma parlava poco e non commentava mai la malattia di Gianni, la ignorava.
“Podemo
fermarse ancora papà xe beo star qua tuti insieme.” aveva detto Nicheto per
scongiurare la imminente partenza già decisa.
Non
si poteva fare durare la felicità più del breve spazio di tempo che ti era
concesso?
No
la vita doveva fare il suo corso.
Gli
impegni di lavoro e quelli scolastici duravano molto, i momenti di intensa
felicità volavano in un attimo.
“Dovemo
tornar, ma femo un’altra bea vacanza vero Nicheto” Giani rassicurava Nicheto e
la Cetta che avrebbero potuto trascorrere insieme altri momenti di serenità.
Carnevale veneziano
Giani
amava lavorare al salone delle feste di Cà Giustiniani perché lo trovava veramente
regale.
Lui
curava il servizio di ristorazione.
Il
martedì grasso organizzava una grande festa in maschera per bambini: “Vien anca
ti, ti pol magnar fritole in quantità.” gli aveva detto a quel golosone di
Nicheto che non se lo aveva fatto ripetere due volte.
Giani
attorniato da uno stuolo di camerieri era indaffaratissimo dietro un tavolone
imbandito che offriva ogni ben di Dio.
Damine
e paggi in costumi veneziani settecenteschi sfilavano con maghi, Zorro,
streghe, orsi, leoni e personaggi dei cartoni animati per vincere il concorso.
Applausi,
risate urli e strepiti di ogni sorta accompagnavano la loro sfilata.
La
claque era scatenata.
Fratelli,
sorelle, genitori e parenti tutti si erano radunati e si impegnavano al massimo
per far vincere i propri beniamini.
Nichetto
non aveva avuto il coraggio di salire sul palco. Il suo vestito datato era
stato oggetto di un difficile quanto ingegnoso lavoro per allungarlo e
allargarlo perché Nichetto era in crescita.
Lui
si sentiva un po' stretto in quella casacca da indiano; era solo soddisfatto
del copricapo di piume colorate e del tomahawk che gli davano una certa
autorità.
La
Cetta ci aveva lavorato sodo ed era soddisfatta della sua opera Nichetto un po'
meno.
Nichetto
inoltre non aveva capito bene che Gianni avrebbe dovuto lavorare tutto il tempo.
Lui
avrebbe voluto trascorrere una parte della serata almeno con lui, mangiare,
ricordare le vacanze di Montecatini, parlare della madre Teodosia.
La
madre era rimasta molto soddisfatta del Crocifisso nuovo che Gianni aveva
comprato in sostituzione di quello vecchio caduto a pezzi solo per le
insistenze di Nichetto.
Lo
scolaro voleva fare bella figura nel dimostrare la devozione del genitore,
Giani, invece avrebbe risparmiato volentieri quei soldi.
Pazienza
ne avrebbero parlato a casa a cena, perché a mezzogiorno Nichetto mangiava a
scuola dalle suore di San Giuseppe dato che si fermava al doposcuola per fare i
compiti.
Quello
che a Nichetto dispiaceva e che stava poco un suo padre lo vedeva poco la sera
perché lui tornava dopo una cena veloce al bar a lavorare e c'era sempre poco
tempo per stare insieme.
Gianni
in quei scarsi momenti non parlava molto vinto dalla stanchezza ed erano
Nichetto e la Cetta a raccontare le cose normali tutti i giorni.
L’Ospedale al Mare
A
settembre la Cetta e Nicheto erano andati a trovare la zia Andreina, la sorella
più giovane della Roma.
“Come sta Giani.”
Si
era informata la zia non nascondendo la sua preoccupazione.
“Come
al solito. Speremo ben.”
Sospirava
la Cetta.
Nichetto
ascoltava ma non comprendeva appieno la gravità della malattia che costringeva
Giani a frequenti ricoveri.
Lui
quando tornava a casa diceva che non era nulla di grave.
Giani
assicurava sempre i suoi che dopo quel ricovero si sarebbe rimesso e sarebbe
stato finalmente bene.
Giani
però era sempre più stanco, i ricoveri si facevano più frequenti.
Non
andava più alla Casa di cura, aveva finalmente trovato un professore
dell’Ospedale al Mare del Lido che aveva diagnosticato la sua malattia.
Quando
però era riuscito a trovare l’origine del male aveva nello stesso tempo perduto
anche le residue speranze: si trattava di un linfogranuloma maligno.
A
questo punto si era arreso, non combatteva più.
Nichetto
non riusciva a capire.
Se
era stata scoperta la malattia dovevano essere tutti più contenti. Perché
invece erano tutti i più tristi?
Bepi,
i camerieri, Tony sbrega boche, el marzian, Zerbetto, el gobo lo zio Pasquale
avevano tutti un'espressione molto triste.
Se
ci fosse stato il nonno Nicola, forse sì che lui avrebbe trovato un rimedio
invece se ne era andato qualche anno prima. Nichetto non se n'era nemmeno
accorta di questa tragica scomparsa.
Il
nonno si era messo a letto per una influenza e non si era più rialzato.
Poi
gli avevano detto che il nonno era andato via per sempre e che l’avrebbe
rivisto in cielo.
Nicheto
non aveva capito che quella era la morte perché non aveva notato nessuna
sofferenza nel volto di Nicola, che se ne era andato via serenamente senza
quasi soffrire, mentre notava sempre il sorriso triste sul viso di Gianni.
L’Ospedale
al Mare si affacciava sulla spiaggia del Lido.
Arrivarci
da Venezia era un viaggio.
Da
Rialto l’itinerario più veloce prevedeva l’imbarco da Piazza S. Marco, di
fronte alle Carceri di Palazzo Ducale, sulla motonave veloce – el bateo grando
- che portava al Lido.
La
motonave attraccava al piazzale di S. Maria Elisabetta; da lì bisognava salire
sull’autobus che ti portava all’Ospedale.
Nicheto
era andato a trovare Giani con lo zio Donato.
Se
non fosse stato per tutte quelle persone in camice bianco non si aveva neppure
l’impressione di essere in un ospedale.
I
reparti erano immersi nel verde del Lido: sembrava di essere in una delle
colonie marine affacciate sul mare agli Alberoni.
A
vederlo da lontano quel luogo pareva un centro di vacanza non di malattia.
Stranamente
pur essendoci una spiaggia lunghissima non c’erano bambini a giocare sulla
sabbia, ma persone di tutte le età che cercavano di recuperare il bene più
prezioso.
Il
sole e l’aria marina erano medicine portentose per ridarti la salute.
Il
sole portava calore, la brezza marina energia.
Questo
straordinario cocktail faceva venire voglia di vivere anche a chi stava
lottando con sofferenza contro la malattia e gli passava la voglia di farla
finita.
I
malati in via di guarigione trascorrevano la loro convalescenza sulla spiaggia.
Sembrava
che stessero trascorrendo una piacevole vacanza.
“Co
ti sta megio ti va anca ti in spiaggia”.
Diceva
Nicheto a Giani che faceva finta di crederci.
La
bellezza dell’ambiente marino cercava invano di mascherare il dolore.
Giani
era molto pallido, appariva dimagrito e stanco.
Giani non aveva paura della
morte. L'aveva vista in faccia tante volte nella ritirata di Russia aveva visto
il terrore negli occhi dei suoi commilitoni che non poteva far salire sul
camion perché era già colmo.
Non aveva paura per lui ma aveva
paura per Nicheto e per la la Cetta. Lei era una persona emotivamente instabile,
una brava donna di casa, ma gestire una famiglia e dare un futuro a Nicheto era
un’altra questione.
Per cui Giani preferivano parlare
con loro, nei pochi giorni che pensava gli rimanessero, rassicurandoli dicendo
che la sua non era una malattia grave e che sarebbero andati insieme ancora in
vacanza Montecatini.
Nichetto era un bambino
intelligente aveva capito che c'era qualcosa che non andava, ma preferiva come
lo struzzo mettere la testa sotto la sabbia ed aspettare gli eventi.
Era contento della sua vita si
trovava bene alle elementari, stava bene con gli amici del Campo San Polo, con
la Cetta, con la zia Bice, con lo zio Donato, viveva una infanzia che poteva
essere quasi felice.
“Ciao
come va Nicheto” lo aveva salutato Giani come se spostando l’attenzione sul
bambino, sulle cose che faceva, sulla scuola, sui giochi, sulla vita banale ma
tranquilla di tutti i giorni, avesse potuto per un momento esorcizzare dolore e
preoccupazioni.
“Varda
che bela zornada che xe ancuo, se ti sta megio ti pol andar anche ti in
spiaggia, te compagno mi” Nicheto indicava a Giani i degenti meno gravi che venivano
accompagnati in riva al mare dai parenti.
Sembra
quasi, a guardarli da lontano dalle finestre del reparto di medicina, che i
malati fossero degli allegri gitanti che si deliziassero del sole tiepido di
fine settembre.
“Sì,
sì la prosima volta femo cussì” diceva Giani nel tentativo di illudere Nicheto
con questa speranza di guarigione.
Nello
stesso istante di nascosto sussurra alla la zia Bice: “Te afido Nicheto e la
Ceta.”
Queste
erano state le sue ultime parole.
Lo
zio Donato che era un burbero era uscito dalla stanza per nascondere una
lacrima.
Solo
Nicheto che si ostinava a non capire restava lì a fare gli ultimi progetti di
una guarigione cui non credeva più nessuno.
Era
arrivato il medico di turno chiamato dall’infermiera per una difficoltà
respiratoria. Gli infermieri avevano fatto uscire Nicheto dicendo che dovevano
portare una bombola di ossigeno ma che non era niente di grave, avevano invitato
tutti i parenti a tornare a casa che tutto era sotto controllo.
Giani
era morto quella notte.
Il
linfogranuloma maligno non aveva, come suo costume, perdonato.
San Michele
Nicheto
non aveva mai visto la chiesa di San Silvestro così stracolma di gente.
Persone
dappertutto dentro e fuori della chiesa.
Individui
che la famiglia di Giani non aveva mai visto prima.
Forse
quella partecipazione allo strazio dei familiari significava che Giani era
stato molto amato o forse c’era solo una grande curiosità di vedere una
famiglia distrutta dalla morte del suo pater in così giovane età.
Nicheto
non aveva ben chiaro se la gente, che lui non conosceva, venisse al funerale
per farsi vedere, per curiosare o per partecipare al dolore di chi ha perduto
irrimediabilmente una persona cara.
Quel
giorno la commozione era scritta nei volti di tutti i presenti alla cerimonia
funebre, non si sentiva nessuno fiatare.
Il
silenzio all’interno della chiesa era rotto da qualche singhiozzo.
Sentendo
piangere Nicheto, che si sentiva un uomo, non riuscì a trattenere qualche
lacrimuccia da femminuccia e se ne vergognò.
Fuori
c’era una giornata di sole.
Nicheto
era troppo piccolo per portare la bara e aveva seguito il feretro in prima fila
accompagnato dagli occhi interroganti dei suoi amici dell’Oratorio cui aveva
fatto un cenno di saluto.
Non
avevano mai visto prima la morte del padre di uno di loro e se ne stavano
increduli e muti ad osservare.
“Ma
pol morir uno cusì giovane?” sembravano chiedersi.
Gli
amici del bar erano tutti in prima fila.
La
zia Bice non aveva fatto andare al cimitero Nicheto, la Cetta non aveva avuto
cuore di seguire la cerimonia ed era rimasta a casa.
Cice
che era il secondo figlio di Leonardo aveva preso con lui Nicheto per distrarlo da questa
disgrazia.
Lui
aveva due figli di poco più grandi di Nicheto che gli avevano fatto scudo
nascondendo le sue lacrime.
Nicheto
era andato via con loro, ma il suo cuore aveva seguito il feretro di Giani.
La
cerimonia del funerale a Venezia era meno triste che negli altri comuni di
terraferma.
Andare
a fare una gita in motoscafo era un avvenimento per la gente normale perché il
motoscafo a Venezia lo usavano solo i signori.
L’ultimo
viaggio terreno era accompagnato da un corteo di motoscafi privati che portavano
la salma ed i parenti a San Michele.
L’isola
della laguna di fronte alle Fondamenta Nove si poteva raggiungere solo con la
barca.
I
veneziani andavano in motoscafo solo quando si sposavano e quando dovevano
raggiungere l’ultima dimora.
Andare
in motoscafo era comunque una piacevole festa.
Solcare
le acque calme della Laguna seguendo i canali segnati dalle bricole che indicavano
le seche mette allegria anche se la flotta di barche era destinata ad accompagnare
una cerimonia funebre.
Non
poteva essere triste una gita in barca anche se la destinazione era San
Michele.
L’isola
era il posto ideale per riposare in santa pace.
Nicheto
la conosceva bene perché tutti gli anni andava il due novembre a portare i
fiori al nonno Nicola alla nonna Graziella al nonno Angelo e alla nonna Roma.
I
viali alberati gli davano un senso di quiete.
Il
silenzio, che l’isolamento dalla terraferma accentua-va, faceva parte di un
altro mondo che gli piaceva perché gli dava un senso di pace.
Nicheto
aveva deciso che la laguna era la sentinella più indicata per fare da guardia
all’ultimo riposo di Giani e che sarebbe andato a trovarlo il giorno dopo.