Florida Bar
Quando
era tornato, non c'era posto per Giani nel negozio di famiglia.
La
gestione non consentiva di far vivere di quel lavoro più di una famiglia e lui
voleva crearne una tutta sua.
Il
27 maggio 1933 l'iscrizione al PNF era stata dichiarata requisito fondamentale
per il concorso a pubblici uffici, ma Giani aveva solo la licenza elementare e
non aveva possibilità di partecipare a pubblici concorsi.
Non
riteneva necessario iscriversi al PNF perché in famiglia nessuno era coinvolto
in attività politiche ed il loro motto era: meglio stare fuori dalla politica.
Allora
si era inventato un'attività nuova sulla Riva del Vin.
C'era
suo zio Felice Centofanti che aveva aperto il Florida Bar.
Il
lavoro c’era e Felice aveva bisogno di altre persone che lo aiutassero.
Il
bar aveva una lunga fila di tavolini lungo la Riva del Vin che, soprattutto
d’estate, erano contesi dai veneziani che volevano gustarsi un buon gelato.
Fra
i clienti c’erano pochi turisti.
Non
esisteva il turismo di massa.
La
gente era rispettosa del centro storico non urlava, non spingeva, non
ciondolava in piedi per la città.
Poi
c’erano i bambini, tanti bambini soprattutto d’estate venuti lì per godersi il
fresco.
C’era
anche un cantante che veniva quasi tutte le sere.
Il
cantante si chiamava Otto. Era un tipo un
po’ strano dal fisico asciutto, per non dire ossuto, con una voce rauca e con
due spesse lenti che davano l’impressione che ci vedesse poco.
Teneva
attaccato al naso un foglio, che di fatto era bianco, ma lui faceva finta di
leggere il testo delle canzoni che si ingegnava di cantare colla sua voce fioca.
Come
cantante era pessimo ma la gente gli voleva bene. I bambini lo circondavano con
allegria e raccoglievano dai genitori le monete da mettere nel suo cappello
messo a terra in bella vista.
A
Nicheto il cantante era molto simpatico e per attestagli la sua ammirazione si
metteva a danzare al suono delle sue canzoni e tutti ridevano di questo
originale teatrino.
Quello
che più piaceva a Nicheto era sedersi al fresco lungo la riva affacciata sul
Canal Grande per gustarsi un gianduiotto con panna.
A
Giani quel lavoro di gelataio interessava ed aveva coinvolto nell’attività
anche il fratello che non aveva ancora trovato lavoro.
Bepi passava le sue giornate
nella stalla come simpaticamente chiamava la sala corse.
Lì, a sentire lui, era un
professore. Aveva un sistema infallibile: giocava più accoppiate su di un
cavallo considerato brocco così se vinceva il totalizzatore pagava una bella somma.
Non aveva mai spiegato, però,
cosa capitava se il brocco non riusciva a piazzarsi fra i primi.
Giani
si applicava con impegno a questo nuovo lavoro e riusciva bene perché aveva
fantasia e soprattutto aveva voglia di stare lì tutto il santo giorno a
lavorare.
C'erano
le prime macchine per confezionare il gelato; le pale giravano vorticose.
Giani
curava che l’impasto fosse soffice, senza grumi.
Produceva
un gelato gustoso fatto con ingredienti genuini; le polverine non erano ancora
di moda e soprattutto Giani amava i prodotti naturali.
Faceva
una crema, con l'uovo e il latte, davvero speciale, ma soprattutto aveva
realizzato delle cassate alla siciliana che tutti dicevano fossero squisite.
La
sua specialità erano le torte gelato.
Riusciva
con la sua inventiva a creare un prodotto interessante dove i gusti più
semplici, crema e cioccolato si legavano alla perfezione abbinati alle
ciliegine all’alchermes di sua invenzione che erano una delizia per il palato.
I gelati
di sua produzione in poco tempo erano diventati famosi e andavano a ruba tra
tutti i ristoratori nelle vicinanze di Rialto; l'attività si espandeva.
Le
cose andavano bene tanto che Giani pensava già di mettere su famiglia.
L’oste della Madonna
Giani
aveva conosciuto una ragazza mora, figlia di Nicola l’oste della Madonna, che
era una trattoria in Calle dei Cinque.
Nicola era nato 5.10.1871 a Trani, una bella cittadina dominata da un Duomo di pietra
bianca affacciato sul mare.
Nicola
si era sposato con Graziella Di Meo più giovane di lui, essendo nata il 24.101880,
nella stessa ridente cittadina della Puglia. Poi i due si erano stabiliti a
Venezia.
Nicola era un uomo di statura
normale con due baffetti bianchi che ispiravano simpatia lui mesceva il vino,
mentre sua moglie Graziella stava seduta alla cassa per tutto il tempo e non le
sfuggiva neppure una liretta.
Era
una perfetta matrona. Faccia rotonda capelli neri con parecchi fili bianchi
raccolti a crocchia sulla nuca aveva l’aria di non lasciare scappare nulla.
Tutto
era sotto controllo.
Nicola e Graziella lavoravano
tutto il santo giorno, ogni tanto si vedevano con i parenti naturalmente tutti
tranesi.
Non vi era molta integrazione tra
tranesi e veneziani: le persone si vedevano soprattutto con i propri paesani.
Tutti i tranesi si trovavano a
Natale per una tombola in allegria.
C’era il fratello Leonardo Di Marzo
che era sposato con la zia Francesca. Avevano una osteria in Calle Casseleria, che
era una calle strettissima nei pressi di San Marco.
Abitavano sopra l’osteria in un
appartamento molto grande cui si accadeva per una scala tutta in piedi con
delle alzate giganti senza pianerottoli. Quando Nicheto andava a trovarli con
la Cetta e giungeva in cima al secondo piano aveva una sensazione di vertigine
a guardare giù il portone di accesso.
Leonardo aveva avuto due figli
Nini e Felice.
Nini era un ragazzo alto ed esile
sempre elegantissimo portava dei colletti inamidati staccati dalla camicia.
Al Banco di Sicilia era
considerato un damerino: sembra più il direttore che il semplice cassiere che
era.
Aveva sposato una professoressa
di francese che si chiamava Maria Amata. La professoressa faceva sempre i
complimenti a Nicheto che secondo lei aveva una ottima pronuncia per la lingua
transalpina.
Cice invece era più ruspante si
occupava di commercio di carbone. Girava su di una peata enorme tutta nera da
dove i carbonai andavano e venivano con delle cariole atte a trasportare il
coke dalla barca alle case dei clienti. Allora le stufe bruciavano legna o
carbone.
La moglie Tina erra una energica
veneziana doc che comandava in casa e si occupava dell’educazione del figlio
Leonardo e della figlia Franca.
C’era Nicola Di Lernia nato il
6.11.1873 morto 11.5.1940 un mese prima dell’inizio del conflitto che aveva sposato
Francesca Di Marzo la sorella nata 9.6.1875 morta 9.3.1955. Erano i parenti più
facoltosi visto che possedevano l’albergo Universo, vicino alla stazione
ferroviaria, che conducevano direttamente.
Le figlie Maria e Nineta uscivano
spesso con le figlie di Nicola erano due ragazze piene di vita sempre allegre e
sorridenti.
Nino il fratello maschio
preferiva altre frequentazioni, dicevano che frequentasse l’Antico Martini
l’unico night club della città dove conosceva tutte le ballerine. Era un
comportamento scandaloso per tutti i parenti benpensanti.
Poi c’erano i cugini Savino,
Felicetto, che avevano anch’essi delle osterie nella città.
Naturalmente anche loro avevano
delle figlie la Nella e la Anna due belle ragazze in cerca di marito, naturalmente
che fosse meridionale magari di Trani.
Poi conobbe Rino e se andò a
Trani a fare la moglie.
Anche loro grandi lavoratori,
dediti tutto il giorno a mescere il vino nelle scodelle che avevano preso un colore
rosso scuro.
Era un commercio buono quello del
vino che si consumava in grande abbondanza nella città delle ombre. I tranesi
importavano il loro vino che aveva una gradazione molto alta e lo mescolavano
con i vinelli più leggeri dell’estuario ricavando un prodotto molto apprezzato
e a buon prezzo.
Veniva poche volte perché abitava
a Bari la sorella Pasqua Di Marzo che aveva sposato Angelo Modugno che era
rimasto vedovo dopo la morte della sua amata sorella Isabella.
La Pasqua era fidanzata con
Antonio ma dovette su invito della famiglia accasarsi con Modugno per accudire
i figli della sorella premorta: allora si usava così e lei obbedì rispettando la
consuetudine.
Nicola aveva avuto due figlie
Bice, la più grande e Cetta di due anni più giovane, la terza figlia Isabella
era morta di spagnola.
Le ragazze non scendevano mai nei
locali della trattoria perché non stava bene per due signorine occuparsi degli
affari di famiglia soprattutto in una locanda.
Così si pensava allora.
Le ragazze dovevano stare a casa.
A
Giani interessava la Cetta ed aveva incominciato a frequentarla.
Si
trovavano bene insieme anche perché avevano comuni radici pugliesi.
L’aveva
portata una volta a Ca’ Giustinian nella Sala delle Colonne: un tripudio di
stucchi, cascate di vetri di Murano.
Aveva
fatto colpo? si sarebbero visti altre volte?
La
situazione internazionale, nel frattempo, peggiorava perché i venti di guerra
soffiavano soprattutto al Nord in Germania.
La Seconda Guerra Mondiale.
La seconda
guerra mondiale aveva avuto inizio il 1º settembre 1939 con l'attacco della
Germania nazista alla Polonia.
L’invasione
era stata rapidissima.
Giani
aveva appreso la notizia dalla radio alle 18.
A
quell’ora aveva finito di lavorare ed aveva lasciato il laboratorio.
Lui
era tranquillamente seduto al tavolino del bar vicino alla cassa dove poteva
seguire meglio il movimento dei camerieri impegnati a servire i clienti che a
quell’ora cominciavano a venire per gustare i suoi gelati.
Aveva
capito subito che le cose sarebbero andate nel verso sbagliato.
Successivamente
le forze armate tedesche avevano invaso Norvegia e Danimarca, Olanda Belgio e
Lussemburgo e Francia.
Giani
seguiva il succedersi degli avvenimenti sempre sperando che le cose si
sarebbero risolte in fretta.
La
guerra lampo promessa dal duce sembrava una realtà.
Lui
non era un interventista, era un buon uomo abituato a risolvere i problemi con
la persuasione e non con la violenza
Nel
maggio del 40 era stato richiamato alle armi.
In
caserma, attaccato alla radio aveva capito che la situazione andava ormai verso
il disastro totale dopo aver sentito il testo della dichiarazione di guerra
pronunciato da Mussolini nel discorso di Palazzo Venezia il 10 giugno 1940,
alle ore 18.00.
Quel
momento apparentemente così tranquillo era stato scosso dalla voce del duce:
“Combattenti
di terra, di mare e dell'aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni!
Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del regno d'Albania! Ascoltate!
Un'ora
segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni
irrevocabili.
La
dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran
Bretagna e di Francia.”
Il
4 dicembre 40 Badoglio presentava una lettera di dimissioni e veniva sostituito
dal generale Cavallero.
Cavallero
aveva indubbie doti di ingegno; aveva percorso tutta la carriera dello stato
maggiore.
Il
generale aveva come dote l’ottimismo e Mussolini non chiedeva di meglio. (Indro
Montanelli, Storie d’Italia Vol 8, 2003,
360).
Giani
non seguiva gli avvenimenti che si verificavano nelle alte sfere dell’esercito.
Non
era né favorevole né contrario al cambio dei vertici militari, anche se non
nutriva grande stima per Badoglio.
Faceva
parte della truppa di fanteria che i grandi generali consideravano senza troppi
riguardi come pedine da muovere nei loro scacchieri di guerra per ottenere
onori dal Duce.
Aveva
capito a sue spese che il mondo si divideva fra potenti che comandavano e
truppa che obbediva, se non voleva essere passata per le armi.
Era
rassegnato ad un destino che sentiva di non potere neppure tentare di cambiare.
Cosa
avrebbero potuto fare lui e i suoi commilitoni che non la pensavano come il
Duce per fermare l’Europa che correva verso il precipizio?
Al
massimo potevano prendere un sacco di bastonate o al peggio essere fucilati
come disertori.
Nel
settembre del 41 giunse al 121° reggimento Battaglione Motorizzato di Piacenza.
Piacenza
era un luogo storico da cui era partita la seconda crociata ed il suo capitano
lo ricordava spesso per galvanizzare gli uomini.
Giani
e i suoi commilitoni lo guardavano senza parlare quando cercava di convincerli
che la guerra doveva essere vinta per il bene della nazione, ma sentivano in
cuor loro che quella non era la loro guerra.
Il
1941 era stato già fino a quel momento un anno terribile per Giani.
La
Roma era morta il 21-7-1941 di tifo per avere mangiato delle cozze crude e
Angelo l’aveva seguita nel triste viaggio perché aveva condiviso con lei quel
piatto così gustoso.
Quel
dolore per la morte di entrambi i genitori l’aveva intristito, ma doveva
reagire ad una situazione di guerra e si fece forza.
Nelle
retrovie Giani non stava poi tanto male aveva persino trovato l’Avila, un
antico casale, sulle prime colline della val Trebbia, vicino a Piacenza dove
poteva rilassarsi nei rari momenti di pausa.
Un
locale nel verde adatto a festeggiare, ballare, parlare tanto da interrompere
la routine della vita militare e trovare una specie di normalità.
Nel
maggio del 42 era stato assegnato in forza al 17° reggimento di artiglieria motorizzato della
Sforzesca.
La
caserma Cantore, lungo lo stradone Farnese, era diventata la sua nuova casa.
Giani
non sapeva ancora di essere capitato in un battaglione segnato da un destino
avverso, ma nella sua sfortuna aveva una qualifica che sicuramente avrebbe
contribuito a salvargli la vita.
Il
suo foglio matricolare attestava fra i suoi segni particolari quello di essere
un autista.
Tanto
bastava a sottrarlo dalla fanteria da montagna destinata fra non molto a
muoversi a piedi nell’inverno russo.
Una
vera sciagura! A Giani che soffriva di mal di macchina avere quella patente era
costata molta sofferenza, ma era bravo e gli piaceva guidare.
Per
abituarsi alla puzza di nafta che gli dava il volta stomaco soleva tuffare il
suo naso nella bocca dello scarico dei fumi della nafta.
In
questa maniera, diceva, di curare il suo mal di macchina che dopo questo
rimedio inconsueto gli era passato.
Non
sapeva che la sua forza di volontà ed il suo amore per i motori gli sarebbe
stato utile nei momenti più difficili della sua vita.
La "Sforzesca”.
La
"Sforzesca" era classificata come divisione di fanteria di montagna e come tale destinata all'impiego nei settori
alpini.
In
realtà la dotazione di armi e mezzi era di poco differente da quella di una
normale divisione di fanteria di linea ed i fanti ne avrebbero pagate le conseguenze in
tutte le fasi del combattimento in cui sarebbero stati impiegati sia
all’attacco sia in ritirata.
Inviata
in Russia nel
luglio 1942, la "Sforzesca" era stata subito
impiegata sul fronte del
medio Don, sostituendo la divisione
"Torino" appartenente
al XXXV Corpo d'Armata (ex CSIR). A comandare la ottava armata italiana il
Russia ARMIR era stato designato il generale Gariboldi.
Arrivare
in zona di guerra a Giani aveva fatto una strana impressione, perché non andava
a difendere la patria in pericolo, ma ad aggredire un nemico pacifico.
I
russi erano contadini e gente del popolo come lui.
L’armata
di Gariboldi aveva agito in pianura.
La
sua insufficienza di automezzi la condannava ad una staticità che sarebbe stata
componente essenziale della tragedia finale.
Giani
faceva parte di quella fortunata squadra dotata di mezzi da trasporto che
avrebbe avuto più possibilità di cavarsela se i Russi avessero contrattaccato
in forze.
Qualcuno
come il generale Cavallero, eterno ottimista, sosteneva di avere risolto gli
evidenti problemi della motorizzazione non dando camion alla truppa, ma
portando la tappa quotidiana della fanteria da 18 a 40 chilometri.
Davvero
un vero dirigente che sapeva risolvere i problemi seguendo acriticamente le
direttive di chi comandava veramente senza azzardare una diversa opinione per
paura di compromettere il suo curriculum militare: un perfetto carrierista.
Chi
aveva una visione realistica della situazione era stato messo a tacere.
Il
generale Messe, che aveva accumulato un’esperienza preziosa sulle difficoltà e sulle
esigenze della guerra, aveva capito presto che i soldati italiani venivano
mandati allo sbaraglio senza un equipaggiamento ed un armamento che dessero un
minimo di garanzia.
Messe
aveva confidato queste sue perplessità a Mussolini, ma il Duce aveva confermato
che l’Italia non doveva figurare da meno di altri alleati e doveva trovarsi a
fianco della Germania su quel fronte, così come la Germania affermava la sua
cooperazione con l’esercito italiano in Africa
In
tal modo l’Italia avrebbe tratto vantaggi e benefici maggiori dalla presenza di
un corpo d’armata piuttosto che di una sola armata.
Di
queste strategie a Giani e alla maggior parte della truppa non interessava
molto.
“Quando
se torna a casa”. I fanti chiedevano ai
loro sottufficiali che erano lì con loro a combattere in prima linea e che
erano gli unici che avrebbero fatto il possibile per riportarli indietro, anche
a costo della vita, a differenza di quelli dello stato maggiore.
La
ragion di Stato, o meglio le pericolose motivazioni del dittatore avevano avuto
il sopravvento poiché nessuno, salvo rare eccezioni, voleva contrariare il Duce
ed esprimere un parere diverso dal suo.
Secondo
i comandi dello Stato Maggiore l’ARMIR aveva preso posizione sulla sponda
destra del Don.
L’armata
doveva lanciarsi alla conquista di Stalingrado, ma a questo compito erano state
destinate la 6ª e la 4ª armata tedesca. I tedeschi non volevano dividere
l’onore e i privilegi della vittoria, ritenuta in un primo momento molto
facile, con nessuno.
Gariboldi
doveva limitarsi a presidiare il settore del nord in vista di future minacce.
Il
generale aveva protestato.
Lui
aveva capito perfettamente la situazione, aveva, infatti, pensato: “Se
l’attacco sovietico non verrà saremo inutili e se verrà saremo troppo deboli”.
(Indro Montanelli, Storie d’Italia, Vol
8, 2003, 477).
Nell’agosto
dello stesso anno, i fanti della "Sforzesca" ed i resti della 3ª divisione "Celere" avevano ingaggiato durissimi combattimenti con le
forze russe.
Il
20 agosto 1942 era incominciata la prima
battaglia difensiva del Don e il
79° Btg. CC.NN. era stato impegnato a contenere al fianco della 2ª
Divisione fanteria "Sforzesca" gli
attacchi sovietici.
Il
21 agosto all'alba un nuovo attacco aveva determinato il cedimento della
"Sforzesca" che aveva abbandonato le posizioni e a Margini, comandante
del 79°, era stato dato l'ordine di occupare il più rapidamente possibile le
posizioni abbandonate non ancora prese dal nemico per costituire dei capisaldi.
Le
posizioni abbandonate dalla Sforzesca erano state rilevate dal 79º
Battaglione M del seniore Silvio Margini che
ne aveva protetto la ritirata.
Per
fortuna che Margini aveva fatto fino in fondo il suo dovere!
Era
un battaglione di camicie nere più addestrato, più equipaggiato e più
motorizzato della fanteria di montagna che aveva dato il suo appoggio
determinante per salvare la vita dei fanti della Sforzesca troppo poco mobili
per sfuggire agli attacchi dei russi.
La Ritirata.
I
fanti della "Sforzesca" erano stati costretti a ritirarsi e questo
valse all'unità l'appellativo di divisione cikai ("scappa"
in russo).
A
Giani quell’ingiusto appellativo non andava giù. Loro avevano combattuto,
avevano dato il loro contributo di sangue, cosa dovevano fare di più?
Dopo
questi combattimenti la "Sforzesca" era stata spostata sulle rive del
fiume Don, all'interno del settore del XXIX Corpo d'Armata tedesco e nella
parte più orientale dello scacchiere italiano, a contatto con le forze rumene.
L’operazione
Piccolo Saturno contro l’ottava armata italiana aveva avuto inizio a metà di
dicembre 1942, quando oramai la imminente resa, consegnata il mese successivo,
della sesta armata del generale Von Paulus consentiva alle truppe russe di
riprendersi il resto del loro territorio
Lo
schieramento dell’ARMIR vedeva allineato, da nord ovest verso sud est, il II
corpo d’armata alpino con la Cosseria e la Ravenna, il XXXV con la 298ª tedesca
ed il Pasubio, il XXIX con la Torino la Celere e la Sforzesca.
Giani
era lì su sul suo camion ad attendere ordini. Pensava che almeno lui era al
caldo nella sua cabina mentre i suoi commilitoni della fanteria erano nel gelo.
Li
vedeva passare accanto al suo mezzo di trasporto che tenevano stretta la
coperta che li riparava la testa e le spalle dal vento gelido, camminavano uno
dietro l’altro con la testa bassa. (Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve,
1953, 62)
I
reparti siberiani erano avvolti nei loro indumenti caldi e nei loro stivali
confortevoli adatti a quelle temperature polari.
La
Cosseria e la Ravenna dapprima avevano resistito, ma poi la linea si era disintegrata
il corpo d’armata tedesco non aveva portato in aiuto alcuna forza combattente.
Il
19 dicembre il II corpo d’armata aveva cessato di esistere. La
"Sforzesca"aveva iniziato la ritirata il 19 dicembre 1942.
Il
percorso seguito dalle colonne in ritirata del blocco sud, cui
appartenevano le unità della "Sforzesca", fu lungo e tortuoso, in
condizioni climatiche estreme e con equipaggiamento e vestiario non idonei.
Il
28 dicembre 1942 i soldati del 54º Reggimento, primi tra tutti i reparti della
divisione, erano riusciti ad uscire dalla sacca.
Giani
era lì a Kantemirovka con altri trecento carri pronto per uno sgombero ordinato
delle truppe. L’arrivo dei carri armati russi aveva provocato il panico.
Dal
finestrino del suo camion aveva visto la massa dei fuggiaschi prendere
d’assalto il suo camion ed era partito miracolosamente attraversando una folla
di disperati.
Aveva
preso la via della ritirata raccogliendo più fuggitivi che poteva, abbandonando
armamento, equipaggiamento ed ogni cosa ingombrante. La cosa più importante era potersi rifornire
di carburante, perché senza gasolio avrebbe fatto la fine dalla maggior parte
dei fanti.
La
massa di fuggiaschi si era dispersa. (Indro Montanello Storie d’Italia Vol. 8,
2003, 493).
La
colonna maggiore in ritirata era come una biscia nera lunga una quarantina di
chilometri circa due giorni di marcia.
La
colonna rallentava e si ingrossava se davanti magari una decina di chilometri
avvenivano scontri o combattimenti altrimenti se non vi erano ostacoli si
assottigliava e marciava veloce (Egisto Corrado, La ritirata di Russia, 2009,
127).
Giani
aveva la sensazione di appartenere ad un lungo serpentone di formiche che un
nemico insidioso si divertiva a schiacciare senza che le povere bestioline
potessero porre difesa o scappare.
Nonostante
questo il corpo d’armata alpino aveva avuto un riconoscimento del suo eroismo
pagato troppo a caro prezzo (Giulio Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio,
2011, 157).
Giani
non aveva mai voluto parlare a Nicheto di quei giorni. Aveva visto morire
troppi amici attaccati al suo camion senza potere fare di più; non voleva
impressionare il suo bambino con quei ricordi.
Sapeva
che di 229.000 soldati partiti per quella assurda spedizione non ne erano
tornati 74.800, senza che nessuno avesse fatto niente per limitare almeno tanto
massacro.
Giani
sapeva che rispetto ai 12.521 uomini in forza alla Sforzesca al 1º luglio 1942,
al 1º gennaio 1943 erano stati rilevati 4.802 uomini - con una
percentuale di perdite per la divisione pari al 64%. Riteneva solo di essere
stato fortunato per esser potuto tornare a casa.
Aveva
visto migliaia di soldati distesi sulla neve dormire per sempre con il termometro
che scendeva fino ai 40 gradi sottozero e quelli che tagliavano a strisce le
coperte per scaldarsi i piedi all’orlo del congelamento. (Nuto Ravelli, La
ritirata di Russia, 1961, 289).
Nicheto
era troppo piccolo per capire, ma avendo sentito parlare di guerra come tutti i
bambini che giocavano con i soldatini voleva sapere com’era la guerra davvero e
chiedeva con insistenza a Giani che gli raccontasse delle battaglie cui aveva
partecipato.
Non
capiva che le guerre che Giani e i suoi commilitoni avevano combattuto erano
quelle contro il gelo, la fame, la paura dell’inseguitore, il timore di essere
braccati in condizioni di inferiorità.
L’unica
possibilità era la fuga. Erano degli invasori, certo, ma poi erano diventati
solo dei soldati in fuga, in balia di un nemico che li voleva distruggere
perché avevano invaso la sacra terra di Russia.
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