FOGLIO MATRICOLARE
INDICE
Nicheto
aveva scoperto nell’Archivio di Stato di Bergamo il foglio matricolare di suo
padre Giani.
Il
documento confermava che Giani aveva passato la sua infanzia a Serina, dove era
nato l’otto ottobre 1916, che era stato chiamato alle armi dal Distretto
militare di Bergamo e che era stato richiamato nel 1940 il mese prima della
dichiarazione di guerra.
Nel
1942 era stato inviato in Russia e aveva visuto la odissea della Sforzesca che
era il suo battaglione.
Degli
avvenimenti della guerra di Russia Giani non aveva mai voluto parlare.
Diceva
solo che in Russia la guerra era stata durissima e che, tornato in Italia, lui
non aveva parteggiato per nessuno.
Lui
cercava solo di non fare del male.
Una
grande sofferenza traspariva dal suo silenzio.
Nicheto
aveva rivissuto la campagna di Russia attraverso i documenti ufficiali ed aveva
potuto, ad anni di distanza, rivivere questa tragica esperienza.
Lui
aveva voluto ricordare Giani che aveva perso quando era ancora troppo giovane, aveva
cercato di immaginare che cosa faceva, che cosa pensava della sua famiglia, dei
suoi amici e della gente comune.
L’Autore
Serina
Perché
Angelo Centofanti era andato a Serina, perché aveva lasciato la sua Venezia per
recarsi in un posto così distante e così lontano dal mare?
I
motivi erano contingenti. Il 28 giugno 1914, giorno di solenni celebrazioni e
festa nazionale serba, l'arciduca Francesco
Ferdinando d'Asburgo-Este erede
al trono d'Austria-Ungheria e la moglie Sophie Chotek
von Chotkowa, recatisi a Sarajevo in
visita ufficiale, erano stati uccisi da alcuni colpi di pistola sparati dal
nazionalista diciannovenne serbo Gavrilo Princip.
Angelo
aveva capito subito che da quel momento nulla sarebbe stato facile perché
Venezia era troppo vicina al confine con l’Austria.
Vivere
a Venezia sarebbe stato oltremodo complicato soprattutto se l’Italia avesse
preso una posizione contraria agli imperi centrali.
Quasi
un mese dopo l'assassinio di Francesco Ferdinando, l'Austria-Ungheria aveva dichiarato
guerra alla Serbia, determinando l'irrimediabile acuirsi della crisi e la
progressiva mobilitazione delle potenze europee.
L'Italia
si poneva in uno stato di neutralità, attendendo ulteriori sviluppi della
situazione. Erano cinque le potenze che ormai erano entrate in guerra:
Austria-Ungheria, Germania, Russia, Regno Unito e Francia.
L’Europa
era in fiamme ed i quattro cavalieri dell’Apocalisse galoppavano seminando
Pestilenza, Guerra, Carestia e Morte.
Filippo
Grimani, sindaco di Venezia, scriveva nel novembre 1914 che le principali
attività economiche: il traffico portuale, "l'industria del
forestiero" e le produzioni artistiche, poche settimane dopo l'inizio
delle ostilità in Europa, avevano già subito un contraccolpo gravissimo.
Al
declino del movimento commerciale si erano aggiunte le limitazioni alla libera
circolazione marittima e all'esercizio della pesca.
Il
pericolo delle mine vaganti aveva tenuto lontane le navi dalle coste adriatiche
e gran parte del movimento di merci era stato dirottato verso il porto di
Genova.
Con
l'entrata in guerra dell'Italia contro l’Austria l'attività portuale era cessata
completamente.
Venezia,
pur non essendo direttamente coinvolta nel conflitto, in quel periodo era
l'immagine della rovina: laboratori chiusi; cantieri agonizzanti; banchine
inerti; operai disoccupati a centinaia per ogni categoria.
Angelo
era giovane e forte.
Era
nato nel 1884 a Trani, trasferitosi da giovane a Venezia per lavoro, aveva
sposato una veneziana, Roma Gherardi, ed aveva già avuto un primo figlio,
Giuseppe.
La
Roma era una veneziana autentica nata a Castello; la sua famiglia si era
trasferita in Cannaregio nel 1890 stabilendosi lì.
La
vita di una famiglia di tre persone era resa difficile dalla mancanza di lavoro
e per questo Angelo aveva deciso di andare altrove in cerca di fortuna.
I
Gherardi erano biadaioli: nel loro negozio a Cannaregio vendevano farine,
formaggi, generi alimentari, salami, prosciutti, olive.
Coll’aggravarsi
della crisi il negozio lavorava sempre meno.
Quel
poco che riuscivano a vendere lo davano a credito ed il misero guadagno
garantiva a stento la sopravvivenza della famiglia e dell’attività.
Tali
avvenimenti avevano indotto Angelo a spostarsi verso luoghi apparentemente più
sicuri, lontani da Venezia troppo vicina al fronte di guerra.
La
Roma piangeva: “No vogio partir, no vogio lasar Venezia e i me veci”.
Angelo
era stato irremovibile: “Questa xe a to famegia. Bisogna andar per non morir
tutti de fame e per no trovarse col fio in mezo a una guera che riverà presto”.
Tutti
avevano paura della guerra contro l’Austria: il confine era vicino.
Questo
argomento era riuscito convincere la Roma.
Angelo non capiva perché l'Italia
si era alleata all'Austria che dominava il Trentino e l'Alto Adige dove vi era
una maggioranza di popolazione italiana; ma questi erano i giochi della
politica divertimenti che comprendevano solo i capi.
Solo loro riuscivano ad interpretare
gli schemi incomprensibili alla povera gente: è questa la logica del potere.
I poveri diavoli dovevano poi
andare a morire in trincea.
Angelo sapeva che con lo scoppio
della guerra sarebbe stato chiamato alle armi e questo era stato il motivo in
più che lo aveva spinto a tenere almeno la famiglia lontano dal fronte.
La linea del Piave era troppo
vicina alla città del leone.
Angelo
si era ricordato di un suo cugino che aveva una attività in provincia di
Bergamo.
Antonio
Centofanti aveva rilevato un piccolo bar di carattere familiare cui aveva
aggiunto una cucina e utilizzava alcune stanze del suo grande appartamento sito
al piano superiore dell’immobile per affittarle agli scarsi viaggiatori.
Da
quando la moglie gli era morta non ce la faceva più a condurla da solo.
Antonio
sentita la situazione difficile in cui si trovava Angelo lo aveva invitato a
raggiungerlo a Serina; lì ci sarebbe stato un lavoro anche per lui.
Serina
era una piccola cittadina di provincia e non c’era il profumo del mare di
Venezia. La cittadina distava 50 km da Bergamo. I collegamenti col capoluogo di
provincia erano difficili.
Nel
febbraio del 1914 quando erano emigrati nel comune di Serina la Roma aveva
commentato: “Qua xe proprio campagna”.
Il
disgusto del cittadino veneziano per la terraferma si condensava in quell’unica
parola.
La
vita risultava monotona per chi non era abituato o non voleva abituarsi ai
ritmi molto rallentati dei piccoli paesi.
L’attività
non consentiva grandi guadagni ed il territorio era duro ed aspro come il
dialetto della sua gente.
L'economia
italiana si trovava in una situazione di grave crisi, iniziata già durante la
guerra e che si era protratta a lungo; il reddito nazionale netto era sceso
drasticamente ed era rimasto per alcuni anni ben al di sotto del livello
d'anteguerra.
A
Serina era nato Giani. Lo denunciò in comune l’ostetrica Teresa Begnis che lo
aveva fatto nascere in casa come si usava allora alle ore 11,30 dell’otto
ottobre 1916.
Centofanti
Angelo fu Giuseppe aveva allora 32 anni e Roma Gherardi ne aveva 29.
Vivevano
in Via Umberto I al numero 50 dove si erano trasferiti da poco da Piazza
Fontana.
Al
comune non c’era andato Angelo perché al momento della nascita lui era
richiamato al servizio militare.
Il
momento non era propizio, la prima guerra mondiale era in corso.
Stavano
infuriando le battaglie dell’Isonzo e del Pasubio e si annunciava neve per
tutto l’inverno.
Giani
era un bambino delicato e buono: si faceva volere bene da tutti.
La
Roma lavorava alla locanda, i divertimenti erano pochi, si sopravviveva in
momenti estremamente duri per tutti.
Avevano
pochi rapporti anche con i parenti di Venezia perché il viaggio era lungo ed i
collegamenti difficili.
Li
era andati a trovare la zia Luigina una sorella della Roma che aveva confermato:
“Campagna!”.
La
zia era una donna energica, lavoratrice instancabile, si era fermata qualche
giorno aiutando la famiglia nel lavoro; ma soprattutto la Roma aveva respirato
un po’ di aria di casa.
Il
desiderio di ritornare a Venezia era molto forte.
Palazzo Tintoretto.
Angelo
nel gennaio del 1921 aveva deciso che era giunto il momento di ritornare, visto
che la guerra era finita e che a Venezia vi erano condizioni di lavoro più favorevoli, per il
maggior benessere della sua famiglia.
La
Roma era entusiasta della notizia.
I
Gherardi possedevano una vecchia casa a Cannaregio in Fondamenta dei Mori dove
si era liberato un appartamento.
Quella
Venezia minore piaceva molto soprattutto alla Roma; era lontana dai turisti ed
era abitata solo dai veneziani.
I
veneziani erano allegri, “ciacoloni”, sempre pronti a ridere e a scherzare
soprattutto davanti ad un’ombra di vino bianco.
I
Gherardi erano diventati proprietari di questa augusta dimora un po' decaduta,
ma molto veneziana con la sua trifora al secondo piano che si affacciava al Rio
della Sensa.
In
quella casa aveva vissuto Jacopo Robusti, un famoso pittore veneziano del
millecinquecento.
Ad
Angelo piaceva la casa del Tintoretto; sapeva vagamente che Robusti era stato
un famoso pittore ed aveva abitato e tenuto bottega proprio in quella casa.
Era
andato a vedere le grandi tele dipinte dal Tintoretto alla Madonna dell’Orto e
alla Scuola Grande di San Rocco, su pressione della Roma, ed era onorato di
vivere in quella casa, ma non se ne vantava.
Ad
Angelo piaceva soprattutto affacciarsi sul pergolo, che guardava sul canale, al
tramonto e fissare il sole che degradava sulla striscia d’acqua del rio. Era
per lui un momento magico con quella luce calda che poteva seguire lontano fino
ai margini della laguna e ancora più in là verso spazi tutti da immaginare.
Gli
piacevano di Venezia l’odore dei canali, le risa delle persone, la confusione
dei bacari dove si fermava volentieri per bere un’ombra in compagnia degli
amici, il vociare festoso dei turisti che cominciavano ad affluire in città.
Non
era più solo nelle valli Bergamasche, isolato, lontano dai centri più abitati
della pianura.
Angelo
era entrato anche nella gestione del negozio di famiglia dei Gherardi.
Vendevano
generi alimentari: farine, formaggi, salami, prosciutti, avevano poi delle
olive nere buonissime.
A Giani
piacevano tanto; quando andava al negozio immancabilmente se ne mangiava
qualcuna tanto che la Roma lo burlava: “Ti me magni tute le olive ostrega!”.
Il
negozio era sotto la casa in campo dei Mori proprio: “Casa e botega.”
Si
diceva così quando il posto di lavoro era vicinissimo all’abitazione.
Quella
attività aveva consentito alla famiglia di prosperare. Loro erano dei piccoli
commercianti che col lavoro di una generazione avevano trovato uno spazio nella
città.
La
vita economica a Venezia era ripresa con la Biennale d’arte iniziata nel 30.
Grazie
ai finanziamenti nazionali la città aveva acquistato un rilievo importantissimo
fra le manifesta-zioni culturali dell’epoca.
Soprattutto
con l’avvio della mostra del Cinema, che era nata nel 32 per iniziativa del
Conte Volpi di Misurata, il creatore di Porto Marghera, le prenotazioni dei
turisti al Lido avevano ripreso a salire dando impulso al turismo nella città
del Leone.
Tutti
erano in fermento per l’inaugurazione della Mostra del cinema che si diceva
avrebbe riportato i turisti nella città del Leone.
All’oratorio
della Madonna dell’Orto Giani giocava a calcio.
Il
parroco era proprio bravo aveva realizzato nell’ora-torio per i ragazzi un
campo di calcio che per la città era proprio una rarità.
I
ragazzini potevano scatenarsi a prendere a calci il pallone tutto il santo
giorno.
Angelo
invece si era inserito nella banda municipale dove aveva trovato subito posto
colla sua tromba.
Angelo
era orgoglioso del suo strumento che la Roma teneva sempre lucido
accarezzandolo tutti i giorni con una pelle di daino.
Giani
andava d’accordo col fratello Bepi che era un po’ più grande di lui e
sicuramente meno tranquillo.
Giuseppe
aveva due passioni: le donne e le moto.
Dopo
che era riuscito ad acquistare a poco prezzo una G.T., la famosa
Norge che aveva compiuto l’impresa del raid a capo Nord, Bepi era sempre
in giro a correre per la provincia di Venezia e aveva uno straordinario
successo con le ragazze.
Giani
non si preoccupava e non si faceva un cruccio se doveva supplire qualche volta
anche ai suoi turni di lavoro.
Giani
era buono.
“
Ti xe tre volte bon” gli diceva la Roma sottolineando che la sua generosità
sconfinava quasi nella dabbenag-gine.
Lui
non si curava delle critiche ed agiva come il suo cuore gli comandava.
Il Servizio Militare.
Nel
34 Giani era partito militare. Era nato nell’ottobre del 1916 in piena guerra
mondiale ed a diciotto anni era stato chiamato alla leva.
Lui
era pieno di gioiose speranze.
Non
era molto alto, ma la sua corporatura massiccia contribuiva a renderlo
imbattibile a braccio di ferro.
Era
giovane e forte, era di bell’aspetto, orgoglioso del suo taglio di capelli alla
mascagna come usava allora; piaceva alle donne che invitava a ballare nelle
feste.
A
Giani piaceva molto danzare.
Lo
notavano tutti alle feste nelle balere della provincia, perché da quando saliva
in pista non si sedeva mai.
Non
perdeva un ballo.
Continuava
a girare vorticosamente nella sala a tempo di musica cambiando una ballerina
dopo l’altra senza sbagliare un passo.
Il
suo ballo preferito era il valzer lento, si muoveva elegantemente e teneva
delicatamente la sua ballerina passando dolcemente il braccio sulla sua scapola
e la guidava sicuro facendola roteare sulla pista.
Il
periodo militare di addestramento non era stato così male, anche se c’erano
molte tensioni nel paese e molti erano preoccupati per la furia militare di Hitler
e per i fatti che accadevano in Europa.
Le
persone gli volevano bene perché era disponibile con gli altri.
Lui
affrontava la vita con simpatia e poi si rilassava a ballare quando non era di
corvè in caserma.
La
vita militare non gli risultava troppo pesante perché era abituato a lavorare
in famiglia.
Il
5 maggio 1936 Badoglio era entrato ad Adis Abeba.
A
Roma dal balcone di Piazza Venezia quella sera stessa Mussolini aveva annunciato
al popolo italiano e al mondo intero che la guerra era finita e che la pace era
ristabilita.
Mussolini
aveva proclamato entusiasticamente che l’Impero era riapparso su i colli fatali
di Roma fra il tripudio generale: sembrava che tutto il paese fosse fascista.
L’Italia
stretta intorno al Duce dimenticava il buco finanziario rappresentato dai 12
miliardi che la guerra era costata.
Il
conto di Badoglio fu anch’esso salato. Il generale aveva presentato quattro
richieste:
Il
titolo di duca di Adis Abeba.
Il
trattamento economico di vice re a vita.
Il
dono di una villa che sarebbe costata all’erario 5 milioni e che gli erano
stati versati in contanti.
Solo
l’ultima richiesta di promuovere a ministro plenipotenziario di seconda classe
il figlio Mario era stata respinta. (Indro Montanelli, Storie d’Italia Vol 7, 2003, 411).
Le
gesta africane di Badoglio erano state immortalate nelle strofe della Badoglieide
di Nuto Revelli che ben rappresentano le imprese dell’illustre generale.
Giani
le aveva imparate alla fine della guerra.
“Ti
ricordi l'impresa d'Etiopia
e
il ducato di Addis Abeba?
meritavi
di prendere l'ameba
ed
invece facevi i milion.”
Giani
era una persona molto semplice e non capiva come mai i potenti si prendessero
tutto mentre il popolo, cui restavano le briciole, applaudiva.
Del
pari restava incredulo di fronte alla folla degli italiani che si proclamavano
entusiasti per la conquista dell’Impero.
Non
aveva idea che molti per conformismo e per incapacità di elaborare una
opposizione costruttiva avevano trovato più comodo accodarsi al carro di chi
appariva allora vincente.
L’opposizione
era ridottissima.
Tutti
erano felici per i successi di Mussolini.
Giani
era di fondo una persona modesta con istruzione elementare, ma non si spiegava
come potesse reggere questo fanatismo per Mussolini che perseguiva una politica
imperialista costata il sangue di molti soldati italiani e di molti poveri
africani.
Il
popolo si accodava al leader vittorioso che incarnava la voglia di vincere che era
innata in ciascuno di noi. Così tutti avevano seguito il carro del vincitore
pronti ad abbandonarlo nell’ora della disfatta.
L’Europa
nel frattempo assisteva ai successi di Adolf Hitler che il primo agosto 1936, aveva
dato ufficialmente inizio a Berlino alle XI Olimpiadi.
Anche
lì la maggioranza dei tedeschi tifava per il Fuhrer e le minoranze critiche
erano di fatto ridotte al silenzio.
Nel
settembre del 36 Giani era stato congedato dal distretto di Bergamo.
Successivamente
era stato richiamato alle armi nel maggio del 37 mentre l’Italia impaziente
scaldava i muscoli. Il
6 novembre 1937 c’era
stata l'adesione del Regno d'Italia
al Comintern.
Il
bel paese era desideroso di cooperare nella difesa contro le attività
sovversive dei comunisti.
Tale
accordo aveva dato origine al primo embrione dell'alleanza tripartita, che sarebbe stata formalizzata il 27 settembre 1940.
Nel
marzo del 38 la Germania si era annessa l’Austria. Un plebiscito aveva convalidato
l’Anschluss.
Fino
all’agosto del 38 Giani era rimasto sotto le armi poi era stato messo in
congedo illimitato.
Le
cose però in Europa andavano male e lui era stato subito richiamato nel
settembre del 38.
Era
stato iscritto in forza alla guardia di frontiera del distretto militare di
Venezia Mestre.
La
ferma era finita nel 38.
Giani
era felice perché finalmente sembrava che la vita ricominciasse con nuovi
presupposti.
Forse
non credeva proprio che la guerra fosse scongiurata davvero, però era certo che
la divisa, almeno per il momento, non la indossava!
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