Mattiello: Dopo il 2011, abbiamo riscontrato molte
criticità, gravi, nella gestione dei beni sequestrati e confiscati. I problemi
erano vari: c’erano beni che rimanevano occupati da chi non ne aveva titolo o
aziende che andavano incontro a fallimenti, con conseguenti posti di lavoro
persi. Il meccanismo era un acquedotto bucato e per questo siamo partiti con la
proposta per un nuovo Codice antimafia, sollecitati dalla società civile: enti
come Acli, Arci, Libera, Avviso Pubblico e CGIL hanno raccolto 500mila firme per
chiedere una riforma soprattutto nell’assegnazione e nella gestione dei beni e
delle aziende confiscate. Ovviamente c’è molto altro nel Codice, perciò è un
peccato che alcuni commentatori stiano liquidando una riforma fatta di 38
articoli, non solo di uno. In una riforma così complessa c’è sempre qualcosa
che poteva essere fatto meglio, ma a un certo punto in politica devi anche
decidere quando l’equilibrio raggiunto è sufficiente per prenderti la
responsabilità di consegnare al Paese una riforma. Altrimenti avremmo lasciato
la situazione al 2011, nonostante le denunce, i posti di lavoro persi e i
drammi a livello giudiziario. Sarebbe stato un fallimento e una grande
vergogna. La mia preoccupazione ora con il ministro Orlando è fare i decreti
attuativi prima che la legislatura finisca.
Quali sono gli elementi di novità più importanti introdotti
nel nuovo codice?
Mattiello: L’elemento più importante è quello delle
misure preventive patrimoniali, che individuano e aggrediscono i patrimoni
illeciti, vero e proprio veleno per l’economia onesta e fonte di reddito per la
criminalità organizzata. Queste misure non hanno nulla a che fare con l’azione
penale: noi abbiamo messo le mani nella fase antecedente al sequestro, cioè
abbiamo lavorato su chi può fare la proposta e su che basi. Abbiamo inoltre
allargato queste misure di prevenzione agli indiziati di corruzione. È una
parte che ha suscitato polemiche, ma io la difendo molto. Poi c’è la parte di
procedura, in passato severamente criticata dalle Corti Costituzionale e
Europea. Queste facevano notare che, per quanto si trattasse di misure
eccezionali, non ci si poteva spingere a comprimere troppo i diritti della
difesa sia di chi subisce la proposta sia di terzi in buona fede che si trovano
coinvolti. Inoltre la prassi era anche molto lunga e spesso si concludeva con
la restituzione del bene al proprietario originale. Abbiamo quindi lavorato per
creare una procedura simile al processo penale che preveda maggiori garanzie e
la riduzione dei tempi di attesa, proprio come chiedevano la giustizia
italiana ed europea. La terza e ultima grande novità è relativa agli strumenti
messi a disposizione dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati e
sequestrati, per ottenere una migliore gestione fin dalla fase del sequestro.
"Migliore" in che senso?
Mattiello: L’Agenzia diventa titolare dei beni solo
dopo la confisca di secondo grado ma fin dal sequestro è chiamata ad affiancare
l’autorità giudiziaria. In questa fase lo Stato ha il dovere di fare molta
attenzione perché il bene potrebbe essere restituito al proprietario originale,
quindi deve conservarlo e farlo fruttare. Abbiamo introdotto la possibilità di
pagare subito i creditori strategici per non interrompere l’attività di
impresa, ma anche la possibilità di accedere a dei fondi di rotazione per quasi
10 milioni di euro all’anno: soldi che prima non c’erano, posti a garanzia dei
crediti e degli investimenti. Abbiamo inoltre dato la possibilità all’Agenzia
di far intervenire soggetti qualificati che aiutino nella gestione dell’azienda.
L’obiettivo è non sprecare nulla.
Tuttavia la riforma è stata anche molto criticata...
Mattiello: Allora, per prima cosa, a Bruxelles, il
coordinamento europeo dei ministri della giustizia ha applaudito il nuovo
Codice, dicendo che si tratta di un’ottima riforma che va nella direzione che
l’Europa auspicava. Abbiamo anche avuto l’approvazione del Procuratore
nazionale antimafia Franco Roberti e il 13 di settembre, prima
dell’approvazione definitiva alla Camera, il Consiglio superiore della magistratura
ha approvato una delibera in cui si riporta che finalmente queste norme
risolvono i problemi lamentati dai protagonisti del settore. Quindi tutti
coloro che brandiscono la clava della mitica sentenza De Tommaso [XXX, ndr] mentono sapendo di
mentire o non sanno ciò di cui stanno parlando.
Quali sono gli aspetti che sono stati messi in discussione?
Mattiello: Le polemiche vertono tutte sul sistema della
proposta di sequestro, ma ribadiamolo: nel nostro Codice l’amministratore
giudiziario ha sei mesi di tempo per comporre una relazione in cui deve
dichiarare se quell’azienda è vera, capace di stare sul mercato e che coinvolge
lavoratori onesti, e allora in quel caso lo Stato ha il dovere di investire in
quell’azienda perché non muoia per colpa del sequestro. Diversamente, se
l’amministratore rivela che l’azienda è una scatola vuota, una lavatrice di
denaro sporco, allora viene liquidata, punto. Questo deve essere chiaro, e ce
lo deve avere chiaro Confindustria, e ce lo deve avere chiaro Forza Italia se
vuole fare un dibattito serio e leale. Io mi chiedo con questi attacchi che
cosa si sta difendendo su piano politico? La legittimità dell'accumulazione
indebita di patrimoni? Si vuole forse dire che la corruzione non è un problema
grave come la mafia perché non fa i morti? La corruzione uccide quando la gente
muore negli ospedali perché c'è la corruzione. Quando le case vengono giù per
una scossa di terremoto, perché non vengono fatte secondo le regole. Quindi le
misure di prevenzione patrimoniale erano giustificate quando c’era Cosa Nostra,
che ogni giorno lasciava il morto a terra, ma non è giustificabile estenderle
alla corruzione sistemica perché è un fenomeno diverso? Noi abbiamo chiarito
che questa misura non va contro il soggetto, ma contro il patrimonio mafioso,
tanto è vero che il procedimento va avanti anche se il soggetto muore. Inoltre,
abbiamo chiarito che l’evasione fiscale non può più essere una giustificazione
per l’accumulazione di patrimoni sospetti. Quindi Confindustria che cosa vuole
difendere?
Raccogliendo la domanda di Davide Mattiello, abbiamo parlato
con l’Avvocato Antonio Matonti, direttore degli affari legislativi di
Confindustria.
Quali sono gli aspetti critici che avete evidenziato in
questa riforma del Codice Antimafia?
Matonti: Premetto che noi non abbiamo espresso una posizione
negativa sull’intera riforma, anzi, pensiamo che contenga molte innovazioni
positive. Ci auguriamo possano rendere più efficace la gestione dei beni
confiscati per poterli reimmettere nel circuito dell’economia legale.
L’unico tema su cui discutiamo da due anni è l’estensione dell’ambito soggettivo delle misure di prevenzione patrimoniale e le ragioni per cui abbiamo contestato questa scelta sono tecniche e di ponderazione dei valori in gioco. Le misure a cui mi riferisco – principalmente il sequestro e la confisca – possono essere assunte sulle basi di meri indizi e in ciò sta una delle principali differenze rispetto alle misure cautelari previste dal codice penale, che possono essere disposte sia durante la fase del procedimento, che in quella processuale. Tutto quello che accade in queste due fasi presuppone il rispetto di determinate garanzie, per l’indagato nella prima fase e per l’imputato nella seconda. Le misure di prevenzione che stiamo considerando riguardano, invece, una fase ancora precedente, basata soltanto su elementi indiziari. È ragionevole ricorrere a queste misure eccezionali per reagire alla pressante minaccia delle organizzazioni mafiose, minaccia che ne ha legittimato l’introduzione anche di fronte alla Corte di Strasburgo. Ricordo una bella intervista di Nello Rossi[avvocato generale in Cassazione, ndr] di qualche settimana fa, che evidenzia come i fenomeni di criminalità organizzata mettono a repentaglio intere collettività, per cui il ricorso alle misure di prevenzione ha motivazioni non solo economiche, ma anche sociali. Il punto fondamentale per noi è che l’impresa mafiosa non è una vera impresa: è, invece, una struttura di cui si servono le organizzazioni mafiose per realizzare o amplificare gli effetti delle loro attività criminali, utilizzando l’oggetto sociale soltanto come paravento. A nostro giudizio questa impostazione e i connessi presupposti non sono trasponibili “tal quali” sui reati contro la Pa. Piuttosto, per contrastare questi illeciti, pensiamo che possano essere rafforzati gli strumenti ordinari (come già è stato fatto con la creazione dell’ANAC, per esempio). Riteniamo che se la riforma si muove nel solco degli strumenti ordinari, quindi non eccezionali come questo, allora sia condivisibile. Ovviamente noi pensiamo che un imprenditore che corrompe compia un grave illecito. Tuttavia, da questo non si può desumere che l’intera attività imprenditoriale sia finalizzata unicamente a corrompere, ma occorre accertarlo nell’ambito di un procedimento giudiziario e con adeguate garanzie.
L’unico tema su cui discutiamo da due anni è l’estensione dell’ambito soggettivo delle misure di prevenzione patrimoniale e le ragioni per cui abbiamo contestato questa scelta sono tecniche e di ponderazione dei valori in gioco. Le misure a cui mi riferisco – principalmente il sequestro e la confisca – possono essere assunte sulle basi di meri indizi e in ciò sta una delle principali differenze rispetto alle misure cautelari previste dal codice penale, che possono essere disposte sia durante la fase del procedimento, che in quella processuale. Tutto quello che accade in queste due fasi presuppone il rispetto di determinate garanzie, per l’indagato nella prima fase e per l’imputato nella seconda. Le misure di prevenzione che stiamo considerando riguardano, invece, una fase ancora precedente, basata soltanto su elementi indiziari. È ragionevole ricorrere a queste misure eccezionali per reagire alla pressante minaccia delle organizzazioni mafiose, minaccia che ne ha legittimato l’introduzione anche di fronte alla Corte di Strasburgo. Ricordo una bella intervista di Nello Rossi[avvocato generale in Cassazione, ndr] di qualche settimana fa, che evidenzia come i fenomeni di criminalità organizzata mettono a repentaglio intere collettività, per cui il ricorso alle misure di prevenzione ha motivazioni non solo economiche, ma anche sociali. Il punto fondamentale per noi è che l’impresa mafiosa non è una vera impresa: è, invece, una struttura di cui si servono le organizzazioni mafiose per realizzare o amplificare gli effetti delle loro attività criminali, utilizzando l’oggetto sociale soltanto come paravento. A nostro giudizio questa impostazione e i connessi presupposti non sono trasponibili “tal quali” sui reati contro la Pa. Piuttosto, per contrastare questi illeciti, pensiamo che possano essere rafforzati gli strumenti ordinari (come già è stato fatto con la creazione dell’ANAC, per esempio). Riteniamo che se la riforma si muove nel solco degli strumenti ordinari, quindi non eccezionali come questo, allora sia condivisibile. Ovviamente noi pensiamo che un imprenditore che corrompe compia un grave illecito. Tuttavia, da questo non si può desumere che l’intera attività imprenditoriale sia finalizzata unicamente a corrompere, ma occorre accertarlo nell’ambito di un procedimento giudiziario e con adeguate garanzie.
Non pensate che l’aver stabilito delle regole che
restringono questo tipo di applicazione sia una garanzia per le imprese e gli
imprenditori?
Matonti: L’applicabilità delle misure preventive agli
indiziati di associazione per delinquere finalizzata ai reati corruttivi è
sicuramente una cautela, che è stata introdotta successivamente nell’iter
parlamentare e che abbiamo sostenuto e apprezzato, ma non è sufficiente. Anche
perché nei casi di corruzione, durante le indagini preliminari, è molto
frequente la contestazione del reato associativo che poi, spesso, cade nelle
fasi successive.
Quali sono quindi le modifiche che auspicate/auspicavate?
Matonti: È difficile pensare a delle modifiche, perché
per noi c’è stato un errore di impostazione, per cui sarebbe necessario
un passo indietro. Abbiamo anche letto che se non ci fosse questa norma non
sarebbe possibile fare sequestri, ma non risponde al vero, perché l’ordinamento
già prevede la possibilità di adottare misure analoghe con la garanzia dei
diritti al contradditorio e alla difesa. In alternativa, sarebbe interessante
ragionare su eventuali correttivi.
A che cosa pensate esattamente?
Matonti: Ad esempio si potrebbe prevedere che queste
misure restrittive vengano applicate nei casi di reati contro la Pubblica
amministrazione solo quando sono commessi avvalendosi del metodo mafioso.
Come pure si potrebbe ragionare sulla possibilità di limitare l’estensione al
soggetto abitualmente dedito a traffici illeciti o che viva dei proventi di
questi. Solo in presenza di questi presupposti, infatti, si configurerebbe
quell’impresa-paravento cui accennavo prima.
Parlando nello specifico della corruzione - non è un bene rafforzare questo punto? Sappiamo che in Italia è una delle minacce principali a un’economia sana, che preclude investimenti esteri e una sana concorrenza. Non pensate che sia comunque positiva una forma di maggiore severità?
Parlando nello specifico della corruzione - non è un bene rafforzare questo punto? Sappiamo che in Italia è una delle minacce principali a un’economia sana, che preclude investimenti esteri e una sana concorrenza. Non pensate che sia comunque positiva una forma di maggiore severità?
Matonti: Certamente. Le dinamiche corruttive alterano
la concorrenza, l’allocazione delle risorse e disincentivano il fare impresa.
Quindi per assicurare lo sviluppo competitivo del sistema economico - oltre che
la convivenza civile - è essenziale puntare su una ferma azione di contrasto.
Tuttavia, il rafforzamento dell’efficacia di questa azione non può esaurirsi
nell’inasprimento delle misure repressive. Occorre affrontare il fenomeno con
uno sguardo più ampio e individuare gli strumenti più adeguati. Perciò
consideriamo positivo l’approccio adottato negli ultimi anni nel costruire una
vera e propria politica organica dell’anticorruzione che, a partire dalla legge
Severino, ha assegnato prevalenza alla prevenzione, sul presupposto che le
misure repressive devono entrare in gioco in via sussidiaria, quando la
prevenzione non ha funzionato. La legge in questione agisce, infatti, su alcune
grandi direttrici che puntano a rendere efficiente l’azione amministrativa e a
ridurre quindi "a monte" gli spazi per la corruttela. In questa
direzione si colloca anche l’istituzione dell’ANAC. Scelte, queste ultime, che
hanno determinato un’inversione di tendenza nella complessiva azione
anticorruzione, rinvigorendo anche la credibilità del nostro Paese nel
confronto internazionale. A tal proposito, riteniamo che debba essere aperta
anche una seria riflessione sull’efficacia degli indicatori utilizzati per
rilevare il rischio di corruzione. Questo tema è oggetto di un prossimo
seminario organizzato dalla Presidenza italiana del G7, che quindi seguiremo
con attenzione.
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