RICOSTRUZIONE DEL PATRIMONIO DEL POPOLO. LA PROPRIETA’
PUBBLICA.
Una Comunità politica, cioè uno Stato, ha bisogno di un
patrimonio pubblico (cioè di un patrimonio in proprietà collettiva del Popolo
unitariamente considerato) destinato a soddisfare interessi pubblici e non
altro, e di singoli patrimoni privati, con una sola inderogabile
regola: il patrimonio privato di un singolo non può superare il patrimonio
pubblico dell’intero Popolo. Lo chiarì molto bene Roosevelt in un discorso al
congresso del 1938, nel quale affermò: “Una democrazia non è salda se consente
a uno dei suoi membri di avere un patrimonio maggiore di quello dello stesso
Stato democratico”.
Il dramma economico odierno è dovuto al fatto che, essendo
stato consentito, con leggi incostituzionali, di “creare il danaro dal nulla”
(cartolarizzazioni, derivati, ecc.), ed essendosi lasciata libera da ogni
vincolo la “speculazione finanziaria”, i patrimoni dei privati (in gran parte
speculatori finanziari) superano (secondo una rilevazione del 2010) di venti
volte il PIL di tutti gli Stati del mondo. Da ciò deriva che il cosiddetto
“mercato globale” si impone alla politica e detta ai politici le regole da
trasformare in leggi. Come suole dirsi, l’economia prevale sul diritto.
Dietro questo fenomeno c’è un chiaro pensiero economico, il
“pensiero neoliberista”, secondo il quale la ricchezza deve essere nelle mani
di pochi, questi pochi devono agire nella massima concorrenza, gli Stati, e
cioè i Popoli nel loro complesso, non devono intervenire nell’economia. Di
conseguenza, i pochi ricchi, possedendo prevalentemente una ricchezza fittizia
che, per legge, vale come danaro contante, non hanno difficoltà a trasformare
la loro ricchezza in beni reali, comprando a prezzi stracciati (anziché
investire in attività produttive e occupazionali) i beni reali già esistenti.
Di conseguenza, per quanto ci riguarda, l’intero territorio dello Stato
italiano con tutto ciò che contiene, è finito, in gran parte, nelle mani di
pochi soggetti (in prevalenza stranieri), lasciando il Popolo senza mezzi
di sussistenza. I governi che si sono succeduti dall’assassinio di Aldo Moro in
poi, anziché contrastare questa illegittima azione di appropriazione indebita
della ricchezza di tutti, hanno seguito anch’essi la tesi neoliberista e,
improvvidamente, hanno ritenuto di favorire gli acquisti privati di beni
pubblici (cioè appartenenti a tutti) attraverso lo strumento micidiale delle
“privatizzazioni”, delle quali si parlerà in seguito. Si è arrivati al punto di
rendere “privati” i “demani pubblici”, in modo che al Popolo non restasse nulla
e tutto cadesse in mano privata.
Nasce, a questo punto, l’economia del debito. Gli Stati
economicamente più forti vendono “a debito” le loro merci agli Stati
economicamente più deboli (vedi l’Argentina) fino a costringerli al fallimento.
Nel nostro caso, poi, la cosa è aggravata dal fatto che abbiamo ceduto
all’Europa la nostra “sovranità monetaria”, per cui abbiamo perso il potere di
stampare moneta e prendiamo a prestito l’euro che è proprietà della BCE, e
abbiamo l’obbligo di contenere il debito pubblico nei limiti di volta in volta
stabiliti dalla Commissione Europea. Per di più siamo stati oggetto di mirate
“speculazioni finanziarie”, che hanno alzato gli interessi sui nostri titoli
del debito pubblico, aggravando enormemente il nostro debito complessivo.
E’ evidente, a questo punto, che la nostra salvezza sta nel
tornare al “sistema economico produttivo” di stampo keynesiano, secondo il
quale la ricchezza va distribuita alla base della piramide sociale (poiché sono
i lavoratori che vanno ai negozi, sono i negozi che chiedono merci alle imprese
e sono le imprese che assumono lavoratori e producono beni reali), mentre lo
Stato deve intervenire da “protagonista” nell’economia, in modo da dare impulso
agli investimenti che non producano merci da collocare sul mercato (non
essendoci, in tempo di crisi, una vera e propria “domanda” di beni), ma
soddisfino interessi pubblici (quale, ad esempio, il ristabilimento
dell’equilibrio idrogeologico dell’Italia), distribuendo ricchezza tra i
lavoratori, i quali soltanto sono in grado di far crescere la “domanda” e dar
luogo a quel processo virtuoso, al quale abbiamo testé accennato, che porta
alla produzione di beni e alla piena occupazione, quel processo, chiamato “il
moltiplicatore del reddito”, sostenuto dal Keynes.
Lo sforzo da compiere, dunque, è quello di tornare al
“sistema economico produttivo di stampo keynesiano”. Tutto questo è certamente
possibile, ma occorre compiere dei passi ben calibrati, considerato che,
improvvidamente, abbiamo svenduto il “patrimonio pubblico” e abbiamo, con molta
poca lungimiranza, accettato di far parte della “moneta unica”, perdendo la
nostra “sovranità monetaria”, il cui esercizio è davvero risolutivo per la
questione che trattiamo.
Ma andiamo con ordine. Propedeutico a qualsiasi discorso è,
a nostro avviso, ridefinire il concetto di “proprietà privata” quale
risulta dall’art. 832 del codice civile (secondo il quale “il proprietario
(privato) ha il diritto di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”), in
modo conforme agli articoli 41 e 42 della Costituzione, considerato che
siamo stati spogliati della nostra ricchezza nazionale in virtù di quella
nozione civilistica tutt’altro che conforme al dettato costituzionale. In
sostanza, si è continuato a leggere il codice civile come se la Costituzione
non fosse intervenuta sull’argomento, addirittura con norme precettive, e come
se l’azione del proprietario privato non potesse avere effetti negativi
per l’intera Collettività. Questo modo di pensare, ovviamente, è proprio
dell’ideologia borghese e, ora, neoliberista, e, probabilmente nel 1942 (quando
fu emanato il codice) era difficile pensare che (a parte la questione dei
latifondi) nella generalità dei casi la “circolazione della proprietà privata”
non avesse la forza di influenzare negativamente l’interesse generale. Ma
ora, con la globalizzazione dell’economia e della finanza, la situazione è
di certo completamente cambiata. Di fronte a patrimoni privati che superano
quelli degli Stati democratici e che, come si diceva , hanno una tale potenza
da influenzare la politica e il diritto, il problema che trattiamo non può
porsi senza tener presente l’effetto che l’accumulo della proprietà privata ha
sull’intera economia nazionale. Provvide appaiono, quindi, le disposizioni dei
citati articoli 41 e 42 della Costituzione, i quali pongono come limiti
insuperabili, rispettivamente, quello “dell’utilità sociale” e quello “della
funzione sociale” della proprietà. E’, dunque, importante ricordare che l’art.
41 Cost., dopo aver sancito che “L’iniziativa economica privata è libera”, si
affretta a precisare che essa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità
sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”,
mentre l’art. 42 Cost., non solo afferma nettamente (al primo comma, primo
alinea) che la “proprietà è pubblica o privata”, ma precisa altresì che
quest’ultima (secondo comma), in tanto è “riconosciuta e garantita dalla
legge”, in quanto “assicura la funzione sociale”, assicura cioè la tutela degli
interessi pubblici che pure gravano sulla cosa in appartenenza individuale. Con
l’ovvia conseguenza che se il proprietario non persegue la “funzione sociale”
della cosa che gli appartiene, egli perde ogni diritto su di essa, la quale
torna là da dove era venuta (così insegna la storia), e cioè nella “proprietà
pubblica”, che il Giannini, nel secolo scorso, definiva “proprietà collettiva
demaniale”, a titolo di sovranità. E’ il caso, sempre più frequente dei cosiddetti
“beni immobili abbandonati”.
In sostanza, si tratta di affermare una summa
divisio tra i beni che sono idonei a soddisfare (per qualità e quantità) i
bisogni strettamente individuali e familiari, e quei beni che offrono utilità
consistentemente maggiori, come una industria, un grande immobile, oppure quei
beni naturali che da sempre sono stati definiti pubblici, come il mare, l’acqua
corrente, l’aria, i lidi del mare e così via dicendo. Insomma, quello che è
importante porre in rilievo è che la Costituzione protegge, prima
dell’interesse privato, l’interesse pubblico che la collettività ha nei
confronti di quei beni che offrono utilità di grande rilievo, o classificandoli
come “beni pubblici”, o obbligando il proprietario privato (beninteso relativamente
ai beni economici e cioè commerciabili che egli possiede) ad assicurare
l’attuazione della “funzione sociale” della cosa di cui dispone.
A questo punto, come è ovvio, non si può più prescindere da
una “interpretazione costituzionalmente orientata” del diritto di “proprietà
privata” (opportuna sarebbe una legge di interpretazione autentica dell’art.
832 del codice civile), tenendo presente che, essendo cambiato l’ordinamento
giuridico con l’avvento della Costituzione, si pone ora la necessità di interpretare
la “proprietà privata” a nuovo ordinamento costituzionale, il quale pone al
centro dell’ordinamento stesso il valore della “persona umana” e il “progresso
spirituale e materiale della società” (art. 3 e 4 Cost.).
E’ per questo che, nel rispetto assoluto delle altrui
opinioni, ci sentiamo di proporre la seguente “interpretazione
costituzionalmente orientata” dell’art. 832 del codice civile: “La proprietà
privata consiste nel diritto di godere della cosa, assicurandone la funzione
sociale, e di disporre della cosa stessa, in modo da non contrastare l’utilità
sociale, la sicurezza, la libertà, la dignità umana”.
E’ evidente che alla stregua di questa definizione sarebbe
finalmente e realmente difesa la “il patrimonio pubblico”, restando alla teoria
dei beni comuni, della quale tanto si parla, senza che si riesca ad arrivare a
una definizione logicamente afferrabile, soltanto la soluzione dei problemi
relativi alla migliore “gestione” dei beni che soddisfano interessi pubblici.
Precisato il concetto di “proprietà privata” nei termini
sopra descritti, è possibile fare un altro passo verso la ricostituzione del
sistema economico produttivo di stampo keynesiano. Innanzitutto, è da
sottolineare la piena contrarietà alla Costituzione delle cosiddette, micidiali,
“privatizzazioni”, l’operazione cioè che “trasforma” gli “Enti pubblici”
che gestiscono “interessi pubblici” in “società per azioni”. Far questo è
assolutamente illogico. E significa, in sostanza, trasformare, con un
espediente giuridico, un “bene pubblico” in un “bene privato”, mutandone
altresì la “funzione sociale”. Il che fa pensare a una “mascherata truffa” ai
danni del Popolo Italiano, fatto che è evidentemente vietato, quanto meno,
dall’art. 42 della Costituzione. Deve poi osservarsi che chiunque, anche una
società straniera, può scalare la SPA e diventare proprietario della società
stessa, il cui rendimento economico può essere sottratto all’economia italiana
e portato altrove. Ed è da rimarcare, poi, che è ovviamente assurdo ritenere
che un soggetto che agisce nell’individuale interesse di una società privata,
in virtù di un contratto (peraltro da ritenere nullo per mancanza di oggetto e
perché in contrasto con le norme imperative della Costituzione (art. 1418
C.C.), possa invece conseguire un interesse pubblico. E l’esperienza dimostra
ampiamente (si pensi al crollo del ponte di Genova), quanto ciò corrisponda a
verità.
Altrettanto deve dirsi delle rovinose “delocalizzazioni” di
imprese fuori dei confini nazionali. “Delocalizzare” significa innanzitutto
“licenziare gli operai” e aumentare la disoccupazione. E ciò è apertamente in
contrasto con la “funzione sociale” della proprietà, di cui all’art. 42 Cost.
Significa inoltre arrecare un danno rilevantissimo agli interessi economici
nazionali, poiché una “fonte di ricchezza”, qual è l’impresa, viene tolta
all’economia italiana e viene a far parte di una economia straniera. Se le
“privatizzazioni” colpiscono il “patrimonio pubblico” italiano in modo
mascherato, le “delocalizzazioni” lo colpiscono in modo diretto e chiaramente
visibile.
Quanto alle “svendite” di immobili pubblici e di demani, c’è
poco da aggiungere: è la forma più sfacciata di alienazione della “proprietà
pubblica” del Popolo italiano, e cioè di “fonti di produzione di ricchezza
nazionale”. E a tutto ciò sono da aggiungere i “danni” e la conseguente
“perdita di ricchezza” causati dalla devastazione sistematica del nostro
“territorio” mediante costruzioni abusive o inutili, come certamente lo sono le
cosiddette “grandi opere”, come la TAV o la TAP, il cui effetto è solo la
distruzione dell’ambiente, il cui valore, come tutti sanno, è economicamente
inestimabile.
Di fronte al rovinoso quadro fin qui descritto, appare
indispensabile, non solo abbandonare questa insensata politica di svendita del
patrimonio nazionale, in atto ormai di decenni, ma si dovrebbe fare il
contrario: e cioè “nazionalizzare”, nei limiti del possibile, quanto si è perso
e quanto è in pericolo di perdita per l’economia italiana.
E si tenga presente che una indicazione molto precisa
in proposito ci viene data dall’art. 43 della Costituzione, secondo il quale
dovrebbero appartenere “allo Stato, a enti pubblici o a comunità di lavoratori
o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a
servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione di monopolio ed
abbiano carattere di preminente interesse generale”.
A questo riguardo sarebbe molto opportuno ripescare l’idea
della Golden Share, individuata dai governo Monti e tradottasi del decreto legge
15 marzo 2012, n. 21, convertito nella legge 11 maggio 2012, n.56, (invero mai
tradottasi in una sua reale applicazione, anche a causa della sua abnorme
complessità), in base alla quale vennero conferiti “poteri speciali” al Governo
per controllare che le società per azioni derivanti dalla
“privatizzazione” di Enti pubblici economici rispondessero anche a esigenze di
interesse pubblico. Tale idea, tuttavia, andrebbe rovesciata rispetto a quanto
voleva il governo Monti e questa “regola d’oro” dovrebbe servire al Governo,
non solo per controllare le SPA derivanti dalle privatizzazioni di Enti
pubblici (che ancora non possono essere ritrasformate in Enti o Aziende
pubblici), ma per evitare che in Italia si continui, nell’illusione di
pareggiare i bilanci, a “privatizzare”, “delocalizzare” e “svendere”, in
pieno contrasto, come si è visto, con i principi e le norme costituzionali, il
“patrimonio pubblico italiano“.
E’ da osservare, a questo punto, che un limite forte alle
“nazionalizzazioni” è dato dall’enorme debito pubblico che ci è stato messo
sulle spalle dal mercato globale, dopo che il Ministro Andreatta (anticipando
in ciò gli effetti della moneta unica e facendoci perdere in anticipo la
“sovranità monetaria”), con una lettera del 12 febbraio 1981, sollevò la Banca
d’Italia dall’obbligo di acquistare i buoni del tesoro rimasti invenduti
(ovviamente sostituendoli con moneta stampata). Da allora ci siamo dovuti
rivolgere al mercato globale e questo ha fatto lievitare i tassi di
interesse fino al 25 per cento, aggravando notevolmente il nostro debito.
Tuttavia, la questione del “debito”, a ben vedere, non è
senza via d’uscita. Quello che conta, infatti è il rapporto tra debito e PIL, e
se si riesce ad avere uno “sviluppo” del PIL che superi il debito, resteranno
ovviamente gli interessi passivi da pagare, ma non sarà in gioco l’equilibrio
contabile generale del nostro bilancio. C’è poi chi ha sostenuto (Paolo
Ferrero, nel suo libro “La truffa del debito”) che oltre la metà del nostro
debito pubblico è costituito da “interessi passivi” derivanti da speculazioni,
le quali, lo si tenga presente, non sono un valido titolo giuridico per vantare
dei crediti sul piano giuridico. Si potrebbe ancora aggiungere che il nostro
debito, essendosi verificato un cambio del “sistema economico”, il quale da
“produttivo” si è trasformato in un “sistema predatorio”, è diventato un debito
“ingiusto, detestabile o odioso”, (come affermano alcuni Autori) e, quindi, non
più rimborsabile, poiché è venuta meno la stessa possibilità materiale di
farlo, si è realizzata, in altri termini, una “prestazione impossibile”, come
recita l’art. 1218 del nostro codice civile. Comunque, quello
che certamente si può e si deve fare è una “revisione” del debito, poiché
è assolutamente incontestabile che nessun Paese può essere tenuto a pagare
i debiti derivanti da speculazioni finanziarie, che sono atti di “guerra
economica” e non possono costituire titolo giuridico valido, come poco sopra si
diceva, per vantare diritti di credito. Si tratta, è vero, di una operazione
molto difficile, che richiede intelligenza e grande professionalità, ma che non
può non essere tentata, proprio per evitare che l’Italia sia sottoposta
dall’Europa a una procedura per debito eccessivo.
Un ostacolo ben maggiore per la ricostituzione del
“patrimonio pubblico” italiano è costituito, tuttavia, dalla nostra
appartenenza all’area dell’euro. Infatti, proprio a causa dell’appartenenza
alla “moneta unica” siamo stati sottoposti a un regime di austerità, che ci ha
impedito un vero e proprio “sviluppo economico”, cancellando addirittura la
nostra “politica economica”, che si è trasformata nella ricerca spasmodica dei
mezzi finanziari necessari a rispettare l’obbligo di “pareggio del bilancio”,
introdotto in Costituzione dal governo Monti in ossequio alle detestabili idee
neoliberiste. Con questa insensata politica ci siamo posti, come suol dirsi,
con la testa sotto la tagliola e ora liberarcene è estremamente difficile.
Infatti, è facile prevedere che una uscita dall’euro comporterebbe la immediata
reazione dei mercati, i quali porterebbero lo spread alle stelle e
vanificherebbero tutti i nostri sforzi.
Per ora, i rimedi sono soltanto quelli sopra enunciati:
ricostituzione, per quanto possibile, del “patrimonio pubblico” italiano, attraverso
il “blocco” delle “privatizzazioni”, delle “delocalizzazioni”e delle
“svendite”, l’attuazione più ampia possibile delle “nazionalizzazioni”, degli
“investimenti pubblici” idonei ad alimentare la domanda di beni e, quindi, a
favorire l’occupazione, e infine la “revisione” del debito nei sensi sopra
illustrati. Il tutto non apparendo ancora possibile poter riconquistare la
nostra “sovranità monetaria”, e cioè il vero strumento capace di risolvere alla
radice i nostri problemi economici.
Tuttavia una nuova speranza si è accesa nei nostri animi. La
gente si sta rendendo conto che l’attuale politica europea ci sta portando alla
miseria e alla morte (importante quanto sta avvenendo in Francia contro la
politica di Macron) e, intanto, le elezioni del Parlamento europeo sono vicine.
Se in Italia si riuscisse a sensibilizzare il Popolo sulla impellente necessità
di seguire una linea politica come quella sopra indicata, una linea cioè
rispettosa degli impegni che finora abbiamo preso con l’Unione Europea, e si cominciasse
a ritenere che, per quanto riguarda l’Europa, la scelta non si pone, come
finora hanno fatto ritenere i mass media, tra chi vuole confermare questa
Europa (i cosiddetti conservatori alla Macron) e chi è decisamente contrario
all’Unione Europea (i cosiddetti “sovranisti” o “populisti”), ma che c’è una
terza via da seguire, e cioè quella di costruire una Europa davvero “federale”,
che tratti tutti gli Stati membri “in condizioni di parità” (come afferma
l’art. 11 della nostra Costituzione repubblicana), si potrebbe davvero
cominciare a sperare di portare nel Parlamento Europeo delle persone che,
operando dall’interno, riescano, un po’ per volta, a far breccia sugli altri
parlamentari e a far loro capire che l’idea del “neoliberismo” (visti i disastri
che ha prodotto) deve dirsi finalmente superata, mentre al suo posto deve avere
sempre maggior forza una idea che, partendo dagli schemi keynesiani, metta al
centro dell’attenzione l’uomo e l’ambiente, prospettando un modo di vivere non
più concorrenziale e consumista, ma legato ai valori che “madre Terra” esprime
e richiede. Qualcuno (Latouche) ha parlato di “decrescita”, e presto questa
frase è stata contestata dal neoliberismo imperante, ma, se davvero si vuole,
come vogliono i Trattati Europei, la giustizia e la pace, effettivamente non
c’è altra via che quella di viaggiare verso una meta di valore egualitario, una
meta cioè che ponga come principio fondamentale l’eguaglianza,
distribuendo a tutti il necessario per vivere e ponendo l’accento del rapporto
tra uomo e ambiente come “un rapporto tra la parte e il tutto”, essendo unica
per tutti gli esseri viventi, piante comprese, la vita che ci circonda.
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