26 CAPITOLO
ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ.
1. Il t.u. sull’espropriazione per p.u.
Il
consiglio dei ministri, in data 31.5.2001, ha approvato lo schema di d.p.r.
portante il t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazioni, dopo avere ricevuto il parere delle commissioni parlamentari
competenti e del Consiglio di Stato. CENTOFANTI
N., L’espropriazione per pubblica utilità 2009, 10.
Il
relativo d.p.r. è stato emanato, l’8.6.2001, n. 327, ed è stato pubblicato nel
suppl. ord. n. 211/L, della Gazz. Uff. 16.8.2001, n. 189.
Il
t.u. ha il proprio fondamento nella delega conferita al governo, ai sensi
dell’art. 7, 1° e 2° co., l. 8.3.1999, n. 50, mod. dall’art. 1, l. 24.11.2000,
n. 340.
L’all. 1, l. 24.11.2000, n. 340, n. 18,
tassativamente prevede fra i procedimenti oggetto di delegificazione quello
relativo alle espropriazioni per causa di pubblica utilità e alle altre
procedure connesse disciplinate dalle l. 25.6.1865, n. 2359 e l. 22.10 1971, n.
865.
Il
criterio da utilizzare da parte del governo nella operazione di semplificazione
amministrativa è quello previsto dalla l. 8.3.1999, n. 50 che determina il
riordino delle norme legislative e regolamentari.
La
legge delega altre volte assegna il solo potere di riordino dei procedimenti
per cui la onnicomprensività della dizione del testo legislativo, che prevede il
riordino delle norme legislative, è il più ampio.
L’importanza
di tale delega è evidente poiché, pur trattandosi della sistemazione in un
testo unico – il che deve caratterizzare l’elaborato in senso prevalentemente
compilativo del quadro normativo esistente - nondimeno consente la possibilità
di innovare il testo legislativo per raggiungere la finalità del riordino.
L’operazione
consiste nella riconduzione ad unità organica del materiale normativo
disseminato in varie disposizioni di legge in modo da armonizzare tra loro
istituti variamente introdotti e disciplinanti la materia delle espropriazioni.
Il
sistema ha, quindi, indotto il governo a ripensare la materia secondo lo schema
guida dei principi fissati dalla l. 25.6.1865, n. 2359, coordinando con tale
testo normativo tutte le altre disposizioni a carattere speciale che
disciplinavano il procedimento espropriativo.
Il
t.u. definisce un unico procedimento espropriativo anche a favore dei privati
relativo a beni immobili o a diritti relativi ad immobili per l’esecuzione di
opere pubbliche o di pubblica utilità, t.u. art. 1.
La
l. 25.6.1865, n. 2359, diversamente demandava al legislatore ordinario la
facoltà di emanare dei provvedimenti legislativi per regolamentare la
possibilità di espropriare.
Per
quanto attiene alla determinazione dell’indennità di espropriazione viene
mantenuto il sistema composito introdotto dalla legge per la casa, l. 22.10
1971, n. 865, per le indennità riguardanti le aree agricole, mentre per le aree
interne al centro edificato vengono assunti i criteri, peraltro transitori,
fissati dall’art. 5 bis, l. 8.8.1992, n. 359.
Il procedimento espropriativo disciplinato dal t.u.
è l’unico mezzo per giungere all’espropriazione non essendo più prevista
l’occupazione d’urgenza preliminare all’occupazione, residua solo l’occupazione
strumentale disciplinata dall’art. 49, n. 1, t.u., o quella caratterizzata
dalla massima urgenza come ad esempio nel caso di rottura d’argini e di
alluvioni dall’art. 49, n. 5, t.u.
Sono abrogate oltre che la l. 25.6.1865, n. 2359, e il
II titolo l. 22.10 1971, n. 865, tutte le norme disciplinanti procedure
speciali di esproprio con la dizione espressa del t.u. art. 59, n. 141, che
recita: Tutte le altre norme di legge e di regolamento, riguardanti gli atti ed
i procedimenti volti alla dichiarazione di pubblica utilità di indifferibilità
ed urgenza, all’esproprio o all’occupazione di urgenza, nonché quelle
riguardanti la determinazione dell’indennità di espropriazione o di occupazione
di urgenza.
Il d.p.r. 8.6.2001, n. 327, all’art. 5, ripropone i
principi fissati dall’art. 20, l. 15.3.1997, n. 59, mod. dall’art. 1, 4° co.,
l. 24.11.2000, n. 340 ribadendo che le disposizioni del t.u. operano
direttamente nei riguardi delle regioni a statuto ordinario e a statuto speciale
fino a quando esse non si adeguino ai principi e alle norme fondamentali di
riforma economico-sociale sanciti da detta disposizione.
Vi è, pertanto, dal momento della sua entrata in
vigore una prevalenza automatica delle disposizioni del t.u.
2. Il principio di legalità nella procedura di esproprio.
Il
principio di legalità in una sua prima enunciazione è stato concepito dalla
dottrina nel senso che ogni atto od elemento di atto della pubblica
amministrazione debba essere previsto tassativamente da una qualche ipotesi
normativa.
La
norma di azione amministrativa deve quindi fissare le scansioni del
procedimento amministrativo dalle quali la pubblica amministrazione non può
discostarsi pena l’illegittimità di tutto o parte del procedimento.
Secondo
tale concezione l’azione dell’amministrazione viene collegata nel suo svolgersi
al dettato normativo, seguendo procedimenti formali predeterminati in
contrapposto all’azione del soggetto privato che agisce secondo schemi
completamente autonomi lasciati alla sua libera discrezionalità.
La
dottrina è concorde nell’affermare che qualsiasi potere amministrativo,
imputato a qualsivoglia autorità, produttivo di qualunque tipo di effetti, deve
esse sempre previsto dalla legge secondo il principio di tipicità e nominatività
dei poteri amministrativi.
Non
sussistono, pertanto, poteri atipici, che non siano cioè previsti da alcuna
norma legislativa, il cui relativo esercizio dia luogo ad una attività
giuridicamente inesistente.
Anche
se la dottrina più recente è orientata a configurare il principio di legalità
in una accezione meno rigida ciononostante si ritiene che devono essere
necessariamente previsti con norme di legge i poteri amministrativi incidenti
unilateralmente imperativamente su situazioni soggettive dei terzi come per i
procedimenti ablatori.
Per tali procedimenti vale la riserva di legge,
disposta dall’art. 23 cost., che afferma come nessuna prestazione personale o
patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.
Per
il procedimento ablatorio l’art. 42, 3° co., prevede una ulteriore riserva di
legge, sancendo che la proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla
legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale.
Il principio di legalità è stato, peraltro, in tema
di espropri, ribadito dal legislatore sin dall’art. 1 della legge preunitaria,
l. 25.6.1865, n. 2359, che richiede l’osservanza delle disposizioni portate da
detto provvedimento per il procedimento ablatorio.
Il
d.p.r. 8.6.2001, n. 327, all’art. 2, ribadisce il principio di legalità
affermando che l’espropriazione per pubblica utilità può essere disposta solo
nei casi previsti da leggi e regolamenti ed, inoltre, introduce nuovi criteri a
cui deve ispirarsi il procedimento ablatorio che deve seguire i seguenti principi:
-
di economicità: quindi il responsabile del procedimento deve evitare che
l’illegalità procedimentale comporti maggiori oneri all’amministrazione;
-
di efficacia: col raggiungimento dello scopo arrivando al decreto di esproprio
in tempi brevi;
-
di efficienza: evitando contrasti con altre amministrazioni qualora l’autorità
procedente sia diversa da quella comunale, ad esempio verificando il rispetto
della corretta pianificazione urbanistica;
-
di pubblicità: consentendo l’accesso al procedimento da parte
dell’espropriante;
-
di semplificazione dell’attività amministrativa: evitando, ad esempio, il
procedimento dell’occupazione preliminare.
3. La competenza all’emanazione degli atti di esproprio.
L’attuazione
dell’ordinamento regionale ha comportato che il prefetto permane titolare del
potere espropriativo, attribuitogli da ultimo dall’art. 13 della l. 865/1971,
soltanto in pochi casi.
L’espropriazione,
pur non essendo espressamente contemplata come materia trasferita dall’art. 117
cost., è stata considerata parte integrante d’altre funzioni quali
l’urbanistica o i lavori pubblici che sono di competenza regionale.
L’attribuzione
della titolarità dei poteri al prefetto nel regime del procedimento
espropriativo previgente era considerata una garanzia procedimentale per i
soggetti passivi del procedimento.
Il
prefetto, infatti, quale organo estraneo all’amministrazione locale e, in ogni
modo, non appartenente all’organizzazione centrale dello Stato preposta al
procedimento ablatorio, assicura certamente una posizione del tutto imparziale
al soggetto, sia esso pubblico o privato, che subisce la privazione della
proprietà.
La Corte costituzionale, investita della questione di
legittimità della nuova procedura, che attribuiva ad organi - sicuramente parti
del procedimento - la funzione espropriativa, ha ritenuto che essa rispettasse
il principio di imparzialità della funzione amministrativa affermato dall’art.
97 cost., dichiarando manifestamente infondata la questione. Corte cost.,
21.12.1985, n. 355, in Giur. Cost., 1985.
L’art. 106 del d.p.r. 616/1977 ha trasferito alle
regioni la potestà espropriativa in tutte le materie oggetto di trasferimento o
di delega, riservando allo Stato la competenza solo per le opere pubbliche di
sua spettanza.
Agli
enti locali, in particolare, sono attribuite le competenze concernenti le opere
o gli interventi per la cui esecuzione l’espropriazione è strumentale, ex art.
106, d.p.r. 616/1977.
La legislazione regionale ha provveduto ad attribuire
la funzione espropriativa ai comuni ed agli altri enti locali.
La
giurisprudenza ha posto il problema della legittimità delle norme che
stabiliscono quali siano gli organi comunali competenti ad emanare atti delle
procedure espropriative essendo esse in contrasto con l'art. 128 cost.
La
corte ha stabilito che il precetto costituzionale sottrae al potere legislativo
delle regioni a statuto ordinario la disciplina dell'organizzazione degli enti
territoriali, che è affidata esclusivamente al potere legislativo statale, ma
non vieta alle regioni stesse di precisare quali, fra gli organi comunali
previsti dall'ordinamento dello Stato, siano competenti a provvedere in ordine
a materie delegate ai comuni.
La
Corte, pur ammettendo che l’art. 128 cost. sottrae al potere legislativo delle
regioni a statuto ordinario la disciplina dell’organizzazione degli enti
territoriali, che è di competenza dello Stato, ha fondato la propria decisione
sulla considerazione che la delega disposta con legge regionale non altera la
tipologia dell’organizzazione comunale.
Anzi
le leggi regionali in questione, in aderenza al disposto dell’art. 118, 3° co.,
hanno consentito alle regioni di esercitare le loro funzioni amministrative
delegandole agli enti minori o valendosi dei loro uffici. Corte cost.
20.10.1983, n. 319, in Riv. Giur. Ed., 1984, 821.
La
dottrina è contraria condividendo la tesi delle decisioni di remissione. Si
osserva, infatti, che se vi è delega non può la regione scegliere l’organo
delegato, ma deve limitarsi ad attribuire i poteri all’ente, essendo la materia
dell’individuazione delle funzioni degli organi comunali di pertinenza della
legge statale
E’
stata, del pari, ritenuta infondata la censura relativa al fatto che siano
accentrate nella figura del sindaco interessato al procedimento ablatorio più
funzioni. T.A.R. Emilia Romagna, sez. I, Bologna, 15.11.1994, n. 829, in
T.A.R., 1995, 1969.
Le regioni hanno emanato norme legislative per quanto
riguarda l’organizzazione e la spesa, nonché norme di attuazione sulla base
dell’art. 7 del d.p.r. 616/1977 che ammette la competenza delle regioni nelle
materie delegate e non solo in quelle trasferite.
In
particolare, l’art. 7, 2° co., del d.p.r. 616/1977, ammette la possibilità di
subdelegare a province, comuni ed altri enti locali l’esercizio delegato di funzioni
amministrative dello Stato.
L’art.
106, d.p.r. 616/1977 precisa che sono attribuite ai comuni sia le funzioni
amministrative concernenti le occupazioni temporanee e d’urgenza sia i relativi
atti preparatori, attinenti ad opere pubbliche o di pubblica utilità, la cui
esecuzione è di loro spettanza.
In
questo quadro legislativo nazionale le regioni hanno provveduto ad assegnare le
funzioni relative al procedimento di occupazione ed a quello di espropriazione:
alcune hanno delegato i singoli comuni interessati agli interventi, come ad
esempio l’Emilia Romagna, altre, come la Lombardia, hanno ripartito le
competenze a seconda del tipo di opera.
Le
opere di competenza regionale sono attribuite al presidente della giunta
regionale, le opere di competenza di alcuni enti pubblici spettano ai
presidenti delle comunità montane e delle province, le opere di competenza dei
comuni o dei consorzi spettano ai comuni.
Tralasciamo
di esaminare specificamente la legislazione regionale, che si frantuma in
ulteriori distinzioni per tipo di opere.
Il problema delle competenze dell’organo comunale,
qualora la funzione sia genericamente attribuita al comune, è risolta dalla
giurisprudenza nel senso che la competenza del consiglio comunale in materia di
espropriazione di beni immobili può essere delegata dal consiglio stesso al
sindaco ed alla giunta.
Tale
delega, rimane valida ed efficace sino alla sua revoca espressa Cons. St., sez.
IV, 2.2.1998, n. 147, in Foro Amm.,
1998, 332.
Alcune
sentenze richiedono che la delega debba, però, essere supportata da una
previsione normativa, ritenendo che la norma - di cui all'art. 106, 3° co.,
d.p.r. n. 616/1977 - che attribuisce al consiglio comunale il potere di
adozione del decreto di occupazione d'urgenza, non trovi applicazione se sussistono
leggi regionali che assegnano al sindaco la competenza a provvedere. Cons. St.,
sez. IV, 11.6.1996, n. 795, in Riv. Giur. Ed., 1996, 950. T.A.R. Calabria, sez.
Catanzaro, 5.9.1997, n. 540, in T.A.R., 1997, 4154. N. CENTOFANTI, L’espropriazione
per pubblica utilità, 1999, 38.
L’art. 6, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, consacra il
principio che il procedimento di espropriazione rientra nella competenza
dell’autorità che deve realizzare l’opera pubblica, essendo definitivamente
superato il problema di una eventuale parzialità di detto intervento.
E’
prevista l’istituzione di un ufficio per le espropriazioni nelle
amministrazioni statali regionali provinciali e comunali, ove non ne sussista
uno a cui attribuire i relativi poteri.
E’
il comune l’ente centrale per la realizzazione del procedimento espropriativo,
ex art. 7, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, esso, infatti, può espropriare:
-
le aree, individuate dal piano regolatore generale, inedificate o su cui vi
siano costruzioni in contrasto con le destinazioni di zona o che abbiano
carattere provvisorio e quelle di espansione, secondo quanto già previsto
dall’art. 18, L.U.
In
tal caso deve essere dichiarata la pubblica utilità dell’opera non espressa nel
provvedimento di approvazione del p.r.g.
-
gli immobili ai quali va incorporata un’area inserita in un piano
particolareggiato e non utilizzata quando il suo proprietario non intenda farne
uso dopo l’avviso del dirigente dell’ufficio espropriazioni.
In
tal caso non deve essere dichiarata la pubblica utilità dell’opera implicita
nel provvedimento di approvazione del p.p.
L’esproprio
deve essere effettuato nel termine decennale di validità del piano.
4. L’ufficio per le espropriazioni: il dirigente ed il responsabile del procedimento loro competenze.
La
L. 241/1990 fa obbligo alle amministrazioni di indicare un responsabile del
procedimento, che è il dirigente di ogni unità organizzativa, il quale può
provvedere ad assegnare ad altro dipendente la responsabilità dell’istruttoria
o di un’altra fase, ad esempio quella costitutiva o esecutoria, del
provvedimento.
La
struttura degli enti è destinata ad una razionalizzazione, sotto il profilo
organizzativo.
Si
devono individuare i responsabili e si deve definire il passaggio,
necessariamente formale, fra i soggetti che si occupano delle varie fasi.
Le
funzioni in materia di espropriazione sono particolarmente importanti poiché il
procedimento deve necessariamente raccordarsi con quelli programmatori e quelli
finanziari, che condizionano la stessa possibilità di addivenire ritualmente
all’esproprio.
Una
più precisa definizione dei compiti del responsabile era attesa col regolamento
di attuazione della L. 359/1992 mai, peraltro, emanato.
Tali
funzioni si devono raccordare con quelle del responsabile del procedimento
ablatorio, peraltro enunciate dall’art. 6, L. 241/1990, che riguardano le
stesse condizioni, sia sostanziali che procedurali, che valgono per
l’emanazione del provvedimento, ex art. 6, L. 241/1990.
Il
responsabile, quindi, può avere funzioni sostanziali in ordine alla valutazione
nel merito del progetto, proponendo modifiche, magari suggerite dalle
osservazioni portate dagli interessati.
Mentre l’art. 107 del T.U. delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali non attribuisce funzioni particolari ai
dirigenti in materia di espropriazione l’art. 6, D.P.R. 8.6.2001, n. 327,
attribuisce al dirigente dell’ufficio per le espropriazioni funzioni
costitutive in ordine al provvedimento di esproprio anche se a volte non è
esplicita nell’individuare la competenza alla emanazione di determinati
provvedimenti, indicando genericamente la competenza dell’autorità
espropriante, come nell’ipotesi di occupazione temporanea, art. 49, D.P.R.
8.6.2001, n. 327.
Il dirigente per le espropriazioni deve emanare
ogni provvedimento conclusivo del procedimento decreto di esproprio, art. 23,
D.P.R. 8.6.2001, n. 327, o atto di cessione volontaria, art. 45, D.P.R.
8.6.2001, n. 327,, o il provvedimento di retrocessione del bene, art. 47,
D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Il responsabile del procedimento ha competenza per
tutti gli atti preparatori e per gli eventuali subprocedimenti, anche se il
t.u. non è esplicito in tal senso come ad esempio l’autorizzazione all’accesso
ai fondi, art. 15, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, la determinazione provvisoria
dell’indennità di espropriazione, art. 20, D.P.R. 8.6.2001, n. 327,
comunicazione al proprietario per richiedere se intenda avvalersi del
procedimento di determinazione definitiva dell’indennità di espropriazione e
relativa nomina dei tecnici (su indicazione dell’autorità espropriante) o
richiesta di determinazione dell’indennità alla commissione, art. 21, D.P.R.
8.6.2001, n. 327, verbale di immissione nel possesso in esecuzione del decreto
di esproprio, art. 24, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, pagamento dell’indennità di esproprio
o relativo
deposito presso la Cassa depositi e
prestiti, art. 26, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Non sono ovviamente di sua competenza gli atti
delegati all’autorità espropriante quali la dichiarazione di pubblica utilità,
art. 12, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, o l’approvazione del progetto definitivo,
art. 16, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Il responsabile del procedimento deve inoltre
istruire il provvedimento finale che resta di competenza del dirigente
dell’ufficio.
In
primis
viene fatto obbligo agli enti locali di istituire un ufficio per le
espropriazioni, anche comune ad altri enti, con a capo un dirigente o in sua
mancanza un dipendente con la qualifica più elevata.
Viene
ribadito l’obbligo di designare per ogni procedimento un responsabile che
dirige, coordina e cura tutte le operazioni e gli atti del procedimento; al
responsabile sono di supporto e subordinati gli organi tecnici dell’ente.
La
necessità di concludere il procedimento entro tempi determinati comporta una
evidente responsabilità del funzionario addetto in relazione alla sua mancata
emanazione in tempo debito.
Il
ritardo può causare un danno all’amministrazione che soccomba sulla domanda di
risarcimento formulata dalla proprietà o sulla richiesta di danni derivanti
dall’esecuzione dell’esproprio.
Un
necessario coordinamento è sicuramente da effettuarsi con il responsabile del
procedimento di attuazione dei lavori pubblici, disciplinato dall'art. 7, L.
109/1994, come mod. dall'art. 5, L. 415/1998.
Il
responsabile dell’attuazione dei lavori deve, infatti, segnalare eventuali
disfunzioni, impedimenti e ritardi nella realizzazione degli interventi,
accertando la disponibilità delle aree e degli immobili necessari.
Il
responsabile unico del procedimento, al fine di accelerare l’esecuzione dei
lavori, può proporre all’amministrazione aggiudicatrice la convocazione di una
conferenza di servizi o promuovere la conclusione di un accordo di programma,
ex art. 7, 7° co., l. 109/1994.
Il
regolamento di attuazione, D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, all’art. 8 comma 1,
lett. b) verifica in via generale la conformità ambientale, paesistica,
territoriale ed urbanistica degli interventi e promuove l’avvio delle procedure
di variante urbanistica.
Nell’ambito
di tali procedimenti è possibile esaminare le problematiche relative al
procedimento ablatorio, qualora ineriscano alla sollecita esecuzione di lavori.
N. CENTOFANTI, L’espropriazione per pubblica utilità, 1999, 145.
L’amministrazione può delegare in tutto o in parte i
propri poteri espropriativi al concessionario che deve realizzare l’opera
pubblica o di pubblica utilità, ex art. 6, 8° co., D.P.R. 8.6.2001, n.
327.
Al fine di porre chiaramente i limiti delle
responsabilità fra amministrazione e concessionario che hanno dato luogo a
contrasti giurisprudenziali la norma impone all’amministrazione di determinare
chiaramente l’ambito della delega nella concessione, al fine di definire se
detta amministrazione conserva un potere di indirizzo nel procedimento
ablatorio.
5. La responsabilità contabile di amministratori e funzionari.
La
giurisdizione sui funzionari, sugli impiegati e sugli agenti civili e militari,
che nell'esercizio delle loro funzioni cagionino danno allo Stato o ad altra
amministrazione dalla quale dipendano, è attribuita alle sezioni
giurisdizionali regionali della Corte dei Conti, art. 1, L. 14.1.1994, n. 19.
La
responsabilità amministrativa è caratterizzata: da un rapporto di dipendenza o
di servizio nei confronti dello Stato o dell’ente pubblico; da un comportamento
anche solo colposo, derivante da negligenza o dalla mancata applicazione della
legge, che trova giustificazione solo nella forza maggiore, quale, ad esempio,
la carenza organizzativa o l'organico insufficiente; da un danno erariale
patrimoniale derivante alla amministrazione, che sia direttamente riconducibile
all'evento.
Il
giudizio non ha alcun rapporto con l'accertamento della illegittimità degli
atti dell'amministrazione.
I
rapporti fra giudizio amministrativo e giudizio contabile sono di assoluta
autonomia, in quanto non sono previste né preclusioni né precedenze.
L'accertamento
della responsabilità amministrativa contabile, in questo caso, non prescinde
dall'accertamento dell'illegittimità degli atti dell'amministrazione, sempre
che gli stessi abbiano provocato una danno economico all’amministrazione.
La
responsabilità è stata limitata alle omissioni commesse con dolo o colpa grave,
art. 3, L. 20.12.1996, n. 639. Deve essere affermata la responsabilità amministrativa
del tecnico comunale che non abbia portato a termine il procedimento di
espropriazione, omettendo la predisposizione degli indispensabili atti
amministrativi e causando in tal modo un danno erariale conseguente al
risarcimento civile dovuto ai proprietari ablati. Corte Conti reg. Sicilia sez.
giurisd., 16 giugno 2000, n. 79, in Riv. corte conti, 2000, f. 4, 84.
Integra
un'ipotesi di danno erariale la liquidazione dell'indennità di espropriazione
per un'area acquisita da parte del comune in misura superiore a quella ritenuta
congrua dall'ufficio tecnico erariale e disattendendo, senza motivo, le
indicazioni dell'UTE stesso relative ai criteri di calcolo. Corte Conti reg.
Molise sez. giurisd., 15 ottobre 1997, n. 484, in Riv. corte conti,
1997, fasc. 6, 174.
La
giurisprudenza ha ravvisato che la mancata conversione in espropriazione di un
provvedimento di occupazione d'urgenza di un suolo da parte di amministratori e
funzionari comunali, con conseguente maggior erogazione di somme a titolo di
svalutazione monetaria, interessi e spese legali, costituisce danno
patrimoniale risarcibile. Il perfezionamento della cosiddetta occupazione
acquisitiva non costituisce interruzione del nesso causale in caso di danno
erariale derivante da ritardata emissione del decreto espropriativo. Corte
Conti, Puglia, sez. giurisd., 12.2.1997, n. 8, in Riv. Corte Conti,
1997, fasc. 1, 124.
Di
tale illecito debbono essere chiamati a rispondere i soggetti predetti, per le
omissioni di cui sono responsabili connesse alla mancata osservanza del termine
quinquennale di durata dell'occupazione d'urgenza. Corte Conti, Puglia, sez.
giurisd., 16.2.1994, n. 3, in Riv. Corte Conti, 1994, 136.
La
dottrina ha rilevato gli scarsi effetti di tale azione che trova troppi esoneri
alla responsabilità, dovuti ad una asserita complicazione del procedimento, che
giustifica delle inammissibili omissioni:
In
caso di soccombenza della pubblica amministrazione, la responsabilità del
sindaco per il mancato perfezionamento della procedura o, in generale, dei
funzionari preposti è stata talora ritenuta insussistente, per assenza di
colpevolezza, in ragione della complessità e delle dimensioni dell’intervento
realizzando. F.
E’ stata riconosciuta dalla giurisprudenza
l’esenzione dalla responsabilità dell’incaricato per il danno provocato se
questo è dovuto alla disorganizzazione degli uffici: Deve essere esclusa la
responsabilità dell'assessore comunale delegato alla materia delle
espropriazioni per il danno erariale conseguente al protrarsi di occupazione di
urgenza oltre i termini di legge, qualora tale situazione di illegittimità
dipenda essenzialmente dall'incuria degli uffici amministrativi nel tenere
aggiornate e nel segnalare le scadenze connesse all'occupazione medesima. Corte
Conti, sez. II, 20.5.1993, n. 126.
Del
pari, è stata riconosciuta dalla giurisprudenza l’esenzione dalla
responsabilità del sindaco in carica per i danni verificatisi nel corso di vari
avvicendamenti nella carica stessa: Posto che il periodo di occupazione
d'urgenza può protrarsi sino al limite di cinque anni, non può essere
addebitata ai sindaci rimasti in carica per tale periodo la responsabilità per
i danni, emersi in sede giudiziaria civile, derivati dal mancato
perfezionamento nei termini anzidetti della procedura espropriativa, ove non si
provi, attraverso l'acquisizione degli atti della procedura, una colpevole
inerzia a carico dei sindaci stessi. Corte Conti Sicilia, sez. giur., 1.7.1993,
n. 61, in Giur. Amm. Sic., 1993, 566.
Nel caso di delega del procedimento le ipotesi possibili
sono tre: l) è responsabile il delegante; 2) è responsabile il delegato; 3) vi
è la responsabilità solidale del delegante e del delegato.
6. La partecipazione degli interessati al procedimento.
La
l. 7.8.1990, n. 241 sul procedimento amministrativo introduce l’obbligo per la
pubblica amministrazione della conclusione dell’atto mediante l’adozione di un
procedimento espresso e l’obbligo della motivazione espressa. N. CENTOFANTI, L’espropriazione
per pubblica utilità, 1999, 166.
Le pubbliche amministrazioni devono precisare il
termine entro cui i singoli procedimenti devono concludersi, fissando, qualora
esso non sia specificato con dizione espressa, la scadenza massima di 30
giorni, ex art. 2, L. 7.8.1990, n. 241.
La tipicità dell’azione amministrativa richiede la
presenza di una serie di operazioni e di atti per l’emanazione del
provvedimento, che costituiscono lo schema base del cosiddetto procedimento
amministrativo.
Questo
si articola in varie fasi che hanno rilevanza o compressione in relazione alla
specifica disciplina legislativa, ma che devono necessariamente adeguarsi ai
principi generali sul procedimento disposti dalla L. 241/1990.
Si
pensi, ad esempio, alle possibili applicazioni nei casi di non definizione
dell’indennità definitiva e, soprattutto, nella carenza di procedimento
ablatorio a seguito della occupazione illegittima.
La
fase preparatoria, parimenti alla fase istruttoria nel processo, serve a
raccogliere tutta la documentazione necessaria per fornire alla amministrazione
gli elementi indispensabili alla redazione dell’atto.
Talora
nel procedimento si innestano vari subprocedimenti che danno vita ad atti
amministrativi autonomi, e come tali impugnabili direttamente, che costituiscono
presupposti necessari a quello principale. Ad esempio il verbale di
consistenza.
In
altri casi il subprocedimento produce atti che hanno una rilevanza interna per
cui si esclude la loro autonoma impugnazione.
In
questa fase si può inserire la presenza dei destinatari dell’atto che
partecipano a vario titolo.
Possono
verificarsi ipotesi in cui il contraddittorio è requisito sostanziale: quando,
ad esempio, la sua mancanza comporta un vizio dell’intero procedimento.
Al
privato viene riconosciuto il diritto di accedere alla fase preparatoria del
procedimento, prendendo visione degli atti e presentando memorie e documenti.
L'amministrazione
è tenuta, ai sensi dell'art. 7 della L. 241/1990, a dare notizia dell'avvio del
procedimento al soggetto che, dalla autorizzazione alla visione dei documenti,
potrebbe ricevere un pregiudizio, ex art. 7, L. 241/1990.
Conseguenza sostanziale è la possibilità di fare
dichiarare illegittimo l’intero procedimento, poiché l’omissione, da parte
della amministrazione, della comunicazione dell'avvio del procedimento
amministrativo nei confronti dei soggetti relativamente ai quali il
provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti, costituisce vizio
che determina violazione legge.
7. Applicabilità della l. 241/1990 al procedimento di espropriazione.
In
relazione al principio della specialità procedimentale, un filone
giurisprudenziale ha ritenuto che non sussista alcun obbligo per
l'amministrazione di comunicare all'interessato, ai sensi degli artt. 7 e ss.
L. 7.8.1990, n. 241, l'avvio del procedimento espropriativo.
Nella
specie si trattava della mancata comunicazione della localizzazione di un’opera
pubblica in difformità dagli strumenti urbanistici vigenti da parte di
un’amministrazione statale, successivamente approvata con deliberazione
regionale, ai sensi dell'art. 81, 3° co., D.P.R. 24.7.1977, n. 616.
L'obbligo
di comunicazione non ricorre nei casi nei quali il legislatore abbia previsto
procedure specifiche per garantire tempestivamente la difesa del soggetto vulnerato
dall'attività amministrativa posta in essere ovvero una forma di
partecipazione, in senso lato, di quest'ultimo all'attività istruttoria. La
comunicazione di avvio del procedimento non è necessaria in tutti quei casi in
cui leggi speciali, predispongono strumenti partecipativi diversi e
alternativi, comunque adeguati al fine, come avviene ad esempio nei
procedimenti di espropriazione per pubblica utilità o di occupazione d'urgenza,
in quelli disciplinari e in quelli di sospensione dei lavori. T.A.R. Lombardia
sez. Brescia, 17.3.1994, n. 133, in T.A.R. 1994, 1901. T.A.R. Friuli
Venezia Giulia, 13.1.1997, n. 17, in T.A.R., 1997, 997.
La
giurisprudenza ribadisce la possibilità di posporre la formalità procedimentali
garantistiche che consentono una effettiva partecipazione, rendendola
praticamente ininfluente ai fini della tutela. Tale interpretazione impedisce
alla proprietà di porre osservazioni al progetto e consente, quindi, solo una
azione risarcitoria.
E’
stata affermato che l'approvazione di un progetto di opera pubblica, anche
quando comporta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed
urgenza ex art. 1, L. 3.1.1978, n. 1, non deve essere necessariamente preceduta
dalle formalità garantistiche di cui agli art. 10 e 11, l. 22.10.1971, n. 865,
fermo restando che queste formalità devono comunque essere compiute, anche se
successivamente, nel corso del procedimento espropriativo. Cons. St., sez. IV, 2.2.1998, n. 147, in Foro Amm.,
1998, 332. Cons. St., sez. IV, 23.10.1998, n. 1368, in Riv. Giur. Ed., 19998, 328.
Questo
indirizzo assolutamente non convince poiché non appare in linea con i principi
della L. 241/1990.
Esso
si fonda su di un precedente orientamento che riteneva sussistesse la
possibilità di rinnovare adempimenti procedurali, anche successivamente alla
scansione logicamente prevista.
La
giurisprudenza ha affermato l'obbligo di seguire la procedura di cui all'art.
10 della L. 865/1971 solo qualora si debba richiedere una dichiarazione
espressa di pubblica utilità. Cons. St., Ad. Pl., 9.10.1986, n. 6, in Foro
Amm., 1986, 1010.
La partecipazione dei privati al procedimento
espropriativo è prevista negli artt. 5 e 17 della L. 2359/1865 e
sostanzialmente tali principi sono ribaditi negli artt. 10 e 11 della L.
865/1971.
La
sequenza procedimentale richiede, infatti, un necessario contraddittorio con
gli interessati.
In
via generale, la disciplina del procedimento amministrativo è portata dalla L.
241/1990 che accentua, anche in chiave di tutela, l’interesse del soggetto passivo
dall’atto amministrativo al procedimento, inteso in senso dinamico, consentendo
agli interessati una serie di verifiche, accertamenti, acquisizioni
conoscitive.
L’esclusione dall’applicazione della L. 241/1990 è
espressamente disposta solo per atti a carattere generale per i quali sono
dettate discipline speciali, in ordine anche alla riservatezza che deve tenere
l’amministrazione fino all’adozione del provvedimento, art. 13, l. 241/1990.
La
dizione legislativa non include la materia espropriativa tra quelle ivi
indicate con la conseguenza che per essa trova applicazione la disciplina della
partecipazione, specificamente prevista dall’art. 8, L. 241/1990, che impone la
comunicazione dell’avvio del procedimento ai soggetti nei confronti dei quali
il provvedimento finale è destinato a produrre effetti.
Negare
la partecipazione equivale contrastare la ratio ispiratrice della L.
241/1990 che prevede, in via generale, l’accesso al procedimento, ma anche la ratio
della L. 865/1971 che ora regola puntualmente il procedimento ablatorio.
E’ inaccettabile la costruzione tradizionale, secondo
cui l’inadempimento delle formalità garantistiche, nel caso di approvazione del
progetto di opera pubblica (anche con valore di variante), legittimamente
avrebbe potuto essere posposto al suddetto atto di approvazione.
La
giurisprudenza ha aderito alle posizioni dottrinali, modificando le
affermazioni precedenti è stato dichiarato che nel caso in cui la dichiarazione
di pubblica utilità dell'opera consegua ex lege, e pertanto il
proprietario inciso non abbia avuto modo di rappresentare le proprie ragioni
nella fase di approvazione del progetto, è illegittimo il provvedimento di
occupazione d'urgenza che sia stato adottato. Deve essere, infatti, data al
privato la possibilità di interloquire quanto meno prima del materiale
impossessamento del bene, specie se egli era in grado di prospettare soluzioni
alternative. T.A.R. Campania, sez. V, Napoli, 21.12.1996, n. 640, in T.A.R.,
1997, 687.
8. Le novità del d.p.r. 8.6.2001, n. 327.
Nell’elaborazione dell’art. 11, D.P.R. 8.6.2001, n.
327, si afferma il principio che il proprietario oggetto di esproprio può
accedere al procedimento sin dalla fase della pianificazione territoriale.
Fin dalla fase dell’istituzione del vincolo preordinato
all’esproprio - che si concretizza con l’approvazione del piano urbanistico
generale ex art. 9, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, anche se manca ancora la
dichiarazione di pubblica utilità -
L’obbligo non sussiste nel caso di adozione ex novo
di uno strumento urbanistico o variante generale, ma sussiste nel caso in cui
sia in corso l’adozione di una variante al piano regolatore per la
realizzazione di un’opera pubblica, anche nell’ipotesi che la variante venga
adottata mediante conferenza di servizi o accordo di programma che comporti
variante allo strumento urbanistico, art. 10, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Al proprietario che risulti dai registri catastali va
inviato l’avviso dell’avvio del procedimento venti giorni prima dell’adozione,
art. 11, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Le
osservazioni vengono valutate ai fini dell’approvazione dello strumento
urbanistico e le relative determinazioni possono essere sottoposte al vaglio
della giustizia amministrativa.
Naturalmente
il proprietario può censurare le scelte anche sotto il profilo urbanistico
seguendo le norme che consentono di portare osservazioni e opposizioni al piano
urbanistico.
9. La pianificazione urbanistica. La progettazione delle opere pubbliche ed il loro rilievo ai fini della procedura di esproprio.
Con
l’avvento della pianificazione territoriale comunale, che oramai ha raggiunto
grande diffusione, l’esecuzione di un progetto di opera pubblica si deve
confrontare con le previsioni urbanistiche esistenti.
La
L. 109/1994 sui lavori pubblici, inoltre, impone l’inclusione delle opere da
realizzare in un piano triennale o nei suoi aggiornamenti annuali.
Nell’ambito
della programmazione triennale l’inclusione di un opera nell’elenco dei lavori
da avviare nell’anno è subordinata alla previa approvazione della progettazione
preliminare, art. 14, 6 comma, L. 109/1994.
Poiché l’elenco annuale dei lavori costituisce un allegato allo schema di bilancio di previsione, unitamente alla relazione previsionale e programmatoria, ne consegue che il progetto preliminare di ogni singolo intervento costituisce una componente essenziale del programma complessivo e che la relativa spesa deve figurare tra gli stanziamenti previsti nel bilancio pluriennale.
Poiché l’elenco annuale dei lavori costituisce un allegato allo schema di bilancio di previsione, unitamente alla relazione previsionale e programmatoria, ne consegue che il progetto preliminare di ogni singolo intervento costituisce una componente essenziale del programma complessivo e che la relativa spesa deve figurare tra gli stanziamenti previsti nel bilancio pluriennale.
Il
ruolo del progetto preliminare è determinante nella programmazione degli enti
locali ed esso può essere realizzato solo se conforme alla programmazione
urbanistica.
Solo
se l’opera è conforme alle previsioni dello strumento urbanistico o di una sua
variante può essere disposta la dichiarazione di pubblica utilità, che sarà
addirittura implicita nel caso si tratti di uno strumento urbanistico
attuativo, come, ad esempio, del piano particolareggiato o del piano di zona
per l’edilizia economico popolare, art. 12, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Se l’opera da realizzare non risulta conforme alle previsioni
urbanistiche l’approvazione del progetto definitivo da parte del consiglio
comunale costituisce adozione di variante allo strumento
urbanistico,
art. 19, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Il
comune, con la approvazione dello strumento urbanistico generale, determina il
sorgere del vincolo all’esproprio per le aree da destinare a servizi o opere
pubbliche.
I
tempi per la realizzazione dell’opera non possono essere indeterminati, ma il
procedimento, in ossequio al principio di legalità, deve rispettare delle
scansioni temporali ben precise.
Il
D.P.R. 8.6.2001, n. 327, all’art. 9, disciplina gli effetti espropriativi dei
vincoli dei piani regolatori generali fissando la sua durata in cinque anni.
Lo
stesso vincolo quinquennale può essere disposto, dando espressamente atto della
sua natura mediante un atto di approvazione di progetto di opera pubblica che
abbia natura di variante allo strumento urbanistico, come ad esempio un
provvedimento della conferenza di servizi, art. 10, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Se,
nel termine di cinque anni dalla approvazione del vincolo, non viene emanata la
dichiarazione di pubblica utilità, il vincolo decade, art. 9, 3° co., D.P.R.
8.6.2001, n. 327.
In
tal caso il privato, liberato dal vincolo, può realizzare gli interventi
consentitigli dalla normativa in carenza di pianificazione urbanistica.
L’art.
4, 8° co., L. 10/1977, che funge da norma quadro per il legislatore regionale,
fissa, in carenza di tale normativa, dei limiti rigorosi.
Fuori
dal perimetro dei centro abitato, l’edificazione a scopo residenziale non può
superare l'indice di metri cubi 0,03 per metro quadrato di area edificabile,
mentre, nell'ambito del centro abitato, sono consentite soltanto opere di
restauro o di risanamento conservativo, di manutenzione ordinaria e straordinaria,
di consolidamento statico o di risanamento igienico.
10. Il silenzio assenso regionale nell’approvazione di variante di piano.
Anticipando
il T.U. sulle procedimento per la formazione dei piani attuativi, previsto
dalla L. 24.11.2000, n. 340, all. 1, n. 13, il T.U. sulle espropriazioni
disciplina due fattispecie di silenzio assenso in materia urbanistica.
La
prima ipotesi di silenzio assenso regionale è relativo all’approvazione di
variante del piano urbanistico generale nel caso di opera pubblica non conforme
alle previsioni di p.r.g., ex art. 19, 4° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
L’approvazione
del progetto di opera pubblica o di pubblica utilità da parte del consiglio
comunale comporta, infatti, variante al piano regolatore.
Il
silenzio della regione o dell’ente competente all’approvazione, protratto per
90 giorni dalla ricezione della delibera del consiglio che adotta il piano,
equivale ad assenso dopo che il consiglio comunale ne ha disposto l’efficacia.
La
seconda ipotesi di silenzio assenso riguarda la modifica del tipo di opera
programmata, ex art. 9, 5° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Nel
corso della durata quinquennale del vincolo il consiglio comunale può
motivatamente deliberare il cambiamento di tipologia dell’opera pubblica.
La
regione o l’ente preposto all’approvazione deve manifestare il proprio dissenso
entro 90 giorni dalla ricezione della delibera comunale.
Nel
caso di silenzio si forma l’assenso sulla delibera trasmessa, dopo che il
consiglio comunale ne ha disposto l’efficacia.
Tale
ipotesi modifica l’art. 1, 4° co., L. 1/1978, ora abrogata.
Esso
prevede la possibilità di approvare opere pubbliche senza variare il piano
urbanistico, quando sono destinate a servizi pubblici, anche se con diversa
destinazione.
A
seguito di detta modifica, dal 1.1.2002 nel caso di varianti, considerate
finora non varianti, si deve modificare il piano urbanistico attraverso
l’approvazione del progetto definitivo dell’opera da parte del consiglio
comunale programmata, ex art. 9, 5° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
11. I vincoli preordinati all’esproprio. Le modalità dell’indennizzo per i vincoli scaduti ex art. 39, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
La reiterazione del vincolo da parte degli enti locali
ha comportato una situazione di compressione a tempo indeterminato del diritto
del proprietario in carenza di indennizzo.
L’art. 9, 4° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327, dispone la
possibilità di reiterazione del vincolo dopo la sua durata quinquennale
lasciando impregiudicata la questione della corresponsione dell’indennizzo per
la proroga del vincolo
La questione è stata risolta, comunque, dalla Corte
costituzionale che ha sancito la illegittimità della reiterazione dei vincoli
di piano senza la corresponsione di un indennizzo.
Il Consiglio di Stato ha rilevato la non manifesta
infondatezza della questione richiedendo una determinazione espressa da parte
del legislatore dei casi in cui la reiterazione dei vincoli costituisca
espropriazione di valore e comporti, di conseguenza, la corresponsione
dell'indennizzo; il giudice amministrativo, inoltre, ha affermato che devono
essere previsti per legge i criteri di determinazione dell'indennizzo stesso.
Cons. Stato, Ad. Pl., 25.9.1996, n. 20, in Riv. Giur. Ed., 1997, 254.
La dottrina ha aderito a questa impostazione della giustizia amministrativa
e propone, quindi, la corresponsione di un indennizzo alla scadenza del temine
quinquennale ovvero, quanto meno, l’approvazione di una relazione di massima
delle spese occorrenti per l’acquisizione delle aree.
La Corte costituzionale ha accolto i rilievi formulati
ed ha disposto l’indennizzo per i vincoli scaduti e reiterati dalle
amministrazioni. Corte cost., 20.5.1999, n. 179, in Riv. Giur. Ed.,
1999, 635.
La Corte precisa i caratteri che devono distinguere il
vincolo perché possa essere soggetto ad indennizzo.
il
vincolo deve essere preordinato all’espropriazione o avere carattere
espropriativo, nel senso di comportare come effetto pratico uno svuotamento di
rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà stessa, mediante
imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni
determinati comportanti inedificabilità assoluta,
il
vincolo non deve superare la durata che il legislatore abbia fissato come
limite, non irragionevole e non arbitrario, affinché il vincolo stesso risulti
sopportabile da parte del singolo soggetto titolare del bene,
il
vincolo non deve superare, sotto il profilo quantitativo, la normale
tollerabilità secondo una concezione della proprietà regolata dalla legge per i
modi di godimento ed i limiti preordinati alla sua funzione sociale.
Non
rientrano negli schemi del procedimento espropriativo, invece, i beni immobili
aventi valore paesistico- ambientale, in virtù delle loro qualità oggettive che
li inserisce in particolari categorie di beni.
Tali
beni, infatti, sono sottoposti ad un particolare regime di utilizzo, secondo le
caratteristiche intrinseche che li distinguono.
Devono
essere considerati come normali e connaturati alla proprietà i limiti non
ablatori posti dai regolamenti edilizi e dalla pianificazione urbanistica e
relativi alle norme tecniche, quali i limiti di altezza, di cubatura, di
superficie coperta, quali le distanze tra edifici, le zone di rispetto relative
a determinate opere pubbliche, gli indici di edificabilità e gli standard
attinenti alle zone territoriali omogenee.
La
Corte non esclude che i vincoli decaduti possano essere reiterati in via
amministrativa.
Possono,
infatti, sussistere ragioni giustificative accertate e motivate con congruo
provvedimento entro i limiti della ragionevolezza e della logicità.
Qualora
i vincoli assumano carattere patologico o quando vi sia una ripetizione o una
proroga sine die o all’infinito attraverso una reiterazione di proroghe,
che si aggiungano le une alle altre, o quando il limite temporale sia
indeterminato e senza una previsione di indennizzo, il sistema si scontra con i
limiti posti dalle norme costituzionali.
E’
stato dichiarato incostituzionale il combinato disposto degli artt. 7, n. 2, 3
e 4, e 40, L. 1150/1942 e art. 2, 1° co., L. 1187/1968 nella parte in cui
consente alla amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti
preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la
previsione di indennizzo. Corte cost., 20.5.1999, n. 179, in Riv. Giur. Ed.,
1999, 635.
E’ stata pronunciata, quindi, l’illegittimità
costituzionale non dell’intero complesso normativo, che continua a consentire
la reiterazione dei vincoli, ma esclusivamente alla mancata previsione
d’indennizzo in tutti i casi di permanenza del vincolo urbanistico preordinato
all’espropriazione o comportante l’assoluta inedificabilità oltre i limiti di
durata fissati dal legislatore ove non risulti, in modo inequivocabile,
l’inizio della procedura espropriativa.
La
Corte non giunge a fissare i criteri per la concreta liquidazione del quantum
dell’indennizzo anche se pone le premesse per la loro definizione.
Ravvisate
nella procedura di determinazione del risarcimento una serie di variabili che
sostanzialmente pongono la diminuzione di valore a seguito reiterazione del
vincolo in rapporto diverso con l’indennizzo relativo alla perdita della
proprietà del bene, la Corte afferma che l’indennizzo per il protrarsi del
vincolo è un ristoro non necessariamente integrale od equivalente al
sacrificio, per una serie di pregiudizi che si possono verificare a danno del
titolare del bene immobile colpito.
Esso
deve essere commisurato al mancato uso normale del bene ovvero alla diminuzione
di prezzo di mercato rispetto alla situazione giuridica antecedente alla
pianificazione che ha imposto il vincolo.
Se
spetta al legislatore ordinario fissare i criteri per l’indennizzo la Corte non
esclude che, anche in caso di mancanza di tale intervento, il giudice
competente sulla richiesta di indennizzo, una volta accertato che i vincoli
imposti in materia urbanistica abbiano carattere espropriativo, possa ricavare
dall’ordinamento le regole per la liquidazione di obbligazioni indennitarie,
nella specie considerandole come obbligazioni derivanti dal pregiudizio subito
a causa della rinnovazione o del protrarsi del vincolo.
Le modalità di calcolo dell’indennizzo sono
disciplinate dall’art. 39, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Si tratta di una normativa transitoria in attesa
del t.u sulla programmazione urbanistica attuativa.
Il vincolo reiterato deve essere indennizzato
attraverso la corresponsione di una indennità commisurata all’entità del danno
effettivamente prodotto commisurata al tempo della reiterazione.
L’atto che reitera il vincolo deve prevedere la corresponsione
dell’indennizzo.
Il problema che si pone è se una variante generale
di piano comporti la reiterazione del vincolo anche in presenza di mutamenti
programmatori.
Si tratta evidentemente di verificare volta per
volta se sostanzialmente il vincolo viene reiterato.
Qualora l’amministrazione non provveda il privato
può inoltrare domanda documentata di pagamento e corrisponderla entro i
successivi trenta giorni, pena la decorrenza degli interessi legali.
Competente all’impugnazione della determinazione
dell’indennizzo o a decidere in presenza di un silenzio dell’amministrazione
sulla domanda è la Corte di Appello.
L’indennità è autonoma rispetto a quella
corrisposta per un successivo esproprio
Per
alcuni autori l’indennizzo dopo il sesto anno è commisurato all’interesse sulla
futura indennità di esproprio.
La
dottrina lamenta come nel d.p.r. 8.6.2001, n. 327 manchi la possibilità per i
proprietari di monetizzare destinazioni pubbliche con destinazioni private,
operando attraverso comparti, perequazioni, trasferimenti di cubatura, accordi
sulle aree da cedere o addirittura eseguendo essi stessi le opere pubbliche.
Tale normativa del tutto evidentemente avrebbe costituito un eccesso di deroga
anche se la giurisprudenza ha riconosciuto legittime le forme di perequazione
contenute nella normativa di piano regolatore generale.
Vi sono, però, alternative al sistema degli indennizzi
dei vincoli.
La dottrina propone la fissazione di un indice
virtuale di edificabilità per le aree ricadenti in ogni singolo comprensorio,
dividendo la cubatura complessivamente consentita dal piano regolatore nel
comprensorio per il numero dei metri quadri dell’intera superficie interessata
dal comprensorio medesimo.
In tal modo si identifica il diritto ad edificare di
ogni singolo proprietario.
Questo diritto reso commerciabile fra i privati etra i
privati e la pubblica amministrazione a prezzi concordati consentirebbe
l’attuazione automatica del piano regolatore.
Al legislatore restano da disciplinare le procedure
coattive di attuazione del piano in caso di inottemperanza dei privati a
realizzare le sue previsioni. G. D’ANGELO, Regime giuridico delle aree
fabbricabili: necessità ed urgenza di una riforma legislativa, in Riv.
Giur. Ed., 1999, 1184.
11 La dichiarazione di pubblica utilità.
La
dichiarazione di pubblica utilità costituisce un subprocedimento necessario che
definisce una qualificazione giuridica del bene, rendendolo oggetto del
procedimento ablatorio.
Alla
sua emanazione provvede l’autorità competente al procedimento ablatorio ma essa
può essere sollecitata dal soggetto anche privato che è interessato alla
realizzazione dell’opera pubblica predisponendo gli elaborati previsti
dall’art. 16, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
La
dichiarazione di pubblica utilità può essere emanata sulla base di diversi atti
formali purché l’opera prevista sia conforme alle previsioni dello strumento
urbanistico o della sua variante.
Riprendendo
quanto affermato dalle disposizioni normative in materia di pianificazione che
attribuiscono efficacia di dichiarazione di pubblica utilità all’approvazione
degli strumenti urbanistici attuativi l’art. 12, 1° co., D.P.R. 8.6.2001, n.
327, contempla fra gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica
utilità: a) all’approvazione del progetto definitivo dell’opera pubblica, al
piano particolareggiato, il piano di lottizzazione, al piano di recupero
urbano, al piano di ricostruzione, al piano delle aree da destinare a
insediamenti produttivi e al piano di zona.
Tale
effetto non è riconosciuto agli strumenti urbanistici generali, ma a quelli
attuativi ai quali è espressamente attribuita tale qualità al momento della
loro approvazione, come, ad esempio, al piano particolareggiato o al piano di
zona per l’edilizia economico popolare. Cass. civ., sez. I, 11.6.1993, n. 6546,
in Giust. Civ. Mass., 1993, 1024.
La
corrispondenza fra pianificazione urbanistica e dichiarazione di pubblica
utilità deve essere piena.
Il
potere conformativo attribuito ai piani urbanistici non consente una
localizzazione contrastante con la zonizzazione senza un preventivo adeguamento
delle disposizioni di piano. T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 8.1.1997,
n. 4, T.A.R., 1997, 1010.
12. Termini. Proroga.
Il limite all’emanazione della dichiarazione di
pubblica utilità è la decadenza del vincolo quinquennale dall’approvazione
dello strumento urbanistico generale; mentre per le aree interessate dalla
pianificazione attuativa il limite è la relativa scadenza dei piani, ad
esempio, decennale per i pano particolareggiato, ex art. 13, 1° co., D.P.R.
8.6.2001, n. 327.
Il
provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità può stabilire
il termine entro il quale il decreto di esproprio deve essere eseguito.
Manca
la distinzione fra termine relativo alle espropriazioni e termine relativo ai
lavori che caratterizzava la dizione dell’art. 13, L. 25.6.1865, n. 2359 e che
comportava la dichiarazione di illegittimità nel caso di mancata indicazione
espressa dei termini distintamente per le due attività. Cons. Giust. Amm.
Sicilia, sez. giurisd., 28.1.1998, n. 21, in Foro Amm., 1998, 1147).
Se manca l’espressa determinazione del termine di
esecuzione del decreto di esproprio può essere eseguito entro il termine di
cinque anni, decorrente dalla data in cui diventa efficace l’atto che dichiara
la pubblica utilità dell’opera.
A differenza del disposto dell’art. 13, L.
25.6.1865, n. 2359, viene richiesto unicamente l’indicazione del termine finale
premesso che il termine iniziale è determinato automaticamente fino alla
scadenza della possibilità di emettere la dichiarazione di pubblica utilità.
L’art. 13, 5° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327,
consacra il principio fissato dalla giurisprudenza che consente la proroga dei termini
nei casi di forza maggiore e per altre giustificate ragioni.
I
requisiti della proroga sono tassativi essa deve essere disposta prima della
scadenza del termine e non avere durata maggiore dei due anni.
La
giurisprudenza ha in precedenza ammesso la proroga dei termini che doveva
essere, secondo i principi generali, congruamente motivata e approvata prima
della scadenza.
E’
stato affermato che i termini possono essere prorogati per i casi di forza
maggiore e per altri motivi indipendenti dalla volontà dell'espropriante, ma
sempre fissando la relativa scadenza; l'inadeguata motivazione è fonte di
illegittimità del relativo provvedimento.
Non
può ammettersi una proroga implicita del termine per l'espropriazione, da
desumersi dalla sola proroga del termine per l'inizio ed il compimento dei
lavori. Cons. St., sez. IV, 21.7.1997, n. 724, in Cons.
Stato, 1997, 1008. Cons. St., sez. IV, 8.10.1985, n. 416, in Riv. Giur. Ed., 1986, 189.
Solo
in presenza di un accertato sopravvenuto evento che abbia rappresentato un
obiettivo impedimento al completamento del procedimento ablatorio si può
giustificare la proroga che rappresenta altrimenti una ingiustificata ulteriore
compressione al diritto dei proprietari.
La
proroga dei termini già scaduti è illegittima poiché essa è in conflitto col
principio costituzionale, fissato dall’art. 42 cost., che prevede per la
proprietà solo limiti a tempo determinato o comunque oggetto di indennizzo.
E’,
invece, esclusa la possibilità di regolarizzazione di un provvedimento, nel quale
sia omessa l'indicazione dei termini per l'inizio e il compimento dei lavori e
delle procedure espropriative.
L’atto amministrativo può naturalmente essere
rinnovato.
In tal caso la dichiarazione di pubblica utilità
deve contenere una nuova indicazione dei termini svincolati da quelli
originari, impone la riproduzione di tutti gli atti successivi alla precedente
dichiarazione, secondo l'ordine logico del procedimento espropriativo, ma non
anche di quelli precedenti. Trib. sup. acque, 29.11.1997, n. 84, in Cons. Stato, 1997, II, 1829. Cons. St., sez. IV,
14.7.1997, n. 715, in Foro Amm.,
1997, 1941.
12 Determinazione dell'indennità provvisoria di esproprio.
Atto
preparatorio indispensabile all’emanazione del decreto di esproprio è la
determinazione dell'indennità provvisoria.
Successivamente
all’efficacia dell’atto che dichiara la pubblica utilità - l’art. 20, D.P.R.
8.6.2001, n. 327, indica un termine di 30 giorni che è da ricollegarsi alla
durata quinquennale indicata dall’art. 13, 4° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327 - il
responsabile del procedimento dell’ente promotore dell’espropriazione deve
compilare l’elenco dei beni da espropriare con una descrizione sommaria, dei
relativi proprietari indicando le somme che offre come indennità di esproprio.
L’atto
è notificato con le forme degli atti processuali civili, ex art. 20, 1° co.,
D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Il
proprietario può, nei trenta giorni successivi, proporre osservazioni sul
valore attribuiti ai beni espropriati.
L’autorità
accerta successivamente in via provvisoria la misura dell’indennità
d’esproprio, ex art. 20, 3° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Il
proprietario ha due alternative o accetta e addiviene alla cessione bonaria del
bene o non accetta.
La
mancata accettazione dell’indennità proposta comporta la riduzione del 40%
dell’indennità provvisoria se l’area è edificabile o senza le maggiorazioni se
l’area non è edificabile.
Il
responsabile del procedimento deve depositare la somma offerta entro trenta
giorni presso al Cassa depositi e Prestiti, ex art. 20, 14° co., D.P.R.
8.6.2001, n. 327.
L’indennità
provvisoria non è soggetta da impugnazione dovendosi attendere la
determinazione dell’indennità definitiva.
13 La cessione bonaria.
Se
il proprietario accetta, l’amministrazione espropriante è obbligata a
concludere l'accordo di cessione del bene che comporta per il proprietario i
benefici economici previsti dall’art. 45, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327.
-
nel caso di indennizzo riguardante un’area edificabile si applica l’aumento del
dieci per cento di cui al comma 2 dell’art. 37, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327,
al valore venale del bene, ex mod. apportata dall’art. 2, comma 89, L.
244/2007. Nei casi in cui è stato concluso l’accordo di cessione, o quando esso
non è stato concluso per fatto non imputabile all’espropriato ovvero perché a
questi è stata offerta un’indennità provvisoria che, attualizzata, risulta
inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva, l’indennità
è aumentata del dieci per cento.
-
nel caso di indennizzo riguardante una costruzione legittima compete il valore
venale (non c’è aumento);
-
nel caso di indennizzo riguardante un’area non edificabile il valore agricolo,
di cui all’art. 40, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, è aumentato del 50 per cento;
-
nel caso di indennizzo riguardante un’area non edificabile coltivata dal
proprietario il valore agricolo è moltiplicato per tre.
L’accettazione
deve essere effettuata entro i trenta giorni dalla notifica della proposta, ex
art. 20, comma 5, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327.
La
scadenza di tale termine segna la fine di ogni procedimento alternativo a
quello di esproprio che resta l’unico possibile, in quanto non si ravvisa la
possibilità di realizzare in termini successivi l’accordo bonario di cessione
del bene.
E’
evidente che gli effetti si ripercuotono anche nei confronti del responsabile
del procedimento qualora esso acquisisca il bene senza procedere agli
adempimenti procedimentali richiesti.
14 Determinazione dell'indennità.
L’indennità
provvisoria può essere determinata in casi di particolare urgenza senza
particolari indagini e formalità, art. 22, comma 1., D.P.R. 8 giugno 2001, n.
327.
Il
procedimento, in tal caso, consente la tempestiva emanazione del decreto di
esproprio permettendo l’immissione nel possesso prima delle stesse determinazioni
del proprietario sull’indennità proposta.
Tale procedura garantisce la corresponsione
dell’indennità che, nel caso di accettazione della proposta
dell’amministrazione, è effettuata entro sessanta giorni dall’accettazione. Il
corrispettivo dell’atto di cessione è aumentato del dieci per cento, ex
mod. apportata dall’art. 2, 89° co., l. 244/2007.
La
notifica dell’atto che determina l’indennità provvisoria comporta nel termine
di trenta giorni il pagamento o il deposito dell’indennità al proprietario.
L’autorità
espropriante dispone il deposito, entro trenta giorni, presso la Cassa depositi
e prestiti Spa, della somma senza le maggiorazioni di cui all’articolo 45, ex
mod. apportata dall’art. 2, comma 89 della L. 244/2007.
Il
proprietario deve assumere ogni responsabilità in ordine ai diritti di terzi;
l’amministrazione può richiedere idonea garanzia prima del pagamento; in caso
contrario l’indennità provvisoria deve essere depositata presso la Cassa
depositi e prestiti, ex art. 26, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327.
Contestualmente
al deposito della indennità provvisoria il responsabile del procedimento deve
richiedere entro venti giorni al proprietario se intende avvalersi del
procedimento di determinazione dell’indennità a mezzo periti previsto dall’art.
21, 2° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Successivamente
all’esperimento di determinazione dell’indennità a mezzo periti il responsabile
trasmette la determinazione dell’indennità al proprietario, che ha trenta
giorni per prendere visione, e deposita l’indennità presso la cassa depositi e
prestiti.
Se,
invece, il proprietario non richiede il procedimento di determinazione a mezzo
periti l’indennità è richiesta dall’amministrazione alla commissione
provinciale di cui all'art. 41, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, ex art. 21, 14° co.,
D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
L’autorità
espropriante dà notizia mediante raccomandata all’espropriato del deposito
della relazione di stima che costituisce la determinazione definitiva
dell’indennità di esproprio e ha tempo trenta giorni dalla notizia del deposito
per autorizzare il pagamento dell’indennità ovvero ordinarne il deposito presso
la Cassa depositi e prestiti.
Il sistema del calcolo dell’indennità è stato
razionalizzato, seguendo le indicazioni giurisprudenziali che hanno dichiarato
incostituzionale il sistema di indennizzo basato sul valore agricolo medio
formulato dalla L. 865/1971.
Rimane, quindi, la distinzione introdotta in via provvisoria dall’art. 5 bis della L. 359/1992 fra aree edificabili e aree non edificabili.
Rimane, quindi, la distinzione introdotta in via provvisoria dall’art. 5 bis della L. 359/1992 fra aree edificabili e aree non edificabili.
L’indennità di espropriazione di un’area edificabile è
determinata nella misura pari all’importo, diviso per due e ridotto del
quaranta per cento, equivalente alla somma del valore venale del bene e del
reddito dominicale netto, rivalutato ai sensi degli artt. 24 segg., D.L.vo
22.12.1986, n. 917, e moltiplicato per dieci, art. 37, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Nonostante
la Corte costituzionale abbia finora non accolto la dichiarazione di
incostituzionalità della riduzione del 40%, Corte cost. ord. 19.7.2000, n. 300,
la riduzione non si applica, oltre che nel caso di accettazione dell’indennità
da parte dell’espropriando, qualora la cessione non sia stata conclusa per
fatto non imputabile al proprietario o perché a questo sia stata offerta una indennità
provvisoria che, attualizzata, risulti inferiore agli otto decimi di quella
determinata in via definitiva.
La
Corte costituzionale, 24 ottobre 2007, n. 348, boccia i criteri vigenti per il
calcolo degli indennizzi nelle procedure di espropriazione.
I
risarcimenti assegnati ai proprietari di aree edificabili, infatti, sono troppo
bassi.
Le
precedenti sentenze, come la 283/1993, nel dichiarare non fondata la questione
relativa all’art. 5-bis della L. 359 del 1992, hanno in ogni modo
affermato che l'indennità di espropriazione non garantisce all'espropriato il
diritto ad un indennizzo esattamente commisurato al valore venale del bene.
Esse
in ogni caso impongono che l’indennità non possa essere meramente simbolica ed
irrisoria, ma debba essere congrua, seria, adeguata.
La
Corte ha sempre posto in rilievo il carattere transitorio di tale disciplina,
giustificata dalla grave congiuntura economica che il Paese sta attraversando
ed ha precisato che la valutazione sull’adeguatezza dell’indennità deve essere
condotta in termini relativi, avendo riguardo al quadro storico-economico ed al
contesto istituzionale.
Il
criterio dichiaratamente provvisorio previsto dalla l. 359/1992 è divenuto oggi
definitivo, ad opera dell’art. 37 del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, che riporta
una norma di contenuto identico.
È
venuta meno, in tal modo, una delle condizioni che avevano indotto la Corte a
ritenere la norma censurata non incompatibile con la Costituzione.
La
sfavorevole congiuntura economica non può essere considerata come motivo
persistente.
Essa
riveste il carattere della eccezionalità.
I
problemi di equilibrio della finanza pubblica permangono anche al giorno
d’oggi; essi, però, non hanno il carattere straordinario ed acuto della
situazione dei conti pubblici verificatasi nel 1992, che ha portato allora il
Parlamento e il Governo italiano ad adottare misure di salvataggio drastiche e
successivamente non replicate.
Un’indennità
congrua, seria ed adeguata, richiesta dalla sentenza n. 283 del 1993, non può
adottare il valore di mercato del bene come mero punto di partenza per calcoli
successivi che si avvalgono di elementi del tutto sganciati da tale dato,
concepiti in modo tale da lasciare alle spalle la valutazione iniziale, per
addivenire ad un indennizzo troppo distante dal valore reale.
Per
la Corte europea dei diritti dell’uomo la legislazione dello Stato deve
prevedere un idoneo meccanismo di determinazione dei valori di espropriazione
che possa rientrare in quel margine di apprezzamento, all’interno del quale è
legittimo che il singolo Stato si discosti dagli standard previsti in via
generale dalle norme CEDU. M. CASTELLANETA, Certo il primato dei principi
costituzionali, in Guida Dir.,2007, 44,59.
La
relatività dei valori è stata affermata dalla stessa Corte costituzionale
italiana.
I
criteri di calcolo fissi e indifferenziati rischiano, invece, di trattare allo
stesso modo situazioni diverse, rispetto alle quali il bilanciamento deve
essere operato dal legislatore avuto riguardo alla portata sociale delle finalità
pubbliche che si vogliono perseguire.
I
criteri per la determinazione dell’indennità di espropriazione riguardante aree
edificabili devono fondarsi sempre sulla base del valore del bene, avendo
riguardo alla situazione reale delle disposizioni di piano che regolano il suo
utilizzo in rapporto alle diverse destinazioni generali attribuite dalla
zonizzazione.
Non
possono essere utilizzati criteri astratti che portano a differenziazioni di
valori che, non essendo supportate da dati reali, determinano inevitabilmente
situazioni di diseguaglianza contrarie all’art. 3 cost.
L’art.
2, comma 89 della L. 244/2007, modifica l’art. 37 del T.U. espr.
accogliendo l’invito rivolto dalla Corte costituzionale di introdurre nuove
norme che bilancino l’interesse individuale del proprietario del bene
espropriato con la funzione sociale della proprietà secondo i principi espressi
dalla Corte europea
La
norma distingue il caso di espropriazione isolata di un singolo bene dal caso
in cui l’espropriazione avvenga nell’ambito di iniziative aventi rilevante
interesse economico sociale.
Nel
caso di espropriazione isolata di un singolo bene l’indennità di espropriazione
di un’area edificabile è determinata nella misura pari al valore venale del
bene.
Nel
caso di espropriazione collocata nell’ambito di iniziative aventi rilevante
interesse economico e sociale l’indennità è ridotta del venticinque per cento
rispetto al valore venale del bene. La misura dell’indennizzo, pur restando
agganciata al parametro del valore venale del bene espropriato, è ridotta in
funzione del peculiare fine di utilità sociale che l’espropriazione è diretta a
realizzare.
15 Le possibilità legali ed effettive di edificazione. Requisiti.
L’area è edificabile se sussistono le possibilità
legali ed effettive di edificazione, valutando le caratteristiche oggettive
dell’area, art. 37, 6° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Le possibilità legali di edificazione non sussistono
qualora l’area sia sottoposta a inedificabilità assoluta in base alla normativa
o ad un atto di pianificazione territoriale, art. 37, 4° co., D.P.R. 8.6.2001,
n. 327.
Il criterio dell'edificabilità di fatto ricorre in
difetto della disciplina legale, in assenza cioè di un vigente piano regolatore
generale o in caso di decadenza del vincolo quinquennale.
Le caratteristiche dell’edificabilità di fatto sono
valutate in base alla effettive possibilità di edificazione fino alla redazione
del regolamento demandato al Ministero LLPP, art. 37, 5° co., D.P.R. 8.6.2001,
n. 327.
In
carenza di regolamento valgono i criteri interpretativi fissati dalla
giurisprudenza
In
primis,
l’area può appartenere solo a queste due categorie: o è edificabile o non lo è.
L'art.
5 bis, L. 8 agosto 1992, n. 359 ha introdotto una generale ed incondizionata
bipartizione dei suoli, agricoli ed edificabili, che non ammette figure
intermedie, ed è associata ad una verifica oggettiva e non legata a valutazioni
opinabili, che può essere data solo dalla classificazione urbanistica dell'area
in considerazione.
Ne
consegue che non può essere classificata come edificabile un'area che gli
strumenti urbanistici non preordinati alla espropriazione assoggettino a
vincolo di inedificabilità, o alla quale gli stessi attribuiscano destinazione
agricola, dovendo, in tal caso, la relativa indennità di espropriazione essere
determinata secondo il criterio agricolo tabellare di cui agli artt. 16 ss.
della L. 865 del 1971.
Al
contrario, ove il piano regolatore o il programma di fabbricazione o altri
strumenti equivalenti prevedano l'edificabilità della zona in cui è ubicato
l'immobile, siffatta destinazione legale è sufficiente ad imprimere allo stesso
detta qualità. Cass. civ., sez. I, 19 settembre 2000, n. 12408, in Giust.
civ. Mass. 2000, 1956.
Seguendo
quanto previsto dal Min. Fin. circ. 10 ottobre 1995, n. 271/T, che si rifà
all’indirizzo espresso dalla Corte cost. 16 dicembre 1993, n. 442, l’indirizzo
giurisprudenziale prevalente afferma che per il riconoscimento della natura
edificatoria del terreno non è necessario che ricorrano le due condizioni della
edificabilità legale e della edificabilità di fatto.
La
norma viene intesa nel senso che anche una sola delle due condizioni sia
sufficiente per considerare edificabile il terreno.
L'inclusione
di un terreno nella cosiddetta "zona omogenea", destinata dal piano
regolatore generale alla espansione edilizia, ne comporta il riconoscimento, tout
court, della natura edificatoria, indipendentemente da ogni ulteriore
valutazione in ordine alle concrete condizioni di fatto del bene, che assumono
rilevanza esclusiva nella sede della determinazione concreta dell'indennità di
espropriazione.
Si
deve, in tal caso, tenere conto delle specifiche caratteristiche del suolo,
influenti sull'apprezzamento economico di mercato, quali la posizione di
contesto, le eventuali prescrizioni di distanze da costruzioni limitrofe o
infrastrutture pubbliche, l'esistenza di opere di urbanizzazione, l'incidenza
differenziata degli oneri di urbanizzazione, ecc., non dovendo in alcun modo
concorrere, con il requisito della edificabilità legale, l'ulteriore, positivo
accertamento di fatto circa le oggettive e concrete possibilità di edificazione
dell'area espropriata.Cass. civ. ,
sez. I, 01 febbraio 2007, n. 2207, in Resp. civ. e prev.,
2007, 4, 969.
Né
limita le possibilità edificatorie dell’area il fatto che la sua edificazione
sia condizionata all’approvazione di strumenti attuativi.
Lo strumento urbanistico attuativo, ancorché previsto
dal piano regolatore generale, è necessario solo quando si tratta si asservire
un'area non ancora urbanizzata (o parzialmente urbanizzata) ad un insediamento
di carattere residenziale, mediante la costruzione di uno o più fabbricati che
obiettivamente esigono, per il loro armonico raccordo con il preesistente
aggregato abitativo, la realizzazione ed il potenziamento delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria.
Nel caso di specie non è, pertanto, stato ritenuto
applicabile ad area collocata all'interno di zona omogenea classificata come
totalmente edificata B1" l'eventuale disposizione del P.R.G. (nella specie
quella del comune di Ovada) che preveda l'edificabilità di aree, divenute
libere in seguito alla cessazione di attività produttiva, solamente attraverso
piani esecutivi obbligatori, con la conseguenza che, ai fini del calcolo
dell'indennità d'espropriazione, il valore dell'area va determinato in base
all'indice fondiario della zona in cui essa è collocata. Cass. civ., sez. I, 12
gennaio 2000, n. 277, in Giust. civ. Mass. 2000, 47.
Per i proprietari coltivatori diretti l’art. 37, 9°
co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327, prevede che l’area edificabile utilizzata per
scopi agricoli sia indennizzata con una somma pari al valore agricolo medio
corrispondente al tipo di coltura effettivamente praticato (quindi anche detta
area deve considerarsi edificabile pur priva di opere di urbanizzazione).
L'art.
37, 7° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327, ispirandosi al principio per il quale non
può essere riconosciuta ad un soggetto una indennità di esproprio che abbia un
valore superiore a quello dichiarato dalla stesso soggetto ai fini fiscali,
prevede che l'indennità di esproprio deve essere ridotta ad un importo pari al valore
denunciato nell'ultima dichiarazione ICI.
Nel
caso in cui il proprietario abbia dichiarato ai fini dell’ICI un maggior valore
rispetto all’indennità corrispostagli, gli è dovuta una maggiorazione pari alla
differenza fra l’importo dell'imposta pagata dall’espropriato, con riferimento
all'ultimo quinquennio, e quello risultante dal computo dell’imposta effettuato
sulla base dell’indennità, unitamente agli interessi legali, ex art. 37, 8°
co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
16 Le aree del piano per l'edilizia economica e popolare.
Con
riguardo ad espropriazioni disposte per l'attuazione di un piano per l'edilizia
economica e popolare non sussiste il problema della natura edificabile
dell'area nell'ipotesi in cui l'inclusione di un'area nel piano di zona sia conseguenziale,
perché meramente attuativa, di una previsione di p.r.g.
In
tal caso non si avranno modifiche nella destinazione urbanistica dell'area, né,
di conseguenza, sulla sua valutazione ai fini del calcolo dell'indennità di
espropriazione, non essendovi variazione sotto il profilo urbanistico, dato il
carattere di edificabilità attribuito all'area già anteriormente alla
pianificazione dell'intervento di edilizia sociale.
La
giurisprudenza ha risolto invece il problema della natura edificabile dell'area
nel caso in cui precedentemente all’approvazione del piano di zona il terreno
abbia avuto destinazione non residenziale.
La
giurisprudenza ha stabilito che nella valutazione della natura edificabile del
terreno secondo diritto, ai fini espropriativi - o ai fini risarcitori in una
fattispecie di accessione acquisitiva - l'indicazione, contenuta nel p.e.e.p.,
di un terreno con riferimento alla sua destinazione all'edilizia economica e
popolare è, di per sé, elemento giustificativo del carattere edificatorio ex
lege del bene, sia pur nei limiti consentiti dal p.e.e.p. stesso.
Non
è, quindi, sufficiente fare riferimento al p.r.g. nella sua originaria
formulazione (nel quale il terreno in questione sia eventualmente collocato in
zona agricola), ma occorre anche tenere presente la destinazione che quel
terreno abbia assunto nel p.e.e.p., che del P.R.G. o del piano di fabbricazione
costituisce variante, ed in base ad esso riconoscerne la natura edificatoria e
valutarne le caratteristiche.
L'indennità
di espropriazione dovuta - in base al criterio di cui all'art. 5 bis, l. 8
agosto 1992, n. 359 - con riferimento ad un terreno la cui edificabilità legale
risulti dal piano di zona che abbia per esso previsto la destinazione ad
edilizia economica e popolare, il valore venale del bene, secondo il criterio
analitico deduttivo, deve essere determinato tenendo conto dell'indice di
edificabilità previsto dal suddetto piano o, comunque, ad esso applicabile.
Allo stesso criterio deve aversi riguardo per il
computo degli oneri di urbanizzazione e per la valutazione dei tempi di
realizzazione, da calcolarsi sulla base delle realizzazioni imposte
dall'attuazione del piano, mentre del tutto illegittimo risulta il riferimento
alla media di due diversi indici di edificabilità stabiliti per aree limitrofe.
17 Il calcolo dell’indennità.
Sono
considerate come aree non edificabili quelle colpite da vincolo di
inedificabilità assoluta, oltre che le aree agricole, quelle, ad esempio,
destinate a verde nel piano regolatore generale anche qualora ad esse sia
attribuito un modesto indice di fabbricazione per la realizzazione di strutture
di servizio al verde, che sia espropriata per la realizzazione di un parco
comunale, con progetto approvato, costituente vincolo preordinato
all'esproprio. Cass. civ., sez.
I, 06 settembre 2006, n. 19132, in Riv. giur. Ed.,
2007, 2, 562.
In
tema di determinazione della indennità di esproprio, i terreni non legalmente
edificabili, anche se suscettibili di una utilizzazione differente da quella
agricola, devono essere valutati secondo parametri omogenei a quelli adottati
per i terreni agricoli, non potendosi più sostenere, a seguito dell'intervento
della Corte costituzionale con la sentenza n. 261 del 1997, la esistenza di un tertium
genus, oltre quelli delle aree edificabili e delle aree agricole.
Né
assume, di per sé, alcun rilievo, in contrario, la circostanza che i terreni in
questione, originariamente compresi, in base agli strumenti urbanistici, nella
Zona E (agricola), abbiano successivamente ottenuto, in sede di variante al
P.R.G., l'attribuzione della destinazione urbanistica Fb (attrezzature di
interesse comprensoriale), ove tali attrezzature non siano idonee a far sorgere
possibilità legali di edificazione, in assenza, tra l'altro, di un piano
comunale particolareggiato. Cass. civ., sez. I, 15 febbraio 2000, n. 1684, in Giust.
civ. Mass. 2000, 342.
Qualora
l'area espropriata non sia integralmente compresa nella zona omogenea di
espansione urbana, rientrando parzialmente nella contigua zona a destinazione
agricola; non può riconoscersi, valorizzando la situazione di fatto, anche per
quest'ultima porzione il carattere decisamente edificatorio.
La
giurisprudenza afferma che la zonizzazione degli strumenti urbanistici conforma
il diritto di proprietà delle aree comprese nelle differenziate zone omogenee,
anche in funzione della suscettività edificatoria dei suoli; sicché, ai fini
della determinazione dell'indennità di espropriazione, non può essere
riconosciuta l'edificabilità di un'area (valutata in rapporto a speciali
condizioni di fatto) in contrasto con la disciplina urbanistica che neghi una
tale utilizzazione del suolo, soccorrendo il criterio dell'edificabilità di
fatto soltanto in difetto della disciplina legale, in assenza cioè di un
vigente piano regolatore generale. Cass. civ., sez. I, 9 giugno 2000, n. 7874,
in Giust. Civ., 2000, 1258.
L’art.
40, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, prevede che l’area non edificabile sia
indennizzata con una somma pari al valore agricolo medio corrispondente al tipo
di coltura effettivamente praticato.
In
tal caso si deve tenere conto del valore dei manufatti edilizi legittimamente
realizzati per l’esercizio dell’azienda agricola.
L’indennità
è definita dalla commissione regionale competente per la relativa provincia, ex
art. 41, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Al
proprietario coltivatore diretto o imprenditore a titolo principale spetta una
ulteriore indennità aggiuntiva determinata nella stessa maniera della
precedente.
Spetta
una analoga indennità aggiuntiva, ex art. 42, D.P.R. 8.6.2001, n. 327,
al fittavolo o al compartecipante che, per effetto della procedura
espropriativa sia costretto ad abbandonare l’area coltivata almeno un anno
prima della dichiarazione di pubblica utilità.
Il calcolo dell’indennità per area edificata.
L’art.
38, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, nel caso di espropriazione di una area edificata
determina l’indennità in misura pari al valore venale dell’immobile.
L’art.
16, coma 9, L 865/1971, distingueva fra valore dell’area, computata secondo il
valore agricolo, ed il valore dell’edificio calcolato al valore venale.
Tale
criterio vale nel caso in cui la costruzione sia stata realizzata con regolare
concessione.
In
caso contrario l’indennità è determinata solo con riferimento al valore
dell’area secondo il principio prima vigente.
In presenza di un fabbricato abusivo, il criterio della
liquidazione unitaria dell'immobile, a valore venale complessivo dell'edificio
e del suolo su cui il primo insista, dovendosi valutare la sola area nuda. Cass. civ., sez.
I, 30 novembre 2006, n. 25523, in Foro amm. CDS,
2007, 2, 450.
18 Il decreto di esproprio.
L’art.
6, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, attribuisce al dirigente dell’ufficio
espropriazioni l’emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento.
Il
decreto di esproprio è, quindi, emanato da un organo della stessa autorità
competente alla realizzazione dell’opera.
Il
decreto è atto necessario per acquisire legittimamente un bene soggetto al
procedimento ablatorio in caso contrario l’amministrazione che abbia occupato
un bene deve procedere ad emanare l’atto di acquisizione corrispondendo il
relativo risarcimento ex art. 43, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
L’art.
23, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, fissa i presupposti per la legittima emanazione
del decreto di esproprio che rende indenne la pubblica amministrazione emanante
da ogni eventuale responsabilità contabile.
a)
il decreto deve essere emanato nei termini di validità della dichiarazione di
pubblica utilità (quinquennale dalla emanazione del vincolo o decennale
dall’approvazione di piano particolareggiato o fissato nell’atto che dichiara
la p.u.);
b)
deve essere emanato nell’ambito dei termini di validità del vincolo preordinato
all’esproprio;
c)
l’indicazione della indennità provvisoria o urgente e gli estremi del pagamento
del deposito presso la cassa depositi e prestiti;
d)
deve dare menzione dell’eventuale della nomina dei tecnici per l’emanazione
dell’indennità definitiva;
e)
deve dare atto della sussistenza dei presupposti per la determinazione urgente
della indennità provvisoria.
Il
decreto comporta il trasferimento del bene all’espropriante con la perdita di
ogni diritto su di esso da parte dell’espropriato, anche nel caso in cui
quest’ultimo abbia impugnato la determinazione dell’indennizzo.
Ogni
diritto dell’espropriato, infatti, può essere fatto valere, da tale momento,
solo in rapporto alla determinazione dell’indennizzo.
Il
decreto deve essere notificato ai proprietari nelle forme degli atti
processuali civili con l’indicazione
Il
decreto deve essere trascritto presso il competente ufficio dei registri
immobiliari, ai sensi dell'art. 23, 2° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Esso
è presentato al catasto per la voltura agli effetti fiscali.
Il
decreto di espropriazione non è atto recettizio, ossia non deve pervenire al
destinatario per produrre gli effetti suoi propri.
La
notifica non è, infatti, elemento essenziale del decreto anche se essa produce
l'effetto di fare scattare i termini per l'impugnazione, che altrimenti restano
sospesi.
La Suprema Corte ha precisato che la mancata notifica
del decreto di esproprio al proprietario effettivo, che non risulti tale dalla
documentazione catastale, impedisce il decorso del termine di decadenza per
l'opposizione alla stima, ma non costituisce motivo di carenza del potere
espropriativo.
La
mancata notifica non è motivo di legittimità del procedimento ablatorio che
legittimi il proprietario a chiedere il risarcimento del danno corrispondente
al valore del bene, producendosi viceversa l'effetto traslativo della proprietà
alla mano pubblica.
L’art.
24, D.P.R.. 8.6.2001, n. 327, fissa il termine perentorio di due anni per
l’esecuzione del decreto di esproprio: essa avviene con il verbale di
immissione di possesso, secondo le precedenti indicazioni giurisprudenziali.
Il
provvedimento ablativo non determina, ex se, un mutamento dell'animus
rem sibi habendi in animus detinendi in capo al proprietario
espropriato, il quale, pertanto, può del tutto legittimamente invocare, nel
concorso delle condizioni di legge, il compimento in suo favore dell'usucapione
tutte le volte in cui (come nella specie) alla dichiarazione di pubblica utilità
non siano seguiti ne' l'immissione in possesso, né l'attuazione del previsto
intervento urbanistico da parte dell'espropriante, del tutto irrilevante
manifestandosi, ai fini de quibus, l'acquisita consapevolezza
dell'esistenza dell'altrui diritto dominicale. Cass. civ., sez. I, 22 aprile
2000, n. 5293, in Corr. Giur., 2000, 1188 nota Nasti.
In
tal caso il decreto decade e la procedura deve essere rinnovata, salvi gli
effetti dell’indennità eventualmente corrisposta e depositata.
La descrizione di beni espropriati deve essere
effettuata redigendo stato di consistenza prima o dopo l’immissione nel
possesso, ex art. 24, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
19 L’occupazione
La
dottrina prevalente distingue fra l’occupazione preliminare, ossia un
procedimento volto ad acquisire il bene, anticipando gli scopi dell’azione
amministrativa ablatoria cui è correlato, e l’occupazione strumentale, intesa
come l’occupazione temporanea avente effetti suoi propri compatibili con
l’apprensione temporanea del bene.
Il
legislatore preunitario ha ipotizzato vari tipi di occupazione che hanno
procedure ed effetti diversi.
In
alcuni casi le occupazioni sono autonome rispetto al procedimento di
espropriazione e non necessariamente presuppongono effetti ablatori definitivi.
In
altre ipotesi le occupazioni sono preliminari al procedimento ablatorio che
deve necessariamente seguire dato che il bene oggetto di occupazione è
destinato a diventare di proprietà dell’amministrazione.
Le
occupazioni d’urgenza hanno avuto un notevole sviluppo poiché sono state
ricollegate ad una particolare dichiarazione di indifferibilità ed urgenza dei
lavori, che non si basa su situazioni oggettivamente urgenti, ma su di una
urgenza per così dire convenzionale, che è affermata a priori per situazioni
tassativamente determinate dal legislatore.
Le
occupazioni preliminari sono, quindi, diventate la norma nel procedimento
ablatorio creando l'occasione di numerose vertenze nel caso in cui
l’occupazione diventi illegittima per il mancato rispetto dei termini o per eventuali
illegittimità del procedimento.
Con
le modifiche apportate al D.P.R. 327/2001 dal D. L.vo 27 dicembre 2002, n. 302,
con l’inserimento dell’art. 22 bis il legislatore ha reintrodotto
l’istituto dell’occupazione d’urgenza preliminare all’espropriazione, già da
ultimo disciplinata dall’art. 20, L. 865/1971.
L’azione
amministrativa in materia di espropriazione può ripercorrere la strada
abbreviata dell’occupazione d’urgenza baipassando il procedimento di
determinazione dell’indennità provvisoria.
Elementi
costitutivi del decreto di occupazione sono la dichiarazione di urgenza, la
determinazione dell’indennità di esproprio e il termine di esecuzione.
Il
decreto può essere emanato per tutti quei casi in cui l’avvio dei lavori
rivesta carattere di particolare urgenza.
La
determinazione è lasciata alla valutazione dell’amministrazione che deve
indicare i motivi di particolare urgenza.
Essa
non è censurabile nel merito, ma solo per vizi di legittimità.
Per
la giurisprudenza il ricorso alla procedura prevista dall'art. 22 bis,
D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, è condizionato dall'indefettibile necessità di
una motivazione che dia conto dell'urgenza qualificata cui fa riferimento la
norma e che deve essere comunque connessa alla particolare natura delle opere
da realizzare sui suoli che si intendono fare oggetto di occupazione. T.A.R. Abruzzo
L'Aquila, sez. I, 19 giugno 2007, n. 343, in Foro amm. TAR, 2007, 6,
2115.
Nel
caso di specie è stata ritenuta legittima l’urgenza nella rapida realizzazione
di un raccordo interessante la tangenziale, in relazione all'interesse pubblico
della comunità municipale a ridurre, in tempi brevi ed in modo rilevante,
l'inquinamento atmosferico ed acustico dell'area urbana principalmente
derivanti dal traffico veicolare. T.A.R. Emilia
Romagna Parma, 23 maggio 2007, n. 306, in Foro amm. TAR, 2007, 5, 1599.
Per
contro è stata dichiarata illegittima la delibera di occupazione di urgenza non
correlata alla natura delle opere da eseguire, ma motivata solo dalla necessità
del rispetto dei tempi necessari per ottenere un finanziamento. T.A.R. Calabria
Catanzaro, sez. I, 2 febbraio 2007, n. 35, in Foro amm. TAR, 2007,
2, 731.
La
procedura è applicabile direttamente, senza alcuna motivazione, in relazione
alla particolare natura di talune opere, come infrastrutture stradali,
ferroviarie ed altre opere lineari previste dalla L. 443/2001, ora trasfuse nel
T.U. espr., e nell’ipotesi in cui vi siano più di 50 destinatari della
procedura ablatoria. La giurisprudenza non richiede alcuna specifica
motivazione delle ragioni di urgenza - che hanno indotto l'amministrazione ad
occupare il bene per realizzare l'opera pubblica - quando il numero dei
destinatari sia superiori a 50. Cons. St., sez.
IV, 12 luglio 2007, n. 3968, in Foro amm. CDS, 2007, 7-8, 2155.
La
dottrina rileva l’eccesso di delega poiché vi è la copertura di delega al
legislatore per introdurre modifiche al T.U. espr. solo con riguardo agli
interventi disciplinati dalla legge obiettivo, ex art. 5, L. 166/2002.
L’amministrazione
può emanare senza particolari indagini o formalità decreto motivato che
determina in via provvisoria l’indennità di espropriazione e che dispone anche
l’occupazione anticipata dei beni immobili necessari.
La
determinazione dell’indennità di espropriazione è un elemento costitutivo del
decreto ed è anche una novità rispetto alla dizione del precedente art. 20, L.
865/1971.
Il
proprietario che accetta la determinazione dell’indennità formulata
dall’espropriante può ottenere il riconoscimento dell’acconto dell'ottanta per
cento dell’indennità.
Egli
deve consentire l’immissione nel possesso ed autocertificare la piena e libera
proprietà del bene, ex art. 20, comma 6, D.P.R. 327/2001.
Altro
elemento costitutivo è il termine di tre mesi entro il quale il decreto deve
essere eseguito con l’immissione nel possesso; successivamente esso decade ed
il procedimento deve essere rinnovato fatta salva la possibilità per il
soggetto passivo di chiedere il risarcimento per danno ingiusto.
Il
decreto è strettamente legato alla conclusione del procedimento di esproprio.
Il
decreto perde, infatti, efficacia qualora la pubblica amministrazione non abbia
dato corso a detto procedimento entro il termine di cinque anni dal
provvedimento che comporta la pubblica utilità dell’opera, ex art. 13,
D.P.R. 327/2001.
L’occupazione
ha carattere strumentale quando il provvedimento serve a realizzare alcuni
scopi dell’amministrazione in modo compatibile con le caratteristiche
dell’immobile e per un periodo di tempo determinato; ad esempio, per rendere
più agevole la realizzazione di un’opera pubblica ovvero per restaurare
monumenti, ex art. 92, D.L.vo 29.10.10999, n. 490.
Il
provvedimento non è teso ad acquisire la proprietà del bene, nel senso che non
è subprocedimento autonomo di un procedimento di espropriazione.
La
funzione di tali provvedimenti è di consentire alla pubblica amministrazione
determinati atti che non siano antitetici all’esercizio futuro del diritto di
proprietà dell’immobile.
L’attività
della pubblica amministrazione può coesistere con l’attività del privato, in
quanto non può essere attuata una trasformazione irreversibile del fondo.
L’art.
49, 1° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327, consente all’autorità espropriante di
disporre solamente la occupazione temporanea di aree che non siano soggette al
provvedimento espropriativo.
L’autorità
deve, però, dimostrare che il provvedimento è necessario per la corretta
esecuzione dei lavori.
L’art.
49, 3° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327, richiede come requisito fondamentale la
redazione dello stato di consistenza dei luoghi occupati che deve essere fatta
come termine ultimo al momento della immissione del possesso.
Il
verbale deve essere redatto in contraddittorio con il proprietario; questi può
rifiutarsi di partecipare in tal caso è necessaria la presenza di due testimoni
che non siano dipendenti del soggetto espropriante, ex art. 49, 3° co., D.P.R.
8.6.2001, n. 327.
La
illegittimità del decreto comporta evidenti ripercussioni nella misura di
determinazione dell’indennità che deve essere ragguagliata per ogni anno di
occupazione ad un dodicesimo del valore venale dell’area e non al dodicesimo
dell’indennità di esproprio.
La
caratteristica dell’attività dell’amministrazione è, quindi, quella di
esplicare funzioni compatibili con l’esercizio del diritto di proprietà,
diritto che trova un limite solo temporaneo nell’esercizio delle funzioni
indicate dal provvedimento.
Da
parte del soggetto passivo viene esercitato un controllo sull’esecutore
dell’opera pubblica, che non consente che il terreno occupato sia utilizzato in
modi non indicati dal decreto di autorizzazione.
Se
questo utilizzo arreca danni che non sono previsti nella determinazione
dell’indennità di occupazione del fondo, il proprietario può agire per ottenere
il risarcimento del maggiore danno, ai sensi dell’art. 2043 c.c.
27.
L’organizzazione
del cantiere.
L’imprenditore
può richiedere di occupare temporaneamente beni privati sia per problemi
organizzativi di cantiere sia per utilizzare materiali estratti dal fondo
occupato al fine dell’esecuzione dell’opera.
La
disposizione ha come caratteristica il fatto che il provvedimento è teso a
consentire l’esecuzione di un’altra opera che sia dichiarata di pubblica
utilità.
Elementi
costitutivi del decreto sono:
(1)
la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera pubblica cui l’occupazione è
strumentale;
(2)
l’indicazione dei beni da occupare;
(3)
la durata dell’occupazione;
(4)
la descrizione degli eventuali materiali che si intendono utilizzare;
(5)
la determinazione dell’indennità.
Oggetto
del decreto può essere l’occupazione del fondo o per esigenze organizzative del
cantiere ovvero per potere raggiungere più facilmente il luogo dove si deve
realizzare l’opera pubblica; si pensi, ad esempio, ad un fondo intercluso.
La
valutazione della superficie occorrente per la realizzazione di un’opera
pubblica, ai fini dell’occupazione temporanea dei terreni ritenuti al riguardo
necessari, attiene a profili tecnico-discrezionali, come tali insindacabili in
sede di legittimità.
Sono
censurabili i vizi logici del procedimento non congruamente motivati.
E’
stato dichiarato illegittimo il provvedimento con il quale il Prefetto,
trascurando i risultati dell’istruttoria compiuta dall’Ufficio del genio civile
e senza alcuna motivazione, dispone l’occupazione della totalità delle aree
private, senza tenere conto di un’altra area indicata e messa a disposizione
dal proprietario interessato che avrebbe comportato la liberazione di una parte
dei terreni occupati. Il provvedimento, infatti, risulta chiaramente ispirato
alla finalità di risparmiare all’esecutore dell’opera pubblica, occupante sine
titulo dei terreni, i disagi e le spese necessari per liberare la predetta
parte dei terreni abusivamente occupati e per trasferire altrove i baraccamenti
occorrenti alle maestranze occupate nei lavori.
Cass. civ., sez. un., 19 aprile 2007, n.
9325.
I
materiali devono essere utilizzati nelle quantità indicate dal decreto.
L’utilizzo
non deve comportare il mutamento irreversibile della destinazione del fondo; il
proprietario ha diritto al risarcimento del danno subito non previsto nella
determinazione dell’indennità, la cui entità coincide con il valore stesso del
fondo.
Si
pensi all’ipotesi limite di uno scavo che impedisca, per l’eccessiva
profondità, l’utilizzo agricolo del fondo e ne muti la destinazione d’uso.
L’uso
non può avere come oggetto una radicale trasformazione del fondo per esecuzione
di un’opera pubblica, perché tali lavori non previsti possono consentire, in
quanto eseguiti sine titulo, un’azione di manutenzione o reintegrazione
del possesso, salvo il diritto del proprietario di ottenere il risarcimento dei
maggiori danni.
La
facoltà di emanare il provvedimento di occupazione è alternativa alle azioni
civili, di cui all'art. 843 c.c., che consentono l’accesso al fondo per
realizzare una costruzione o per riparare una cosa comune.
28. La forza
maggiore.
L’occupazione
nei casi di forza maggiore e di assoluta urgenza e considerata ancora
realizzabile dall’art. 49, 5° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Tale
occupazione è da considerarsi strumentale.
L’autorità
competente può ordinare l’occupazione temporanea dei fondi, che occorrono per
l’esecuzione delle opere necessarie, nell’eventualità di rottura di argini, di
rovesciamenti di ponti e negli altri casi di forza maggiore e di assoluta
urgenza.
Elementi
costitutivi del decreto che legittimano l’occupazione sono:
-
la sussistenza di un fatto contingente che sia straordinario, imprevedibile e
dannoso;
-
l’esatta identificazione degli immobili oggetto del provvedimento;
-
l’indennità;
-
la durata. G.B. Verbari, Occupazione (dir. pubbl.), in Enc. Dir.,
XXIX, 1979, 638.
L’urgenza
non può impedire che, prima dell’occupazione, sia redatto lo stato di
consistenza.
L’art.
49, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, fra i requisiti del provvedimento di occupazione
non contempla quello della durata massima.
Appare
evidente che esso deve contenere i termini di efficacia del provvedimento,
altrimenti verrebbe meno il requisito, stabilito dal legislatore, della
temporaneità dell’occupazione.
In
tali casi non è applicabile la proroga, ma e necessario redigere un nuovo
decreto.
110 L’indennità di occupazione.
L’art.
50, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, prevede che l’indennità di occupazione sia
ragguagliata a quella dovuta nel caso di esproprio dell’area il cui ammontare è
pari, per ogni anno di occupazione, ad un dodicesimo di detta indennità e, per
ogni mese o frazione di mese, è rapportata ad un dodicesimo di quella annua.
Il
proprietario espropriato mantiene il diritto di percepire la indennità di
occupazione per il periodo intercorrente dalla data in immissione nel possesso
e la data di corresponsione dell’indennità di esproprio o del corrispettivo
stabilito per l’atto di cessione volontaria.
In
base al testo legislativo l’acconto non preclude il diritto di ottenere
l’indennità di occupazione.
Se
manca l’accordo sull’indennità proposta dall’amministrazione procedente questa
è determinata dalla commissione provinciale.
L’atto
è notificato al proprietario dall’ente espropriante che può impugnarlo alla
Corte d’appello seguendo le disposizioni di cui all'art. 54, D.P.R. 8 giugno
2001, n. 327, sull’impugnazione dell’indennità di esproprio.
Il
ritardo nel determinare l’indennità di esproprio comporta che l’indennità di
occupazione può essere corrisposta entro il termine di cinque anni fatto salvo
poi, con la decadenza del decreto, il diritto dell’espropriato di esigere il
risarcimento per il danno ingiusto.
Si
deve, pertanto, verificare di volta in volta se l'area in oggetto è da
ritenersi edificabile o non edificabile.
Per
determinare l’indennità in caso di occupazione illegittima bisogna, invece,
fare riferimento all’art. 43, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327.
Il
sistema di determinazione dell’indennità di esproprio per area edificabile
definito dall’art. 37, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, è stato bocciato dalla Corte
costituzionale con immediati effetti anche sul sistema di calcolo
dell’indennità di occupazione. Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 349.
Il
nuovo criterio di determinazione dell’indennità di esproprio per area
edificabile su cui si calcola l’indennità di occupazione è stato indicato dal
legislatore nel valore venale del bene, ex mod. apportata dall’art. 2,
comma 89, L. 244/2007.
13. La retrocessione dei beni.
La
restituzione totale del bene è ammessa per mancata esecuzione dell'opera o per
mancato inizio della sua realizzazione, ai sensi dell'art. 46, D.P.R. 8.6.2001,
n. 327.
Il
nuovo testo normativo prevede, differentemente dalla normativa precedente, il
termine di dieci anni decorrente dalla data in cui è stato eseguito il decreto
di esproprio con l’immissione del possesso per potere inoltrare la richiesta.
Gli
espropriati, in quanto titolari, al riguardo, di uno ius ad rem di
carattere potestativo a contenuto patrimoniale, possono chiedere che l'autorità
giudiziaria pronunzi la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e che
siano loro restituiti i beni espropriati.
Si
tratta in ogni caso di un nuovo procedimento che deve concretizzarsi con un
atto di trasferimento da parte dell’amministrazione espropriante ai precedenti
proprietari.
La
richiesta non può essere formulata se vi è stato un inizio di esecuzione
dell’opera da parte dell’amministrazione.
E’
stato affermato che non può ritenersi ineseguita l'opera quando, nel termine
prescritto, essa sia stata realizzata nelle strutture essenziali.
L'accertamento
del requisito dell'esecuzione dell'opera nei termini sopra indicati, è
riservato al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità, solo
nei limiti di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c.
Nel
caso in cui l'intero immobile oggetto di espropriazione non sia più ritenuto di
pubblico interesse, dato che la pubblica amministrazione non ha titolo per
ritenerlo, esso deve essere restituito al privato precedente proprietario
espropriato, ove venga richiesta la retrocessione, si deve però attendere la
scadenza del termine decennale
Ad
esempio, se le disposizioni del nuovo piano regolatore modificano radicalmente
l'assetto territoriale prima programmato e gli immobili non utilizzati
risultano giuridicamente sottratti, in modo irreversibile, alla destinazione
loro impressa con la dichiarazione di pubblica utilità giustificativa della
espropriazione, si determina una situazione di giuridica inutilizzabilità degli
stessi, che attribuisce al privato il diritto di ottenere la retrocessione.
Non
è più possibile, infatti, dare agli immobili la destinazione prevista nel
decreto di espropriazione e non attuata prima delle modifiche intervenute nella
pianificazione.
L'ente
espropriante stabilisce il corrispettivo per la retrocessione che è pari alla
determinazione attuale dell'indennità di esproprio, avendo presente la natura
attuale di edificabilità o meno dell’immobile, con riferimento al momento del
ritrasferimento.
Se
il richiedente non concorda sul corrispettivo della retrocessione può
richiedere che esso sia determinato dall’UTE o dalla commissione provinciale
prevista dall’art. 41, D.P.R. 8.6.2001, n. 327.
Avverso
la stima è sempre proponibile ricorso alla Corte d’appello del distretto in cui
si trova il bene espropriato.
Il
richiedente la retrocessione deve corrisponderne il prezzo, entro il termine
fissato dall’amministrazione, a pena di decadenza dal diritto.
L'art.
48, 3° co., D.P.R. 8.6.2001, n. 327, prevede che, anche qualora le aree
dichiarate di pubblica utilità non vengano utilizzate, i comuni possono
esercitare il diritto alla prelazione entro 180 giorni dal momento in cui
l’ente espropriante o il proprietario notificano al comune l’accordo relativo
alla retrocessione indicante l’area ed il corrispettivo.
L’art.
47, D.P.R. 8.6.2001, n. 327, distingue l'ipotesi di retrocessione parziale
dalla restituzione totale del bene espropriato nel caso di mancato utilizzo
dell'area legittimamente espropriata.
Il
diritto alla retrocessione sorge in capo all'espropriato solo nel caso in cui
l'amministrazione espropriante dichiari che i beni non servono più per
l'esecuzione dell'opera pubblica.
A
tal fine evidentemente deve essere stata realizzata l’opera pubblica o di
pubblica utilità.
L’espropriato
ravvisando la mancata utilizzazione di tutto l’immobile espropriato può
richiedere la restituzione parziale.
La
retrocessione parziale ha luogo se, dopo l'esecuzione dell'opera pubblica, uno
o più fondi espropriati non abbiano ricevuto, in tutto o in parte, la prevista
destinazione.
A
tal punto il soggetto beneficiario della espropriazione con lettera
raccomandata con avviso di ricevimento trasmessa la proprietario ed al comune
nel cui territorio si trova il bene indica i beni che non servono
all’esecuzione dell’opera e che possono essere ritrasferiti ed indica il
relativo corrispettivo.
Per
potere procedere alla retrocessione l’amministrazione deve avere dichiarato che
il fondo o i fondi non utilizzati non servono più alla realizzazione
dell'opera.
Solo
la dichiarazione di inservibilità determina la trasformazione o dell’interesse
legittimo del proprietario espropriato, interesse il quale non assurge ancora
al rango di diritto di proprietà, assumendo invece consistenza di diritto
potestativo.
Il
diniego alla richiesta o la mancanza di tale dichiarazione ed il comporta un a
lesione ad un interesse legittimo del richiedente che può essere tutelabile
presso la giustizia amministrativa in relazione al difetto di motivazione o
sulla logicità del provvedimento di diniego.
Il diritto soggettivo nella retrocessione parziale, azionabile
davanti al giudice ordinario, sorge solo se ed in quanto l'amministrazione, con
valutazione discrezionale (al cospetto della quale la posizione soggettiva del
privato è di interesse legittimo) abbia dichiarato che quei fondi più non
servano all'opera pubblica. Cass. civ., sez.
un., 08 marzo 2006, n. 4894, in Foro amm. CDS, 2006, 6 1728
L'effetto
ex nunc del ritrasferimento del bene è riconducibile alla sentenza
definitiva che, nel difetto dell'accordo delle parti, determini il prezzo della
retrocessione, poiché solo con questa pronuncia - di natura costitutiva - viene
meno il titolo legittimante la proprietà e il possesso nei confronti
dell'espropriante.
La
sentenza che relativa alla domanda di determinazione del prezzo del bene,
contestualmente, può constatare l'impossibilità della concreta attuazione del
diritto alla retrocessione.
E’
stato, logicamente, affermato che l'istituto della retrocessione parziale o dei
relitti disciplinato negli artt. 60, 63, L. n. 2359, 1865 non trova
applicazione nell'ipotesi in cui sull'area espropriata sia stata realizzata
l'opera pubblica per la quale era stato pronunziato il provvedimento ablatorio,
anche se dopo la sua ultimazione l'opera abbia poi perso siffatta
utilizzazione. Cass. civ., Sez. U., 13.11.1997, n. 11215, in Giust. Civ.,
1998, 969.
14. L’acquisizione di bene occupato senza titolo.
Il
principio di legalità trova consacrazione nell’art. 43, D.P.R. 327/2001.
L’articolo
abroga espressamente l’occupazione appropriativa o espropriazione sostanziale,
vale a dire la cosiddetta accessione invertita.
Tale
riforma era necessaria, in quanto l’ordinamento deve adeguarsi ai principi
costituzionali e a quelli generali del diritto internazionale sulla tutela
della proprietà.
Il
dettato legislativo ribalta lo schema dell’occupazione appropriativa: non è più
il privato che deve attivarsi per chiedere al giudice ordinario il risarcimento
del danno per illegittima occupazione, con il rischio di vedersi dichiarare
prescritta l’azione, se non esercitata nel termine quinquennale, ma è
l’amministrazione che deve procedere ad acquisire i beni utilizzati senza titolo
o attraverso il procedimento di esproprio o attraverso l’atto di acquisizione.
La
norma prevede una particolare disciplina sostanziale e processuale per il caso
che il proprietario chieda la tutela del diritto di proprietà con un’azione
petitoria e d’urgenza.
L’operato
dell’amministrazione può essere così valutato dal giudice amministrativo che ne
decide la fondatezza.
La
dottrina rileva l’illegittimità costituzionale della disposizione per contrasto
con due principi fondamentali; vi è, in primo luogo, carenza di delega poiché
manca un riferimento preciso alla possibilità di configurare l’istituto della
acquisizione.
In
secondo luogo la dottrina evidenzia che si attribuisce alla amministrazione la
possibilità di espropriare al di fuori di ogni legittimo procedimento e di ogni
disposizione di legge che ammetta la privazione della proprietà privata.
Rimane
da vedere se la pubblica amministrazione, abituata ad edificare opere pubbliche
senza preoccuparsi di rispettare i diritti dei privati, tanto che la Corte
europea dei diritti dell’uomo ha biasimato per questo fortemente l’Italia, si
adeguerà ai comportamenti più restrittivi impostile dalla nuova riforma.
L’art.
43, 1 e 2 comma, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, dà disposizioni in merito alla
possibilità di acquisire un bene immobile utilizzato in assenza di un valido ed
efficace titolo abilitante ovvero qualora l’atto di esproprio sia stato
annullato dal giudice amministrativo.
L’amministrazione,
quindi, per potere giungere ad un provvedimento di acquisizione non deve
utilizzare semplicemente il bene altrui, ma deve avere in precedenza provveduto
a modificarlo, materialmente, anche se si tratta di perseguire scopi di
interesse pubblico.
L’atto
di acquisizione deve contenere la descrizione del procedimento o dei
comportamenti materiali che hanno portato la amministrazione ad utilizzare
l’area, indicando la data in cui il fatto si è verificato ed il nominativo del
responsabile del procedimento.
L’atto
deve riportare la misura del risarcimento, ex art. 46, 6 comma, D.P.R. 8 giugno
2001, n. 327, e disporne il relativo pagamento che è requisito essenziale per
l’emanazione dell’atto di acquisizione.
Il
decreto è notificato al proprietario nelle forme degli atti processuali civili
ed è titolo per il passaggio di proprietà dell’area.
I
criteri per effettuare la determinazione del risarcimento del danno sono
dettati dal legislatore che elimina le controversie, anche di natura
costituzionale, recependo il criterio del valore venale del bene; qualora si
tratti di terreno edificabile non si applicano le riduzioni previste dall’art.
37, 1 comma, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327.
La
norma quantifica anche gli interessi che devono essere corrisposti dal giorno
dell’avvenuta occupazione come moratori.
Essi
sono compensativi del ritardo con cui è avvenuta la liquidazione del
risarcimento; pertanto, non si procede a rivalutazione monetaria del bene dal
momento dell’occupazione a quello del pagamento.
L’espresso
rinvio all’art. 37, 7 comma, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, comporta che, anche
nel caso di acquisizione, la determinazione dell’indennizzo trova un limite
nella dichiarazione effettuata dal proprietario espropriato ai fini ICI.
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