1. Capitolo. Il primo giorno di scuola.
Eccolo
quel bimbetto con la faccia rotonda, gli zigomi leggermente sporgenti e la riga
sul lato destro che divide i folti capelli castani: sono io.
E’
il primo giorno di scuola, non posso prendermela comoda quel giorno, anche se,
a dire la verità, è mia madre a non essere mai pronta. Cammino spedito sui gradini del ponte di
Rialto.
“Fa
presto Nicheto che se no rivemo tardi”. Continua a ripetere mia madre.
Questo
repentino cambiamento di abitudini mi ha lasciato soprattutto perplesso.
Non
capisco tutta questa fretta: non posso svegliarmi al solito con comodo, non posso
rimanere lì a giocare col nonno Nicola per convincerlo a comprami dei nuovi
soldatini, non posso scendere in calle a trovare gli amici di sempre, ma al
contrario devo affannarmi a correre su e giù per i ponti e per le calli di
Venezia per arrivare puntuale. Che vita da cani! Ho appena cinque anni e non ho
frequentato l’asilo.
Sono
un po' preoccupato perché devo fermarmi a scuola anche per colazione. Le suore
preparano il primo, io spero ardentemente che la cuoca dell’istituto cucini
bene. Sono ghiotto di pastasciutta, come dimostrano le mie guance paffute.
Io
sono abituato ad un pasto alla veneta: spaghetti alle vongole o col nero,
risotto de bosega, e qualche volta anche lasagne magari anche il
pasticcio di pesce. Come farò a rinunciare a tutto ciò per un’intera settimana?
Per fortuna che di sera e nei giorni di festa mangio a casa.
Mia
madre porta un cestino di vimini con il secondo. E’ troppo grande e troppo
pesante per me.
Indosso
un grembiule nero col colletto bianco, come tutti i bambini che frequentano
l’Istituto.
Da
Rialto la strada è lunga, se ci sono anche dei pesi ingombranti da portare non
ce la faccio proprio.
Scendo
rapido gli scalini irrazionali di casa e mi affaccio stupito della mia nuova
divisa in Calle dei Cinque.
Mi
riconosceranno i miei conoscenti della Ruga Rialto?
Nicola
il fornaio è il primo a salutarmi “Se
lavora ancuo?” mi chiede ridendo.
Il
profumo del pane sfornato da qualche ora mi risveglia l’appetito.
Sono
subito distolto dal saluto del venditore di soldatini che mi invita a passare
nel pomeriggio per vedere gli ultimi arrivi.
Il
frastuono di voci dei negozianti della
Ruga mi distrae. Sono gli echi delle contrattazioni che i commercianti delle
bancarelle, poste in prima linea
rispetto ai negozi che delimitano la Ruga, fanno con i clienti.
Si vende di tutto biancheria, scarpe, pizzi di
Burano e vetri di Murano, ma soprattutto frutta e verdura .
Il
rumore, i colori ed i profumi della Naranzeria
costituiscono la testimonianza migliore di una Venezia vitale che trova nel ripetersi
sereno delle colorate rappresentazioni quotidiane dei suoi abitanti il suo fascino ora in via di
estinzione.
Senza
le storie di tutti i giorni dei veneziani la città è destinata a diventare un
museo con tanti, tanti turisti che, emuli
del barbaro invasore, strappano a poco a
poco la linfa vitale alla città del leone.
Tagliamo
per le calli più nascoste che si incuneano a fianco a S. Giovanni Elemosinario
dove passa meno gente per andare più spediti
Sbuchiamo
a metà della Ruga degli Orefici all’altezza della chiesa di S. Giacomo di
Rialto.
Siamo
appena partiti e siamo già passati davanti a due chiese dove puntualmente mi
faccio il segno della croce seguendo l’esempio di mia madre.
Prima
di attraversare il ponte propongo subito alla mia compagna di viaggio una sosta
alla panetteria di Lino; lì si vende il pane dolce con l’uvetta passa che
mangio per merenda alle cinque.
Lino
il rivenditore di pane si trova in una botegheta di dieci
metri quadrati situata ai piedi del ponte di Rialto.
E’
talmente stretta che i clienti possono entrare due per volta ma c’è un profumo
di pane appena sfornato davvero invitante.
“Fermemose
qua!” imploro tirando per la gonna mia madre.
“Sì
ma femo presto che xe tardi.”
Lino
capisce al volo la nostra fretta e ci serve in un lampo:“ Bona scuola”
mi incoraggia.
I
gradini del ponte sono tanti. Il bordo bianco è scivoloso per l’umidità della
notte che non ha fatto ancora a tempo ad asciugarsi.
Arranco
su quella salita imponente. Non ci sono alternative. E’ una vera e propria
scalata impegnativa per un bambino di neppure sei anni.
Non
si può prendere neppure il traghetto perché il trasporto su gondola è
alternativo alla mancanza di attraversamenti del canale e qui c’è il ponte. I
gondolieri non hanno pensato a noi piccoli scolari!!!
Il
ponte si erge sul canale all’altezza necessaria per consentire il passaggio
delle barche; le due ali di boteghe che lo accompagnano ne camuffano
solo apparentemente la reale elevazione.
Il
Da Ponte ha pensato sicuramente a tutto questo affollamento. Non deve essere
tanto diverso da quello della fine cinquecento quando primo fra i ponti
veneziani è stato costruito per collegare le le due sponde del Canal Grande nel
punto in cui si svolgevano con maggiore intensità la vita ed il commercio della
città fiorente dopo Lepanto.
Molta
gente è lì per ragioni di lavoro ed ha fretta di passare.
Altri
sono lì per vacanza.
I
turisti si notano subito perché indugiano sulle balaustre di marmo che
delimitano le rampe a vedere il traffico di barche ed il panorama.
“Ocio
a le gambe” urlano i ragazzotti che spingono i carretti ingombri di merci
per il mercato.
In
quel bailamme generale mi faccio scudo della presenza di mia madre che utilizzo
come ariete per fendere la folla.
Da
una parte sul canale si affacciano di infilata uno dietro l’altro i fastosi
palazzi simbolo della ricchezza della Repubblica : a destra si staglia il
rivestimento in pietra d’Istria del Palazzo dei Dieci Savi, seguono il Palazzo
Papadopoli, con un timido albero che si lascia intravedere pur sovrastato dalla
imponente costruzione, il Palazzo Bernardo, il Palazzo Grimani, il
Palazzo Pisani e in fondo Palazzo Balbi, che vigila sull’ansa del canale ; a
sinistra il severo Palazzo Manin il più festoso Palazzo Loredan e il Palazzo
Spinelli prima che il canale curvi a sinistra si intravedono i Palazzi
Mocenigo.
Dall’altra
parte il canale si volge repentinamente a sinistra costringendo i capitani dei
vaporetti e le barche ad una attenta manovra per poi proseguire rettilineo.
Sulla
destra qualche speranzoso turista spera
di vedere ancora sulle pareti del Fondaco dei Tedeschi le tracce degli
affreschi, oramai distrutti dalla salsedine, del giovane Giorgione; subito dopo
si ergono Cà da Mostro, Palazzo Michiel
delle Colonne e facendo opportune
contorsioni alcuni più attenti ospiti della città possono intravedere le incredibili decorazioni marmoree della Cà
D’Oro.
Sulla
sinistra si scorge il Palazzo dei Camerlenghi poi corre dritta la fondamenta della Pescheria in fondo il
Palazzo Corner della Regina e Palazzo Pesaro che si può vedere solo dopo essere
discesi dagli ultimi gradini del ponte.
Le
glorie della Repubblica del Leone riemergono dalle oscurità del tempo ogni qualvolta
le risveglia la memoria dei cittadini o dei turisti che conoscono quella storia.
Il
ricordo riporta alla luce i fasti di
questi veneziani prodigiosi protagonisti del loro tempo.
Giungiamo
rinfrancati dalla discesa in Campo San Bortolomio e giriamo attorno alla
statua di Daniele Manin.
Il
padre della Repubblica veneta aveva invano aveva tentato di resistere agli
austriaci cui Napoleone aveva venduto la Serenissima in nome dei principi di
libertà, eguaglianza e fraternità.
“Varda
che drio el cuo del Manin ghe xe i schei” dice sorridendo mia madre
indicandomi la sede della Cassa di Risparmio di Venezia.
Entriamo
nel Sotoportego de la Bissa.
Sembra
impossibile passare dalla luce del campo al buio delle calli che attraversando
il sottoportico.
Venezia
è così imprevedibile, segreta, ricca di colpi di scena, palcoscenico ideale
della commedia della vita che tutti recitiamo ogni giorno.
Vorrei
subito fare una sosta nella rosticceria da dove proviene uno stuzzicante
profumo di cibo e dove posso ammirare un
accattivante tripudio di colori che irrompono dai vassoi posti sul lungo
bancone: il bianco del baccalà mantecato, il nero delle seppie, il giallo delle
mozzarelle in carrozza - appena tolte
dall’olio bollente della frittura - l’arancio bruno delle aragoste , il grigio
scuro delle moleche .
“Magnemo,
ancuo dopo pranso na mozarea?” mi prenoto anzitempo perché non si sa mai
che ci siano altri programmi.
“Sì,
sì, ma adeso semo in ritardo.”
Arrivati
al Ponte Storto ritorniamo a rimirare una fetta di cielo perché a Venezia se
non si esce dal groviglio delle Calli non è possibile guardare il cielo per la
sua interezza.
Siamo
già a metà strada “Manca sto ponte e na cale e po semo rivai” conferma
mia madre.
Avanziamo
per la Salizzada di S. Lio. Questa è una via del tutto normale con tanti negozi
che vi si affacciano, noto che manca il colore tipico delle bancarelle di Rialto.
E’
una strada signorile che porta verso Piazza S. Marco.
Giunti
poco prima della Calle delle Bande prendiamo
a sinistra una calle lunga e stretta che sfocia ad angolo retto sulla
piccola fondamenta ingombra di bambini.
Bastano
una decina di bambini accompagnati dalle loro mamme per creare un affollamento.
La
stretta entrata che si apre sulla destra non consente un celere accesso nell’androne
dell’austero Istituto.
Mia
madre è stata un’allieva delle suore dell’Istituto.
E’
un obbligo per me seguire questa tradizione di famiglia.
I
bambini sono entrati subito perché è impossibile aspettare fuori: la fondamenta
è troppo piccola.
La
suora addetta alla portineria ci accoglie con un sorriso che tenta di
nascondere la sua aria burbera e un po’ brontolona addolcendo la sua faccia
spigolosa; ci dice di salire su al primo piano.
Di
fianco si apre un cortile.
I
glicini si inerpicano sul muro che confina col canale. Non ho mai visto in
città dei fiori così belli.
“Quello
è il cortile dove andrete a giocare” borbotta con un tono che vuole essere
accattivante la suora portiera.
Noto
subito che all’Istituto non si parla in venezian.
Avanti,
avanti! lo scalone mi sembra una salita invalicabile; alla fine sbuchiamo in
una grande sala dove ci sono tanti bambini col grembiulino nero ed il colletto
bianco.
Qualcuno
è contento. Gli scolari di seconda e terza ridono e scherzano con i compagni.
Quelli
di quarta e di quinta fanno gruppo a parte. Si sentono veterani e non si
mischiano con i più piccoli.
Altri
piangono. Sono gli allievi di prima elementare che devono ancora digerire il
primo giorno di scuola e non sanno staccarsi dalle gonne delle loro madri.
C’è
un gran frastuono.
“Mi
no vogio star qua” singhiozza una bambinetta scuotendo la testa e facendo
dondolare le treccine bionde.
Lei,
come me, evidentemente non ha frequentato l’asilo, non è abituata a lasciare le
gonne protettive di sua madre e non ha ancora socializzato con i suoi coetanei.
Il
sorriso e le carezze materne non possono rincuorarla anzi la consolazione la
può trovare solo dopo che se ne sarà andata.
E’
per questo che la suora cerca di spingere la donna fuori dell’uscio per
interrompere quel legame ombelicale.
Io
pure avrei preferito rimanere a casa.
Starmene
a giocare con i soldatini.
Parlare
dal balcone con la signora Emma o andare di sopra a fare compagnia allo zio
Pasquale e alla zia Nina.
Da
oggi devo, invece, recarmi tutti i giorni a scuola.
Che
noia! Che disdetta rinunciare ai miei giochi preferiti, non vedere i miei amici
del cuore, saltare il pasto di mezzogiorno, magari alla cucina di zio Pasquale,
per stare lì inchiodato ad un banco di legno a fare delle aste.
Le
aste che non mi vengono neanche troppo dritte: che disastro!
E’
un’ingiustizia perché ho appena cinque anni e la scuola dell’obbligo comincia a
sei se non scegli di frequentare un istituto privato di monache.
Vorrei
protestare, ma in famiglia nessuno mi ascolta e con le suore non ho alcuna
possibilità di farmi sentire perché la loro disciplina non ammette repliche. Devo
stare lì e rinunciare ai miei piccoli piaceri.
Basta
pastasuta, devo accontentarmi di quello che passa il convento.
Soprattutto
minestrone. L’incubo minestrone è costante tutti i giorni. C’è solo la speranza
di un miracolo che mi sostiene: un giorno arriverà, ne sono certo, la sospirata
pastasuta.
Io
detesto la verdura: sempre verdura cotta che riempie di un odore nauseabondo
tutto l’austero palazzo!
L’odore
intenso della zuppa di verdura sovrasta ogni possibile buon odore della cucina
delle suore.
Per
fortuna la pietanza me la porto da casa: oggi folpeti, domani cotoletta con l’immancabile panino dolce con
l’uvetta. Un po’ di bontà fra cotanto disprezzato minestrone. Mangiare lì è una
tortura che fa dimenticare ogni piacere della tavola anche per un palato poco
raffinato come quello di un bambino.
3. Capitolo. Il nonno Nicola.
Il
nonno Nicola ha un paio di baffetti bianchi spioventi sulla bocca larga.
Gli
occhi azzurro chiaro contrastano colla sua faccia di uomo che viene dal sud.
Sono
il suo unico nipote e dopo due figlie femmine questa per lui è una grande
soddisfazione.
Ho
una grande stima per nonno Nicola; egli ha dato, attraverso quanto realizzato
con un duro lavoro, la possibilità alla sua famiglia di tirare avanti
decorosamente anche in tempi non propizi.
Il
nonno Nicola è venuto a Venezia da Trani ed ha iniziato una attività di oste
come altri suoi compaesani.
La
terra avara del sud non era in grado di sfamare tutta la famiglia.
Così
lui ed alcuni cugini sono saliti al settentrione.
Nelle
valigie di cartone portavano gli strascinati, le cime di rapa, le mozzarelle di
bufala, l’origano di Puglia.
Con
i sapori e gli odori della loro terra portavano il ricordo del torrido caldo
dell’estate che il vento di scirocco ti scaglia contro e ti toglie fin il
respiro, costringendoti a rimanere all’ombra o all’interno delle abitazioni ad
aspettare il fresco della sera.
Il
nonno ha lavorato sodo come garzone in una osteria dove mescevano il vino
pugliese e davano da mangiare piatti tipici del sud.
Poi
si è messo in proprio a commerciare il vino della sua terra.
Dicono
sia esperto a tagliare il vino per renderlo meno forte e più gradevole ai gusti
dei clienti.
Compera
quel vino aspro che ha il sapore della terra di Puglia e lo vende a Venezia.
Fa
trasportare le botti su di una barca a vela che risale pigramente l’Adriatico
fino ad arrivare in Laguna.
Ha
comperato, dopo i primi guadagni, una vecchia osteria nel cuore di Rialto, il
quartiere più popolare vicino al mercato della verdura e del pesce.
Si
chiama La Madonna.
I
suoi clienti abituali sono i facchini del mercato che trasportano le merci
nelle prime ore del giorno.
Alle
sei l’osteria apre e comincia a servire la trippa calda. Poi arrivano i
commercianti e i proprietari dei vari bancheti che vendono le merci ed a
metà mattina si godono una meritata ombra e poi, infine, i clienti dei banchi
dopo aver fatto la spesa per l’ora dell’aperitivo a gustarsi lo spriz.
D’inverno
vengono per scaldarsi e d’estate per rinfrescarsi.
C’è
sempre lavoro ed il nonno è sempre indaffarato. Il bancone di legno
dell’osteria è sempre ingombro di bicchieri di vino.
E’
proprio buono quel vino dal colore rosso cupo che ti scalda il cuore e ti dà
allegria.
Quel
vino è profumato di sole, ha un sapore forte ma con un abboccato gradevole
fruttato; va giù che è una meraviglia.
I
clienti sono soddisfatti ed il nonno è contento dell’attività che gli ha dato
una buona posizione economica.
All’osteria
lavora anche la nonna Graziella che si occupa della cassa.
La
nonna non ha l’aspetto scattante della Mirandolina goldoniana sempre a sevizio dei suoi avventori per
accattivarsi la loro benevolenza.
Ha,
piuttosto, l’aria di una matrona imponente con l’occhio deciso che appartiene a
quelli che comandano tutti a bacchetta; i capelli raccolti sulla nuca
contribuiscono a darle un’espressione severa.
Ho
l’aspetto burbero di chi è sempre lì a contare gli incassi o a pagare, tirando
sul prezzo, i fornitori che portano le damigiane di vino; è lei la contabile di
casa quella che amministra con oculatezza le fortune della famiglia.
Il
nonno cura i rapporti con la clientela e collabora al lavoro degli inservienti
sorvegliando che tutto proceda per il meglio.
La
zia Antonia vive con loro.
Una
presenza indispensabile nella casa e nel lavoro.
E’
una vecchietta curva vestita di nero dalla faccia grinzosa che brontola sempre in
un pugliese stretto incomprensibile; lei aiuta la famiglia di suo fratello
visto che non ne ha una sua.
Non
ci pensa nemmeno a vivere per conto suo e spezzare il cordone ombelicale che la
lega alla sua famiglia d’origine.
Le
due figlie – mia madre e la zia Bice - non hanno messo mai, invece, mettere
piede all’Osteria perché non sta bene; non c’è neanche la scusa del bisogno
perché gli affari vanno bene.
Le
figlie hanno frequentato le elementari poi hanno seguito una scuola di economia
domestica. Non hanno studiato per prepararsi ad un lavoro, ma giusto per avere
quelle nozioni che servono per tenere in
ordine la casa dopo sposate.
Il
nonno ha passato una vita all’osteria La Madonna a vendere il vino del
sud.
Nel
salone principale dell’osteria dietro il bancone della mescita sono collocate
le botti di legno da cui promana un intenso profumo di vino.
Ci
sono anche delle salette più piccole dove gli avventori possono mangiare
qualche cicheto o qualche piatto caldo: pasta e fasioi, bacalà a la
vicentina, cotto col latte su un letto di cipolle, sarde in saor
sono i piatti poveri della cucina veneta. Non mancano mai le cartellate preparate
nel vino cotto a ricordo delle tradizioni pugliesi.
Il
nonno sta al bancone a mescere oppure passa fra i tavoli a dare man forte ai
garzoni di bottega quando la sala è particolarmente affollata a portare qualche
ombra.
L’osteria
è nata coprendo con un tetto un cortile.
Sul tetto il nonno ha piantato una vite rampicante.
Col
tempo la vite è cresciuta ed è salita fino al secondo piano dove è situato
l’appartamento destinato ad abitazione del nonno.
La
vite ha così creato un pergolato che copre il poggiuolo dell’abitazione
affacciato sul tetto dell’osteria.
Il
nonno ci tiene molto a quella vite - che gli ricorda la sua terra di Puglia e i
riti della vendemmia che hanno caratterizzato la sua infanzia - e la cura con
tutto il suo amore.
Tutti
gli anni viene un contadino che la irrora col verderame.
Alla
fine di settembre il nonno con orgoglio ci mostra i grappoli d’uva.
A
volte andiamo insieme a vedere sul poggiolo la vite e contiamo, nella stagione
della vendemmia, i grappoli di uva che penzolano dai fili di ferro che il nonno
ha fatto tendere lungo tutto il poggiolo.
Il
nonno dice sempre che quella vite l’ha piantata lui; mi ricorda che ci vuole
molta cura perché la vite dia frutto; bisogna potarla, darle il verderame,
concimare il terreno se si vuole tenerla in vita e mangiare a settembre l’uva
zuccherina.
E’
come la vita: se non la nutri di lavoro e di buoni propositi va a finire male.
Un
giorno il nonno ha voluto fare un foto ricordo.
Lui
mi tiene in braccio con un grande sorriso di soddisfazione.
Sullo
sfondo la fondamenta del Vin con il ponte di Rialto.
Io
tengo in mano con grande entusiasmo una macchina rossa; una di quelle che
corrono facendo premere le ruote più volte sul pavimento in modo di azionare
una piccola ricarica.
La
macchina corre per pochi metri e poi si ricomincia.
Il
nonno vuole coccolare quel suo unico nipote, per fortuna maschio, come ripete
spesso con lo zio Pasquale, che sprizza salute dalla sua faccina paffuta; il
nonno vuole proprio godersi quel nipote negli ultimi anni che gli restano dopo
una vita di lavoro; il nipote che terrà viva la sua progenie anche se purtroppo
non il suo cognome.
Lavorando
sodo il nonno ha fatto fortuna vendendo il vino della sua terra. Dopo il locale
ha fatto qualche altro investimento per garantirsi la pensione.
Il
nonno Nicola ha un segreto per guadagnare: racimola soldo dopo soldo e non
spende una lira.
Ha
la malattia del mattone; una dopo l’altra ha acquistato nella calle alcune case
malandate che demolisce e ricostruisce garantendo alla sua famiglia un certo
benessere e, se non fosse stato per suo
fratello Beppino, sarebbe stato un benestante.
4. Capitolo. Il fallimento.
Bepino
è il fratello piccolo del nonno Nicola. E’ il coccolo che mamma, papà e i
parenti tutti fanno a gara per vezzeggiare.
Tutti
lavorano sodo e si sporcano le mani; Bepino, anzi il Signor Giuseppe, no.
Bepino
fa il commerciante prima di prodotti agricoli, poi di olio.
La
moglie Rebecca si dà le arie da gran signora anche se dicono che suo padre ha
lavorato al mercato di Rialto a scaricare di notte la frutta e la verdura dai
barconi che vengono carichi dalla terraferma.
In
un primo tempo gli affari vanno bene e Bepino, spronato dalla moglie Rebecca ad
assumere una posizione sociale di rango, si dà delle arie da gran signore.
Bepino
va in giro per il mercato con un bel bastone di legno con il manico in argento
e ogni tanto, quando è intento a discutere con qualcuno, tira fuori dal
taschino un monocolo d'argento con cui squadra da capo a piedi il suo
interlocutore.
Gli
affari vanno come sempre, ma i soldi a Bepino e soprattutto a Rebecca non
bastano mai.
Non
si accontentano mai del giusto.
Vogliono
dimostrare che loro sono persone che possono concedersi ogni lusso.
A
Rebecca piace essere servita in casa.
Ha
licenziato la donna a ore per affidare il servizio di casa ad una domestica
fissa.
Ha
un campanello che tiene sempre a portata di mano con cui chiama la domestica.
Passa
delle ore a spiegare alla domestica i lavori di casa che lei ritiene
indispensabili fissando le priorità.
Rebecca
sta poco in casa; è sempre fuori per andare dalla sarta, fare compere o per
bere il the con le amiche.
La
sua passione sono gli acquisiti.
La
parona compera di tutto specialmente
vestiti, tanti vestiti.
Passa
gran parte del suo tempo dalla sarta a provare e riprovare abiti per ogni
occasione, soprattutto per presentarsi in gran pompa alle cene che dà con
regolarità a casa sua.
Per
essere introdotta nella società bene veneziana Rebecca vuole ricevere in casa
le autorità della città.
La
sua massima aspirazione è ricevere il prefetto o il questore o il sindaco ma si
accontenta anche di un funzionario di Prefettura o del capo dei vigili urbani
per porre in essere la sua scalata sociale.
A
differenza di nonno Nicola, che guadagna molto e non spende che lo stretto
necessario, Bepino guadagna poco ma spende molto.
Chi
non dà fiducia a Bepino che è fratello di Nicola.
Le
banche non gli negano certo dei fidi.
Improvvisamente
un ritardo eccessivo nel rientrare da una scopertura, peraltro modesta, ha
messo in guardia i creditori.
Così
in un momento solo tutti si sono presentati contemporaneamente a battere cassa.
Bepino
non può fronteggiare una simile richiesta di denaro in un momento solo; pensa
di potere diluire il debito per far fronte ai suoi impegni in un tempo molto
più lungo.
Ma
i crediti, si sa, quando sono esatti devono essere tacitati subito pena le
grane della legge.
A
quel tempo fallire vuole dire perdere l’onore, non uscire più da casa, essere
segnati a dito per la strada.
L’onore
allora era una cosa che contava più dei soldi.
Chi
non aveva onore era fuori dal consesso degli onesti, diversamente da oggi dove
gli onesti tendono ad essere estromessi per fare posto a chi ha più pelo sullo
stomaco.
Bepino
disperato corre in casa del nonno Nicola che nei tempi di vacche buone tratta
con sufficienza come il fratello arricchito ma privo della sua eleganza.
“So
in rovina” gli dice “se no ti me salvi ti devo andar in tribunal”.
Nicola
lo abbraccia “Bepino semo fradei” dice e pone mano al portafoglio.
Sentire
solo odore di fallimento è visto dal nonno Nicola come un affronto all’onore
del buon nome della famiglia. Non è possibile sopportare quest’onta a costo di
dare fondo ai propri risparmi.
Quello
slancio di solidarietà costa al nonno Nicola un sacco di guai.
“Spendar
sempre manco de quelo che se guadagna” è il suo motto ma il nonno Nicola è
già impegnato finanziariamente in un grosso intervento immobiliare nel Campo
vicino alla chiesa.
Proprio
lì in faccia al fronte barocco della chiesa sta realizzando la realizzazione
più importante della sua attività immobiliare: vuole costruire un albergo in
comproprietà con il fratello Savino.
Quattro
piani fuori terra: è proprio soddisfatto.
“Xe
la mia pension” dice.
L’investimento
deve assicurare lavoro o tranquillità economica alla sua famiglia, nipote
compreso.
Il
nonno va a vedere l’avanzamento dei lavori tutte le mattine prima di recarsi
all’osteria.
Si
alza un po’ prima perché non vuole sottrarre tempo al suo lavoro normale.
Porta
una sporta con alcune bottiglie di vino che lascia al capomastro
raccomandandosi “ Che i fioi lo beva a la fine de la zornada de lavor.”
Un
po’ perché teme qualche incidente dovuto all’effetto dell’alcool, un po’ perché
gli operai non perdano tempo intanto che lavorano.
Quando
giunge la richiesta di aiuto economico da parte di Bepino i lavori dell’albergo
sono giunti alla metà e lo sforzo finanziario è al culmine, ma il nonno Nicola
non può permettere che lui e la sua famiglia siano solo sfiorati da uno
scandalo.
Il
nonno Nicola va a trovare Nini, l’ultimo fratello, fa presente la sua voglia di
aiutare Bepino e si addossa, col suo aiuto, la parte maggiore dell’onere
economico per coprire i debiti.
E’
così che l’albergo acquista un altro socio.
La
casse del nonno Nicola sono soggette ad una emorragia senza precedenti.
Chiunque
altro ci avrebbe pensato due volte o sarebbe stato preso dall’amore del soldo
non nonno Nicola che paga come un banco ogni debito fino all’ultimo centesimo
L’intervento
provvidenziale consente a Bepino di uscire a testa alta da una valanga di guai.
E’
l’ultima avventura commerciale di Bepino che si ritira in campagna in una casa
modesta e si mette a coltivare i campi abbandonando con la moglie le arie di
gran signore.
5. Capitolo. Rialto.
L’istituto
delle suore è sito nel sestiere di San Marco.
Il
sestiere a Venezia è una delle sei parti in cui è divisa la città. Quello di
San Marco è il più signorile.
L’istituto
è frequentato dalla buona borghesia veneziana.
E’
una realtà diversa da quella di Rialto da dove io provengo.
Rialto
è la parte del sestiere di S. Polo che gravita intorno al mercato.
E’
un mondo fatto di colori sgargianti e di rumori chiassosi mentre il mondo di
San Marco vive ancora delle musiche delicate del prete rosso e si intona ai
preziosi colori dei mosaici di San Marco.
Il
ponte di Rialto segna il confine fra i due sestieri.
Io
passo molto del mio tempo fra la riva del Vin dove lavora mio padre ed il campo
S. Silvestro.
Lì
si trova l’Oratorio della parrocchia dove
trascorro il tempo libero dalla scuola
con tutti i miei amici.
E’
una zona molto popolare che vive sul mercato di frutta, verdura e pesce.
Tutta
Venezia viene a fare spesa al mercato di Rialto; sono tutti veneziani quelli
che vi abitano.
Rialto
è il cuore di Venezia e della sua gente.
Devi
venire qui se vuoi conoscere l’anima vera di Venezia.
La
puoi riconoscere nei volti delle persone che animano il piccolo commercio di tutti i giorni.
Quella
folla animata e festante è composta per lo più di veneziani.
I
turisti li riconosci subito perché non acquistano né pesce né frutta o verdura;
al massimo si indugiano davanti a qualche isolato banco che vende i vetri di
Murano o i merletti di Burano.
E’
un quartiere fracassone; fin dalle prime ore della giornata la vita pulsa con i
ritmi del mercato.
I
carretti cominciano presto alla mattina a trasportare merci e ad allestire i
banchetti di mercanzia.
Il
rumore dei carrettini ed il vociare dei loro conducenti non dà fastidio, a chi
come me è abituato; disturba, invece, il rumore delle auto in terraferma
Le
merci poggiano su dei tubi di ferro tondi e neri come quelli delle impalcature,
allineati con ordine sulla fondamenta che si affaccia sul Canal grande e
sulla Ruga.
E’
uno strano spettacolo quello dei banchi prima dell’arrivo delle merci.
Il
silenzio e la mancanza di folla contrasta colla tumultuosa animazione delle
contrattazioni.
Il
ritmo del lavoro è frequentemente spezzato dalla pausa per lo “spriz”
che, oltre ad essere un momento di riposo, serve a dare un po’ di energia dopo
ore di lavoro all’aperto che si svolge con tutte le temperature.
La
pausa serve a scaldare d’inverno e a rinfrescare d’estate.
Basta
un calo nell’afflusso dei clienti o un amico che passa di lì - sicuramente non
per caso - perché i venditori si fermino un attimo
“Andemo
a bever un spriz e a magnar un cichetto” si sente ripetere come una
giaculatoria.
Lo
“spriz” è un bicchiere di vino bianco allungato con dell’acqua frizzante
e arricchito con bitter o campari soda per i palati più esigenti.
I
cicheti sono delle piccole porzioni di cibo.
Ogni
bacaro offre i cicheti più diversi per attirare la clientela
rendendo gradita la pausa dal lavoro: polpetine, folpeti, uova, bacalà
fritto e altre leccornie frutto dell’invenzione dell’oste e della
tradizione più pura.
I
venditori dei banchetti sono molto bravi a riconoscere la provenienza dei loro
clienti e distinguono i veneziani autentici dagli altri.
Quelli
che vengono dalla terraferma sono campagnoli o foresti.
I
veneziani sono capaci di distinguere con uno sguardo, abituato a curiosare, il
sestiere di provenienza di chi compra.
Chi
viene dalla terraferma è riconosciuto subito o per come si muove fra le
mercanzie con scarsa esperienza o per l’accento che non può essere quello della
Serenissima.
“Toni daghe i pomi a la foresta. No sta farla
spetar” dice cortesemente il frutariol
cercando di accaparrarsi il nuovo cliente.
Chi
viene dai sestieri più lontani, magari da Castello, è sicuramente più attrezzato
con carrelli e sporte che reggono i carichi più pesanti.
Arrivarci
anche in bateo è sicuramente un viaggio di circa un’oretta, ma venire a
Rialto è un piacere oltre che una esigenza di risparmiare qualcosa sfruttando la
concorrenza fra i banchi.
“Done
vardè che pomi. Chi xe che vol sta anguria? Bon prezzo che sero botega" grida a perdifiato Nane che non vuole
assolutamente riportarsi il carretto pieno di frutta al deposito.
Il
dialogo col cliente è continuo per magnificare la mercanzia e accattivarsene la
simpatia.
Il
complimento per le spose più giovani e carine è tradizione della
cerimoniosità di Bortolo“Bea sposa
vien qua che te voio servir mi”
“Ti
xe massa caro. Ieri costava manco e po vegno sempre qua” le giovani massaie
non si fanno convincere facilmente e confrontano i prezzi.
“Va
ben sposa, proprio perché ti xe ti te faso el prezo de ieri” ribatte
Bortolo.
Il
rapporto di affezione al banchetto paga sempre. Più si decanta la mercanzia e
più si ha successo.
“Chi
ciacera de più, vende de più” dice mia madre che è una affezionata cliente
del mercato.
Il
suo frigo è sempre vuoto si riempie solo il sabato per far fronte alla
necessità del giorno di festa “ Perché me
piase magnar le robe fresche non me piase i surgelati”.
Mangiare
bene è anche una cultura che tiene i sapori tradizionali e genuini in debito
conto e che non si fa convincere da intrugli preconfezionati di cui conosci con
difficoltà gli ingredienti e la provenienza.
Per
il formaggio mia madre va sempre da Sbrissa sotto i portici. Da buona
forchetta, quale lei è, dice che l'asiago ed il verde, così chiama il
gorgonzola, che vende Sbrissa non si trovano in altre parti del mercato.
Per
la frutta e la verdura lei sceglie a seconda dell’offerta del giorno.
“Al
mercato bisogna far do giri” dice “ el primo per vardar el secondo par
comprar”.
I
banchetti sono tanti e bisogna cercare di comperare al meglio approfittando della
concorrenza.
Ci
sono però tanti banchi ed anche quelli che hanno prezzi più alti vendono lo
stesso perché c’è sempre il cliente che vuole risparmiare la coda o che ha una
sua fiducia personale sulla qualità di quel determinato banco e compra ugualmente ad un prezzo meno
conveniente.
Poi
c’è l’ora delle “spie”.
Le
spie sono i clienti che arrivano all’avvicinarsi dell’ora di chiusura
approfittando così degli ultimi ribassi dovuti all’esaurimento della merce per
risparmiare qualche soldo.
E’
questo il momento migliore per comperare.
I
fruttivendoli, infatti, vendono scontati i prodotti che sono soggetti a
deperimento.
I
venditori fanno credere alle massaie di essere stanchi e di non volere
riportare al deposito ancora i carretti col loro carico del mattino così le
convincono per l’ultimo acquisto col miraggio di fare un risparmio.
Il
vero risparmio, invece, è non comperare ciò di cui non hai bisogno.
Il
mercato al minuto è distinto da quello all’ingrosso. La divisione della zona
all’ingrosso è fatta con una transenna in legno che divide la zona adiacente al
Canal Grande da quella riservata al mercato al minuto. E’ una divisione
convenzionale che taglia in due il Campo di Rialto, delimitato fra la facciata
della Chiesa di S. Giacometo e il Sotoportego dell’Erberia che
chiude ad elle il campo stesso.
Fra
le transenne del mercato è rinchiusa la statua del gobo de Rialto dove i veneziani solevano un tempo appendere
i sarcasmi e le satire contro i potenti.
E’
considerata da noi ragazzini un’impresa coraggiosa quella di attraversare le
transenne di sera, evitando le guardie giurate, per andare a toccare la gobba
portafortuna della statua.
Le
barche cariche di frutta, verdura e pesce arrivano sulla fondamenta posta
dall’altro lato del Sotoportego dell’Erberia per scaricare le merci.
Il
mercato della frutta e della verdura è il più esteso e colorato.
I
grossisti vendono ai dettaglianti che trasportano le merci o nel mercato che
confina proprio lì o negli altri mercati rionali minori.
Il
mercato del pesce è collocato in campo de la pescaria al coperto sotto i
portici.
Il
pesce è tenuto su dei letti di ghiaccio per conservarlo più a lungo. Alcuni
pesci sono ancora vivi. Sui banchi c’è un via vai di granchi o di masanete
e di qualche pigra lumachina di mare che cercano invano di scappare dalla loro
triste sorte ormai segnata; la mano sicura del venditore li avvolge in cartocci
di carta gialla e spessa.
“Mi
voria del pese. Me lo cura?” E’ la domanda che le signore meno esperte di
cucina rivolgono al venditore mentre le massaie veneziane più esperte
sorridono.
“Ma
se facile netarlo done!” ripete il bottegante che cerca di evitare questo
incomodo.
La
contrattazione col venditore si basa anche su questi dettagli che fanno della
vendita l’occasione di un gioco antico fra chi compra e chi vende che, alla
fine, è un piacevole diversivo alla quotidianità.
A
Rialto non si sono ancora installati i supermercati.
Quegli
anonimi capannoni dove i clienti silenziosi si aggirano fra i banchi senza che
nessuno degli addetti alla vendita riconoscendoli li avvicini con un sorriso o
con un complimento.
Nel
supermercato uomini e donne si spostano muti fra uno scaffale e l’altro che
impediscono persino di avere un contatto visivo fra i clienti : E’ una
distrazione che non favorisce gli acquisti.
Non
c'è allegria ma solo la fretta di uscire al più presto e di evitare di starsene
taciturni in coda alla cassa.
Se
qualcuno tenta di sorpassare spostandosi irregolarmente da una fila all’altra
le reazioni non sono di cortese presa in giro ma irritate.
Le
multinazionali della distribuzione ci hanno tolto il sorriso ed il piacere di
fare la spesa.
6. Capitolo. S. Marco.
Il
sestiere di S. Marco è abitato da industriali, magari qualche armatore,
albergatori, commercianti, professionisti e nobili.
Le
abitudini sono più raffinate, non si va a bere lo spriz nei bacari
, ma si prende l’aperitivo al bar sotto
l’orologio di piazza S. Marco o all’Harris Bar per cercare di incontrare qualcosa
che ricordi Hemingway.
Nel
quartiere manca un mercato della frutta e verdura; le bancarelle sono rarissime
ci sono solo negozi che vendono merci più pregiate.
Puoi
trovar negozi di abbigliamento, negozi di elettrodomestici, pelletterie,
oreficerie e tanti negozi che vendono le specialità veneziane: preziosi vasi di
vetro prodotti a Murano o merletti di Burano.
La
presenza dei turisti tende a modificare anche le abitudini dei residenti.
A
San Marco la gente sembra fin più elegante e più bella.
Non
c’è nessuno vestito male o in tuta per fare i lavori più pesanti che sembrano
essere stati relegati agli abitanti di altri sestieri meno nobili.
La
vita sembra più facile e più gioiosa.
Il
pomeriggio lo si passa seduti al Quadri, al Florian o all’Avena a sorbire un
caffè all’aperto al suono delle orchestrine e a godersi il passeggio.
Qui
è tutto più rilassato sembra che non ci sia bisogno di lavorare e di fare
fatica.
I
soldi si guadagnano più facilmente con il commercio di oggetti di lusso.
La
nobiltà del sestiere si percepisce soprattutto al tramonto, quando i raggi del
sole dormiente fanno risplendere obliqui i mosaici lucenti d’oro della basilica
di S. Marco.
Basta
chiudere gli occhi per vedere passare nei loro abiti di broccato i Foscari con
le loro glorie e miserie, i Morosini , grandi ammiragli conquistatori del
Peloponneso , i Querini , conquistatori e signori di Stampalia, i Pesaro, che
affittavano navi e relativi equipaggi
per le battaglie navali della Serenissima e tanti e tanti altri padri della Serenissima
che trasudano leggenda.
La
grande classe dirigente della Repubblica che seppe garantire ai Veneziani del
loro tempo le libertà fondamentali di lavorare, di non morire di fame, e di
essere tutelati dalle prepotenze e dalle soperchierie dei potenti.
Libertà
che ancora oggi sono dure da mantenere e che allora non erano facili da
conquistare.
Esistono
ancora questi grandi uomini figli della Serenissima Repubblica del Leone?
Forse
sì?
Quello
che non esiste più è lo spirito che animava gli abitanti della vecchia
Repubblica.
Non
esiste più neanche nei sestieri più nobili.
Non
c’è più il fervore di partire verso terre lontane.
Il
commercio fatto di itinerari avventurosi alla Marco Polo non è più neppure un
ricordo.
Si
è spento già ai tempi degli ozi nelle ville venete, quando i discendenti dei
vecchi conquistatori di rotte commerciali hanno trovato più comoda la vita di
campagna a godersi le rendite accumulate ed è stato sepolto definitivamente da
Napoleone a Campoformido.
I
commerci si sono ridotti alla vendita di cose di poco conto per le orde di
turisti. Si è preferito lucrare sull’attività più semplice dell’albergatore di
lusso.
C’è
una evidente nemesi storica nel fatto che i vecchi dominatori che controllavano
l’intero mediterraneo e che, nel periodo di massimo fulgore, tenevano testa
all’Europa intera per proteggere i loro commerci, ora siano oggetto
dell’invasione di torme di turisti, i novi barbari, che ingombrano, a
volte senza alcun rispetto, chiese, musei, calli e fondamenta.
Pochi
sono quelli che conoscono e celebrano la storia della Repubblica del Leone:
sono i fedelissimi irriducibili che si ritrovano nella lettura degli scritti di
Alvise Zorzi.
A
volte mi sono chiesto “ma se ghe fusse ancora il gran consiglio?”
Se
ci fosse ancora il Doge, il Capo della Serenissima Repubblica, lui che gettava
l’anello fuori dalle bocche di porto per celebrare i fasti della grande Venezia
con lo sposalizio col mare.
Se
ci fossero ancora i Veneziani di allora - quelli che non esitavano ad offrire
parte del loro patrimonio per sostenere la Repubblica nel momento del bisogno -
cosa avrebbero fatto per dare lustro e gloria allo loro città e per fare fronte a questi nuovi barbari che calpestano
tutti i giorni come formiche i masegni
della Serenissima?
Avrebbero
trasformato le case in alberghi costringendo gli abitanti ad andarsene, loro
che consideravano i cittadini il patrimonio più prezioso della Repubblica?
Avrebbero
costruito il Canale dei Petroli loro che avevano disposto pene severissime
persino per chi gettava rifiuti nei canali e che avevano istituito il
Magistrato delle Acque per preservare gli equilibri lagunari?
Avrebbero
costruito una zona industriale a ridosso della città a San Giuliano che funge
da maleodorante confine con scarsa attenzione per l’ambiente, loro che punivano
col taglio della mano chi gettava rifiuti nelle acque della laguna?
No,
non credo.
Non
ho la baldanza per dare delle risposte, posso solo formulare delle domande;
però non credo, non credo proprio che chi ami veramente Venezia possa essere
contento di queste soluzioni.
Certo
bisogna contestualizzare le scelte al momento in cui sono state effettuate.
L’esigenza
di dare nuove opportunità di lavoro a chi viveva solo di un’avara agricoltura e
la politica tesa a favorire i consumi per rendere il tenore delle famiglie più
elevato hanno comportato scelte di tutto rispetto.
Queste
necessità, però, devono essere coniugate con l’interesse di preservare il
territorio e l’ambiente che sono parte del nostro passato e della nostra
cultura e bene prezioso per il futuro dei nostri figli.
7. Capitolo . L’Oratorio di San
Silvestro.
Non
ho avuto esperienze scolastiche precedenti – sono riuscito a fuggire
dall’iscrizione all’asilo infantile - ma la nuova esperienza scolastica mi
piace.
Mi
piace l’ambiente: la mia maestra è suora Epifania.
L’istituto
risente dello stile del sestiere di San Marco.
Spesso
vado a giocare con alcuni nuovi compagni in Piazza San Marco o ai Giardinetti
Reali.
Più
rari sono gli inviti nei Palazzi che circondano Campo Santa Maria Formosa o che
si affacciano alla Riva degli Schiavoni, salvo Richi che mi ha invitato alla
festa del suo compleanno nella sua bella casa del Ponte Storto.
Io,
però, preferisco – nondum matura est? - giocare con i miei amici che
frequentano l’oratorio di Campo San Silvestro.
Lì
sento più in sintonia con il mio modo di vivere e con le mie abitudini.
L’oratorio
è frequentato da un numero esagerato di ragazzini.
Le
case di Venezia sono tutte molto popolate; la gente ama abitare in questa città
e si accontenta di vivere anche in cinque in un appartamento di due stanze più
bagno e cucina.
Nelle
case della gente comune non c’è molto spazio per i giochi dei ragazzi.
I
giovani passano il tempo libero dai compiti scolastici fra il campo dove
giocano a tacco e l’oratorio di San Silvestro. Frequentare l’Oratorio è
divertente.
Per
essere ammessi bisogna assistere alle lezioni di dottrina di Don Biondo.
Siamo
tutti stipati nella grande sacrestia ad ascoltare il Padre che ci impone il
silenzio con un semplice gesto della mano che porta il suo indice contro il
naso autoritario.
L’autorità
di don Biondo impone così il silenzio a quella chiassosa assemblea che esplode
in qualche risata solo quando il Don, abile regista, vuole dare un attimo di
tregua all’attenzione.
Don
Biondo è un amico di nonno Nicola e vede per me un futuro da monsignore.
“Te piasaria far el prete?” mi chiede “el
nonno saria contento” precisa con cenno del capo.
La
domanda mi sembra così strana che ho difficoltà a rispondergli.
La
sua più gran preoccupazione è convincere mia madre a portarmi a fare la prima
comunione in parrocchia.
“
Me piasaria che la comunion..”
propone mellifluo.
“
El fio va dale suore!” afferma
categoricamente mia madre.
Neanche
la grinta di don Biondo riuscirà a vincere la diplomazia delle suore che hanno
proposto una tunica bianca per tutti i comunicandi.
Tutti
i giovani scolari sono invitai a fare la comunione nella chiesa dell’istituto.
“La xe propio bela la tunica” soggiunge
mia madre
Da
abile diplomatico Don Biondo ripiega sul corso di chierichetto convincendola
più facilmente.
Amo
molto destreggiarmi col turibolo e odorare da vicino l’intenso profumo
dell’incenso.
Non
riesco invece a raggiungere il massimo con i campanelli al sanctus.
“Sona
più forte” mi suggerisce Don Biondo
Le
lezioni di dottrina sono più semplici di quelle della scuola e non c’è il
rischio di essere bocciati.
La
maggior parte del tempo in Oratorio non la si passa alle lezioni del catechismo
ma a giocare con l’unico ping pong o con l’unico biliardo presente nella
cappella sconsacrata - vista la presenza di un altare con tanto di tabernacolo –
situata sopra la sagrestia di San Silvestro.
L’oratorio
è collocato in una sala al primo piano.
Da
lì si può vedere il Campo.
D’estate
Don Biondo è riuscito ad ottenere l’uso, alle Carampane, di un campetto
polveroso, circondato dalle case, che tiene gelosamente chiuso a chiave, dove a
giocare a calcio in quattro contro quattro.
Le
squadre così composte sono fin troppo numerose per l’estensione del campo di
gioco, così per potere giocare tutti si fanno più squadre chi vince rimane in
campo e gli altri che perdono escono per fare posto a chi aspetta il suo turno.
Si
continua a giocare fino a sera.
Basta
stare attenti a non perdere troppi palloni nel giardino del vicino inferocito
da un po’ di vocio, come se lui non fosse mai stato ragazzo.
“Ve
lo spaco sto balon.” Urla ogni volta che riesce a raggiungere prima di noi
la palla caduta nella sua proprietà.
Se
ci vede mentre andiamo a prendere il pallone sono dolori.
“Ghe
lo digo mi al prete che ve insegni l’educazion!” continua a ripetere
brontolando.
D’altronde
al calcio non bisogna chiamare il pallone o imprecare contro il compagno che
sbaglia un passaggio?
Per
Venezia, soprattutto per Rialto, poter disporre di un campo di calcio è un
lusso esagerato.
Quasi
come potere vedere il cielo tutto intero e non a spicchi.
Le
case sono tanto fitte che il sole si vede solo qualche ora al giorno e ci si
deve accontentare di uno spicchio striminzito di cielo se non si alza lo
sguardo in qualche fondamenta o in qualche campo.
Frequentano
l’oratorio di Campo San Silvestro i figli dei proprietari o dei lavoratori dei
banchetti del Mercato di Rialto.
Sono
ragazzi da modi un po’ folk, sicuramente meno raffinati dei figli della
buona borghesia veneziana che vive nel quartiere di San Marco.
Nessuno
ha voglia di uscire dalla sua zona, dalle sue abitudini quotidiane e di
lasciare i suoi amici.
Né
c’è una particolare urgenza di conquistare dei territori e di sottrarli agli
altri ragazzi.
Quando,
però, c’è di mezzo l’amicizia, quando un amico di campo San Silvestro si trova
in difficoltà ed ha bisogno di dare una lezione a qualche prepotente di un
altro sestiere è un’altra faccenda.
8. Capitolo. La rissa.
Dopo
qualche mese di scuola ho, infatti, la sensazione di essere considerato come
uno che non è al suo posto.
Come
mai uno di Rialto si è permesso di venire ad una scuola di San Marco?
Chi
crede di essere? non è del giro giusto; lui deve essere tenuto a debita
distanza.
“Chi
sono i tuoi amici?” mi chiedono “venditori di pesce, frutta e verdura?”
“Sono
dei bovari?” insistono “ magari non sono neanche di Venezia, vengono dalla
campagna?”
Non
sopporto di essere considerato come un paria.
“
I me amighi non ga paura de nissun i xe forti e fieri, ve fasso veder mi”.
Come
i francesi hanno sfidato gli italiani a Barletta io, a nome dei fioi de San
Silvestro, ho sfidato quei de San Marco.
Non
so proprio quale deve essere la tenzone. Ma so che li ho sfidati. Deve nascere
qualcosa.
La
prova si sarebbe improvvisata lì all’ingresso della scuola.
Non
mi è difficile convincere gli amici di San Silvestro.
E’
in gioco il nostro onore, bisogna dare una lezione.
Quelli
di San Marco sono tutti signorini, non sono capaci di menare le mani e devono
imparare a rispettare i ragazzi San Silvestro.
Gli
amici dell’Oratorio non sono molto caldi ad accogliere l'invito di effettuare
quella trasferta non per timore ma perché non hanno voglia di spostarsi fuori
dal loro territorio e dalle loro abitudini.
Prometto
a tutti di dare in prestito per un giorno intero il mio monopattino rosso.
Sono
convincente.
Alle
quattro e mezza del giorno dopo si presentano in massa all’uscita della scuola.
Nane
è un ragazzino di altezza normale. E’ magro come una acciuga tanto da sembrare
sin più alto di quello che è veramente.
E’
figlio di un ex pescatore che ha un
banco di pesce al mercato di Rialto; per il momento frequenta le scuole
elementari alla scuola pubblica poi continuerà - è già scritto nel suo destino
- il mestiere del padre o forse aprirà un ristorante come lo zio Rico.
Nane
si è appollaiato su una delle due colonne che incorniciano l’ingresso della
scuola; gli altri - e ce ne sono tanti: Toni, Robi, Cleto, Davide - sono
riuniti in silenzio ad aspettare.
C’è
anche Marzian che con Rialto non c'entra niente ma che è venuto a dare una mano
per simpatia.
Nane
attende con aria di sfida.
Le
mamme portano via i bambini più piccoli infastidite da questa insolita piccola
folla, fortunatamente la suora addetta alla portineria chiude la porta e non si
intromette in questa storia.
Sono
rimasti lì a vedere il da farsi quelli che mi hanno provocato e deriso.
In
prima fila c’è Richi con il suo amico Lino.
Indietro
molti altri.
“
Chi xe che dise che nialtri semo dei venditori de pesse.” interroga
Nane.
Il
fatto è assodato e non sembra neppure un’offesa troppo grave.
Si
fa avanti Richi: "Sono io che lo dico" ammette con coraggio.
La
sfida fortunatamente si è così circoscritta a due campioni che devono sostenere
due tesi opposte.
E’
Nane che deve difendere la dignità dei ragazzi di S. Silvestro.
Nane
assume il ruolo di mio campione, ma anche quello di tutti i figli dei venditori
di pesce di Rialto che devono esser trattati con più rispetto.
E’
lui che regge la sfida.
Io
sono troppo piccolo per battermi per S. Silvestro.
Tutti
gli altri fanno circolo a proteggere i due contendenti da sguardi indiscreti.
Nane
picchia sodo.
Richi
si difende bene, ma finisce quasi subito a terra.
Non
è abituato ad aiutare suo padre a spostare le cassette di pesce o a tirare il
carretto per la Ruga e non ha la forza di Nane.
“Ritira,
dìsi che no xe vero.” insiste Nane.
La
cosa è verissima ma Richi, che deve avere avuto dei diplomatici di carriera in
famiglia, prende subito la posizione a lui più favorevole.
“
Non è vero” dice.
Raggiunto
l’obiettivo, Nane molla subito la presa. Mai una battaglia che si preannunciava
cruenta e interminabile si è risolta in modo così veloce tanto da non attirare
l’attenzione né delle suore né dei passanti.
“Andemo
Nico” mi dice e rivolto agli altri “ se ghe xe problemi tornemo anca
solo per farghe cica.” promette.
Di
rabbia ne hanno masticata molta quelli di S. Marco che si sono fatti mettere
sotto dai dei figli di botteganti.
Abbandoniamo
il campo.
La
rivincita dei figli del popolo è fatta.
Il
giorno dopo a scuola vedo che sono trattato con maggiore rispetto.
I
ragazzi di S. Silvestro non sono stati più considerati solo come figli di
venditori di pesce.
9. Capitolo. La puntureta
Quella
stessa settimana ho dei brividi di
febbre.
Quando
ho un minimo disturbo il mio rifugio è il letto, figurasi quella volta che ho
una febbre da cavallo.
Sono
sommerso dalle coperte da cui esce a mala pena la testa e passo il tempo
dormendo un sonno inquieto per gli
incubi portati da quella che i miei credono influenza.
Non
insisto neppure per vedere qualche amico perché continuo a trovare ristoro nel
sonno.
La
febbre non passa.
“Qua
ghe vol el dotor” sentenzia mio padre.
L’arrivo
del medico è un avvenimento importante.
Il
medico è una persona istruita. Va trattata con il dovuto rispetto.
Tutti
sono particolarmente tesi per sentire il suo responso.
“Speremo
che non sia niente” dice mia madre che si preoccupa per un nonnulla.
“Qua
ghe vol na puntureta de penicilina” diagnostica il medico che sospetta una
bronchite.
Tento
invano di fare partire un tentativo di contrattazione.
“
No se pol tor qualcossa par boca” suggerisco temendo la signora Antonia
anche quando questa dice di portare delle caramelle.
"No,
qua ga da venir la signora Antonia” pontifica lui non
ammettendo alcun contraddittorio.
E’
una sentenza di condanna senza appello.
La
signora Antonia è l’infermiera che si reca a fare le punture a domicilio.
La
signora è conosciuta nel sestiere perché ha un ambulatorio di infermeria e vive
facendo iniezioni.
Tutti
i ragazzini ne parlano con terrore perché la sua fama nel fare le iniezioni si
è sparsa in tutto il sestiere. Quando arriva il pericolo è in vista.
E’
una signora dal fisico asciutto, capelli scuri, ricci ma non troppo perché è
passato un po’ di tempo dall’ultima permanete.
Ha
avuto la sventura di scegliere, purtroppo per lei, un lavoro odiato da tutti i
ragazzini.
La
montatura scura e massiccia degli occhiali le da un tono molto serio, la sua
aria cupa è accentuata dal fatto che ha una gamba paralizzata che si trascina
con grande indifferenza.
Piango,
mi dispero. Nulla vale, tutti sono irremovibili.
La
mia paura anzi il mio terrore per le iniezioni non convince nessuno a cambiare
terapia.
Attendo
con trepidazione la signora Antonia.
Lei
arriva puntualissima il giorno dopo trascinando la sua gamba immobilizzata
dalla poliomielite.
Non
l’ho mai vista prima d’ora e mi sembra subito che abbia un aspetto sinistro,
non certo accattivante.
Per
farsi volere bene blandisce “Te go portà
dele caramele”.
Quello
che noto subito non sono però le caramelle ma il pentolino di alluminio porta
con sé per fare bollire l’ago e la siringa in vetro che è usata per
l’occasione.
Vede
il mio terrore palese e cerca di rabbonirmi:
“Uso
un aghetto picolo no te fasso niente” mi sussurra con un vocione roco che vuol essere rassicurante.
Spero
sempre che sia una finta, che sia tutto uno scherzo.
Non
posso credere ad un così grande sopruso nei miei riguardi da parte di mio padre
e mia madre.
Come
possono i miei genitori, che mi vogliono bene, sottopormi al supplizio di una
puntura.
Realizzo
che la cosa è fatta sul serio solo quando la signora Antonia si presenta
brandendo l’arma sull’uscio della mia stanza.
Dall’ago
che mi sembra di una grandezza esagerata spunta una piccola goccia di liquido.
Il
coro delle troiane dopo la distruzione della loro città è nulla rispetto ai
miei lamenti.
Mi
dispero e mi contraggo sul letto, ma tutto è inutile.
Resisto
con tutte le mie forze. Il nemico mi sovrasta.
Cedo
dopo che sono immobilizzato da mio padre e mia madre mentre la signora Antonia
implacabile esegue la sua missione.
Quando
dopo un’oretta la rabbia per il torto subito è sbollita devo convenire “ No me
ga fato miga mal”
10.
Capitolo.
L’imbroglio legale.
La
signora Emma è una bella signora di quaranta anni. Lei dimostra almeno cinque
anni in più della sua età specialmente quando indossa quegli occhiali orrendi
da presbite che usa quando lavora da sarta.
Se
ne sta tutto il giorno a cucire, confeziona vestiti in casa per tutto il
vicinato.
Pur
essendo ancora giovane si è indebolita la vista rimanendo tutto il giorno in
cucina a imbastire.
E’
costretta per gran parte del tempo ad accendere la luce artificiale anche se sfrutta al massimo la luce che proviene nelle
ore centrali della giornata dallo spicchio di cielo che sovrasta la calle.
La
casa è piccola e non ci sono altri spazi oltre la cucina c’è la camera da letto
matrimoniale ed una stanzetta più piccola per il loro figliuolo.
Il
marito lavora in fabbrica fa il saldatore.
Il
sig. Biondo ha i lineamenti signorili; è alto, magro con i capelli brizzolati.
E’
un tipo taciturno, parla solo quando viene chiamato in causa rispondendo prima
di tutto con un sorriso amichevole.
E’
abituato a parlare poco sul lavoro. Ha una fotografia che lo ritrae con una
maschera da saldatore sul volto mentre in mano tiene una fiamma ossidrica, la
tiene in cucina attaccata ad un’anta della madia in bella vista.
Lavora
all’Arsenale, un grande cantiere dove costruiscono imbarcazioni.
Parte
la mattina alle sette e torna a casa alla sera alle sei e mezza con un breve
intervallo per mangiare il cestino che gli prepara la moglie.
Ha
un cestino anche lui come me per portarsi il pranzo sul lavoro.
“El
mio cestin xe più belo del tuo” gli confido.
Andare
e tornare da Rialto all’Arsenale è un
bel pezzo di strada.
Il
sig. Biondo la percorre tutta a piedi per distrarsi un po’ in mezzo alla gente.
I turisti affollano la città.
Lavora
tutti i giorni compreso il sabato.
Quarantotto
ore alla settimana. I tempi sono duri, si lavora sempre.
Gli
resta solo la domenica per sognare la casa col giardino in mezzo al verde della
campagna.
La
sera quando torna è troppo stanco anche per sognare.
E’
discendente da una nobile famiglia della zona di Treviso.
Suo
padre aveva due figli.
Suo
fratello, approfittando della malattia del padre che lo ha reso non troppo
attento alla gestione dei beni di famiglia e della bontà del sig. Biondo, lo ha
depredato dei suoi averi facendosi intestare tutte le proprietà immobiliari
della famiglia.
E’
sempre stato per me un mistero come una persona poco lucida di mente possa redigere
delle donazioni.
“No ghe xe i notai a controlar? “ Chiedo
incuriosito.
Il
fratello è riuscito a conoscere il notaio Gemma e a diventare suo amico, mi
spiega il sig. Bruno.
Un
notaio famoso nella sua città per i suoi imbrogli cui però nessuno ha mai
rimproverato ufficialmente qualcosa.
E’
esperto soprattutto ad imporre ai più deboli quella legalità che è sita al di
qua di quella sottile linea di confine che la divide dalla truffa.
Un
legalità formale che equivale ad un sostanziale imbroglio legale.
Così
quelli che conoscono il modo di operare del notaio Gemma lo tengono alla larga
mentre i poveracci rimangono per lo più fregati.
Per
il signor Biondo c’è solo da subire perché a correre dietro a queste
ingiustizie si può solo rimettere
“Ad
andar per avvocati per recuperar il mal tolto - dice il signor Biondo – ghe
xe solo da spendar schei”.
Il
signor Biondo è fatalista e non è, inoltre, capace di fronteggiare una
situazione così complicata
Questa
storia, fra l’altro, lo turba profondamente .
Non
riesce ad essere lucido.
Si
sente incapace sia di convincere il padre a diffidare del fratello sia di
impedirgli di dilapidare il suo patrimonio in donazioni.
Si
è, pertanto, rassegnato a vedere depredare suo padre che stravede per il
fratello.
Il
padre, invece, diffida di lui.
Come
tutti coloro che apprezzano gli adulatori diffida solamente di chi gli dice la
scomoda verità che vuole inconsciamente ignorare.
Molto
spesso le persone vogliono sentire solo ciò che fa loro piacere e non vogliono
vedere i veri problemi della vita, quelli che impongono dei comportamenti a
volte duri, ma necessari.
Alla
fine al fratello non era rimasto nulla di quello che aveva sottratto con la
frode.
Anche
ad avere ottenuto una sentenza di condanna – con i tempi biblici della
giustizia - non c’è nulla da guadagnare.
Il
fratello aveva dilapidato tutto ancora prima che un solerte avvocato avesse
potuto ottenere il sequestro cautelativo.
Il
sig. Biondo non avrebbe recuperato un centesimo, gli sarebbe rimasta solo la
notula dell’avvocato da pagare.
Di
tutti quei beni sottratti con le donazioni illegittime redatte dal notaio
Gemma, infatti, non restò nulla nelle tasche del fratello.
Egli
dovette cedere tutto a usurai e profittatori per potere fare fronte alla
montagna di debiti contratti per condurre, senza lavorare, la sua vita
dispendiosa.
Poi
il padre è morto ed il fratello, non avendo più nulla da sottrarre, è scomparso
nel nulla .
Il
signor Biondo ha dovuto impegnare due mesi di risparmi, destinati all’acquisto
della casa di campagna per le spese del funerale.
Non
voluto affidare i funerali alla carità pubblica per una sorta di dignità
personale cui non è mai venuto meno.
Nessuno
ha cercato di sapere dove è finito il fratello scomparso.
Il
timore di vederlo tornare a riportare guai e così grande che nessuno ne parla
più.
Il
sig. Biondo si è poi sposato con la sig.ra Emma.
Pazientemente
raggranellano soldo dopo soldo per potere comperare in contanti - senza debiti
con nessuno tanto meno con le banche, perché ne è ossessionato - la casa in
campagna.
Con
un solo stipendio non ce la fanno a fare fronte a tutte le spese: far studiare
il figlio e mettere da parte i soldi per comperare la casa.
La
signora Emma parla sempre di quella casa con un giardino dove si vede sempre il
sol.
E’
lì nella campagna verde di Favaro Veneto subito fuori Mestre
La
campagna è aperta le altre abitazioni sono distanti e non appiccicate l’una
all’altra come qui in questa calle stretta e buia dove il sole si vede solo poche
ore al giorno.
La
casa non sarà nel centro storico di Venezia ma, in compenso, sarà grande,
spaziosa e con un giardino con tanti fiori colorati e profumati che possano
fare dimenticare le glorie della città del Leone.
Non
riesco proprio a comprendere come un veneziano possa pensare di trasferirsi in
terra ferma.
“No ti deventarà miga na campagnola?”
domando incredulo.
Suo
figlio Roberto sarà irrimediabilmente canzonato da tutti gli amici del
Campiello: “Campagnoli caga in fosso e se netta col deo grosso”.
Non
posso proprio credere a questa eventualità.
I
veneziani non capiscono come si possa abitare in un posto diverso da Venezia,
stare lontani da Rialto e da San Marco, dovere prendere la filovia, arrivare a
Piazzale Roma e poi fare tanta strada per arrivare in centro a Rialto.
Penso
proprio sia una idea bislacca.
Non
ho proprio capito che la gente si sta stufando di vivere in appartamenti
piccoli senza comodità e troppo costosi rispetto alla terraferma.
Il
processo che svuoterà Venezia dei suoi abitanti sta cominciando.
Il
centro storico sta diventando sede solo di iniziative immobiliari nel settore
alberghiero e nella realizzazione di sedi di rappresentanza ad alto livello per
attività che trovano nel marchio Venezia un ritorno economico a livello
internazionale.
11.
Capitolo.
Le Zattere.
Lo
zio Pasquale e la zia Nina sono pensionati. Sono originari di Trani come il
nonno Nicola.
Lo
zio Pasquale è una persona amabile, sempre allegra e disponibile.
Il
suo corpo tarchiato confessa che non sa fare a meno di una buona cucina dove
l’olio d’oliva ed i condimenti abbondano.
Gli
occhi chiari danno luce alla sua faccia rotonda; occhi che ricordano la luce
intensa del sole della Puglia.
E’
vivo in lui il ricordo dei bassi, del duomo dalla pietra bianca e del profumo
del mare.
Ripete
spesso che un giorno sarebbe tornato al paese per finire gli ultimi giorni.
Ho
sentito dire dal nonno che lo zio Pasquale vuole tornare a Trani; mi sembra
impossibile che ciò possa accadere.
Chissà
perché vuole abbandonare Venezia, noi, il nonno e tutti i suoi amici
dell’Adriatica?
Non
considero che lo zio Pasquale ha la Puglia nel cuore.
Non
può dimenticare l’odore salmastro del mare, che lì è più intenso che qui al
nord, il colore del sole, che è più caldo, il sapore dei cibi, che è più
deciso.
Lo
zio Pasquale è una buona forchetta. Spesso si mette a cucinare ed io cerco di
aiutarlo.
Una
delle operazioni che più mi piace compiere è quella di preparare l’origano.
Gli
amici del paese gli portano spesso da Trani delle mazzette di origano
già essiccato.
Dice
lo zio che l’origano con un profumo così intenso si trova solo in Puglia.
Neanche
il sole di Sicilia riesce a produrre un origano dall’aroma più intenso di
quello pugliese.
Preparare
l’origano è una operazione molto semplice: bisogna separare le foglie essiccate
dal loro ramo.
Prendo
i rametti ad uno ad uno, li pelo dalle loro foglioline rugose che ripongo in
vasetti di vetro dipinto che lo zio Pasquale usa mettere sopra una mensola di
una madia in cucina.
Pur
nella sua semplicità questa operazione è molto delicata perché non bisogna fare
cadere per terra le preziose foglioline per non irritare la zia Nina che si
lamenta sempre di come trova la cucina dopo i nostri interventi culinari.
“Nasa che profumo” dico avvicinando le
mani alle narici dello zio..
Un
odore intenso, forte che sa di sole e del sapore di una terra che non si
può dimenticare facilmente.
Forse
anche per questo lo zio Pasquale vuole tornarci.
La
zia Nina si presenta sempre con un bel sorriso simpatico che mette in bella
mostra i suoi denti leggermente all’infuori.
E’
una signora che ama stare nella sua casa dove ha sempre mille cose da fare.
Come
tutte le donne del sud passa gran tempo a fare la spesa e a preparare
manicaretti prelibati.
Tengo
costantemente d’occhio i suoi movimenti in cucina e quando mi accorgo che sta
preparando le orecchiette alle cime di rapa o le melanzane ripiene e,
soprattutto, i panzarotti o le cartellate - di cui sono particolarmente goloso
- mi faccio immancabilmente trovare per pranzo.
La
loro amicizia per il nonno Nicola è molto forte come tutti i legami dei
conterranei che provengono dal sud.
Essa
è più salda di una parentela molto stretta.
Gli
zii amano i bambini degli altri, perché non hanno potuto averne di loro.
Lo
zio Pasquale ha lavorato all’Adriatica, una compagnia di navigazione che ha
sede alle Zattere, le fondamenta affacciate al Canale della Giudecca.
“Che
beo che xe to nevodo” gli dicono i colleghi.
Lo
zio è orgoglioso di fare vedere che ha un nipotino, anche se la parentela è
molto lontana; lo zio, infatti, è nipote di una lontana cugina del nonno
Nicola.
Mi
è sempre piaciuto andare alle Zattere a trovare lo zio Pasquale.
Adoro
correre su quella fondamenta così lunga e larga inondata di sole con il mio
monopattino rosso.
C’è
un profumo buono di mare che viene da quel canale così diverso dagli altri rii
di Venezia stretti e maleodoranti.
I
bar sono affacciati sul canale con le loro terrazze.
Esausto
per le corse sul monopattino mi siedo volentieri con lo zio di fronte alla
Giudecca in uno dei bar affacciati
sulla fondamenta delle Zattere il mio preferito è il Cucciolo.
Oltre
che avere una grande terrazza produce dell’ottimo gelato. Lo divoro volentieri
, anche se non è gustoso come quello confezionato da mio padre: solo lui riesce
a fare dei gelati più buoni del mondo.
La
specialità del Cucciolo è il gianduiotto servito in un bicchiere ricolmo di
panna montata .
Una
vera delizia.
Di
fronte alle Zattere si riconosce l’isola delle foche, come chiamano la Giudecca
i veneziani:
E’una
sottile striscia di terra che affiora dalle barene. Sono così chiamate le zone della laguna dove le acque sono così basse
tanto che si può camminare tranquillamente con l’acqua fino al ginocchio.
Gli
abitanti dell’isola sono pochi rispetto alle moltitudini che invadono Venezia e
nelle sue calli incombe una tranquillità profonda.
Di
fronte al Cucciolo spicca la facciata bianca palladiana della chiesa del
Redentore mentre spostando lo sguardo più a destra si scorge l’austero frontale
in cotto rosso del Mulino Stucchi.
Gli
zii non hanno figli e per loro io sono un divertimento.
Sono
sempre da loro a fare grandi discussioni sull’acquisto di nuovi soldatini di
gesso.
Lo
zio Pasquale è uno dei grandi sponsor della raccolta.
Non
riesce a sottrarsi alle mie richieste di acquistare un soldatino nuovo.
C’è
in negozietto proprio a due passi da casa in Ruga Rialto. L’attività principale
del commercio è la vendita di detersivi ; c’è , però, una vetrinetta laterale,
nascosta nel lato interno verso la calle, che espone in bella mostra dei giochi
per bambini ed una collezione di soldatini di gesso.
Io,
oramai, a furia di chiedere, li ho
comprati quasi tutti
“Ghe
ne go più mi che ti” dico spesso a Toni il titolare dela botega.
Lui
è ben felice di questo mio primato che incrementa i suoi affari e sorride
soddisfatto invece di essere preoccupato di avere un concorrente, valli a
capire questi grandi!
Allora
i negozi di specialità veneziane quelli che vendono veri de Muran e mascare
per il carnevale non erano così numerosi. In Ruga c’era anche chi vendeva detersivi e
soldatini di gesso.
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