1. Capitolo. Le storie dell’Arcangelo
Michele.
Lo
zio Pasquale mi racconta spesso le storie della sua terra. Sono soprattutto
storie di santi.
La
sua è una religiosità convinta, profonda, nutrita in quella cultura popolare
fiera delle sue tradizioni e dei suoi patroni che celebra con feste che
terminano, immancabilmente, dopo la processione, con spettacolari fuochi di
artificio.
Mi
racconta spesso le storie delle apparizioni dell’Arcangelo Michele a Monte
Sant'Angelo.
Il paese è arroccato a quel sacro monte che si
eleva sul Tavoliere ai confini con la Foresta Umbra dove la spiritualità fa
parte della storia dei luoghi.
Quelle storie gliele raccontava sua madre,
particolarmente devota all’Arcangelo.
Secondo
la tradizione popolare con varie apparizioni l’Arcangelo Michele aveva chiesto agli abitanti di Monte Sant'Angelo che gli fosse
dedicata una cattedrale.
La prima apparizione è quella del toro.
Un
giorno un pastore di Siponto che si chiamava Pietro faceva pascolare la sua
mandria di buoi sulla montagna del Gargano.
Stava
molto attento perché i briganti in quel periodo erano in agguato per rubare le
bestie che si allontanavano.
All'improvviso
notò che un toro si era allontanato dalla mandria.
Incaricò
un altro pastore che era con lui di tenere a bada le altre bestie e si mise a
cercare il toro scomparso.
Cammina
cammina il toro non si trovava.
Ad
un certo punto sentì un muggito che proveniva da una caverna non lontano.
Il
toro era lì e gli indicava l'apertura di una spelonca.
Quel
toro era particolarmente docile e a chiamarlo seguiva sempre il suo pastore, ma
quella volta non intendeva obbedire al richiamo.
Anzi
era lui che col suo muggito invitava insistentemente il pastore ad avvicinarsi
alla spelonca.
Allora
Pietro, infuriato contro l’animale ribelle, tese l’arco che portava con sé
intenzionato ad abbatterlo e scoccò una freccia contro l’animale.
La
freccia però invertì la sua traiettoria e anziché colpire il toro essa tornò
come un boomerang verso chi l’aveva lanciata e ferì ad un piede il
pastore.
La
ferita non era grave, ma Pietro fu scosso dall'evento che aveva del misterioso.
Poiché
era molto religioso andò a chiedere consiglio al vescovo, che, dopo aver
ascoltato il racconto della straordinaria avventura, ordinò tre giorni di
preghiere e di penitenza.
Allo
scadere del terzo giorno, il vescovo era nella cattedrale che pregava quando
gli apparve l'Arcangelo Michele che gli disse: "Io sono l'Arcangelo
Michele e sto sempre alla presenza di Dio. La caverna è a me sacra, è una mia
scelta; io stesso ne sono il vigile custode. Là dove si spalanca la roccia
possono essere perdonati i peccati degli uomini. Quel che sarà qui chiesto
nella preghiera sarà esaudito. Và, perciò, sulla montagna e dedica la grotta al
culto cristiano".
La
montagna, che ora si chiama monte Sant’Angelo, non è molto alta, si erge a
picco sulla valle sottostante e fra i suoi dirupi si aprono alcune grotte che
un tempo erano dedicate a culti pagani.
Il
vescovo non capiva perché l’Arcangelo volesse un tempio a lui dedicato proprio
in quel luogo.
Non
capiva che S. Michele che aveva guidato gli angeli nella battaglia contro
Satana voleva trasformare quelle grotte in luoghi di preghiera dei
cristiani.
I
desiderata dell’Arcangelo non furono seguiti dal vescovo che non realizzò in
quella prima occasione il santuario per onorarlo.
La
seconda apparizione è quella chiamata della vittoria.
Il
duca longobardo Grimoaldo grazie all'intercessione di S. Michele riuscì a
rompere l’assedio e a scacciare i Greci
nel 662.
La
città di Siponto, assediata dalle truppe nemiche, era ormai vicina alla resa.
I1
vescovo S. Lorenzo ottenne dal nemico una tregua di tre giorni e si rivolse
fiducioso al Celeste Condottiero con la preghiera e la penitenza.
Allo
scadere del terzo giorno, al vescovo apparve l'Arcangelo Michele che gli
predisse una vittoria sicura e completa.
Questo
messaggio riempì di speranza i cuori degli assediati. I difensori uscirono
dalla città e diedero inizio ad una furiosa battaglia, accompagnata da folgori,
tuoni e saette di straordinaria intensità. La vittoria dei Sipontini fu
strepitosa.
L’Arcangelo
aveva portato alla vittoria i Longobardi che abitavano Siponto e che avevano
costruito un castello a difesa dei loro territori.
“Quando
stanno per sferrare l’attacco decisivo contro la città - mi racconta lo zio
Pasquale - l’Arcangelo si presenta dinanzi al loro esercito, talmente potente
che non è possibile vedere nello stesso momento le avanguardie e le
retroguardie, fa ruotare la sua spada intimando al loro capo, in testa
all’esercito con tutti i suoi generali, di tornare indietro fermando quella
inutile carneficina. Per tutta risposta gli invasori si muovono
all’attacco.
Allora
l’Arcangelo Michele fa ruotare la sua spada e la affonda nel terreno che si
spacca quasi a tracciare un confine invalicabile fra i barbari e la gente di
Puglia.
A
questo punto i difensori della città vedono centuplicate le loro forze e si
scagliano contro i nemici”.
Lo
zio Pasquale ruota la mano destra quasi impugnasse una sua spada immaginaria ed
io mi attacco alla sua giacca per prendere un po’ di coraggio.
“Il
terrore per questa forza prodigiosa che anima gli assediati mette in rotta
l’esercito che cerca scampo nella fuga abbandonando definitivamente l’idea di
conquistare quella regione”.
La
terza apparizione è quella detta della dedicazione.
Dopo
la vittoria, il vescovo era ormai deciso ad eseguire l’ordine del Celeste
Messaggero e a consacrare la Spelonca a S. Michele in segno di riconoscenza,
Gli
apparve di nuovo l'Arcangelo e gli annunziò che Egli stesso già aveva
consacrato la Grotta.
Era
usanza che il vescovo consacrasse il luogo prima della costruzione di un
edificio dedicato al culto.
Il
fatto che il luogo fosse già consacrato contribuiva a dargli una particolare
sacralità: “Non est vobis opus hanc quam aedificavi basilicam dedicare ipse
enim qui condidi etiam consecravi.” Non è necessario che voi dedichiate
questa Basilica che ho edificato, poiché io stesso che ne ho posto le
fondamenta, l'ho anche consacrata”.
In
quella grotta resa sacra dalla presenza dell’Arcangelo il vescovo fece
costruire una chiesa.
Allora
il vescovo di Siponto insieme ai vescovi pugliesi in processione, con il popolo
ed il clero, si avviò verso il luogo sacro.
Nella
roccia trovarono l'orma del piede di un bambino.
Questo
segno soprannaturale era stato lasciato da S. Michele a segno della sua
benevolenza verso quei popoli che lo avrebbero venerato dedicandogli un
santuario.
I
primi fedeli che si recavano in pellegrinaggio alla grotta dovevano inerpicarsi
sul lato del Monte che si affaccia sulla foresta umbra e che da allora fu
chiamato Sant’Angelo in onore dell’Arcangelo Michele.
I
pellegrini arrivavano dalla valle Carbonara; essi dovevano percorrere gli
ultimi duecento metri arrampicandosi sulle rocce per arrivare alla grotta.
Il
vescovo volle creare un percorso tortuoso per arrivare a pregare l’Arcangelo.
In
tempi successivi i religiosi che custodivano il santuario, per fare fronte alla
richiesta dei pellegrini che arrivavano sempre più numerosi, costruirono un
accesso che consentisse un afflusso più semplice.
I
pellegrini non dovevano più arrampicarsi sulla montagna per arrivare direttamente
alla grotta. Essi potevano giungere in cima al monte con un comodo accesso e
poi scendevano nella grotta attraverso una scala ricavata in una galleria che
li portava fino all'ingresso del santuario.
La
stessa galleria serviva come vestibolo.
Il
sentiero che porta a rendere grazie a Dio è un sentiero difficile come quello
della vita.
Il
Santuario dell’Arcangelo Gabriele non è un luogo di culto isolato.
Esso
fa parte di un percorso che parte da Mont Saint Michel in Francia, passa per la
Sacra dell’Arcangelo Michele in Val di Susa e, superata Roma, porta i
pellegrini a Monte Sant’Angelo e, di lì, ad imbarcarsi nei porti del sud
dell’Italia verso Gerusalemme.
Lo
zio Pasquale mi promette che anche noi come tutti i fedeli saremmo andati sulle
orme dei pellegrini da Mont Saint Michel fino al santuario di Monte
Sant’Angelo.
2. Capitolo. La macchina rossa.
La
felicità è possedere una macchina rossa guidata tramite un filo nero che pende
da un grosso contenitore di batterie su cui sono installati i comandi.
La
macchina fa capolino nel più bel negozio di giocattoli delle Mercerie: Linetti.
E’
stato un amore a prima vista.
Io
insisto fino alal nuse con mio padre per avere questo regalo; sono un ragazzino
viziato.
Al
bar i camerieri mi chiamano tutti “el paroncin”.
Sono
figlio unico e fra il nonno e lo zio Pasquale i regali arrivano numerosi.
Mio
padre non ha molto tempo: lavora di continuo al Bar.
Il
giorno prima del mio compleanno continuo a tarlarlo: “Ti me compri la
machina rossa, te prego!”
Sfinito
dalle mie continue richieste il babbo ordina al marzian “Va da Lineti
comprighe sta machina cusì el ghe ea mola. Trata sul prezo.”
Il
marzian è un ragazzotto robusto sui ventiquattro anni che sa trattare il
prezzo dei regali; penso, però, che in un negozio di lusso come Linetti non vi
è certo la possibilità di chiedere sconti.
La
mia felicità è enorme.
“Daghe
un baseto al papà” dice lo zio Bepi.
Partiamo
subito per comperare la macchina telecomandata.
Il
negozio di Linetti è un sogno per tutti i ragazzini: trenini elettrici, cavalli
a dondolo, macchine di ogni tipo: un vero paese dei balocchi.
I
miei occhi sono tutti per la macchina rossa telecomandata.
Marzian
paga quanto richiesto con uno sconto simbolico.
“Almanco
diese franchi se no el paron me magna” dice alla commessa per impietosirla.
Solo
dieci lire di sconto, ma io sono contento lo stesso.
Portiamo
trionfalmente al Bar la macchina e la proviamo subito: è bellissima.
E’
stupefacente pensare che con un semplice filo di collegamento si può a distanza
dirigere la macchina.
“Gira
a destra, sterza a sinistra.” I consigli si sprecano, tutti si sentono
provetti guidatori.
La
macchina ha le luci di posizione ed i fari che si accendono; inoltre le frecce
direzionali lampeggiano.
La
si può vedere anche al buio: è un vero prodigio della tecnica!
Mio
padre mi guarda contento per la mia gioia con quegli occhi che, anche quando
sembrano felici, sono velati da una tristezza profonda.
E’
come rassegnato ad un destino che non lo ha gratificato.
Io
non ricordo di averlo mai sentito lamentarsi.
Lui
lavora sempre.
D’estate
al Bar crea torte gelato, semifreddi,
cassate e mille gusti di gelato sfuso.
Quello
alla crema è una delizia, tutto uova, zucchero e latte: al Bar le polverine
sono bandite.
“I megio
gelati de Rialto” come dice lui
Io
e Marzian portiamo in giro con un carrettino, su e giù per i ponti, nei
ristoranti più in voga della città l’intera produzione. Io in cambio prendo una
pagheta che mi serve per incrementare
la raccolta di soldatini e per pagarmi il cinema alla domenica.
D’inverno
ha preso in gestione il Bar del comune.
Un
locale piccolissimo dove è impossibile entrare vista la ressa esagerata di
clienti.
Il
locale in teoria deve essere riservato esclusivamente ai dipendenti
dell’azienda; ma tutti dicono che il caffè è buonissimo ed inoltre il prezzo è
convenzionato.
Il
papà è sempre lì a lavorare, salvo quando si fa convincere, nelle rare ore di
libertà, a fare un salto in “stala” - ossia la sala corse come la
chiamava lo zio Bepi - per una puntatina ai cavalli.
Quelli
dedicati al lavoro sono i giorni più felici per lui: è in mezzo alla gente, si
sente attivo, può tornare a casa.
D’estate
non è mai venuto con noi in montagna, ma è sempre rimasto in città.
“Le
gelaterie lavora d’estate miga d’inverno.” dice a mia madre quando
protesta.
I
giorni tristi sono quelli in cui la malattia non gli dà tregua.
Allora
deve farsi ricoverare alla casa di cura vicino al Mercato di Rialto.
Le
suore lo conoscono; quando entra in clinica gli danno sempre la stessa camera
che guarda il Canale Grande e che gode tutto il giorno di una luce intensa “
No vogio star da la parte de la cale che la xe scura” dice.
Le
suore gli vogliono bene, riesce a scherzare con tutti.
Io
lo vado a trovare spesso.
La
clinica è molto vicino a casa.
L’odore
di disinfettante è intenso.
Entra
in stanza una suora che deve fare una puntura. La guardo intimorito perché non
ho ancora perso la tradizionale paura per le iniezioni.
Dopo
tutte quelle punture mio padre non guarisce lo stesso, anzi peggiora, diventa
sempre più magro.
Lui
che era un omone tarchiato di quasi cento chili non ne pesa neanche settanta.
Lui
non si lagna mai, al massimo “Suora che man pesante che ti ga.” esclama.
Nel
pronunciare quelle lamentele, mio padre ha più l’aria di prendere in giro la
suorina giovane che lo ha appena curato che neanche di protestare per le sue
sofferenze.
La
sua malattia traspare dal suo sguardo triste rassegnato al dolore.
Con
me non parla dei suoi mali e anche con mia madre minimizza il senso di quei
continui ricoveri.
Forse
la causa della sua malattia non lo sanno nemmeno i medici che lo hanno in cura.
Loro
di diagnosi ne hanno fatte tante senza mai azzeccare quella giusta, visto che,
puntualmente, ritorna in clinica più malconcio di prima.
Si
sa, allora non esistevano gli esami di oggi.
3. Capitolo. L’acqua alta a San Marco.
Sto
facendo colazione e sento suonare la sirena.
“Cosa
xe” chiedo a mia madre.
“Sarà
l’acqua alta” mi risponde “te va ben a ti: ancuo ti sparagni la scuola.”
E’
proprio l’acqua alta. Tutta la notte ha piovuto a dirotto e lo scirocco spinge
l’acqua dal mare aperto all’interno della laguna.
La
mia famiglia abita in una zona alta di Rialto in Calle dei Cinque dalla parte
vicina alla Ruga.
L’acqua
alta non riesce a raggiungere la porta della nostra abitazione ma la Riva del
Vin è invasa dalle acque del Canal Grande.
Mi
metto gli stivali lunghi di gomma quelli che uso quando ci sono delle forti
piogge ed esco deciso di casa inseguito dalle raccomandazioni di mia madre:
"Sta tento Nicheto che ti te bagni".
Voglio
proprio vedere fin dove si passa.
I
commercianti hanno sentito suonare la sirena e sono già al lavoro.
Tutti
gli addetti alle botteghe sono indaffarati a portare le loro merci ai piani
alti per metterle in salvo.
Qualcuno
si industria con un carretto un po’ alto a portare in giro chi deve transitare
nei punti più bassi in cambio di una piccola mancia.
La
domanda che tutti rivolgono è se la marea è destinata a calare. A che ora è
previsto il picco della marea?
“La
cresse, la cresse ancora” ripetono i più esperti ai passanti ancora
indecisi se ritornarsene a casa o proseguire verso le loro normali occupazioni.
“Nol
vede che i tombini buta ancora fora l’acqua?”
L’acqua
alta cresce per sei ore e per le successive sei cala.
Si
tratta di sapere a che ora raggiunge il culmine per poi fare i conti di quanto
tempo ci vuole perché la situazione si stabilizzi e si possa girare
tranquillamente per la città in una situazione di normalità.
“La
cala a le undese” sentenzia finalmente un carrettiere bene informato.
Sono
contento perché è uno spettacolo insolito e poi se cala alle undici vuol dire
che ho guadagnato un giorno in più di vacanza da scuola.
Chi
scende nelle calli è incerto se proseguire se deve andare in qualche posto dove
la fondamenta è particolarmente bassa.
Certo
è che Piazza San Marco è completamente allagata.
“Se
poderà rivarghe in Piazza?” il problema è giungere fino a lì.
L’acqua
è alta in maniera abbastanza fuori dal normale quel giorno, per fortuna ci sono
le passerelle.
Attraverso
quel percorso, sopraelevato di una cinquantina di centimetri rispetto al suolo
da appositi cavalletti, si riesce a camminare tranquillamente nei punti più
bassi.
Cercando
l’itinerario che transita nelle zone più alte è forse possibile arrivare fino a
San Marco dove il sistema delle passerelle consente di girare per l’intera
Piazza.
Esco
di casa deciso a non perdere l’occasione di vedere San Marco sommersa
dall’acqua alta.
Trovo
Nane che ha già scelto come me di rinunciare ad andare a scuola quel giorno.
La
giustifica è automatica per causa di forza maggiore.
Proviamo
ad andare a vedere se è vero che in Piazza S. Marco ci sono i sandoli
che navigano.
Riusciamo
ad arrivare al Ponte di Rialto evitando di passare per i portici che sono
invasi dalle acque.
I
commercianti imprecano lanciando insulti agli antenati degli amministratori che
non fanno nulla, secondo loro, per porre rimedio alle acque alte.
Ad
un gelataio è saltato il motore del frigorifero perché l’allarme è stato
lanciato troppo tardi e l’acqua lo ha raggiunto prima di poterlo sollevare ai
piani più alti.
Non
sa cosa fare per salvare i suoi gelati.
“Daghei
ai fioi o i finise nele scoase” suggerisce un netturbino.
Un
venditore di maglie non è riuscito a mettere in salvo la mercanzia: una buona
parte si è bagnata e bisognerà buttarla.
Qualcuno
ricorda che dato che la marea è eccezionale può darsi che vi sia un rimborso
dei danni più gravi .
“Speremo de trovar qualche Santolo per farse rimborsar”
ripetono i commercianti.
Noi
intenti nel nostro gioco proviamo a cercare la strada non ancora invasa dalle
acque per S. Marco.
Non
ci rendiamo conto che l’acqua alta è una vera disdetta per gran parte della
popolazione veneziana.
In
molti sono costretti a sospendere le normali attività per cercare di rendere
minimi i danni, am in ogni caso il lavoro di quel giorno è perso.
Tentiamo
di trovare nel labirinto delle calli il percorso giusto che attraversi le zone
più alte o quelle dotate di passerelle che ci consentano di arrivare a S.
Marco.
Nane
che è di qualche anno più vecchio di me si ricorda che qualche anno prima ha
già fatto quel percorso.
“Da
le marsarie no se passa” dice suggerendomi di andare dalla parte di S. Lio.
Vicino
al ponte Storto l’acqua è alta ma hanno messo le passerelle e riusciamo a
passare, ci avviciniamo all’Istituto.
La
fondamenta prospiciente l'Istituto è allagata ed il portone è chiuso.
Riusciamo
ad arrivare al ponte e a passare solo grazie agli stivali.
L’acqua
è al pelo del bordo alto dello stivale e rischia di entrare.
Siamo
quasi a San Marco, facciamo l’ultima parte delle Mercerie dopo la chiesa di San
Zulian.
Riusciamo
ad intravedere la Piazza.
E’
quasi mezzogiorno e l’acqua sta cominciando a defluire, la gente è più
tranquilla perché sa che il peggio è ormai passato ed il sorriso incomincia ad
incorniciare il viso di chi ha faticato fino a quel momento e ricomincia a
vedere la fine del pericolo.
L’ultima
parte delle Mercerie la facciamo sulle passerelle di legno che consentono di
attraversare la piazza e di raggiungere i portici alti della Biblioteca
Marciana.
Lo
spettacolo è emozionante.
Il
cielo è plumbeo; sembra che debba ancora piovere.
Lo
scirocco soffia ancora forte, ma ormai la marea sta calando ed il vento non fa
più paura.
Bisogna
stare attenti a camminare sulle passerelle perché sono strette e quando si
incrociano delle persone che magari vanno di fretta non è escluso che si possa
essere spinti giù nell’acqua.
I
pochi turisti che hanno osato l’avventura scattano foto.
Sono
visibilmente soddisfatti di essere stati testimoni di uno spettacolo
particolare anche se devono accontentarsi di vedere i monumenti dal di fuori.
L’accesso
alla chiesa di San Marco è chiuso, il portico d’ingresso è completamente
allagato.
Chissà
se il santo patrono è contento di essere
momentaneamente isolato.
io
lo vedo particolarmente furente e triste come i mosaici della Basilica per il
colore grigio delle nuvole riduce la loro luminosità.
Chissà
se ai tempi gloriosi della Repubblica le acque alte erano così frequenti o se
le grida del Magistrato delle Acque era riuscito a tenerle lontane infliggendo
sanzioni a chi tentava di sconvolgere il delicato equilibrio lagunare.
Sono
contento perché potrò dire a mio padre che sono riuscito ad arrivare a S. Marco
anche con l’acqua alta, ma nel contempo avvilito perché non trovare il rimedio
per l’acqua alta è un’offesa
all’orgoglio dei Veneziani.
4. Capitolo. Il tacco.
Giocare
a tacco è un’arte che si impara frequentando assiduamente i campielli di
Venezia.
I
sistemi di gioco più frequenti sono a “schiocco” o a “spanna”.
Lo
“schiocco” consiste nel colpire con il proprio tacco, lanciato da una
distanza convenuta fra i partecipanti al gioco, il tacco dell’avversario.
Col
sistema della “spanna” vince chi si avvicina di più al tacco
dell’avversario per una misura inferiore alla spanna, ossia alla misura massima
dalla punta del dito mignolo a quella del pollice tenendo la mano aperta.
Parte
per primo chi ha vinto al gioco del pari e dispari aprendo contemporaneamente
allo sfidante le dita delle mani.
“Quatro
e tre sete, xe dispari go vinto mi. ”
Lì
le dispute sono rare; più facile litigare se il tacco ha sfiorato quello
dell’avversario.
“El
xe ga moso, bugiardo ti”.
Le
liti sono furibonde soprattutto quando si misura la spanna.
Specie
se qualcuno cerca di spostare il tacco per farlo raggiungere dalla punta del
pollice, dopo avere ben aperto il palmo della mano e teso il mignolo.
Il
primo dei partecipanti deve solo sperare che nessuno dei giocatori successivi
riesca a toccare il suo tacco.
Gli
altri hanno due possibilità: o fare toccare al proprio tacco quello
dell’avversario o cercare di allontanarsi perché saranno poi loro ad essere colpiti
e quindi vinti se il loro tacco si colloca troppo vicino a quello del primo
giocatore.
Chi
tocca per primo vince la posta che consiste di solito nelle figurine
dell’ultima raccolta Panini o “balete de fragna”, da utilizzare in altri
giochi.
Per
questo gioco si utilizza il tacco da scarpa di gomma che usano i “caegheri”,
i calzolai, per aggiustare le scarpe.
Allora
le scarpe si risuolano più volte fino a
che le tomaia reggevano alle intemperie, alle corse e alle partite a calcio.
La
“spanna”, invece, richiede una maggiore precisione.
I
più bravi sono quelli che riescono a raggiungere il tacco dell’avversario
allungando il più possibile la spanna della loro mano destra.
Essa
funge da misura della distanza massima che il tacco deve avere per potere
vincere.
A
“schiocco” o a “spanna” non sono proprio un campione, ma ci passo
gran parte del mio tempo libero.
Anche
se perdo, il tacco è uno dei miei giochi preferiti.
Il
più bravo è Marino che riesce bene in tutti i giochi del Campo.
Non
so quante figurine ho perso giocando contro di lui o contro Nane.
Sono
naturalmente portati, vincono quasi sempre.
Perdere
però non ha grande importanza perché dopo un pomeriggio di gioco quando ho
finito la riserva di figurine so che a casa posso contare sull’intervento dello
zio Pasquale per recuperare almeno una parte della perdita con nuovi acquisti.
Le
figurine perse al gioco sono solo quelle doppie che non servono a completare
l’album.
I
campi sono i luoghi deputati ai giochi dei ragazzi.
A
Venezia aree verdi in centro non ce ne sono, bisogna andare fino ai giardinetti
reali di San Marco o ai Giardini Papadopoli vicino a Piazzale Roma che sono,
però, sempre troppo frequentati dalle carovane di turisti appena arrivati con i
torpedoni oppure a Sant’Elena dove effettivamente si può trovare finalmente un
po’ di verde.
Gli
spostamenti non sono veloci; arrivare San Marco o a Piazzale Roma richiede
circa una ventina di minuti da fare a piedi per arrivare a Sant’Elena ci vuole
un viaggio di circa un’ora.
Non
ci rimane che giocare a calcio in campo San Silvestro per evitare di perdere
troppo tempo negli spostamenti Il gioco del calcio è vietato dal comune che
ritiene sia un intralcio alla circolazione dei pedoni.
Per
noi è vero il contrario sono i pedoni ad essere un intralcio al gioco del
calcio, ma basta fermarsi quando il passaggio è troppo intenso.
Il
vero pericolo sono i vigili.
Arrivano
di sorpresa e quando vogliono fare le contravvenzioni bloccano le quattro cali
che danno accesso al Campo.
Allora
non c’è scampo, la multa è assicurata, la cosa più dolorosa è essere
accompagnato a casa dal vigile come un delinquente.
Se,
invece, i vigili non riescono a impedire tutte le uscite c’è un fuggi fuggi generale per
evitare le contravvenzioni.
E’
quasi come giocare a guardia e ladri dal vero.
Chi
si fa prendere paga pegno, ma è difficile che i vigili riescano ad essere più
veloci di noi.
Effettivamente
chi abita nelle case prospicienti il campo è costretto a sentire delle grida
per tutto il pomeriggio e, soprattutto, non può permettersi di aprire non solo
le finestre, ma persino gli scuri.
Un
minimo pertugio può consentire al pallone di entrare in casa o provocare la
rottura di qualche vetro.
Devo
riconoscere che non è piacevole ricevere una pallonata in salotto.
D’altronde
anche i ragazzi hanno le loro ragioni: dove devono andare a giocare?
Certo
è preferibile fare altri giochi che non comportano l’uso del pallone come
libera don don.
Il
traffico pedonale può in tal caso essere una variante piacevole per impedire di
essere presi.
Si
può fare lo slalom fra i passanti senza neppure il rischio di prendere qualche
multa.
I
Veneziani in questo caso sono pazienti.
Tutti
sanno che a Venezia campi giochi per i ragazzi proprio non ce ne sono.
I
giovani senza un luogo di riferimento comune sono perduti, non si ritrovano più
ed il gruppo rischia di disperdersi.
E’
per questo che frequentiamo tutti l’oratorio.
Il
luogo di raduno fisso incide in maniera determinante sulla formazione delle
amicizie.
C’è
poi l’attivismo di Don Biondo che non si stanca mai di inventare delle
iniziative per avere i suoi ragazzi assieme in Oratorio.
5. Capitolo. Il monopattino rosso.
Il
sig. Otto è un signore alto e magro che parla con un marcato accento austriaco,
la moglie è una signora cortese non molto alta e decisamente più robusta di
lui.
Lui
si reca spesso a Vienna dove ha ancora i suoi affari.
La
moglie è proprietaria e gestisce un albergo vicino al Bar.
Hanno
una figlia molto carina alta e bionda vestita sempre con gran gusto; non parla
veneziano ma un italiano con un accento leggermente straniero.
La
ragazzina si vede poco in giro, non frequenta l’oratorio: forse c’è
un’atmosfera troppo folk.
L’albergatrice
è una delle clienti di mio padre; sicuramente ha grande stima di lui ed è
felice di potergli fare un piacere.
Mio
padre parlando con loro ha casualmente sentito che a Vienna è di gran moda fra
i ragazzini giocare con il monopattino, così ha pensato di farmi portare un
monopattino rosso come regalo di compleanno.
Il
monopattino ha le gomme gonfiabili grosse il doppio di quelle di una bici, il
manubrio è cromato e i parafanghi sono rossi, è dotato di un piccolo freno che
blocca la ruota posteriore e che ho usato rarissimamente per non perdere
velocità.
Le
biciclette a Venezia non sono consentite. Il monopattino è una bella soluzione
per giocare all’aria aperta.
Le
due ruote sono troppo ingombranti per la città della laguna.
I
vigili ti danno la multa se ti vedono circolare in bicicletta.
Le
due ruote sono tollerate ai giardini di Sant'Elena o ai Giardinetti Reali di
Piazza San Marco dove esiste un noleggio di biciclette.
E’
incredibile pensare come si possa noleggiare una bicicletta per fare il giro
dei giardinetti reali il cui lato più lungo non è superiore ai cento metri.
Ho
sempre considerato un grande divertimento andare a trascorrere un pomeriggio
con lo zio Pasquale ai Giardinetti e noleggiare una bicicletta; alcune hanno
anche le due rotelle dietro per i principianti ancora instabili sulle due
ruote.
Il
giro non ha varianti. Di diverso c’è solo la fermata alla fontanella centrale
dove nuota un gruppetto di pesci rossi.
Io
porto sempre delle briciole di pane per farli uscire dal loro nascondiglio
sotto i sassi e vederli nuotare più in superficie.
Andare
con il monopattino ai Giardinetti Reali è sicuramente un’impresa: il tragitto è
troppo frequentato, bisogna portarsi il monopattino sul Ponte di Rialto che è
un’impresa epica per un bambino - come scalare una montagna.
Bisogna
attraversare le mercerie che brulicano di gente in ogni ora del giorno.
I
turisti camminano a passo di lumaca per godersi ogni vetrina dei negozi della Merceria.
E’
impossibile camminare con un oggetto ingombrante.
Lo
sanno quelli che per lavorare trascinano piccoli carretti per tutta la città.
“Ocio
a le gambe” urlano correndo all’impazzata.
Il
monopattino è – almeno lo era allora - una soluzione ancora tollerata.
Un
solo vigile pignolino mi ha detto che non si può circolare in monopattino.
Di
solito però a San Silvestro i ghebi non passano se non per dare delle
multe a chi gioca a calcio in campo.
Corro
come un forsennato sulla fondamenta della Riva del Vin e sbuco in Campo San
Silvestro.
E’
il mio giro preferito; il percorso che ho fatto centinaia di volte senza
stancarmi mai.
Mi
fermano solo il ponte di Rialto, il ponte di San Polo e il ponte delle
Carampane: quei luoghi delineano il confine dei miei percorsi.
Il
monopattino è troppo pesante per affrontare i gradini dei ponti.
Al
di fuori del Campo San Silvestro ci sentiamo persi, non siamo più a casa
nostra.
Le
corse in monopattino fanno impazzire i miei amici.
La
grande passione che hanno di salire su quel bolide rosso mi ha fatto trovare il
modo di riequilibrare le perdite che Toni e Nane mi infliggono al gioco del
tacco.
“Do
figurine per un giro” sentenzio.
“Xe
massa caro” dicono.
Ma
poi accettano.
Il
giro è quello del Campo San Silvestro passando per la riva del Vin e la
adiacente “salizada”.
Si
possono fare delle gare.
Marino
ha appena fatto la cresima ed il padrino gli ha regalato un orologio novo de
paca con cronometro.
La
gara mi rende bene e gli affari procedono, mi sento proprio un “paronsin”.
Quell’estate
mio padre ha avuto una brillante idea.
Il
mese prima un piccolo incidente si è concluso felicemente.
Sto
andando a scuola, camminando sulla riva del Vin.
Procedere
nel mezzo della fondamenta lontano dall’acqua del canale è troppo banale!
Mi
viene la brillante idea di passare fra uno di quei lampioni in ferro dipinto di
verde cupo che illuminano con una flebile luce la riva e il ciglio della
fondamenta.
Lo
spazio è sufficiente per il passaggio di una persona, ma non per due.
Fatto
sta che nello stesso momento ci siamo trovati a passare in due.
L’uno
che andava verso il Ponte l’altro che si dirigeva dalla direzione opposta.
Io,
scaltramente, mi sono posizionato nella parte più esterna preferendo passare
lungo il lembo estremo della riva.
Inevitabilmente
sono caduto in acqua. Non so se spinto volontariamente o accidentalmente
dall’altro ragazzino che procedeva in senso opposto.
Il
salvataggio non è stato molto eroico.
Nessuno
si è tuffato in mio soccorso.
Un
passante cortese mi ha lanciatouna cima dalla riva e mi ha tirato su come un
salame.
Al
bar dove i miei soccorritori mi portano in attesa del cambio dei vestiti tutti
ridono: “No ghe xe venezian che no sia cascà in acqua na volta.”
“Ben!
ti va a scuola de nuoto a la Passoni ” mi dice trionfante il babbo.
Una
volta i vecchi insegnavano a nuotare tenendo legati per una corda i
principianti, ora i costumi si sono evoluti e si va in piscina coll’istruttore.
La
Passoni è una società nautica collocata sulla fondamenta delle Zatere.
Non
ci sono impianti particolari né depuratori.
Una
recinzione di legno contorna uno spazio acqueo della laguna che funge da
piscina.
Non
ci sono depuratori per le acque che confluiscono in laguna e nel Canale della
Giudecca.
Ci
pensa la marea a pulire due volte al giorno.
L’acqua
ha ancora un colore accettabile.
Per
il momento l’acqua della laguna non è inquinata – o forse nessuno ha disposto
dei controlli - consentendo persino i bagni.
Non
c’è, infatti, nessun divieto di balneazione!
C’è
tanta allegria da parte dei giovani allievi che non fanno molto caso agli
impianti cadenti.
Le
cabine corrono lungo una passerella di legno che fa da cornice alla piscina.
Quell’anno
non sono state dipinte e sembra quasi il segno di un prossimo smantellamento.
Noi
ragazzi non ci pensiamo.
Abbiamo
fiducia di chi deve vigilare sulla nostra salute e sulla tutela della nostra
laguna.
Forse
ci siamo fidati troppo?
6. Capitolo. La zia Bice.
La
zia Bice è la sorella di mia madre.
E’
una persona estroversa cui piace dire la sua su tutto. “No la tase mai.”
conferma mia madre.
E’
bassina e porta delle grosse lenti da miope che le incorniciano il viso
paffuto.
Lei
e lo zio Donato si sono trasferiti a Venezia, dopo la morte della nonna.
La
nonna Graziella era stata ricoverata d’urgenza in un Ospedale per una
improvvisa cecità.
Gli
acciacchi della vecchiaia e la cecità erano pesi troppo forti per mia madre che
viveva con lei.
La
nonna e si è lasciata morire dopo pochi
giorni.
Non
ha retto alla lontananza da casa e a quel surrogato di vita che non amava più.
Io
non sono andato al funerale, anzi non ho mai saputo quando l’hanno celebrato
per quello strano pudore che induce i grandi a tenere i bambini lontano dalle
cerimonie funebri per esorcizzare la morte.
Poco
dopo la morte della nonna gli zii sono
venuti ad abitare in un appartamento di
proprietà del nonno Nicola
sito
nella casa a fianco della nostra.
Siamo
vicinissimi.
La
zia non si sa dare pace per la perdita della nonna Graziella.
Avrebbe
voluto essere più vicina a sua madre, ma abitava a Milano.
Troppo
lontano per portare assistenza ad un anziano.
La
famiglia ha deciso di ricoverarla in un istituto per anziani perché un disturbo
di cataratta l’ha fatta diventare cieca e non era possibile accudirla in casa.
La
zia non ha potuto opporsi a questa decisione ed è un rimpianto che si è portata
per tutto il resto della sua vita.
E’
forse per quello che ripete spesso: “Quando sarò vecia me metaré in
ospedaleto.”
Non
riesci a darti giustificazioni se non hai accompagnato i tuoi genitori
nell’ultimo viaggio.
Io
sono contento del loro arrivo: ho acquistato degli altri zii oltre allo zio
Pasquale e alla zia Nina.
Sono
proprio felice di avere degli altri parenti che abitano così vicino a noi.
Mi
divido equamente fra di loro.
Un
giorno improvvisamente lo zio Pasquale e la zia Nina mi comunicano che hanno comperato una casa a Trani
e che intendono trasferirsi per continuare a vivere lì.
Non
capisco il perché di quella decisione anche perché non si concilia con le
lacrime che intravedo scorrere dalla guancia della zia Nina. Pershé partono se non sono felici di partire,
mi chiedo
“Ci
vedremo lo stesso ancora Nicheto” mi dice la zia Nina.
Non
capisco perché ci sia il bisogno di andare a Trani per poi rivedersi ancora
quando adesso ci vediamo tutti i giorni. Qui c’è qualcosa che non quadra .
Lo
zio pasquale mi distoglie dai miei interrogativi de fio de sesto proponendomi di andare ad acquistare dei soldatini.
“Ne
ho visti di nuovi in Ruga” mi dice.
“Ti vedi che non ti xe bon de parlar
venezian; adesso vedemo chi riva primo” così dicendo mi precipito lungo le
scale per arrivare con largo anticipo a scegliere i soldatini”.
7. Capitolo. Il Lido.
Allo
zio Donato piace molto nuotare e quindi d’estate si va la Lido come tutti i
veneziani.
“Luglio
al mare ed agosto in montagna” è la regola canonica.
“Più che na vacanza xe un zavagio “
ribatte la zia.
Lei
non nuota e non trova lo stesso piacere a costruire sulla sabbia castelli, vulcani o piste dove fare correre le biglie
di vetro colorato.
E’
vero si parte presto con borse e borsine
che contengono la merenda e gli asciugamani.
Io
porto il canotto di gomma gonfiabile con annessa pagaia.
L’ho
voluto fortemente appena l’ho visto in Merceria nella vetrina di Brighenti.
E’
stato un amore a prima vista.
Effettivamente
non è molto estetico con la sua forma triangolare ma è sicuramente molto
pratico per delel piccole escursioni lungo la spiaggia del Lido.
Chissà
se posso noleggiarlo in cambio di figurine?
E’
obbligatorio correre per prendere il vaporetto perché come ripete lo zio “Se se ciapa il bateo prima delle oto ghe xe un sconto”.
L’ultimo
tratto del sottoportico della Pasina è
il tratto più duro del percorso
Quando
si vede arrivare la prua del vaporetto e sei appena uscito dal sottoportico
vuol dire che si deve correre con tutte le borse canotto e remo per non perdere
lo sconto fra i rimbrotti dello zio .
L’imbarcazione
è sempre stipata anche se i turisti a
quell’ora non sono numerosi.
Con
un po’ di fortuna basta curare i passeggeri che occupano i posti in prua -
quelli più esposti al vento - che prima o poi o scendono o si stancano del
vento sulla faccia e passano nell’interno
nei posti più riparati.
Stanno
anche in piedi pur di sottrarsi alla
brezza .
Si
vede che non sono uomini di mare.
Anche
se lo facciamo tutti i giorni il tragitto
non è mai monotono.
Quasi
non ti accorgi della durata del percorso perché Venezia è stupenda da ogni
angolo di visuale.
L’attenzione
non cala mai.
Sono
concentrato alle manovre del capitano e
de queo che buta la cima per ormeggiare il vaporeto all’imbarcadero.
Operazione
delicatissima quella dell’attracco perché se lo spazio è troppo ampio c’è il
rischio di mettere la gamba in mezzo fra bateo
ed imbarcadero.
Quella
mattina se il marinaio addetto alla manovra non si accorge che nello scendere
sto scivolando fra vaporetto e imbarcadero io sarei con una gamba in meno.
Certo
che quella volta l’Arcangelo Michele è stato lesto a suggerire la prontessa nel tirarme su da parte del
Battelliere come ripete la zia Bice che ha
recitato per questo un dozzina di rosari di ringraziamento dopo essersi
assicurata che non avrei detto nulla a mia madre “perché la se impressiona”.
Quando
sbucando dalla Punta della Saluta nel Bacino di San Marco intravediamo al Riva
degli Schiavoni siamo arrivati alla metà del viaggio.
Non
c’è fretta è proprio un bel giro in barca e poi siamo in mezzo alla laguna
inondata di sole e respiriamo a pieni polmoni l’aria marina e ci inebriamo dell’odore
del mare.
Il
vaporetto costeggia la riva degli Schiavoni e quella dei sette Martiri fino a
giungere ai Giardini di Sant’Elena. Sembra di essere arrivati in un’altra città
dove crescono gli alberi e dove si può correre a lungo su di un percorso
rettilineo.
“Perché non venimo più spesso a Sant’Elena che
xe beo?” chiedo felice dei vedere il colore verde dei prati.
“Perché xe distante ma adeso semo rivai al
Lido” mi risponde paziente la zia
Finalmente
attracchiamo all’imbarcadero del Lido!.
Sbarchiamo
trionfalmente come i veneziani vincitori giunsero a Costantinopoli nella quarta
crociata.
Non
abbiamo rotte da conquistare ne bottini da depredare ci basta solamente
abbronzarci e fare un bel bagno in mare.
La
strada per la vittoria è lunga ci aspetta il Gran Viale Santa Maria Elisabetta.
Il
Viale è pieno di gente che arriva con tutte le linee dei vaporetti e col Bateo Grando che addirittura ha due piani
oltre ad essere molto più lungo di una normale imbarcazione di trasporto
pubblico.
L’ultima
fermata è obbligatoria per acquistare dal fornaio una merenda calda e croccante
e poi via verso il Lungomare Gabriele D’Annunzio dove hanno sede gli
stabilimenti balneari.
Non
ci resta molto tempo per fare il bagno, per costruire i castelli di sabbia, per
giocare con gli amici della spiaggia e chiacchierare con la moglie del dott. Wurms che è il nostro medico
della mutua.
La
vita di spiaggia scorre monotona per alcune ore poi la zia Bice dà il fatidico
ordine di partenza e ci mettiamo in moto per il secondo zavagio.
Torniamo
stanchi e felici .
Salutati
e ringraziati gli zii suono il campanello di casa e urlo a mia madre che si affaccia alla
finestra in mancanza di citofono:“Buta la
pasta!”
8. Capitolo. Trani.
La
mamma ed il papa hanno deciso di fare un giretto insieme.
E’
una delle poche volte che mi lasciano a casa da solo.
Per
un verso non sono contento .
Come
figlio unico mi sento tradito. Ci
ripenso, dopo che la zia Bice mi ha detto che ha deciso di portarmi con lei e
lo zio Donato a Trani, e sono addirittura felice di questo abbandono.
Sono
desideroso di andare a vedere la città natia del nonno da dove partì alla
ricerca di un lavoro e soprattutto di potere andare a trovare lo zio Pasquale.
Forse
anche a Trani vendono i soldatini e potrò averne di nuovi difficili da trovare
dal mio solito venditore.
Non
è così frequente per me avere l’occasione di spostarmi dalla città del leone.
I
miei non hanno lo spirito dei veneziani di un tempo abituati a commerciare in
lungo ed in largo per il Mediterraneo: Sono finiti i tempi in cui era normale
viaggiare lungo la via della seta.
Andare
in treno fino a Trani non è un viaggio che si fa tutti i giorni.
Sono
emozionatissimo .
Ne
ho parlato a scuola con madre Epifania che si è preoccupata subito
dell’andamento dei miei studi e mi ha appioppato i compiti delle vacanze.
Era
meglio stare zitto fino al ritorno!
“Fa
esercizio di lettura che sei un po’ scarso e scrivi anche dei pensierini sulle
vacanze” mi raccomanda la suora parlando rigidamente in italiano .
“Va ben reverenda madre” rispondo
ossequiente in veneziano.
Saluto
il nonno Nicola spiaciuto di non partire con noi, ma non se la sente di
affrontare il viaggio
“Portami
una rama di rosmarino che quelli
nostri del sud hanno più profumo” mi dice salutandomi.
“E
non parlare in dialetto che ti mandiamo apposta a scuola per imparare
l’italiano!”
Passiamo
tutto il giorno in treno per evitare di viaggiare di notte; finalmente nel
tardo pomeriggio arriviamo.
Alla
stazione di Trani non c’è la folla che trovi a santa Lucia
Trani
è una piccola città, così dice la zia ma a me che sono piccolino sembra grande.
Il
vetturino è pronto alla stazione per portarci col suo stanco ronzino nella
villa dello zio che dista un paio di chilometri dalla città sulla Via di
Corato.
E’
la prima volta che salgo a cassetta e
aiuto anch’io a condurre la carrozza tenendo le briglie sotto il sorriso
benevolo del conducente.
La
villa è una bella casa, anche se lasciata un po’ andare in disuso, che rivela
il segno di un antico benessere.
C’è
la luce, ma l’acqua la raccogliamo dal pozzo.
Non
c’è la vasca da bagno, ma una simpatica
tinozza di rame.
E’
piacevole trascorrere le vacanze in villa, anche se non ci sono tutte le
comodità della città.
In
campagna ci sono un sacco di cose da fare e
da vedere e soprattutto c’è tanto spazio.
Il sole incombe abbagliante ed è difficile
trovare un angolo d’ombra.
Il
terreno è coltivato a vigneto; in mezzo alle viti un unico piccolo albero mi
attende per colazione con i suoi rami carichi di fichi maturi
Mi
adeguo subito alla vita agreste.
Ci
sono un sacco di cose da fare ed un sacco di persone che vengono a trovarti.
Antonio
il mezzadro dello zio Donato è il primo a farci visita con un carretto trainato
da un asino che continua a ragliare.
La
sua faccia grinzosa asciugata dal sole caldo è incorniciata da un sorriso molto
dolce e accattivante.
E’
un personaggio verghiano interprete di
quella realtà dura fatta di fatica e di poco benessere che è la normalità delle
campagne dei sud .
E’
venuto per illustrare i frutti del suo lavoro e per concordare il tempo della
vendemmia.
Suggerisce
allo zio che per spuntare il prezzo più buono bisogna aspettare ancora un po’
perché, secondo lui, i prezzi sono destinati a salire.
Non
poteva mancare all’appello delle visite lo zio Pasquale e la zia Nina che mi fanno un sacco di feste
.
Sono
venti con un loro nipotino.
Sono
un po’ geloso perché mi sembra che mi abbia già sostituito nel loro cuore.
E’
arrivato anche lo zio Nicola titolare di una agenzia delle ferrovie dello Stato sita proprio sul gran viale che dalla stazione porta alla Piazza principale.
Prima
è entrata la sua pancia e poi la sua imponente persona.
Lo
zio è un fine degustatore .
Conosce
tutti i piatti della cucina pugliese che gusta due volte prima nel decantarne
le delizia.
Spazzola
tutto quello che gli capita nel piatto e senza alcun ritengo richiede il bis di ogni portata per dimostrare, come
dice, i suoi complimenti più entusiasti alla padrona di casa.
Lo
zio Nicola è un parente alla lontana molto affezionato a noi perché come tutti
gli uomini del sud tiene molto alle parentele anche le più distanti.
E’
proprio per manifestarci visibilmente la sua amicizia che il giorno successivo
ci invita a colazione in città.
Lui
e la Zia Rosaria non hanno figli ma abitano con Giuditta sorella nubile della zia in una vecchia casa
affacciata al porto.
La
colazione preparata è suntuosa.
Maccheroni
al forno dove mozzarella filante e polpette di carne straripano , melanzane
alla parmigiana, peperoni ripieni, triglie di scoglio piene di lische che però,
assicura lo zio, hanno il profumo di mare, cozze e vongole veraci e per finire cartellate,
cucinate come da più rigida tradizione nel vino cotto, zuppa inglese, una
cascata di fichi e uva pugliese bianca e nera oltre a frutta secca e mandorle.
Esausti
riusciamo a fuggire alle portate dello zio Nicola che proseguirebbe
imperterrito fino a sera nella sua abbuffata
con la scusa di una passeggiata digestiva.
Proseguiamo
sul porto ed allontanandoci dal mercato del pesce lontano dal frastuono delle
contrattazione.
La
città vecchia inizia lì a ridosso della
loro casa con i sui vicoli stretti.
I
bambini sporchi e mezzi nudi girano nelle strade dove circola qualche rara
macchina.
Una
povertà dignitosa e rumorosa dove la vita si svolge all’aperto, al di fuori dei
bassi troppo angusti per contenere tutti i numerosi componenti della famiglia.
Vedo
con i miei occhi tracce evidenti di quella povertà che ha costretto molti, come
il nonno, a cercare fortuna al nord.
Poco
distante a picco sul mare si innalza solitario il Duomo.
La
costruzione essenziale risplende nel colore bianco della pietra di Tran.
Suggestivo,
senza affreschi, senza mosaici il Duomo mi conquista per la sua semplicità di
linee e per la potenza del sentimento religioso che sa trasfondere.
Sono
orgoglioso del fatto che il mio onomastico ricorra nel giorno di San Nicola Pellegrino cui il
Duomo è dedicato.
La
meta successiva è la Villa che sorge dalla parte opposta del porto rispetto alla
casa dello zio Nicola.
I
giardini a comunali si affacciano ad una spiaggia scogliosa con un profumo intenso di salmastro però meno comoda delle spiagge sabbiose del Lido
per i bagni mare .
E’
piacevole nella calda giornata estiva camminare lungo i freschi viali alberati
dei giardini.
Peccato
che non si possa scendere a fare il bagno in mare.
Gli
scogli sono troppo dirupati e l’acceso è complicato.
Gli
zii per convincermi a rinunciare al bagno mi promettono che andremo a Colonna.
La
località balneare sorge a poca distanza dalla città ed assomiglia molto alla
spiaggia del Lido solo che non si va col vaporetto ma in macchina o col
vetturino.
Sicuramente
lì si può fare un bagno nelle acque fresche dell’Adriatico per toglierci di
dosso il caldo del sole del sud.
9. Capitolo. Renzo.
Poi
è nato Renzo.
Fin
da quando è piccolissimo giochiamo molto insieme anche se è troppo piccolo per
venire a giocare con me a “tacco” in campo: sette anni di differenza quando ne
hai solo dieci sono molti.
Sono
il suo fratello maggiore.
La
zia è molto contenta da quando è nato Renzo: lo aspettava da molto ed ora,
grazie a Dio, è arrivato e la nostra famiglia è diventata più numerosa.
Renzo
è destinato a seguire le mie orme.
Prima
le suore e poi i padri. C’è un differenza di età che ci farà prendere strade
diverse.
La
zia è felice; lo va ad accompagnare a scuola tutte le mattine secondo la
tradizione della nostra famiglia; anche lui indossa un grembiulino nero col
colletto bianco e porta un cestino azzurro, anche lui mangia il minestrone e si
lamenta.
La
vita continua sempre uguale nelle sue abitudini.
La
zia si ritrova con le altre mamme a bere il caffè al bar e a discutere di
faccende di casa.
Lo
zio è sempre impegnato in contabilità e amministrazioni.
Per
fortuna che c’è lui! è pur sempre una persona di famiglia che può dare una mano
in caso di bisogno.
La
zia ha un carattere estroverso, vuol dire sempre la sua, vuole essere presente
e risolvere ogni problema della nostra famiglia, vuole aiutare tutti alla sua
maniera.
Riesce
a vedere le cose in maniera assolutamente personale e considera con difficoltà
le posizioni degli altri.
Lo
zio Donato, peraltro, è un uomo del sud che non lascia molti spazi.
In
casa comanda lui, la moglie ha solo un ruolo di dettaglio.
Dopo
il trasferimento da Milano ha cessato di lavorare .
E’
spesso a casa. Il pomeriggio va l bar a legger il giornale o al cinematografo.
La
sua presenza è ingombrante perché un uomo ha il bisogno fisico di
occuparsi di qualcosa e, se non lavora, interviene in affari di poco conto levando
agli altri incombenze minime.
Lo
zio, ad esempio, va a fare la spesa, levando alla zia quello che è un autentico
piacere per una donna: fare acquisti a Rialto, il più divertente mercato di
Venezia.
E’
una vita piuttosto prevedibile la loro.
E’
interrotta solo dal viaggio a Trani per le vacanze estive.
La
zia Bice mi racconta le storie della famiglia di quando il nonno Nicola è
venuto a Venezia da Trani ed ha messo su una attività di oste.
La
zia è l’unica che si ricorda le date degli onomastici e dei compleanni di tutti
i parenti più stretti.
La
zia soffre molto per non avere potuto studiare seriamente.
Il
suo cruccio è quello di non avere frequentato le superiori e di non essere
andata all’Università.
A
lei piace molto studiare, ma usa così; in casa devono restare le donne e i
maschi devono studiare e lavorare: è la legge del sud. Non ha mai cercato di
cambiare quel modo di pensare fortemente maschilista e riduttivo della
condizione femminile, che ha regolato la sua esistenza, accettandolo senza proteste.
10.
Capitolo.
L’Ospizio.
La
zia Antonia è sempre più curva non si regge in piedi, la voce è sempre più
roca.
Il
nonno è anziano. La vecchiaia avanza anche per lui.
La
gestione della casa è complicata.
La
mamma non ce la fa ad accudire due persone anziane sempre più malconce; il papà
ha i suoi problemi di salute e non ha energie sufficienti per proporre
soluzioni.
La
decisione è difficile, costa fatica.
La
salute sempre più precaria della zia Antonia richiede sempre maggiori cure che
in casa nessuno può assicurare.
“No
ghe xe niente da far, bisogna ricoverar” alla fine conclude mio padre.
Io
lo so solo a cose fatte. Sono tornato da scuola e la zia non è più in casa,
capisco dai discorsi dei grandi che la zia è stata portata in Ospizio, ma non
mi rendo conto di come mai in poco tempo la nonna e la zia abbiano dovuto
allontanarsi.
Preferisco
continuare a giocare con i miei soldatini che ascoltare questi discorsi da
grandi.
Sono
i momenti tristi della vita quando qualcuno abbandona il suo posto in famiglia.
Sembra
che la vita scorra sempre uguale, ma non è così.
Le
situazioni evolvono e bisogna sapere prendere le decisioni più dolorose.
Basta
prendere queste decisioni con amore.
Se
pensi di fare quello che tu vuoi sia fatto anche a te in quella situazione, non
hai nulla da rimproverati.
Certe
decisioni sono prese perché mancano alternative.
L’Ospizio
è vicino alle Zattere.
Il
profumo di mare che inonda il bacino è un mero ricordo; lì dentro ti assale un
odore di vecchiaia.
Tanti
anziani affollano la vasta anticamera che precede le camerate.
Sono
tutti accalcati in un enorme stanzone dove sono stipati una ventina di letti.
Un
brusio costante è lo sgradito contorno di un ambiente decisamente poco entusiasmante.
La
zia Antonia è rassegnata; i vecchi sanno che quando sono malati il loro destino
è segnato.
E’
la vita che scorre e se ne va.
Non
tutti hanno la fortuna di morire nel proprio letto.
Ci
vuole solo un po’ di amore in più per non abbandonarli e per fare trascorre
loro gli ultimi anni il più serenamente possibile.
Dopo
pochi mesi dal ricovero la zia Antonia se n’è andata per sempre.
E’
morto, poco dopo, anche il nonno Nicola.
Siamo
rimasti più soli.
Il
treno della vita prosegue il suo viaggio.
Ogni
tanto si ferma e alla stazione scende qualcuno che ci lascia.
Rimane
il ricordo che ci aiuta a sopravvivere.
11.
Capitolo.
La morte di Stalin.
Raramente
ho visto preoccupato mio padre.
Il
suo volto ha sempre l’espressione triste di quelli che sanno che a breve devono
morire, ma che non sono mai tesi.
Ho
visto preoccupato mio padre solo il giorno in cui la radio ha annunciato la
morte di Stalin.
Non
lo ho mai sentito parlare di politica neanche quando raccontava della ritirata
di Russia alla quale ha partecipato come guidatore di un camion dell’esercito
italiano; non ha mai fatto valutazioni.
Per
lui non esistono fascisti o comunisti, esistono solo persone.
Pensa
al suo lavoro, a fare andare avanti il bar, a sopravvivere alla malattia che lo
distrugge poco a poco; forse pensa a cosa avrei fatto io dopo con la mamma? se
avremmo retto il peso di una gestione familiare?
Forse
è buono con gli altri sperando che altri saranno buoni con noi, ipotizzando una
sorta di proprietà transitiva della bontà.
Non
è capace di dire di no a chi gli chiede qualcosa.
“Tutti
ga da poder lavorar”, dice.
Il
papà è contento quando può offrire delle opportunità di lavoro a tutti quelli
che gliene fanno richiesta soprattutto quando sa che devono mantenere la
famiglia facendo i salti mortali.
Quel
giorno è preoccupato.
“Chi
sa cossa capita” ripete.
Per
i clienti del Bar la Russia di allora è il regno di un dittatore sanguinario
che ne combina di tutti i colori.
Dicono
che non si possa entrare con facilità nel territorio dello Stato russo neppure
come semplice turista.
I
pochi visitatori dicono di essere stati seguiti dai servizi segreti . Essi hanno
dovuto denunciare dove erano andati e cosa hanno fatto ; ogni minimo
spostamento deve essere controllato.
La
cosa che più mi angoscia è che dicono sia oltremodo difficile emigrare dalla
Russia.
La
trovo una limitazione insopportabile alla libertà che dovrebbe avere ogni
persona di potere costruire la sua vita.
Non
so se le notizie siano vere, ma ne sono impressionato.
Camerieri
e clienti sono preoccupatissimi per la morte di Stalin.
Temono
che l’equilibrio basato sulla paura, instaurato dal suo governo, possa venire
meno causando pericolosi contraccolpi sulla politica europea ancora instabile.
La
seconda guerra mondiale non è finita da molto.
“Cossa
farà i Russi? Ghe ne rivarà uno peso?”
Tutti
hanno paura anche per eventuali contraccolpi sulla politica americana.
Il
5 marzo 1953 può essere la fine di un incubo.
Sono finite le deportazioni e le
purghe politiche, le carestie
e le morti in prigione e nei campi di lavoro che hanno caratterizzato l’epopea
causando la morte di almeno una ventina di milioni di persone?
Cosa
farà il nuovo segretario comunista Krusciov?
Ci
sarà ancora un mondo diviso in due blocchi contrapposti sempre pronti a
colpirsi per affermare la loro supremazia?
Mio
padre è preoccupato.
Lui
l’Europa in fiamme l’ha già vista.
Si
legge nei suoi occhi la paura che gli orrori della guerra si ripetano.
E’
una delle poche volte che mio padre mi racconta delle sue avventure col “camion”
dell’esercito italiano dopo la ritirata di Russia.
Il
papà ha sempre parlato poco di quando ha prestato servizio militare come camionista
dell’esercito.
Nei
servizi di trasporto, dice, gli capitava spesso di essere fermato o dai repubblichini
o dai partigiani.
Quando
lo fermavano i repubblichini “Ghe davo rason“ dice.
Così
pure quando lo fermavano i partigiani cercava di dare loro da mangiare o di
fornire indumenti o scarpe.
Non
riesco a pensare che mio padre, anche in guerra, possa fare del male a qualcuno
neppure al suo peggiore nemico.
“I
xe poveri fioi” dice.
Forse
anche per questo è riuscito ad uscire vivo da situazioni tremende con la forza
della sua generosità.
Per
fortuna la morte di Stalin porta ad una successione di potere che non crea
ulteriori tensioni con l’Europa.
Nikita
Krusciov è il nuovo presidente che con le sue aperture crea una stagione di
speranza con una maggiore distensione dei rapporti fra le due super potenze.
I
commenti si fanno più ottimisti anche se i clienti sono sempre divisi in due
gruppi.
“Mi
tegno per i americani. Varda cossa ga fato Stalin!”
Sono
pochi quelli che frequentano il locale, che è sito nel cuore commerciale di
Venezia, a non prendersela con i Russi, soprattutto quando il livello di
guardia ai confini con l’est europeo si aggrava.
Il
processo di distensione sembra subire una battuta d'arresto quando in Ungheria
inizia a manifestarsi con forza il malcontento per il disagio economico e le
aspirazioni di libertà e autonomia nei confronti dell'URSS.
Quando
i giovani ungheresi si mettono davanti ai carri armati sovietici per le strade
di Budapest, ho visto qualche cliente spaventato.
“Adeso
i vien qua anca da noialtri” dice.
Quando
poi si acuisce la crisi di Berlino,
con la costruzione del muro che ha infranto i sogni di libertà di molti da
parte dei filo-sovietici della Germania Ovest, riprende con
forza la disputa fra gli avventori fautori delle due diverse teorie.
Il muro divide in
due la città.
I
cittadini di una unica nazione sono divisi in due stati.
Una
cortina invalicabile li separa; chi prova ad attraversarla per venire nella
Berlino ovest rischia di essere un bersaglio dei vopo.
Ad
ogni morto ammazzato c’è un commento di condanna.
“Varda
come i copa! No i ga pietà.”
Sono
pochi quelli che plaudono al necessario controllo dello Stato sovrano sui suoi
concittadini.
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