1. Capitolo. Una vacanza a Montecatini.
Il
papà è stanco.
Lui
continua ad andare al lavoro.
E’
un artista del gelato.
Osserva
con amore la crema prendere forma, mentre la pala meccanica della macchina
rimesta gli ingredienti: latte, zucchero e uova in grossi bidoni; poi
effettua un prelievo con una paletta e ne controlla la consistenza.
Io
sono lì, seduto, intento a leccare un cono di crema appena fatta.
“Magna
ancora che xe bon, sta solo atento a no sciopar.” mi dice sorridendo.
Mia
madre racconta che adesso è magro, ma prima era quasi cento chili per
centosettantadue centimetri di altezza, non era certo un figurino.
Non
ho mai assaggiato tanto gelato come quando aiuto mio padre, mentre attendo nel
suo laboratorio che la lavorazione sia finita per consegnare il gelato ai
ristoranti della città.
Continua
a lavorare mentre la malattia lo divora, ha un sorriso triste, ma non si
lamenta.
Mi
parla, mentre affonda la paletta per prendere un campione del gelato dalla
macchina, del progetto di una vacanza a Montecatini con la mamma.
Bisogna
partire prima di Pasqua perché lui deve lavorare durante i giorni di festa e di
vacanza per gli altri.
I
medici affermano che la cura delle acque potrebbe giovargli.
Posso
andarci anch’io, invece di rimanere come al solito a casa con la zia Bice:
ormai sono grande.
Io
non capisco assolutamente nulla del dramma che sta vivendo mio padre.
Chissà
che sensazione deve avere provato il babbo sapendo di partire per la sua ultima
vacanza con le persone che ama e che fra poco deve lasciare per un lungo
viaggio senza ritorno.
Solo
la fede in Dio e la fiducia nella Bice e Donato, cui sa di poterci affidare,
può fargli affrontare il futuro con serenità.
Io
non sto nella pelle.
Sono
felice di potere fare questa vacanza inaspettata.
Corro
subito ad informare lo zio Pasquale che lo sa già.
“Va
e divertite caro Nico” mi dice nel suo veneziano con intonazione pugliese.
Mi
sorride, felice della mia gioia di bambino ignaro della crudeltà normale del
vivere.
Di
solito mi basta poco per dimenticare il tradimento di papà e mamma, quando mi
lasciano da solo per qualche breve vacanza.
Sono
subito viziato dallo zio che mi fa fare incetta di soldatini di terracotta.
Ho
collezionato un intero esercito di nordisti, dalle casacche azzurre e una vera
tribù di indiani dal viso colorato con i segni di guerra.
I
soldatini di terracotta sono una tentazione troppo forte cui non so resistere:
quasi ogni giorno, con la complicità dello zio Pasquale, compro un soldatino
nuovo.
In
ogni caso a questo viaggio non avrei rinunciato nemmeno per l’intero Forte
Alamo di cartapesta che lo zio Pasquale mi ha promesso nel caso di promozione
agli esami di ammissione alle medie inferiori.
Sento
che questa vacanza organizzata per divertirci tutti insieme è proprio un fatto
eccezionale.
Devo
perdere anche una settimana di scuola e questo un po’ mi dispiace, mi trovo
bene dalle suore.
Ho
avvisato suor Epifania, che è la mia maestra, e lei mi ha riassicurato:
“Basta
fare i compiti che ti assegno.” dice “Divertiti con i tuoi genitori.”
Suor
Epifania, a differenza di tutti quelli che conosco, non parla in veneziano
perché dice che suo compito è insegnarci l’italiano e non il dialetto.
Povera
Repubblica del Leone oramai i tuoi cittadini degradano anche la dignità della
tua lingua!
Non
immagino proprio che un destino crudele vuole che questa sia l’ultima vacanza
che trascorro con mio padre.
Il
papà, invece, in cuor suo, lo sa.
Non
credo che mio padre pensasse veramente che la cura delle acque proposta dai
medici potesse risolvere i suoi problemi di salute.
Qualche
mese prima è stato in pellegrinaggio a Lourdes.
“Xe
belo Lourdes” ha raccontato mio padre “ Anca se no ti guarisi te dona
tanta serenità. Pensa Nico che ti te fa el bagno nele pisine e ti vien fora
suto”
In
ricordo ha portato una effigie della Madonna in plastica di colore azzurro
tenue con un gran rosario in mano che contiene l’acqua benedetta delle piscine.
Siamo
pronti per partire.
Uscire
da Venezia è sempre un’impresa, un cameriere del Bar ci accompagna fino al
pontile del vaporetto per portarci le valigie con un carrettino del bar.
Sono
le delizie di Venezia: sempre a pie!
Il
breve viaggio fino alla stazione ha sempre costituito per me una emozione.
Passare
dal consueto mezzo di trasporto per acqua al convoglio ferroviario o al
trasporto via terra in automobile costituisce per me una operazione insolita
che compio poche volte in un anno come molti veneziani legati indissolubilmente
alla loro isola.
Provo
la sensazione di abbandonare la città per un viaggio interminabile; anche se si
tratta di poche centinaia di chilometri. E’ sempre come iniziare una grande
avventura alla scoperta dell’Italia.
Aiuto
mio padre a portare le valigie fino al treno.
Il
papà non si fida più di guidare, ha venduto persino la Balilla.
Il
viaggio in treno non sembra lungo perché nello scompartimento abbiamo trovato
dei viaggiatori chiacchieroni con cui parlare di Venezia.
Loro
parlano del Palazzo Ducale delle Gallerie dell’Accademia e della Ca d’Oro.
Io
li aggiorno dei miei problemi con suora
Epifania, del minestrone che le suore ci propinano tutti i giorni, della mia
voglia di mangiare la pastasuta e del mio monopattino rosso.
Ognuno
parla delle cose che più lo interessano, ma sono tutti disponibili ad ascoltare
ed il tempo vola via.
Io
mi sono piazzato vicino al finestrino.
Mi
piace vedere scorrere le case lungo la linea ferroviaria.
Mi
immagino delle impossibili gare con le automobili che corrono lungo la statale
che costeggia i binari.
In
breve arriviamo alla stazione di Montecatini dove si aspetta una gita in
carrozzella per cercare un albergo.
“Varda
quante machine” osservo incredulo.
Non
ho viaggiato molto spesso in terraferma ed il traffico che incrociamo col
vetturino mi sembra esagerato.
Non
abbiamo fatto prenotazioni da Venezia; mio padre dice che Montecatini è una
stazione termale piena di alberghi, ma troviamo
tutti occupati gli alberghi di cui abbiamo i recapiti.
Si
fa tardi nella ricerca. Decidiamo di pernottare in un Albergo lussuoso.
I
camerieri hanno una divisa splendente, saliamo su di uno scalone imponente,
regale.
Le
camere sono ampie e spaziose.
Il
servizio è eccellente vorrei fermarmi lì, ma mio padre fa rapidamente i conti e
decide che il giorno seguente bisogna trovare un altro Hotel o la nostra
vacanza si sarebbe drasticamente ridotta.
Arriviamo
in un albergo un po’ più modesto, ma altrettanto confortevole.
Io
sono molto contento perché vi alloggia un intero corpo di ballo.
Vengo
così a sapere che a Montecatini c’è un teatro dove rappresentano tutte le sere
l’operetta con cantanti e ballerini.
Le
suore mi hanno detto che vedere le ballerine è peccato.
Mio
padre mi raccomanda di guardare lo spettacolo con un occhio solo.
“Cusì
ti fa mezo pecà” mi dice ridendo della mia bigotteria.
Sono
contento di stare tutto il giorno con mio padre.
E’
bello stare con lui in vacanza senza l’assillo del lavoro per lui e della
scuola per me.
Mio
padre ha sempre una idea nuova per passare il tempo facendo cose piacevoli, non
c’è un minuto vuoto nel programma che realizza per l’indomani.
Ho
sempre visto poco mio padre. Se non lavora è ricoverato in Casa di Cura ed io
sono impegnato con la scuola o con gli amici in oratorio.
E’
una fortuna che i medici lo abbiano mandato a fare la cura delle acque a
Montecatini.
Sono
sempre con mio padre.
La
mattina la passiamo alle Terme per la cura, il pomeriggio ci inventiamo una
gita nei dintorni.
Lo
stabilimento termale è alla sommità di una collina.
C’è
un gran via vai di persone, tutti sono molto eleganti, non ci sono molti
bambini, ma non ci faccio molto caso perché sono contento di stare con mio
padre.
Le
verdi colline che ci circondano danno una sensazione di quiete e di benessere.
Con
il torpedone andiamo a fare una scampagnata a Collodi.
Racconto
la storia di Pinocchio a mio padre che mi assicura di non conoscerla e si finge
interessato alle avventure del burattino.
Facciamo
una gara a chi trova per primo la strada di uscita del labirinto. Ho un attimo
di incertezza , ma mio padre mi rassicura e mi fa trovare la strada per uscire.
La
felicità sembra lì a portata di mano.
A
Montecatini ci sono un sacco di cose da fare.
Passo
delle ore sperperando una fortuna nella sala giochi del casino di Montecatini
ci sono molti giochi a punti.
Come
premio di un pomeriggio ottengo una bambolina di pezza vestita col costume
tipico siciliano.
La
sera c’è solo l’imbarazzo della scelta: teatro con l’operetta o caffè concerto
dove si alternano cantanti, maghi e comici.
Il
caffè più frequentato è situato sul vialone che dal centro porta alle terme.
I
clienti sono tutti signori di mezza età, di bambini non ce ne sono.
Io
mi diverto ad ascoltare “Signorinella pallida....”.
Il
cantante è bravissimo nell’interpretare questa storia così romantica. Lui
accompagna da consumato attore la triste storia d’amore con dolci movimenti
delle mani suadenti come la sua voce.
Il
pubblico applaude calorosamente.
La
sera successiva si cambia e, anche se la mamma tornerebbe volentieri al Caffé
Concerto, lo spettacolo più entusiasmante è la corsa dei cavalli.
L’ippodromo
di Montecatini è aperto anche di sera.
Le
corse di sera sono uno spettacolo che mi lascia a bocca aperta: non ho mai
visto un luogo così grande, così splendente di luci, con tanta gente festante.
Lo
spettacolo mette allegria, sembra di essere ad una grande sagra.
Seguo
mio padre ai botteghini per le puntate: accoppiata, vincente o piazzato.
E’
il rito che precede ogni corsa. Bisogna fare la fila per puntare cercando di
rubare qualche informazione sui favoriti o rischiando la puntata su qualche
brocco che però in caso di vincita fa guadagnare di più.
Imparo
subito le varie combinazioni e con un po’ di fortuna indoviniamo una
accoppiata.
La
vincita è pagata benissimo dagli scommettitori“Varda quanti schei” ride
mio padre soddisfatto.
“Podemo
fermarse ancora papà xe beo star qua tuti insieme” ribatto contento di
tanta fortuna.
Non
si può fare durare la felicità più del
breve spazio di tempo che ti è concesso; la vita deve fare il suo corso:
Gli
impegni di lavoro e quelli scolastici durano molto, i momenti di intensa
felicità durano poco.
“Dovemo
tornar, ma femo un’altra bea vacanza vero Nico” mio padre mi rassicura che
possiamo trascorrere insieme altri momenti di gioia.
2. Capitolo . La Festa della Madonna
della Salute.
Il
21 novembre, giorno della Festa della Madonna della Salute, si celebra il
pellegrinaggio dei veneziani verso la Basilica.
La
festa è molto sentita dai veneziani devotissimi alla Madonna.
E’
proprio Lei che ha salvato secondo la tradizione il popolo della serenissima
dalla peste che nel 1630 ha colpito la città.
Un’effigie
della Madonna Nera protegge la camera del nonno Nicola ed è uno degli oggetti a
lui più cari.
E’
talmente devoto alla Madonna della Salute che ha comperato una seconda icona
uguale alla prima perché ognuna delle due figlie ne abbia una copia dopo la sua
dipartita.
E’
la festa più intima riservata ai soli veneziani; qui è difficile trovare anche
uno solo di quei turisti che affollano la città di San Marco in ogni occasione.
A
ricordo della pestilenza ci sono solo dei marmi candidi; non c’è nulla che
ricordi le sofferenze degli appestati ed il fetore dei carri sui quali i
monatti trasportavano le vittime della epidemia.
Il
filtro della memoria cancella il dolore dei tristi ricordi ed il fuoco della
speranza - che la Madonna salvi la città da altre sciagure - arde colle candele
votive.
La
processione dei fedeli continua durante tutte le ore del giorno .
Quell’anno
io e mia madre partiamo all’imbrunire. Le luci dei lampioni rendono il percorso
più intimo.
Da
Rialto il percorso più semplice è quello che nella direzione di San Marco si
tiene a destra del ponte di Rialto.
E’
un percorso veneziano che passa da Campo Sant’Aponal e va dritto, si fa per
dire per quanto può essere rettilinea una strada a Venezia, fino alla Chiesa
della Salute.
L’intrico
di Calli si apre all’altezza del Campo San Polo
le luci sono già accese e la piazza appare deserta e taciturna delle
grida dei bambini che vi sgambettano per tutto il pomeriggio sotto l’occhio
vigile delle madri.
Dopo
esser passati davanti alla Casa dove visse Carlo Goldoni incrociamo il piccolo
Capo di San Tomà, silenzioso attorno alla sua chiesa, e ci inoltriamo per altre
Calli che ci portano all’apertura di Campo San Barnaba.
L’itinerario
si fa più aperto perché corre lungo la fondamenta che costeggia il Rio della
Toletta e di San Trovaso fino a sbucare
al ponte dell'Accademia costeggiando le Gallerie. Mia madre mi ricorda che lì
sono custoditi i tesori della pittura veneziana.
Ama
molto i dipinti del Carpaccio e cerca
invano ci convincermi ad andare a visitarle
Io
continuo a ripetere che ci andrò “Quando
sarò più grando”.
“Quanto manca?” continuò a ripetere “Al ritorno
femo la strada più curta!” insisto deciso.
“Semo quasi rivai. Manca un ponte e la cale de San Gregorio.” Ripete paziente mia
madre .
Subito
dopo il ponte dell’Abbazia di San
Gregorio incominciano le bancarelle dei
mercanti che approfittano della festa per vendere le candele votive e ogni
sorta di dolciumi.
Di
candele ce ne sono di tutti i tipi e per tutte le tasche con impressa l’effigie
della Madonna della Salute.
E’
proprio uguale a quell’immagine della Madonna che il nonno Nicola tiene in
camera sua in testa al suo letto.
“Compremo
na candela?” chiedo.
La
domanda è puramente retorica perché non c’è nessuno che entra in quella chiesa
il giorno della festa senza il cero rituale.
Per
testimoniare la nostra devozione compriamo una delle candele più grandi.
L’usanza
vuole che la si debba consegnare in chiesa.
“Ghe
la dago mi al frate.” mi offro per questo gesto di culto.
La
gradinata che conduce all’ingresso della chiesa sembra emergere dalle acque del
Canal Grande.
E’
un’impresa farsi largo fra la calca dei fedeli per arrivare in cima a quei
gradini e dominare dall’alto il canale.
Iniziamo
il giro della chiesa ed affidiamo la candela ai chierici.
I
fedeli più devoti assistono alla Santa
Messa.Noi dopo un breve giro e una preghiera usciamo come in processione
attraverso un itinerario obbligato che passa attraverso il presbiterio
racchiuso fra quattro colonne colossali in marmo greco.
Attraversato
l’altare maggiore si prosegue a sinistra per la sacrestia fino a raggiungere il
porticato del Seminario Patriarcale per ritornare al Campo della Salute .
Insito
per andare ad affacciarmi al punto più estremo della Punta della Dogana.
Dinanzi
si apre l’ampio specchio d’acqua del bacino di San Marco che brilla delle luci
della sera e dietro sulla destra appare il
più oscuro Canale della Giudecca dopo si specchiano le luci più soffuse che
illuminano l’isola di San Giorgio.
Al
ritorno insisto per attraversare il ponte votivo costruito sui barconi.
Il
ponte è alto dal livello dell’acqua del canale tanto quanto basta per
consentire al bateo di passarci sotto.
Le
peate pur legate insieme dondolano
sul Canal Grande mentre mi affaccio a
guardare i vaporetti che rallentano di velocità per introdursi in mezzo al
pertugio realizzato della misura sufficiente per farli passare .
Il
ponte è costruito per l’occasione dal Genio Militare e consente ai pellegrini
di raggiungere più comodamente la Basilica.
La
fede si rinnova ogni anno con questo atto concreto di devozione della città.
Questa
bella, immortale e benefica fede é sempre avvezza ai trionfi, come diceva il
poeta
Ci
ritroviamo in campo S. Maria Zobenigo nel sestiere di San Marco.
I
gradini di legno del ponte scendono
proprio a fianco del Gritti che è l’albergo più raffinato della città.
L’itinerario
si snoda lungo Campo san Maurizio e
Campo Santo Stefano.
Le
calli sembrano più larghe e più eleganti perché vi si affacciano negozi con
vetrine scintillanti di luci e di merci.
In
breve giungiamo in Calle del Teatro.
“Qua ghe gera el Teatro Goldoni speremo che i
lo restaura presto “mi dice mia madre.
“Ti ga
visto che e la xe pù curta?”siamo già arrivati in Campo San Bartolomeo da dove si intravede il Ponte di Rialto.
3. Capitolo. Il Carnevale.
Aspetto
con ansia l’ultima settimana di Carnevale perché ardo dal desiderio di vestirmi
con la maschera di indiano che il papà mi ha regalato l’anno prima.
Dopo
che il barbaro aveva abolito
alla fine del Settecento dopo Campoformio la tradizione grande festa veneziana
è ripresa solo dopo la seconda grande guerra.
Indosso
con orgoglio il copricapo di piume colorate, il tomawak e lo scudo colorato di
cartone.
Che
disdetta! quest’anno sono cresciuto un po’ più del previsto e la zia Nina che è
la sarta più disponibile per lavori urgenti
ha realizzato due aggiunte veramente vistose che, anche se non si vedono,
per uno che indossa la maschera di carnevale sono uno smacco.
Insisto
per avere una maschera nuova e subisco un ignobile ricatto.
“Se ti vol el vestito novo non ti va a la
festa de sioba grasso a Palazzo
Giustiniani”.
Cedo a questo sopruso non posso permettermi di
rinunciare a quella splendida festa.
Ricordo
che si concludeva con uno splendido buffet ricco di tartine e pasticcini.
Per
giungere alla meta c’è da attraversare la città in festa.
Sono
pronto ad ogni battaglia di coriandoli e stelle filanti.
Mi
munisco di un sacchetto di munizioni ed affido alla borsa di mia madre altri
pacchetti di riserva.
Peccato
che alla festa non ci sia nessuno degli amici di campo San Polo.
Forse
non interessa o non sono stati invitati.
Non
me ne faccio un cruccio: l’importante è partecipare.
Sapendo
di affrontare piacevoli battaglie propongo di partire almeno due ore prima;
contratto con mia madre che vorrebbe ridurre il tempo delle battaglie di
coriandoli e di stelle filanti.
Nuvole
di pezzetti di carta variopinta avvolgono i bambini e con loro quegli adulti
ridivenuti improvvisamente adolescenti.
I
masegni delle calli non sono più
grigi ma hanno preso il colore dai coriandoli che li ricoprono con un tappeto
uniforme.
La
battaglia infuria nella Ruga di Rialto, sul Ponte , nelle Mercerie.
Il
lancio delle stelle filanti mi impegna moltissimo e dopo avere esaurito il primo pacchetto lancio con
una mira discreta.
L’apoteosi
è in Piazza San Marco dove la folla diviene incontenibile .
Le
mascherine e i turisti sono venuti da ogni parte di Venezia e della
terraferma per godersi l’allegria del
carnevale.
Per
chi è vestito con i costumi del settecento, quell’anno molto di moda, la
cornice non può essere più adatta.
Manca
solo che il prete Rosso esca fuori dalla chiesa di Santa Maria della
Visitazione – meglio conosciuta come
Chiesa della Pietà – con un quartetto d’archi e si metta a suonare le Quattro
Stagioni per ricreare le armonie di quel secolo che le maschere rendono più
vicino.
Durante
il carnevale è vero quel che vi pare .
Io
posso addirittura credermi un indiano che non c’entra niente con Venezia ma che
mi riporta nell’immaginario degli eroi del
far west che tutte le domeniche
ritrovo nelle sale cinematografiche.
“Femo presto Nicheto che se no rivemo tardi”
mi ricorda madre distogliendomi dalle ultime battaglie di coriandoli che ho
ingaggiato con una maschera travestita da cow
boy.
Per
fortuna che pur combattendo colle stelle filanti siamo
arrivati all’ala Napoleonica dopo avere attraversato per il lungo tutta la
Piazza San Marco: un’impresa imbroba.
Accaldato
e sorridente sono letteralmente trascinato da mia madre che non vuol perdersi
la festa delle mascherine arriviamo in Calle del Ridotto .
Saliamo
l’imponente scalone per ritrovarci in un salone enorme dominato da splendide
colonne che ne esaltano la maestosità.
Il
salone delle feste di Cà Giustiniani è veramente una salone regale.
Mio
padre cura il servizio di ristorazione: lui lavora, io sono qui per divorare
una quantità industriale di deliziosi stuzzichini.
Mio
padre attorniato da uno stuolo di camerieri è indaffaratissimo dietro un tavolone
lunghissimo dove ha adagiato ogni ben di Dio.
Con
un breve saluto ci fa cenno di accomodarci a vedere lo spettacolo della
premiazione del concorso per la più bella
mascherina.
Damine
e paggi vestiti con curatissimi costumi
veneziani settecenteschi sfilano con maghi ,Zorro, streghe Orsi, leoni e personaggi dei cartoni animati per
vincere il concorso.
Applausi,
risate urli e strepiti di ogni sorta accompagnano la loro sfilata.
La
claque è scatenata . fratelli ,
sorelle , genitori e parenti tutti si sono radunati e si impegnano al massimo per far vincere i
propri beniamini.
Alla
fine dello spettacolo è la ressa .
Sul
tavolone imbandito si scatenano gli appetiti più famelici.
Solo
la lunghezza del tavolo e l’abbondanza
può avere ragione di quell’ assalto.
Mio
padre sorride anche questa volta è riuscito ad avere ragione delle torme
affamate.
Solo
nel tardo pomeriggio esausto dalla mangiata pantagruelica riprendo la strada
del ritorno con mia madre felice di queste briciole di allegria.
4.
Capitolo. La festa del Redentore.
La
festa del Redentore ha come riferimento un’altra famosa chiesa veneziana.
E’
una festa più civile, anche se ha origini religiose.
In
questa occasione i veneziani non vanno alla Chiesa per pregare ma colgo l’occasione della
ricorrenza per fare dei gran pranzi sulle barche anche attendono pigramente i fuochi di artificio che vengono sparati a
mezzanotte.
La
visita alla chiesa del Redentore è un di più non richiesto dalla tradizione.
L’edificio
di culto è stato costruito per un voto fatto dal Senato della Repubblica ai
tempi del doge Alvise Mocenigo perché il Cristo pantocratore liberi il popolo
dalla pestilenza scoppiata dopo la battaglia di Lepanto.
Trovo
strano che per i veneziani sia più importante celebrare la fine della
pestilenza che la battaglia che ha salvato l’Europa cristiana.
Non
capisco che si tratta di un ringraziamento per lo scampato pericolo che ha
sottratto la città all’epidemia.
Quell’anno
io e mia madre partiamo dopo cena.
E’
una sera calda quel terzo sabato di luglio.
Stranamente
non siamo partiti quell’anno per le vacanze estive all’inizio del mese così
possiamo goderci la festa.
Bisogna
arrivare fino alla fondamenta delle Zattere per essere in buona posizione per
vedere i fuochi di artificio che sono sparati dall’isola della Giudecca.
Fino
al ponte dell’Accademia il flusso della gente è normale poi la ressa diventa
opprimente.
Dobbiamo
rinunciare all’idea di attraversare il ponte di barche che attraversa il canale
della Giudecca e consente di recarsi dalle Zattere proprio di fronte alla
Chiesa del Redentore.
Deviamo,
infatti, verso la marittima che si trova dalla parte opposta della chiesa del
Redentore proprio per evitare il flusso dei turisti festanti.
L’attraversata
del canale è riservata a pochi volonterosi disposti a stare pazientemente in
fila fino a tarda ora.
In
compenso essendo un po’ più defilati riusciamo a prendere posto in un bar
gelateria dove ci attende il gianduiotto con panna.
Questa
è una festa meno religiosa perché la gente non va a fare necessariamente visita
alla chiesa del Redentore.
L’usanza
vuole che si attendano i fuochi di artificio sulle barche ancorate in mezzo al
canale e attrezzate per fare grandi mangiate e da lì, seduti comodamente a
tavola, ammirare i fuochi di artificio.
Peccato
che il papà sia sempre impegnato a lavorare specialmente al sabato ed nei
giorni di festa così non riesce ad organizzare una gita in barca per godere della
serata.
La
cosa strana è che, pur abitando a Venezia da sempre, non ritroviamo nessuno dei
nostri conoscenti fra gli spettatori.
Sono
turisti venuti da tutto il Veneto o chissà da dove affollati in una calca
impressionante sulla fondamenta.
Trovare
qualcuno del tuo sestiere è pressoché impossibile.
A
Venezia in mezzo a tutta questa calca ti senti solo: sei incapace di
rapportarti con qualcuno che si trova lì solo per poche ore.
E’
difficile soprattutto nelle grandi festività trovare qualcuno del tuo sestiere
se non parti da casa già in compagnia.
C’è
solo una grande confusione di gente che è venuta attratta dalle bancarelle e
dalla confusione della festa come le mosche dal miele .
Veniamo
trascinati e sballottati qua e là dalla folla fino ad attendere l’ora convenuta
per l’inizio dei fuochi pirotecnici.
Lo
spettacolo è indubbiamente suggestivo; lo specchio d’acqua del Canale della
Giudecca riflette quei frammenti di luci colorate che piovono dal cielo.
Cominciano
a ruotare le girandole dei fuochi poco alti da terra , poi i maestri
artificieri propongono dei fuochi a mezza altezza.
In
principio lo scoppio dei fuochi disegna delle ruote piccole che via via
proseguendo nei lanci tendono ad ingrandirsi sempre più in un crescendo
dall’adagio, all’allegro e al presto.
Ad
un certo punto gli spari diventano sempre più frequenti.
E’
un inno alla gioia e alla grandezza della Serenissima.
I
fuochi più belli sono gli ultimi quelli
che vengono sparati più in alto e si frantumano in tante schegge colorate
luccicanti che piovono in mare.
I
mille bagliori dei fuochi si riflettono sulle acque scure del Canale della
Giudecca illuminando le barche che dondolano sulle acque della laguna
stranamente calme, dato il temporaneo blocco della navigazione.
Per
alcuni sicuramente quella è musica per me è solo un rumore è assordante.
Rinuncio
a mangiare il gianduiotto per tapparmi le orecchie, ma tengo gli occhi
spalancati verso il cielo.
5. Capitolo. La Regata storica.
Domani
è la prima domenica di settembre non c’è tempo da perdere se non vogliamo come
al solito vedere la Regata in piedi e
inmuciai in mezo a na fiumana de gente.
Mio
padre conosce tutti a Rialto non è difficile per lui contattare Toni Sbregaboche che con alcuni soci ha
organizzato una peata attraccata
proprio davanti alla gelateria per racimolare un bel po’ di quattrini.
Mi
hanno riservato un posto in prima fila con lo zio Pasquale che è un attento conoscitore di feste veneziane.
E’
uno spettacolo veder sfilare le Bissone e la Bucintoro e le numerose altre
barche colorate che sfilano lungo il Canale fra gli applausi entusiasti degli
spettatori.
Lo
zio mi narra le vicende che hanno legato
la Bucintoro alla storia della città.
“La
nave dogale – racconta lo zio - portava il doge allo sposalizio con il mare il
giorno della Sensa per ricordare un
importante successo diplomatico.
La
mediazione politica della Serenissima aveva favorito la pace tra il papa
Alessandro III e l'Imperatore
Federico Barbarossa alla fine del XII secolo.
Il Papa come
ricompensa dei servigi resi confermò a Venezia il dominio sul mare.
In quel giorno, ogni anno, il Doge, sulla Bucintoro,
raggiungeva Sant’ Elena all’altezza di San Pietro di Castello dove il Vescovo,
a bordo di una barca con le sponde dorate, lo benediceva.
La Festa terminava con il rito propiziatorio dello sposalizio col mare per sottolineare il dominio della Serenissima
con le acque.
Il Doge, una volta raggiunta la Bocca di Porto,
lanciava nei flutti un anello d’oro e pronunciava sempre le stesse parole: “In
segno di eterno dominio, Noi, doge di Venezia , ti sposiamo o mare”.
Successivamente alcuni prodi nuotatori recuperavano e
riconsegnavano l’anello per la cerimonia dell’anno seguente.
Oggi lo sposalizio
non ha più significato - dice lo zio con una espressione triste – anche se il
Sindaco della città, nel giorno dell’Ascensione raggiunge a bordo del Bucintoro
, la bocca di Porto e getta in laguna
l’anello .
Il dominio del mare
da parte della Repubblica non c’è più.
Il Barbaro ha celebrato definitivamente il divorzio
fra Venezia ed il suo ingrato amante bruciando la Bucintoro quando
cancellò la Repubblica in nome della libertà, dell’eguaglianza e della
fraternità col il trattato del 17 ottobre 1797.
A Campoformido
l’alfiere della rivoluzione consegnava all’Austria la Repubblica di Venezia che
aveva rinunciato ad ogni difesa consegnandosi ai francesi per paura della loro
collera in caso di resistenza.
Il liberatore portava la miseria ai veneziani svuotando le casse pubbliche, portandosi
via i tesori artistici e l’onore.
Un doge fiacco, inetto pauroso, di recente nobiltà –
lo zio mi dice che sono parole di Giulio
Lorenzetti grande studioso di tradizioni
veneziane - portò il Maggior Consiglio ad accettare la proposta infame
del dittatore di mutare l’antica costituzione del Governo Repubblicano.
Il coraggio che aveva fatto trionfare Serenissima se
n’era andato via in fondo al mare con l’ultimo vero sposalizio celebrato
sull’autentica Bucintoro.
Con il coraggio se ne andò anche quel simbolo della
potenza di Venezia che dopo quel giorno non celebrò più il vero matrimonio
simbolo di potenza.
-----
La Regata storica è una celebrazione che ricorda i fasti antichi obliando le offese più
recenti.
Il momento saliente della manifestazione è al regata
dei sandolini.
La regata, che poteva tenersi anche con grosse peate,
è uno spettacolo che affonda le
sue origini nelle tradizioni della città.
Alla voga dei sandolini,
che sono barche sottili e più leggere
delle tradizionali gondole, i gondolieri
bardati di fazzoletti e sciarpe colorate che li contraddistinguono si danno
battaglia a colpi di remo: una premada e
una sciada.
Il remo si immerge nell’acqua con una inclinazione
preordinata ed esce con delicatezza scivolando sulle onde leggere del canale
con una inclinazione leggerissima che si accentua a seconda della direzione che
il poppiere vuole dare a correggere lievemente il colpo di remo del prodiere.
Il prodiere spinge con forza sul remo mentre chi gestisce
da poppa la barca dà la direzione definitiva.
Il percorso corre dalla punta dei Giardini Pubblici di
Sant’Elena lungo tutto il Bacino di San
Marco ed il Canal Grande fino all’estremità opposta di Santa Chiara vicino alla
Stazione Ferroviaria.
Giunte a quel punto le imbarcazioni devono ruotare
attorno ad un paletto e ritornare a Cà Foscari dove sono piantate su di un
palco, costruito per l’occasione, quattro bandiere che simboleggiano i premi
messi in gara.
La
regata si svolge fra le incitazioni degli spettatori, che a seconda del
sestiere di appartenenza, incitano gli eroi locali del remo.
“Forsa Stringheta.” Urlo a
perdifiato facendo un tifo indiavolato per questo possente
vogatore che passa per primo scivolando leggero davanti alla nostra peata.
“Invece de sigar tanto ti podaresti andar a
vogar anche ti” mi suggerisce mio padre che si è staccato per cinque minuti
dalla gelateria per applaudire con me il passaggio di Stringheta.
6. Capitolo. L’addio.
La
zia Francesca, moglie dello zio Leonardo, è una vecchietta sopraffatta dagli
anni che le hanno incurvato la schiena.
Cammina
con difficoltà appoggiata ad un bastone e non esce mai.
Abita
in centro a due passi da Piazza San Marco da cui la dividono un ponte e una
cale.
Lei
non si pone il problema di superare quella breve distanza perché prima per
uscire deve affrontare le scale che dal piano terra la portano al suo
appartamento sito al secondo piano: quell’erta scalinata è una discesa
sostenibile, ma la salita è improponibile per lei.
E’
un problema serio affrontare quello scalone ripido senza pianerottoli che si
inerpica per due piani con un’alzata che è ben più dei normali venti centimetri
e per contro una pedata inferiore agli usuali trenta centimetri; il secondo è
quello di non farsi venire le vertigini.
La
mancanza di pianerottolo ti dà la sensazione di trovarti in cima ad un dirupo.
Se
cado, pensi, precipito da almeno sette metri senza nemmeno l’interruzione
favorevole di un pianerottolo.
Quando
mia madre fa la sua solita visita mensile alla zia il mio primo pensiero è
quello di come affrontare quelle scale.
La
paura di precipitare al pian terreno rimane fino a quando il pesante portone
d’ingresso dell’appartamento non si è rinchiuso alle mie spalle.
“Bisogna
no vardar da basso” semplifica mia madre che sa che soffro un minimo di
vertigini.
La
casa della zia Francesca è immersa nel buio. E’, infatti, circondata da calli
strettissime che impediscono alla luce di entrare.
Sembra
l’anticamera dell’oltretomba.
Per
fortuna un’altra scala impervia collega l’appartamento al terzo piano.
Lassù
una porta finestra conduce ad una altana deliziosa, purtroppo irraggiungibile
per la zia Francesca, che domina i tetti circostanti e porta come per magia a
rimirare il cielo tutto intero.
La
zia vive con il figlio Ninetto.
Stempiato
con pochi capelli bianchi che gli incorniciano il viso magro è vecchio anche
lui, ma nonostante l’età l’assiste amorevolmente.
Si
muove con rapidi passi in sequenza da
una parte all’altra dello spazioso salone mostrandoci i vari ricordi di
famiglia con un sorriso compiaciuto.
“Come
sta to fradeo Cice? xe tanto che no lo vedo” chiede la mamma.
“Ben, veci ma stemo ben ringraziando Dio” risponde Nini.
Le
conversazioni a casa della zia Francesca viaggiano sul filo della memoria.
La
zia ricorda quando la mamma era bambina e andava a scuola delle suore e lei era
una giovane sposa.
“Ti
te ricorsi quando andavimo cola Marieta e la Nineta al Lido: quanto rider cola
Marieta la gera sempre alegra.”
Le
cugine dell’altro fratello del nonno Nicola costituiscono la parte essenziale
di un piccolo mondo fatto di parenti e compaesani, tutti pugliesi, nel quale
mia madre si ritrova come dentro ad una nicchia protettiva.
Un
mondo tenuto insieme dalla forza aggregante di una cultura e di tradizioni ed
usanze che i vecchi tramandano con tenacia.
Un
mondo che ruota attorno ai vecchi patriarchi che tramandano le vecchie
abitudini destinate però a scomparire con loro.
Quando
la zia Francesca ha saputo del ricovero della zia Antonia in un Ospizio ha
accolto questa notizia con la grande sopportazione della gente del sud che ha
una grande capacità di digerire gli eventi più spiacevoli che la vita ci
riserva.
“Povereta
la stava mal, no se podeva più tenirla
in casa?” domanda.
“
No” risponde mia madre “ la gera malada de vechiaia.”
Quella
malattia che arriva implacabile a massacrare il tuo corpo e che ti costringe a
dipendere dall’assistenza degli altri.
Quella
volta i saluti sono più tristi.
E’
un addio quello della zia, non un arrivederci.
La
zia Francesca sente che deve a breve andarsene anche lei.
Gli
addii delle persone care sono gli accadimenti che nella vita ti colpiscono di
più.
Il
dolore per la perdita è l’aspetto più immediato e lacerante della scomparsa;
pesa di più, però, il vuoto che la loro mancanza comporta.
Un
vuoto grande quanto la persona cara rappresenta nel quadro dei tuoi affetti.
Le
zia non può più dare più a mia madre quel sostegno affettivo di cui ha molto
bisogno.
Non
rimane unica superstite che la zia Angelina sorella della nonna Roma.
La
nonna materna è morta col nonno Angelo prima della mia nascita.
E’
stata un’epatite dovuta ad una magnada de peoci forse crudi che li ha portati
in cielo come ricorda spesso la zia Nineta.
A
dire il vero questo diminutivo si addice poco alla zia perché da l’idea di una
persona fragile e bonaciona.
Lei,
invece, è minuta ma con una tempra forte che si manifesta negli occhi volitivi e
nella voce profonda che incute attenzione.
Abita
in una casa modesta posta in fregio alla Fondamenta della Misericordia.
Arrivare
lì e per me un percorso impegnativo perché mia madre vol far do passi e
non accoglie la mia richiesta de ciapar el bateo.
Da
Rialto bisogna attraversare il ponte per un bambino è già impegnativo e poi si
deve percorrere un bel tratto di Strada Nova.
Questa
via si discosta dalla tipica forma delle strade veneziane.
E’
stata, infatti, aperta solo dopo l’unità d’Italia abbattendo case ed allargando
strette viuzze per mettere in diretta comunicazione Rialto con la stazione
ferroviaria.
E’
la strada più spaziosa della città. E’ bello passeggiarci soffermandosi a
vedere con calma le vetrine e senza essere pressati all’onda delle persone che
vogliono passare e che ti ripetono infastiditi: “Avanti col Cristo che la
procesion se ingruma”.
“De
qua ghe xe la Cà d’Oro” indica mia madre con un gesto della mano tentando
di trasmettermi una parte del suo sapere. Sa bene che a quell’età mi interessa pochissimo
ma spera sempre che qualcosa mi rimanga nella mente.
La
casa è una delle gemme più preziose dell’arte gotica veneziana; il palazzo è
famoso per la brillante policromia della facciata che sia affaccia sul Canal
Grande.
La
facciata si vede solo dal canale e mia madre mi costringe ad andare a rimirarla
dal pontile dove attracca il vaporetto che io avrei voluto prendere per rendere
il percorso meno faticoso. Io memore della strada che mi ha fatto fare a piedi
riprendo a tenere il broncio per la inopportuna deviazione che allunga il
nostro percorso.
All’altezza
del campo di santa Fosca giriamo attorno alla statua di Paolo Sarpi che
testimonia della liberalità che ha sempre caratterizzato i veneziani a garanzia
di ogni sopruso anche se questo proviene dall’autorità papale.
“No
semo ancora arivai” sbuffo perché sono stanco di tutta quella strada
percorsa.
“Adeso
semo rivai e la Nineta te dà la merenda” mi tranquillizza mia madre.
Finalmente
giungiamo ad incrociare dopo l’ultimo ponte la fondamenta della Misericordia
dove si disputano le partite della Reyer.
La
squadra si basket veneziana è una delle mie passioni.
Qualche
volta convinco lo zio Pasquale a portarmi. Lui è un tifoso sfegatato.
E’
un’emozione unica perché la palestra è sita al primo piano della Scuola di
Santa Maria Valverde detta Scuola Nuova della Misericordia.
Quando
i tifosi veneziani si scatenano è un vero pandemonio.
Tutti
all’unisono cominciano, sotto la regia invisibile del dio Tifo, a battere i
piedi.
La
palestra è posta al primo piano della vecchia Scuola per questo nel momento in
cui il numeroso pubblico inizia ad agitarsi.
Tutti
i presenti hanno la sensazione che il pavimento incominci a muoversi e che le
travi di legno possano cedere al peso e soprattutto alla foga dei tifosi scalmanati
ma nessuno dimostra di preoccuparsi più di tanto.
“Forza
Reyer alé alé” il frastuono è assordante urla, fischi e applausi: “Forza
Cedolin!” E’ il cognome del giocatore che conosco meglio di fama. Suo fratello
è un compagno di giochi del Campo San Silvestro e lo incitiamo di continuo.
Il
tripudio per l’ultimo canestro segnato è alle stelle.
“No
ti vorà miga andar a vedar la Reyer?” mi interroga preoccupata mia madre.
“No,
no la zoga in casa” la rassicuro.
L’abitazione
della zia è sita a fianco di una vecchia osteria dove la zia ha lavorato; poi è
diventata parona perché ha sposato il proprietario.
Gli
ambienti sono accoglienti. Si entra subito in un bel salottino arredato con
mobili fine ottocento.
“Come
ti sta Cetta” saluta rivolgendosi a mia madre mentre ci accoglie dall'alto
della scala che porta alla sua abitazione mentre mi saluta con la mano
mandandomi un bacio.
Ci
fa accomodare attorno ad un tavolino da the addobbato con la tovaglia de la festa dove la zia ha sistemato un
cestino in peltro traboccante di busolani
dolsi de Buran.
I
busolani sono un tipo di biscotti
tipici a forma di ciambella destinati a durare nel tempo che la zia conserva di
vetro per conservarne la fragranza e poi quando arriva qualcuno d’importante li
ripone nel vassoio.
Mia
madre fa i complimenti alla zia per una tovagliettta ricamata punto a giorno
che ha cucito personalmente su cui poggiano i dolci ed io dimostro subito il
mio entusiasmo per i busolani addentando il più panciuto, anche mia madre che è
una golosona fa onore al piccolo rinfresco.
La
zia Angelina è l’unico contatto con la famiglia di mio padre.
La
zia ci fornisce le ultime notizie sui parenti che io non ricordo di avere mai
visto.
Mia
madre deve averli conosciuti a qualche matrimonio o a qualche funerale perché
se ne interessa.
“El
zio Rico sta ben, anche la zia Angelica sta ben, la xe andata a vivere un
campagna. Pensa la xe andata a star fora da Venezia” racconta incredula la
zia Nina.
Per
un veneziano di una certa età sentire che un parente si è stabilito fuori della
città è del tutto impensabile.
“Na
roba da non credar” conferma mia madre.
“
So fio el lavora in banca qua visin” tranquillizza subito la zia Nina.
Bepino
è il figlio di cui si parla. Lo conosco anch’io perché qualche volta lo andiamo
a trovare con mio padre.
E’
una delle visite più piacevoli perché ha una figlia della mia età.
Elisabetta
è una bambina molto carina, dolce, con dei bellissimi capelli biondi, lunghi e
lisci che le incorniciano un visino affusolato molto delicato incorniciato da
due splendidi occhi a mandorla color del cielo.
Devo
dire che è la visita ai parenti che preferisco.
Vorrei
chiedere a mia madre perché siamo andati a trovare la zia Nina invece dello zio
Beppino dove posso giocare più simpaticamente con l’Elisabetta ma la mia innata
diplomazia mi suggerisce di stare zitto e mi consolo addentando il terzo
busolano.
La
zia Andreina ricorda i tempi passati quando suo cognato il nonno Angelo suonava
la tromba nella banda municipale.
Tutta
la famiglia alla domenica andava in Piazza San Marco dove la banda suonava le
arie più famose delle opere sopra un palcoscenico eretto per l’occasione mentre
i bambini giocavano imprudentemente sotto le strutture dei tubi Innocenti.
Giani,
mio padre, quando era piccolo e andava spesso a trovare in bottega la zia Nina;
lei gli faceva trovare sempre dei busolani che lui divorava letteralmente
perché è sempre stato uno di buon appetito.
“Quando
gavevo un momento de tempo se faseva una partita a scopa. Chi vinceva magnava
un busolan staltro stava più atento per vincer la prosima” ricorda la zia.
“Come
ti Nicheto el magnava sempre” ride divertita del successo dei suoi
biscotti.
“Come
sta Giani piuttosto” si informa preoccupata.
“Come
al solito. Speremo ben” sospira mia madre.
Io
ascolto ma non comprendo appieno la gravità di questa malattia che costringe
mio padre a frequenti ricoveri.
Lui
quando torna a casa mi dice che non è nulla di grave; mi conferma sempre che
dopo quel ricovero si è rimesso e spera di rimanere sempre con noi.
Questa
è stata l’ultima visita alla zia Nineta poi non ne ho sentito più parlare.
Nessun commento:
Posta un commento