1.
Capitolo.
Il linfogranuloma maligno.
Il
papà è stanco, i ricoveri si fanno più frequenti.
Non
va più alla Casa di cura, ha finalmente trovato un professore dell’Ospedale al
Mare del Lido che è riuscito a diagnosticare la sua malattia.
Quando
è riuscito a trovare l’origine del male ha nello stesso tempo perduto anche le
residue speranze: si tratta di un linfogranuloma maligno.
A
questo punto si è arreso, non combatte più.
Mi
chiede di rinunciare alla mia paghetta settimanale per economizzare ogni
risorsa.
Io
non capisco, mi sembra un sopruso.
Non
dice nulla e tutto continua come prima.
L’Ospedale
al Mare si affaccia sulla spiaggia del Lido.
Arrivarci
da Venezia è un viaggio.
Da
Rialto l’itinerario più veloce prevede l’imbarco da Piazza S. Marco, di fronte
alle Carceri di Palazzo Ducale, sulla motonave veloce – el bateo grando
- che porta al Lido.
La
motonave attracca al piazzale di S. Maria Elisabetta; da lì bisogna salire sull’autobus
che ti porta all’Ospedale.
Sono
andato a trovarlo con lo zio Donato.
Se
non fosse per tutte quelle persone in camice bianco non si ha neppure
l’impressione di essere in un ospedale.
I
reparti sono immersi nel verde del Lido: sembra di essere in una delle colonie
marine affacciate sul mare come quelle realizzate agli Alberoni.
Solo
quando ti avvicini ti accorgi che non ci sono bambini che giocano ma persone di
tutte le età che cercano di recuperare il bene più prezioso.
Il
sole e l’aria marina sono medicine portentose per ridarti la salute.
Il
sole porta calore, la brezza marina energia.
Questo
straordinario cocktail fa venire voglia di vivere anche a chi sta
lottando con sofferenza contro la malattia e forse avrebbe voglia di farla
finita.
I
malati in via di guarigione passano la loro convalescenza sulla spiaggia.
Sembra
stiano trascorrendo una piacevole vacanza.
“Co
ti sta megio ti va anca ti in spiaggia”.
L’ho
detto tante volte a mio padre in occasione delle precedenti visite quando la
malattia era ancora in una fase meno grave.
La
bellezza dell’ambiente marino cerca invano di mascherare il dolore.
Quando
entri nel reparto l’odore del disinfettante ti riporta alla triste realtà della
malattia.
Mio
padre è molto pallido, appare dimagrito e stanco.
“Ciao
come va Nicheto” mi dice come se spostando l’attenzione su di me, sulle
cose che faccio, sulla scuola sui giochi, sulla vita banale ma tranquilla di
tutti i giorni, si possa per un momento esorcizzare dolore e preoccupazioni.
“Varda
che bela zornada che xe ancuo, se ti sta megio ti pol andar anche ti in
spiaggia, te compagno mi” indico a mio padre i degenti meno gravi che sono
accompagnati in riva al mare dai parenti.
Sembra
quasi, a guardarli da lontano dalle finestre del reparto di medicina, che i malati
siano degli allegri gitanti che si deliziano del sole tiepido di fine
settembre.
“Sì,
sì la prosima volta femo cussì” dice mio padre nel tentativo di illudere me
con questa speranza di guarigione.
Nello
stesso istante di nascosto sussurra alla la zia Bice: “Te afido Nicheto e la Ceta.”
Sono
le sue ultime parole.
Lo
zio Donato che è un burbero esce dalla stanza molto probabilmente per
nascondere una lacrima.
Io
resto lì a fare gli ultimi progetti di una guarigione cui non crede più
nessuno.
Arriva
il medico di turno chiamato dall’infermiera per una difficoltà respiratoria.
Gli
infermieri mi fanno uscire, dicono che devono portare una bombola di ossigeno
ma che non è niente di grave, mi invitano a tornare a casa che tutto è sotto
controllo.
Il
papà è morto quella notte.
Il
linfogranuloma maligno non perdona.
-
- - - - - - -
Non
ho mai visto la chiesa di San Silvestro così stracolma di gente.
Gente
dappertutto dentro e fuori della chiesa.
Gente
che non ho mai visto prima.
Forse
quella partecipazione al nostro strazio vuol dire che mio padre è stato molto
amato o forse c’è solo una grande curiosità di vedere una famiglia distrutta dalla
morte del suo pater in così giovane età.
Non
ho mai capito se la gente viene al funerale per farsi vedere, per curiosare o
per partecipare al dolore di chi ha perduto irrimediabilmente una persona cara.
Quel
giorno la commozione è scritta nei volti di tutti i presenti alla cerimonia
funebre, non si sente nessuno fiatare.
Il
silenzio all’interno della chiesa è rotto da qualche singhozzo. Sentendo
piangere non riesco a trattenere qualche lacrimuccia da femminuccia.
Fuori
c’è una giornata di sole.
Sono
troppo piccolo per portare la bara e seguo il feretro in prima fila
accompagnato dagli occhi interroganti dei miei amici dell’Oratorio.
Non
hanno mai visto prima la morte del padre di uno di noi e sono increduli.
“Ma
pol morir uno cusì giovane?” sembrano chiedersi.
Gli
amici del bar ci sono tutti in prima fila.
Non
mi hanno fatto andare al cimitero.
Cice
che è il secondo figlio di Leonardo mi ha preso con sé per distrarmi da questa
disgrazia.
Lui
ha due figli di poco più grandi di me che mi fanno scudo nascondendo le mie
lacrime.
Sono
andato via con loro ma il mio cuore ha seguito il feretro di mio padre.
La
cerimonia del funerale a Venezia è meno triste che negli altri comuni di
terraferma.
L’ultimo
viaggio terreno è accompagnato da un corteo di motoscafi privati che portano la
salma ed i parenti a San Michele.
L’isola
della laguna di fronte alle Fondamenta Nove si può raggiungere solo con
la barca.
I
veneziani vanno in motoscafo solo quando si sposano e quando devono raggiungere
l’ultima dimora.
Andare
in motoscafo è comunque una piacevole festa.
Solcare
le acque calme della Laguna seguendo i canali segnati dalle bricole che indicano le seche mette
allegria anche se la flotta di barche è destinata
ad accompagnare una cerimonia funebre.
Non
può essere triste una gita in barca anche se la destinazione è San Michele.
L’isola
è il posto ideale per riposare in santa pace.
La
conosco bene perché tutti gli anni andiamo il due novembre a portare i fiori ai
nonni.
I
viali alberati danno un senso di quiete.
Il
silenzio, che l’isolamento dalla terraferma accentua, è di un altro mondo.
La
laguna è la sentinella più indicata per fare da guardia all’ultimo riposo.
2.
Capitolo.
Il funerale del papa.
Ho
amato papa Giovanni XXIII per la bontà che traspare dalla parole dei suoi
discorsi.
Mia
madre quando alla radio trasmettono i discorsi del Papa mi chiama, si
inginocchia e mi dice di aspettare la benedizione.
La
sua è una fede istintiva.
Il
Papa buono affascina anche lei per la sua dolcezza, per il suo amore per i
bambini e per i più deboli.
Spesso
mia madre, seguendo il suo insegnamento, mi dà una carezza e mi dice:
“Questa
xe la caressa del Papa bon”.
Aspettiamo
in ginocchio la benedizione urbis et orbis.
Ci
sono delle persone che per me personificano il bene o il male o una qualche
virtù o vizio.
Papa
Giovanni XXIII rappresenta per me la bontà.
Ogni
parola di Papa Giovanni, ogni suo atteggiamento indica una innata mitezza. Lo
sguardo ad esempio è quello di chi ha una naturale propensione ad instaurare un
rapporto con gli altri che ispira fiducia ed amore.
Una
bontà che non è arrendevole nei confronti dei più forti, ma esclusiva ricerca
del bene nel rapporto col prossimo.
Il
Papa ha risolto situazioni delicatissime che sembrano inestricabili e possono
portare al ricorso della forza con inevitabili crisi internazionali.
La
posizione tenuta dal papa nei rapporti sorti tra l’America e Cuba non è stata
di certo arrendevole nel suo desiderio di pace .
Un
uomo solo, disarmato di fronte alle due super potenze nel clima freddissimo dei
rapporti tra est ed ovest.
Tutte
e due le nazioni vogliono imporre il loro predominio sul mondo intero.
Dopo
la vittoria riportata a Cuba da Fidel Castro, gli USA,
che tentarono di minare il nuovo regime chiudendo il mercato americano
all'importazione di zucchero cubano, organizzano uno sbarco di militari
anticastristi nella Baia dei Porci.
Il
tentativo fallisce e Fidel ottiene dall'URSS l’installazione a Cuba di missili
nucleari sovietici
E’
il 1962 quando Kennedy ordina il blocco economico di
Cuba.
Solo
l’intervento del papa riesce a far fare un passo indietro ai due grandi che
decidono dei destini del mondo.
Krusciov
ordina il ritiro dei missili quando sembra che le navi russe dirette a Cuba
debbano scontrarsi con gli americani , che si sentono minacciati per la
presenza sovietica a due passi dalle loro coste, la parola del papa ha fatto
arretrare i due contendenti dalle loro bellicose posizioni.
Non
solo nei rapporti coi potenti è viva la presenza del papa buono ma anche e
soprattutto con i più deboli: gli ammalati, i detenuti gli emarginati, gli
handicappati; tutti trovano una parola di conforto.
Anche
i più duri di cuore si addolciscono quando la voce di Giovanni XXIII risuona
per radio o quando la sua figura pesante ed un po’ goffa si staglia e riempie
il teleschermo come quella di una star.
Forse
lo ho amato molto perché il suo sorriso, soprattutto nei momenti di stanchezza,
mi ricorda quello di mio padre.
Quando
è stato indetto dal Papa il Concilio Vaticano II su segnalazione di Padre
Colleoni ho acquistato un libro che tratta della situazione della Chiesa in
attesa del messaggio conciliare.
Ho
portato il volume in classe, immediato si è levato un coro subitaneo: “Ruffian..
Ruffian.”
Il
ritmo dei coristi aumenta mentre Padre Colleoni che è il più ascetico degli
insegnanti quasi non se ne accorge contento com’è che il suo invito sia stato
accolto da qualcuno.
Il
religioso è veramente felice che almeno uno dei suoi allievi si sia documentato
sul Concilio e sui fratelli separati alla soglia del Concilio.
La
grande assise termina senza che il Papa possa vederne la fine.
La
tristezza che ho provato in quel giorno è stata profonda.
E’
come se Giani fosse morto mio padre.
La
bontà ha un effetto a catena, si propaga a distanza, è contagiosa; essa ti fa
sentire più disponibile verso gli altri perché trasmette amore.
Quando
viene a mancare chi porta questo amore si sente un gran vuoto; è come restare
orfani: non c’è più chi ti dà il suo disinteressato sostegno.
3.
Capitolo.
L’isola Nera.
L’Isola
Nera è un’isola della laguna di Venezia.
Nei
miei ricordi è Nera di dolore e di rabbia.
L’isola
è tristemente famosa poiché ospita l’ospedale psichiatrico.
La
mamma soffre di sindromi depressive aggravate dalla morte del papà.
Con
la sua scomparsa le è venuto a mancare l’ultimo sostegno.
Non
ha più il nonno né la nonna né la zia Francesca che è chiusa nel suo
appartamento perché ha male alle gambe e non riesce a fare le scale né la zia
Antonia che è stata ricoverata in Ospizio.
La
mamma pensa che qualcuno le voglia fare del male.
Lo
stato di depressione si aggrava.
Mi
dicono che è meglio che la mamma vada a fare un periodo di riposo sull’Isola
Nera.
Non
capisco il senso di tutto ciò, ma non posso che accettare la situazione.
Il
senso di non potere aiutare tua madre a rimanere nella sua casa a vivere la sua
vita pur tra mille angosce è di grande frustrazione.
L’angoscia
cresce perché mia madre non ne vuole sapere dell’internamento; si deve
procedere ad un ricovero coatto.
Nella
mia infanzia ho pianto varie volte: quella è stata una delle esperienze più
dolorose.
Vado
a trovarla a l’Isola Nera, mi porta lo zio Bepi.
Prendiamo
un motoscafo privato, lo zio è gentile e compra dei dolci per mia madre.
Non
capisco perché lo zio Bepi sia venuto.
Non
siamo stati mai molto vicini.
E’
bello andare in motoscafo vedere a prua l’onda che si spezza in due con una
schiuma bianca e con mille spruzzi d’acqua.
A
Venezia di solito non lo si prende, è molto più economico il vaporetto, è un
lusso che è riservato per i matrimoni ed i funerali.
L’Ospedale
ci appare subito dopo aver passato lo stretto canale che divide l’isola di San
Giorgio e la Giudecca, seguiamo il canale delimitato dalle “bricole” e
giungiamo rapidamente.
Non
c’è quasi nessuno.
Non
so pensare come possa comportarsi mia madre nell’accoglierci, sono un po'
preoccupato di come reagirà vedendo lo zio, perché non c’è una grande
familiarità fra di noi.
Entriamo
in un lunghissimo corridoio, saliamo l’ampio salone:
Le
porte sono chiuse a chiave.
Ci
apre una infermiera corpulenta vestita di bianco: ci introduce in una salone
che è una grande camerata, ma non c’è ancora nessuno.
Scompare
dietro una porta chiusa a chiave.
Ricompare
subito dopo con mia madre.
La
visita ad una persona che è in situazioni di salute precarie è sempre per me
una grande pena, poiché soffro terribilmente per il dolore che colpisce
l’infermo.
Vedere
mia madre che chiede, con aria terrorizzata, insistentemente di uscire è un
tormento
“Nicheto
mi stago ben, parché go da star qua.” mi implora.
L’infermiera
che ha un cuore tenero nascosto nel suo corpo opulento cerca di quietare la sua
angoscia.
“No
la deve miga star qua tanto ancora, e po’ ghe so mi a farghe compagnia.”
La
mamma si inquieta, non è mica stupida e ragiona benissimo!
“La
staga ea qua, se ghe piase!”
E’
stato uno dei dolori che ho provato nella mia vita.
Giuro
di proteggere mia madre da quelle strutture oppressive, di fare il possibile
per tirarla fuori di lì e di garantirle per quanto possibile di vivere nella
sua casa, che è stata anche quella del nonno Nicola, e dove ci sono i ricordi
dei suoi affetti più cari.
E’
un giuramento che purtroppo ho potuto onorare solo al raggiungimento della
maggiore età.
Imparo
in quella occasione che nella vita bisogna dire anche delle bugie.
Assicuriamo
che parleremo col “dottor” per vedere di farla dimettere al più presto e
che comunque sarà questione di pochi giorni ancora.
Ritorno
a casa con l’angoscia nel cuore.
Non
vivo più a casa mia.
Sono
andato a vivere dalla zia Bice ed dallo zio Donato, perché con mia madre
all’Ospedale sono solo.
Non
percepisco la tristezza di questa solitudine perché tutto sommato trascorro una
vita normale da quasi orfano confortato dall’affetto degli zii.
Forse
c’è un filtro nella nostra mente che attenua le situazioni più angosciose.
C’è
il mio cuginetto Renzo che mi distrae, e gioco a fare il fratello maggiore.
I
miei zii hanno preso a cuore questo fardello, senza di loro dove sarei finito?
4.
Capitolo.
L’onta.
La
mamma è ritornata a casa è sta bene.
Abbiamo
ripreso la vita di sempre anche se capisco cosa vuol dire essere orfani.
La
mancanza di mio padre rappresenta una solitudine incolmabile.
Mi
sembra spesso durante il sonno di precipitare da un cielo privo di colori.
Attraverso
le nubi da altezze da vertigini.
Mi
sveglio. Sono sudato.
Sono
terrorizzato.
Voglio
chiamare aiuto. Mi accorgo che è notte fonda.
Nessuno
può darmi l’aiuto che vorrei.
Vorrei
aver un padre che mi sostenga e che mi guidi, che mi aiuti a cercare la mia
strada.
Vorrei
una madre che mi parli dolcemente, che mi accarezzi, che allevi le mie angosce.
Mia
madre è buona e a suo modo mi ama moltissimo ma, pur dandomi tutto quello che
mi può dare, io avrei bisogno di una presenza più coinvolgente.
Mi
rendo conto che devo essere padre di mia madre e di quanto sia arduo il motto “unusquisque
faber suae propriae fortunae”.
Mia
zia mi annuncia che mia madre deve recarsi in tribunale, lei è preoccupata: ha
paura che possa succedere qualcosa di spiacevole.
La
gente ha paura della giustizia.
E’
una materia per avvocati, giudici, pubblici ministeri, se si infrangono le
regole, la pena può essere dura: anche il carcere.
Le
norme sono tante, è difficile conoscerle tutte, è poi c’è la procedura, bisogna
sapersi muovere con abilità.
Io
sono giovane ed inesperto non so cosa significa interdizione né inabilitazione.
La
zia mi spiega che interdizione è un regime di tutela troppo penalizzante,
l’inabilitazione invece “No xe niente.”
Il
controllo degli atti di straordinaria amministrazione consente di impedire
dilapidazioni patrimoniali da parte di mia madre.
Tento
una inutile difesa d’ufficio.
“La
mama no spende un franco in più de quelo che serve”
Avrei
preferito non avere interessi economici da proteggere piuttosto che mia madre
sia segnata da quest’onta.
So
solo che mia madre, per essere protetta ha dovuto accollarsi le spese di
giudizio.
L’unico
effetto pratico è stato quello di assoggettare a tassazione e a costose perizie
ogni atto di gestione straordinaria del patrimonio di mia madre.
Mia
madre ha avuto sempre ben chiaro, anzi scolpito come cardine di ogni iniziativa
economica, come retaggio di una connaturata cultura piccolo borghese il culto
della proprietà immobiliare, ripete sempre “no sta vender niente, casomai
compra”
Il
giudice tutelare è un uomo dall’aspetto molto severo.
Gli
sono andato a parlare una sola volta e il solo fatto di avergli chiesto un
incontro lo ha molto infastidito.
Lo
zio Donato mi ha portato con lui per imparare il mestiere perché sa che voglio
frequentare la Facoltà di Giurisprudenza.
Siamo
andati a proporre una semplice operazione per tutelare e garantire meglio il
patrimonio di mia madre che è gestito dallo zio, dato che non ho ancora ventuno
anni e non ho la capacità giuridica per rappresentarla io stesso.
Non
riusciamo, però, a fare capire al giudice l’evidenza.
Chiediamo
semplicemente un aggiornamento della rendita dell’attività relativa alla
gestione del ristorante che dopo la morte di mio padre è passata al fratello e
che è ferma da alcuni anni.
Il
fatto che vi sia una denuncia dei redditi che afferma che l’attività è
pressoché passiva elimina per il giudice ogni discussione.
Non
si è neppure posto il problema reale del numero dei dipendenti e di dove sia
collocata l’attività.
“Ma
sior giudice xe un ristorante su la riva de fronte al pontil de Rialto”
facciamo presente.
La
gente considera tali attività delle miniere d’oro soprattutto se il locale dà
lavoro a più di quindici dipendenti.
Il
giudice si ritiene però unico depositario di una giustizia formale
sostanzialmente ingiusta.
“Si
tratta di un’attività stagionale “ sentenzia lui con durezza “ produce un
guadagno molto basso come si evince dalla denuncia dei redditi”
Il
ragionamento formalmente sul piano giuridico non fa una grinza peccato che in
pratica la storia sia diversa.
Magari
un altro giudice avrebbe mandato un accertamento fiscale o un ispettore a
verificare il comportamento di quel signore pelato e corpulento che istruisce
le denuncie dei redditi delle attività commerciali della zona e che trova
regolari i passivi denunciati.
“Forse”
mi spiega lo zio “ xe un cliente del ristorante.”
Mi
hanno spiegato poi che è possibile fare delle truffe colossali ai danni dei
patrimoni di persone che sono sotto curatela.
Basta
solo avere delle perizie che attestino un basso valore di mercato e
l’autorizzazione del giudice.
Ma
non è certo quello il caso di mia madre che conosce benissimo il valore del
denaro e che ha una vocazione naturale a difendere i propri beni da ogni
possibile proposta di vendita che non avrebbe mai sottoscritto.
5.
Capitolo.
Il trauma scolastico.
La
scelta per l’iscrizione alle scuole medie è stata particolarmente laboriosa.
I
miei spingono per l’iscrizione ad un istituto religioso che ritengono molto più
serio e formativo della scuola pubblica.
“No
i fa mai sciopero. I padri i te dà una bona istruzion.” ripete mia zia che
vuole per me un futuro da uomo istruito che possa monetizzare la sua cultura
non vedendo che qualsiasi attività legata al turismo a Venezia è una miniera
d’oro anche per gli ignoranti.
Sono
i soliti miraggi che fanno apparire le cose che non si hanno migliori di quelle
che sono lì a portata di mano.
Il
problema è l’obbligo di assistere tutti i giorni alla Santa Messa.
Sono
iscritto all’azione cattolica, per il rispetto e la grande stima che ho per Don
Biondo, che mi ha praticamente spinto ad aderire al movimento.
Non
ho, però, alcuna voglia di assistere ogni mattina alla Messa e soprattutto di
alzarmi un’ora prima tutti i santi giorni.
Ho
appena terminato le elementari dalle suore e voglio iniziare una esperienza
laica: “No so miga un basabanchi”.
Don
Biondo è il parroco di San Silvestro, da tempo immemorabile, nella mia memoria
di fanciullo.
Non
so se è perché ha conosciuto mio nonno, che è sempre stato generoso con le
attività della parrocchia, o perché è una brava persona, molto probabilmente
per tutte e due le cose, ma è molto caro.
Don
Biondo è una di quelle persone che non perdono mai di vista il loro ruolo di
maestro ed educatore.
L’educazione
cattolica dei suoi giovani parrocchiani gli è sempre stata molto a cuore, per
questo mi ha consigliato di proseguire gli studi in una scuola cattolica, che
vanta le migliori tradizioni a Venezia.
Non
ho, al solito, ascoltato nessuno e ho preteso l’iscrizione alla Scuola Media
Statale.
Ho
vissuto una anno angoscioso.
Sono
stato letteralmente terrorizzato dalla professoressa di lettere.
Si
piazza a fianco della cattedra con fare militaresco, tiene i pugni piantati sui
fianchi quasi debba andare in battaglia.
Mi
angoscia, mi fa sentire come l’ultimo degli imbecilli.
Non
ha studiato, evidentemente, il metodo Montessori!
Con
la professoressa di matematica è tutto diverso; lei è una persona gentile mi
riabituo, nelle sue ore, ad essere trattato come una persona normale.
La
professoressa di lettere mi ha rimandato in italiano ed in latino.
Essa
pensa, inoltre, che io sia un piccolo delinquente.
Il
tutto perché mi sono fatto fare una giustificazione, dopo un’assenza per
malattia, per non essere interrogato in italiano e poi preso da angoscia l’ho
cancellata.
La
cancellatura è avvenuta coll’assenso di mia madre che l’ha firmata.
“Lei
si rende conto di quello che ha fatto” mi dice in un perfetto italiano che
rende la reprimenda ancora più gelida ed incomprensibile. Io ho solo detto alla
mamma che la giustifica sarebbe stata controproducente.
Questo
episodio ha segnato l’inizio della mia carriera scolastica alle medie
inferiori, in modo traumatico.
La
professoressa è convinta che la giustificazione l’abbia firmata io e che quindi
per questo sono un piccolo delinquente che falsifica le firme.
L’episodio
mi è rinfacciato a più riprese con una sorta di sadismo.
“Ah
sei tu quello della giustificazione falsa” dice col suo ghignetto satanico che
incute un timore reverenziale ogni volta che mi chiama facendomi sentire un
malfattore.
Non
lo ritengo un buon metodo educativo.
Il
fatto che sono orfano di padre deve essere sembrato un’aggravante a quella
santa donna.
Forse
secondo lei devo impegnarmi di più a scuola.
Io
do il massimo, ma non è mai sufficiente per lei.
Sicuramente
sono un po’ permaloso e non sopporto quel clima intimidatorio.
La
morale è una sonora bocciatura in italiano e latino.
Sono
rimandato e se non supero gli esami a settembre sono bocciato e devo ripetere
l’anno.
Allora
va così.
La
promozione bisogna sudarla.
Non
ci sono sconti per nessuno o si passa in tutte le materie o per una sola
insufficienza si ripete l’anno scolastico.
La
scuola non è formativa ma selettiva.
Passa
chi ha studiato.
Magari
chi ha più aiuti di tipo culturale, chi può garantirsi colle ripetizioni una
migliore preparazione.
Guardando
il tabellone degli scrutini mi convinco che devo uscire da quella scuola, devo
scappare da quel nemico che gioca con me come il gatto col topo.
Non
ho mezzi per difendermi, devo solo subire questo accanimento didattico che sta
diventando una vera e propria persecuzione.
Me
la sogno fin di notte la professoressa che col ghignetto satanico mi affronta
col dito accusatore puntato “Dì la verità – mi intima – l’hai firmata tu la
giustificazione e poi pentito la hai cancellata”.
“Si
è vero!” confesso nel sogno “ Sì è vero sono stato io: mi arrendo”.
6.
Capitolo.
L’istituto dei preti.
“El
mondo xe grando” dico a me stesso “Se vogio vinser go da lassar perder”.
Non
posso lottare contro un avversario che può colpirmi e umiliarmi quando vuole.
Cerco
altre strade.
Purtroppo
ho dovuto rendermi conto sin da allora che le strade della vita sono piene di
gente che preferiresti non incontrare ed il cui unico scopo è quello di
ferirti.
Ho
cercato rifugio sotto il mantello protettivo della scuola religiosa.
Mi
sono immediatamente convertito al credo più integralista.
Vado
a messa – è obbligatoria - tutte le mattine.
Devo
svegliarmi mezz’ora prima! Un piccolo dramma, ma mi abituo subito.
Passa
a prendermi Roberto che è più mattiniero di me. Quando arriviamo in Fondamenta
del Vin se siamo puntuali il bateo ha appena attraccato al pontile di
Rialto e, con tutta calma, possiamo arrivare prima di lui al pontile successivo
di san Silvestro.
Se
invece è appena partito c’è da decidere in fretta se fare una corsa per
acciuffarlo al volo o se andare a piedi.
In
tal caso attraversiamo il Ponte di Rialto, passiamo la Fondamenta del Carbon,
dopo avere percorso una serie di calete
sconte corriamo per tutto il Campo Santo Stefano facendo il rituale inchino
alla statua di Nicolò Tommaseo detta familiarmente “Cagalibri”. Lo
scultore Sebenico ha posizionato una pila di volumi, che rappresenta la corposa
produzione letteraria dello scrittore, proprio sotto il suo augusto sedere.
Raggiunto
il Ponte dell’Accademia la scuola è a due passi e, se riusciamo ad arrivare
prima che il vaporetto attracchi al pontile, possiamo tirare il fiato.
Solo
così siamo sicuri di entrare prima che il Padre Preposto esca dal suo ufficio
per fermare chi si permette di arrivare in ritardo e per fargli la rituale
ramanzina.
I
padri, l’anno precedente, mi hanno accolto con amore nel loro convitto estivo
sui colli trevigiani per un corso di preparazione agli esami di riparazione. Mi
piace il loro stile: severo sì, ma misurato e con un profondo amore per i
giovani allievi.
Mi
piace la tranquillità di padre Marino, ha un sorriso dolce, forse non è un
grande latinista, ma alle medie può bastare.
In
seconda media mi sono iscritto al loro istituto veneziano.
La
frequenza alle lezioni comporta anche l’obbligo di far parte di quell’enorme coro che affolla tutti i
giorni la chiesa annessa alla scuola.
E’
un coro formato da più di trecento giovani.
L’interpretazione
che quell’orda di ragazzi dà del canto gregoriano è tutta particolare. La
rappresentazione perde sicuramente nella sua carica ascetica, ma acquista di
certo in potenza ed entusiasmo.
In
terza media seguo le lezioni di padre Paolon.
E’
piccolo, tozzo, pelato e con la faccia rubizza. Quando si innervosisce le
giugulari si gonfiano e il viso diventa paonazzo.
Ha
il cipiglio del militare. E’ stato cappellano sul Grappa durante la seconda
guerra mondiale.
La
sua severità è solo superficiale, in fondo ha un grande cuore.
Sono
entusiasta della scuola religiosa, rimango per tutto il liceo classico
all’Istituto.
Al
liceo trovo nuovi amici e nuovi insegnanti.
Padre
Perri, col suo fare indagatore, è il professore di storia e di filosofia; è
l’insegnate più teorico e profondo.
Padre
Mazzobon è l’insegnante di Lettere.
E’
il più autoritario e il più determinato.
Ha
forse qualche vuoto nella sua cultura che gli abbiamo fatto subito pagare.
Malauguratamente
una volta, infervorato nello spingerci a consultare testi nuovi in Biblioteca,
Padre Mazzobon sbaglia una citazione.
“Andate,
andate a consultare l’Attilio Regolo di Shakespeare” dice una volta in classe
durante una dotta citazione nella lezione di letteratura italiana.
Non
l’avesse mai detto.
Gli
studenti più diligenti vanno effettivamente in Biblioteca a cercare l’opera.
La
spedizione ha un effetto sorprendente perché scopre che quel testo non è mai stata scritto da
Shakespeare.
Gli
allievi sono perfidi, il loro sport preferito consiste nel cercare di cogliere
in fallo l'insegnante.
Un
professore non può permettersi di commettere errori con loro perché se è
scoperto sono guai.
A
Padre Mazzobon non è mai stata perdonata quella improvvida citazione.
Tutta
la scolaresca ride di nascosto ogni volta che cita qualcosa ricordando la
cantonata sull’Attilio Regolo.
Io
ricordo, invece, con grande ammirazione quell’insegnante poiché mi ha
giustamente spinto ad imparare qualcosa in più della lezioncina del giorno
dopo.
Se
non ci fosse stato lui a sollecitare un’apertura nello studio non avrei
frequentato la Querini Stampalia o la Marciana.
E’
il più attento al percorso formativo. E’ lui che ci spinge a non fermarci sui
libri di testo scolastici e ad andare in biblioteca ad approfondire le materie
che più ci interessano .
Inizio
a frequentare la Biblioteca Marciana e la Querini, fondata dal conquistatore di
Stampalia. L’isola dell’Egeo è stata occupata dal patrizio veneziano all’inizio
del duecento con un gruppo di nobili. Essi hanno condotto in tal modo tutto
l’Egeo sotto la sfera di influenza veneziana.
Comincio
a consultare qualche libro al di fuori dalla cultura meramente scolastica.
A
casa mia non c’è una libreria particolarmente fornita.
Mi
diverto in biblioteca a consultare le
opere sui pittori veneti del quattro-cinquecento o i cataloghi delle grandi
mostre veneziane degli anni trenta su Tiziano, Tintoretto e Veronese.
Padre
Mazzobon è anche professore di storia dell’arte.
“Mi
commenti questa figura” interroga scrivendo sempre degli appunti nel registro
di classe.
Ascolta
sicuramente una parola su tre.
L’abilità
dell’interrogato, anche se non ha studiato nulla, è quella di improvvisare
qualcosa, di dire tutto quello che viene in mente sull’opera da commentare,
questa sì che è una bella scuola di vita.
Leggo
i testi delle commedie di Carlo Goldoni specchio della tranquilla società
veneziana del settecento che vive senza slanci di conquista gli ultimi anni di
gloria della Repubblica del Leone che ha oramai rinunciato al suo ruolo storico
di grande potenza europea.
Leggo
le liriche di Maffio Venier e Veronica Franco, la cortigiana veneziana
apprezzata in tutta Europa.
Scopro
che Veronica è stata talmente famosa ai suoi tempi come poetessa e femme des
lettres che quando re Enrico III di Francia si reca nel 1574 a Venezia per
una visita di Stato – si era negli anni successivi al grande trionfo della
Serenissima Repubblica di Venezia a Lepanto – esige una notte tutta intera da
dedicare completamente al piacere di restare in privato con lei.
Le
liriche in quegli anni sono considerate molto osé.
Riesco
a trovare l’edizione pubblicata nel 1956 da Neri Pozza in tre volumi “Il fiore
della lirica veneziana.”
L’editore
ha titolato un volume “Il libro chiuso di Maffio Venier” (La tenzone con
Veronica Franco) per richiamare alla cautela i lettori in rapporto al
linguaggio, considerato lubrico, delle composizioni riportate.
Gli
insegnamenti di vita di Padre Mazzobon sono di grande saggezza.
“La
vita è come il corso di un fiume” dice.
“Il
fiume fa delle anse e i più pigri si adagiano sulla prima di quelle curve;
qualche altro si ferma solo dopo la seconda.
La
maggior parte degli uomini si ferma lì senza fare alcuna fatica e si lascia
cullare dalla corrente.
Sono
pochi i più coraggiosi che rischiano, si tengono nel mezzo del fiume e si
lasciano trasportare per andare più lontano lottando con i gorghi e rischiando
gli eventuali imprevisti che la corrente della vita ti riserva.”
Il
professore di latino e greco è il più meticoloso.
E’
Padre Antonio detto Folpo.
Non
ho mai capito perché lo chiamavamo così.
Mi
ha sorpreso una volta mentre sto copiando da un foglietto il compito di greco.
Giuro.
E’ stata la prima e l’unica volta che ho copiato durante una prova scritta
nella mia vita.
Non
sono mai stato capace di copiare, mi ingarbuglio nell’estrarre dalla tasca i
fogliettini, divento rosso mentre li sto consultando.
Non
sono bravo come Vil che, realizzata una poderosa linea Maginot con delle pile
superbe di libri, è capace di consultare un’intera biblioteca senza che nessuno
se ne accorga.
Lo
strano è che tutti copiano ed il professore non ha mai notato nessuno!
Forse
mi ha beccato per ripagarmi di un gesto di stizza che ho fatto quando mi ha
mandato fuori dalla porta della classe come punizione perché, secondo lui,
disturbavo.
Morale:
sono andato ad ottobre in greco in prima e seconda liceo.
L’unico
di tutta la classe rimandato in greco. Forse un castigo esagerato!
Padovano
è uno dei chierici che seguono le lezioni con la nostra classe.
E’
un ragazzo di campagna che ha scelto di seguire la via del sacerdozio come
tanti figli della terra veneta.
Chissà
se è una vocazione maturata nella convinzione più profonda o se la scelta è
dovuta alle dure condizioni di vita nelle campagne.
E’
con lui che c’è stato un scambio di bigliettini durante quel fatale compito di
greco.
Ad
essere rimandato sono stato solo io.
Devo
riconoscere, però, che lui ha una grossa volontà e sicuramente studia più di me
.
La
promozione se l’è meritata sicuramente anche con quel peccato veniale.
L’insegnante
di matematica è Padre Riccardo detto el
Boca.
Secondo
il giudizio di generazioni di studenti lui non mantiene quello che promette.
Forse
perché qualche volta ha promesso di portare la classe a vedere il suo
laboratorio e poi si è rimangiato la promessa ed ha magari interrogato per
tutta l’ora.
Il
Padre è un ricercatore.
Egli
si ritira dopo la scuola nel suo studio.
In
realtà si tratta di un Osservatorio sito nella parte più alta dell’edificio
dove sono istallati i suoi strumenti per verificare giornalmente temperature e
umidità.
I
dati raccolti confluiscono in un bollettino regolarmente pubblicato.
Secondo
me una cosa noiosissima, per lui invece questa ricerca è molto divertente.
Per
farlo felice basta chiedergli di potere visitare la sua postazione.
Lui
è contento come un ragazzino quando gli si manifesta questo interesse.
Basta
non disturbarlo e seguirlo nei suoi interessi scientifici.
E’
la persona più buona e gentile che si possa trovare.
Padre
Bertolotto è il più giovane degli insegnanti.
Insegna
Italiano al liceo.
E’
il più vicino a noi ragazzi come età.
Ricordo
il suo impegno nel preparare le lezioni, penso studiasse più lui di noi,
sicuramente più di me.
Non
sono mai stato bravo in italiano.
Non
ho mai cose da dire, nulla da raccontare.
Nei
temi sono un vero disastro.
Per
cercare di arrivare alla sufficienza negli scritti, almeno nei compiti a casa,
vado a ripetizione dalla signorina Giulia.
Lei
mette tutta la sua capacità didattica, ma insiste a correggere le mie tracce
invece di svolgere ex novo l’argomento. La professoressa avrebbe impiegato
meno tempo ed io avrei, magari, raggiunto la sufficienza.
Con
le correzioni della signorina Giulia arrivo al massimo al cinque e mezzo.
Non
ho proprio idee né lo stile entusiasma Padre Bertolotto.
Da
vecchi si cambia, almeno spero.
Devo
a Padre Bertolotto sempiterna riconoscenza se la mia vita ha preso un certo
corso.
E’
stato lui, infatti, a dare informazioni – immagino positive - sul mio conto
alla famiglia della mia futura sposa.
Il
Padre mi vide una volta che ero tornato all’Istituto per salutare i miei vecchi
maestri.
“
Ah, ah Nicola” mi dice “ ho avuto una richiesta di informazioni su di te. Sta
tranquillo ho detto che non sei un Manzoni, ma che sei un bravo ragazzo”.
Ti
devo ringraziare ancora Padre Bertolotto per la tua fiducia in me.
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