1.
Capitolo.
La cripta di S. Omobono.
L’indomani
c’è la cerimonia.
Il
celebrante è Don Artemio: un sacerdote che non ha paura di nessuno.
Lui
è canonico della cattedrale di Cremona.
L’ho
sentito predicare qualche volta e sono incuriosito dai suoi interventi.
Spesso
si arrabbia con i ritardatari che entrano in Duomo a funzione iniziata.
“Se
non avete tempo per il Signore, state a casa vostra" tuona.
Raccontano
che una volta abbia fatto chiudere le porte della chiesa per impedire ai
ritardatari di entrare.
“Voi
mamme che portate alle funzioni i bimbi più piccoli sappiate che siete
dispensate dal precetto festivo!” sentenzia non sopportando il disturbo creato
dai più giovani credenti.
“State
pure a casa” continua dimenticando l’invito evangelico rivolto ai piccoli
Il
suo rispetto per la forma è sicuramente corretto, ma forse eccessivo.
Non
è certo una persona accomodante!
Don
Artemio è amico di famiglia è quindi non c’è molto da discutere: è lui il
celebrante delle nostre nozze.
Solo
che, essendo amico dei genitori della sposa, Don Artemio non ci conosce affatto.
Il
giorno delle nozze c’è qualche problema da risolvere.
Per
esempio come fa lo sposo ad arrivare in chiesa soprattutto se non possiede una
macchina di rappresentanza.
La
mia mini minor mille è giudicata non adatta.
E’
la vettura che sono riuscito a fare accettare ai responsabili del garage
comunale di Piazzale Roma dopo una laboriosa trattativa.
Un’automobile
più lunga di un solo centimetro mi avrebbe costretto a parcheggiare a Mestre.
“Tu vai in chiesa utilizzando la macchina più
rappresentativa del Professore” risolve subitamente l'enigma la Titti.
A
lui quel giorno non serve perché è impegnato ad accompagnare la sposa con l’auto
di lusso noleggiata per l’occasione.
Sono
abituato a guidare la mia mini con una certa difficoltà perché i veneziani che
non lavorano in terraferma la macchina la usano al massimo la domenica. Mi
manca la consuetudine alla guida.
L’idea
brillante di Titti è che devo guidare io perché con la toilette di gala
e soprattutto indossando un enorme cappello nero con un fiore rosa piazzato al
centro della tesa ha delle obiettive difficoltà.
In
ogni caso la madre non guida il giorno delle nozze della figlia.
Sul
punto è irremovibile pur sapendo che corro consapevolmente il rischio di un
tamponamento.
E’
stato il viaggio più breve e più tormentato della mia vita.
Sono
stato costretto a guidare il macchinone di mio suocero nelle stradine più
nascoste e segrete della città che portano in Duomo in una gimcana infernale.
“
Sta attendo è meglio che non ti notino” mi suggerisce la Titti. “Non sta bene guidare nel giorno delle nozze
una macchina di altri”.
Sant’Omobono
mi ha fortunatamente protetto in questa avventura ed ho tratto un felice
auspicio da quell’inizio.
La
cripta è di solito chiusa.
E’
aperta il tredici novembre per venerare la ricorrenza della morte del Santo
Omobono.
Il
protettore della città è sepolto lì con altri illustri religiosi.
Il
luogo di sepoltura mal si concilia con la ricorrenza di festa e di gioia di
vivere delle nozze.
“In
cripta ghe xe i morti” mi ricorda la zia Bice che è leggermente
superstiziosa.
Un
testimone non si è presentato all’inizio della funzione.
Il
primo tempo della cerimonia ha avuto così una riserva: lo zio Alberto felice di
potere prendere un posto che riteneva suo di diritto.
Lo
zio Alberto è il fratello scapolone della Titti.
Alberto
è l’esatto contrario di Giovanni.
Robusto,
gode la fama di un’ottima forchetta, sedentario, non ha mai praticato lo sport,
appassionato di storia, se gli capiti a tiro, ti racconta nei minimi
particolari come si svolsero le battaglie della seconda guerra mondiale,
rischiando d’essere un po’ pedante.
La
Titti gli ha presentato, invano, una lunga serie di signorine di ottima
famiglia, ma finora non ha mai voluto sentire parlare di matrimonio anche se si
vede che ha una grande considerazione per la famiglia.
Non
perderebbe mai una riunione del parentado.
Sta
aspettando il grande amore!
Ha
tenuto brillantemente la posizione.
A
malincuore ha dovuto accettare la sostituzione per l’arrivo, dopo pochi minuti,
del titolare.
L’ignaro
è arrivato in ritardo non sapendo della possibile filippica che l’avrebbe
investito, solo che Don Artemio fosse stato in vena di polemiche.
Don
Artemio, che si accorge di tutto, quel giorno non si è curato di tale inezia,
ritenendola irrilevante.
2.
Capitolo.
Viva gli sposi.
“Viva,
viva i sposi” grida la Germana . E’ stata la tata giovane di Gio ed ha solo
pochi anni più di lei.
Il
grido è l’inizio della battaglia a manciate abbondanti di riso in segno di
fertilità.
Il
sagrato è pieno di chicchi di riso e mette allegria.
Una
leggera pioggerella dispettosa non ci impedisce di essere felici.
“Sposa bagnada, sposa fortunada” ricorda
mia madre con la saggezza degli antichi.
C’è
una sorpresa.
Il
Professore ha deciso che andremo al Ristorante in barca
La
vita è un viaggio. Cominciare la vita matrimoniale con un viaggio sul Po la
trovo un’idea augurale.
Il
ristorante è sito in località Isola Serafini. E’ una costruzione affacciata sul
Po.
Andare
in macchina è banale, da qui l’idea geniale di noleggiare un battello che ci
porti tutti a destinazione.
Poi
si torna in autobus.
Cremona
vive sul Po e deve gran parte del suo fascino al grande fiume.
Lo
stesso sviluppo della città è condizionato dalle modifiche del corso del fiume
che prima scorreva fin sotto il Duomo ed ora dista circa un chilometro dal
centro.
Il
fiume di norma corre tranquillo, ma può essere violento e, nei periodi di piena,
ruggire sotto gli argini fino a travolgerli.
Il
Po in occasione delle piene invernali, quando la pioggia ingrossa le acque, può
scatenare la sua violenza sulle parti golenali della città e nelle campagne dei
comuni confinanti che non sono protette dall’argine maestro.
La
natura quando vuole si riprende quello che l’uomo ha voluto sottrarle.
Quel
giorno il Po è stato straordinariamente dolce.
La
leggera pioggia primaverile non ha disturbato il viaggio sul battello.
L’aria
è tiepida; la motonave scende tranquilla a favore di corrente.
Spero
che la mia vita possa scorrere con Gio come oggi l’acqua del grande fiume.
Ci
sono giorni burrascosi e spesso il vento soffia contrario ed increspa le onde.
In
quei giorni è persino difficile scendere
a valle a favore di corrente.
Basta,
però, avere il coraggio di resistere che poi il corso torna normale.
Alla
fine è necessario avere pazienza e fiducia.
Gli
invitati sono tutti contenti.
“Auguri
di una vita di felicità agli sposi.” esclamano brindando.
Il
ristoratore è un ex contadino dall’aria furba che ha stregato il professore con
il suo pesce fritto.
Il
locale è accogliente; c’è una simpatica atmosfera di paese.
“Magna
e bevi che la vita xe un lampo.” suggerisce mia madre.
Sa
che tornerò a vivere a Venezia ed è felice.
Il
giorno di festa ha tolto dalla mente le preoccupazioni quotidiane.
3.
Capitolo.
Venezia, Venezia.
Tornare
a vivere a Venezia.
Lavorare
a Venezia.
Essere
sposato a Venezia.
Mi
sembra quasi impossibile, la parentesi milanese è finita ed ora bisogna
rimboccarsi le maniche.
E’
la legge della vita: dopo lo studio viene l’impegno del lavoro.
Per
fortuna che il nonno Nicola ha lavorato anche un po’ per figli e nipoti.
La
vita è un po’ più facile con qualche possibilità economica in più.
Ho
la possibilità di trovare casa immediatamente .
Un
appartamento di proprietà del nonno si è liberato proprio in quel periodo.
Per
noi due l’appartamento è appena sufficiente.
Prima
ci abitavano un po’ stipate cinque persone.
Un
bel privilegio avere qualcuno che si è preoccupato per te.
La mia ammirazione per il nonno aumenta.
Se
non hai problemi economici litighi meno e sei più sereno.
Mi
ricordo che Marta la figlia di Mimmo ha una abilità particolare nell’arredare e
collabora anche con alcune riviste.
L’interpello.
Arriva
subito con il suo entusiasmo mentre sono intento a completare il restauro di
una vecchia cappa aspirante.
Ristrutturare
quella vecchia abitazione per me è un grande piacere; è una sorta di malattia
del mattone che mi ha trasmesso il nonno Nicola.
L’imprenditore
edile Ragasso è un vecchio volpone.
E'
riuscito a convincermi a realizzare un caminetto in cucina che probabilmente
non utilizzerò mai. Rifornirsi di legna a Venezia è diventata un’impresa
pressoché impossibile.
Bruciare
legna è stato vietato dalla legge speciale.
La norma impedisce ogni forma di inquinamento
dopo che le industrie hanno già fatto il massimo a Marghera.
L’appartamento
è al primo piano.
Manca
la luce perché la calle dove è sito è stretta ed il sole deve insinuarsi con
difficoltà tra le abitazioni.
La
meravigliosa luce del sole, che poco si apprezza quando si vive in spazi
aperti, fa capolino solo quando l’astro lucente è a picco nel cielo.
Marta
non ha dubbi.
“Se
manca la luce non importa facciamo un appartamento dove regna la luce
artificiale” dice sicura.
Le
ho già inviato le mappe dell’abitazione e descritto le caratteristiche
dell’appartamento.
Marta
si è data subito da fare e ha realizzato dei bozzetti colorati che illustrano il
futuro arredamento della casa.
“Lo
dipingiamo di rosso e di bianco. Facciamo fare i mobili laccati su misura e
mettiamo la moquette” rosso veneziano propone decisa
L’effetto
è sicuramente garantito.
L’appartamento
riscuote un grosso successo per l’originalità.
Il
bianco ed il rosso veneziano sono proposti orizzontalmente.
Quei
colori contrapposti creano un suggestivo effetto che si sposa con mensole e
mobili, laccati in marrone scuro lucido disegnati su misura.
La
carenza di luce, comunque, rimane un fatto molto negativo .
Chi
visita la casa per poche ore avverte poco la sensazione sgradevole che dà la
mancanza prolungata del sole.
Il
disagio è percepito poco anche da noi che abitiamo perché durante il giorno non
ci siamo.
Non
ho capito se i complimenti ricevuti da amici e conoscenti per l’arredamento
della nostra nuova abitazione siano sinceri.
Di
solito le persone per convenienza o per educazione non dicono quello che
pensano.
Se
uno dice quello che gli frulla nel cervello senza alcun filtro preventivo
spesso rischia di non essere apprezzato e di fare la figura del maleducato.
Bisogna
essere un po’ falsi e compiacenti non solo con i potenti ma anche con le
persone normali.
Dire
la verità può crearti un sacco di inimicizie perché può essere scambiata per
scortesia.
La
sincerità spesso è considerata un difetto, non una virtù, e crea un sacco di
problemi.
4.
Capitolo.
Il Ballottino.
Cremona
è adagiata in riva al Po.
La
città è legata indissolubilmente al fiume nel bene e nel male.
Dal
corso d’acqua e dal sistema dei canali irrigui l’agricoltura trova la sua
ricchezza.
A
volte nei momenti di piena Lui, come lo chiamano i contadini della bassa, incute
paura.
Quando
le acque si ingrossano, il fiume esce dagli argini e allora son dolori per
quelli che lo hanno voluto sfidare da vicino.
Gli
argini sono stati costruiti sempre più imponenti
nel tentativo di proteggere le terre che alle acque sono state strappate per soggiogarle
ad una urbanizzazione dissennata, ma non bastano mai.
Una
difesa, che si rompe per caso o perché qualcuno ha preso pale e picconi per
proteggere i suoi campi contribuendo a fare riversare altrove le acque, un
fontanazzo, che si apre, un canale di irrigazione che tracima perché non è
stato pulito a dovere, sono fatti sufficienti perché le acque con un rombo
assordante allaghino cascine e terreni.
Il
Professore è uno dei tanti che, incuranti dei ritmi naturali, sono desiderosi
di potenziare le proprie attività coltivando anche in golena.
Il
Ballottino è un’azienda agricola posta in una località che l’uomo da sempre
contende alle acque.
E’
impensabile che in zone intensamente popolate si trovino terreni dove a distesa
d’occhio non si vedono abitazioni o strutture agricole.
Dopo
avere attraversato ordinati campi coltivati si arriva all’ultimo argine prima
del Po.
Bisogna
ancora proseguire all’ombra degli ultimi solitari pioppeti prima di arrivare.
Gli
unici compagni che incontri nel solitario cammino sono i corvi, che fanno buon
pasto del mais appena seminato osservandoti a debita distanza, i fagiani, che
si rifugiano paurosi nelle boschine, e le lepri, che scappano via zigzagando al
primo rumore.
Eccoli
i sabbioni maestosi e deserti del grande fiume.
Il
piede affonda in una sabbia fine, sembra di camminare su lidi lontani ed invece
siamo a due passi dalla città.
Un
angolo di paradiso incontaminato a qualche chilometro da Cremona.
Il
Professore ha acquistato queste terre ed ha deciso di ritornare alle tradizioni
agricole della sua famiglia.
Incurante
dei consigli di tutti quelli che hanno il giusto rispetto del fiume ha
realizzato una mega stalla a due passi da un primo argine che il più delle
volte riesce a fermare l’impeto delle acque, ma è ancora lontano dalla protezione
dell’argine maestro.
Giancarlo
è un agricoltore della bassa dalla faccia larga e le mani enormi aduse al
lavoro nei campi.
E’
un grande mangiatore, un intrepido
bevitore, un incallito amatore, un divertente narratore di barzellette e di
storie della gente del fiume.
Giancarlo
è uno degli amici veri che anche a costo di ricevere qualche insulto ha cercato
invano di fare capire al Professore che, quando il fiume si scatena,
quell’argine non è una difesa sufficiente.
Lui
era lì quando il Po ha rotto gli argini in Polesine e tanti hanno dovuto
abbandonare cascine stalle e animali, perdendo tutto quello che avevano
realizzato con lunghi anni di fatiche.
Il
Professore è convinto che quello che è capitato agli altri non necessariamente
debba capitare anche a lui e va avanti imperterrito nel suo progetto di
realizzare una azienda modello con una stalla imponente che tutta la provincia
deve ammirargli.
L’ambizione
è una cattiva consigliera soprattutto se non hai nessuna intenzione di
ascoltare le opinioni diverse dalle tue.
La
voglia di essere il più grande, il più bravo, è una molla che ti spinge a fare
le cose più insensate.
La
stalla più imponente è realizzata in un battibaleno.
Con
essa nascono anche i problemi finanziari, di gestione del personale e delle
vendite.
Sono
questioni difficili da affrontare come secondo lavoro.
Non
fidandosi di nessuno, il Professore gestisce tutto da solo facendosi aiutare
dalla Titti che non sembra né un manager affidabile né ha particolari vocazioni
agresti che la tengano lontana dalle molteplici occasioni di svago della città.
Il
professore ha fatto costruire vicino alla casa patronale del Ballottino una
Cappella dedicata a Santa Aurelia a ricordo di sua madre.
E'
una costruzione semplice impreziosita dagli affreschi realizzati dagli Osmin.
Carlo
e Lucia Osmin sono due pittori polacchi amici di famiglia.
Lui
è piccolino magrolino dagli occhi chiari ed intensi.
Lei
è piccolina grassottella dagli occhi furbi e complici.
In
Polonia la vita è dura; qui in Italia gli artisti hanno scoperto oltre che
l’arte, la cultura ed il sole anche l’abbondanza.
Soprattutto
Carlo non nasconde il suo entusiasmo nel vedere i negozi pieni di merci ed ama
mangiare anche per soddisfare la fame accumulata nei giorni più neri in cui è
stato costretto fare la dieta.
Nikita
Kruscev ha innescato al XX Congresso del partito comunista, che si tenne nel
1956 a Mosca, un ritorno alla legalità socialista.
Quella
svolta nella politica estera sovietica aveva portato in Polonia un po’ di libertà in
più, ma il benessere era ancora lontano.
“Molto
mangiare in Italia. Bene. Negozi pieni di tante cose. Polonia no: vuoti. Non
c’è niente da comperare” ripete sempre soddisfatto, col suo italiano
stentato, quando si siede a tavola.
Nel
Professore i due polacchi hanno trovato uno splendido mecenate che ha
commissionato loro gli affreschi per la Cappella.
Sull’abside
è stata rappresentata l’ultima cena.
Secondo
la migliore tradizione il Professore è stato posizionato con la Titti, quali
committenti, a fianco del Cristo nell’atto spezzare il pane dell’ultima cena.
Io
e Gio siamo stati ritratti dietro in piedi fra gli altri invitati per
un’iniziativa spontanea di Carlo.
Abbiamo,
infatti, invitato la coppia a cena in uno dei suoi frequenti viaggi a Venezia.
Pur
non essendo mecenati siamo stati immortalati anche noi, per simpatia,
dall’amico polacco.
L’improvvisata
e non programmata nostra presenza nell’affresco ha suscitando un piccolo dramma
familiare perché erano state dimenticate nell’affresco le altre due sorelle.
Carlo
da grande diplomatico abituato a barcamenarsi tra l’incudine ed il martello lo
ha risolto prontamente sostituendo due componenti immaginari della cena e garantendo
così alle due obliate un posto al sole fra i commensali.
L’affresco
troneggia al centro dell’abside della chiesa e riempie le pareti a celebrare le
glorie della fede con la rappresentazione della natività e della fuga in
Egitto.
Carlo
rappresenta i suoi personaggi imprigionandoli in schemi geometrici immersi in
uno spazio irreale privo di ogni rappresentazione paesaggistica.
Sono
personaggi fuori dal tempo calati nell’eterno.
Questa
Cappella mi è molto cara.
Qui
è stato celebrato il battesimo di Nicoletta e di Paolo.
Le
domeniche è sede dei nostri incontri familiari.
Siamo
riuniti nell’ascolto della parola di Don Mario.
Interprete
della parola di Dio, Don Mario è un mite sacerdote di campagna dalla faccia
buona dal sorriso amabile e cordiale che fa partecipare ai riti tutta la
famiglia invitando i vari membri alle letture sacre.
Ascoltare
la messa nella quiete della campagna nella chiesetta frequentata solo dai
proprietari e dai pochi lavoratori agricoli rimasti è molto suggestivo.
La
Baccana col suo faccione rubicondo e colla sua voce stridula è sempre lì tutte
le domeniche a disposizione delle necessità del rito.
I
bergamini tailandesi, invece, mantengono la loro religione e non si fanno
vedere.
Le
domeniche al Ballottino trascorrono pigre.
La
vita del proprietario terriero è un po’ monotona.
In
azienda bisogna starci il più possibile per affermare con la presenza il
possesso di quelle terre lontane dalla vita concitata delle città.
Per
pagare i mutui l’azienda è stata venduta.
L’Isi
è stata battezzata, come i comuni mortali, nella parrocchia cittadina.
Le
banche come al solito si sono mangiati i risparmi di chi non valuta i costi
degli investimenti in rapporto alla capacità di ricavare dei guadagni.
Se
incassi meno di quello che ti costa l’investimento non sei un buon
imprenditore.
Anche
dopo la cessione della tenuta gli affreschi sono rimasti a ricordare la
devozione o forse la voglia di grandezza del loro mecenate.
Quegli
affreschi li ho nel cuore. Ricordano l’amicizia di due straordinari artisti
polacchi e mi consegnano, a imperitura memoria, ai posteri.
5.
Capitolo.
Professionista o impiegato.
Non
ci metto molto a capire che l’attività appena intrapresa non mi garantisce
alcuna possibilità di carriera .
L’Associazione
territoriale ha una struttura ridotta al minimo e il mio inquadramento è già il
massimo cui io possa aspirare in quella organizzazione.
Mi
rendo conto che nel mondo del lavoro non conta solo sapere svolgere gli
incarichi che ti vengono affidarti.
L’aspetto
professionale, soprattutto nel lavoro dipendente, non è decisivo per scegliere
il collaboratore.
Questo
deve essere principalmente un buon esecutore, non deve porre troppi problemi,
non deve spingere troppo le sue velleità di carriera, deve tenere conto degli
equilibri che si sono cristallizzati nel tempo.
Certi
fascicoli è meglio che li guardi solo il preposto; è meglio non farsi vedere
troppo invadenti. Bisogna stare al proprio posto.
Come
è meglio non cercare rapporti troppo privilegiati con chi ha la gestione
politico-amministrativa degli uffici.
Se
uno si muove senza la necessaria discrezione può risultare sgradito al grande
capo.
I
rapporti diretti e confidenziali sono riservati solo alle alte sfere; non
devono essere messi in discussione con inopportuni confronti.
Esaurito
il bisogno elementare di trovare delle risorse economiche per la mia famiglia,
è subentrata l’esigenza di trovare nel lavoro degli interessi sempre più
stimolanti.
Continuo,
pertanto, a prepararmi per dare l’esame di procuratore legale.
Chissà
che superarlo mi porti a scegliere un’attività professionale tutta mia?
Perché
privarsi della possibilità di sognare prospettive nuove e di ricercare
incarichi più interessanti?
Se
ti manca il sogno, la realtà si immiserisce in una routine priva di voli
pindarici, troppo stretta anche per le mie piccole ambizioni.
Il
primo concorso pubblico cui ho partecipato è stato quello per l’abilitazione
all’esercizio della professione legale.
E’
stata dura, ma ce l’ho fatta studiando nei ritagli di tempo ed affrontando
tutte le questioni lavorative con la massima professionalità e documentazione.
Sono
felice come una Pasqua.
Mi
voglio licenziare subito dalla Associazione per intraprendere la professione
legale.
Sono
un giovane procuratore rampante desideroso di trovare la mia strada.
Ho
già trovato uno studio di prestigio che mi accoglie volentieri per seguire
tutte le domiciliazioni che gli sono affidate dagli avvocati di Provincia.
La
cosa sembra fatta.
Le
stelle però mi sono troppo favorevoli e ricevo una ulteriore offerta di
assunzione da parte di una Società privata di enti pubblici che si occupa di
edilizia.
Decidere
da che parte stare è sempre una cosa complicata.
Una
semplice decisione può dare una svolta decisiva al tuo modo di vivere.
Opto
per la strada più semplice, quella del lavoro subordinato, ritenendo che la
carriera professionale sia più complicata.
Nessuno
mi spinge ad una scelta più meditata ed io decido secondo la mia indole un po’
pigra quella che ritengo la formula più semplice.
D’altronde
chi vuol dare consigli su scelte così personali si mette sempre nei guai col
rischio che gli siano rinfacciati per tutta una vita.
Il
lavoro in ogni caso non manca: ci sono opportunità per tutti, sono gli anni
dello sviluppo economico.
L’inflazione
è alta, ma c’è la piena occupazione.
L’Italia
cresce e i tempi duri del dopo guerra sono un ricordo per i più vecchi.
Gli
italiani non hanno mai toccato con mano tanto benessere.
Sono
tempi di vacche grasse!
Nella
Società la vita scorre tranquilla sotto il profilo lavorativo, un po’ meno
sotto il profilo gestionale.
Gli
enti sono gestiti dalla politica e in politica se uno non è attivista o non
controlla voti non conta nulla.
Non
importa se uno cerca di approfondire le sue conoscenze personali. La
preparazione non serve quando si deve gestire.
In
politica contano i voti ed i rapporti fiduciari.
Per
accedere a determinate posizioni bisogna avere la maggioranza dei consensi.
Chi
l’ha detto che la preparazione e la professionalità pagano.
La
mia posizione è invidiata.
Chi
ha già molto vuole di più e se ha le coperture idonee ci mette poco a mettere
da parte un pivello come me.
L’arte
di amministrare è quella di fare credere agli altri che il proprio tornaconto
equivale all’interesse generale.
Una
indennità da aggiungere alle altre è un gioco divertente che fa crescere nella
stima degli altri.
Mi
pento di non avere intrapreso la strada della professione, ma nulla è
irrimediabilmente compromesso; posso sempre cercare la mia strada in altre
strutture.
Attendo
con pazienza l’occasione propizia per proporre un mio trasferimento.
6.
Capitolo.
Il terremoto.
Quella
sera non ho notato nulla d’anormale:
Come
al solito io e Gio siamo leggermente in ritardo. Non è un grosso problema,
basta accelerare il passo per arrivare prima che la rappresentazione inizi.
Dalla
fondamenta dei Mori a San Fantin per un veneziano abituato a camminare veloce
sono solo do pasi.
Quella
sera alla Fenice lo spettacolo è garantito.
Va
in scena il Rigoletto una delle opere più amate di Giuseppe Verdi.
La
Fenice è un teatro splendido. Stucchi dorati delimitano i palchi, le poltrone
di velluto rosso danno un tocco di classe.
La
cosa più imponente è il lampadario di cristallo che troneggia al centro del
soffitto ad illuminare a giorno l’intero teatro.
L’opera
ha inizio. Il baritono è prodigioso.
Ad
certo punto il Gobbo piazza un acuto.
Mi
sembra di ondeggiare.
“No
pol esser l’acuto.” penso fra me e me.
Alzo
inavvertitamente lo sguardo e vedo che i cristalli del gigantesco lampadario,
che troneggia proprio sulla mia testa, incominciano a muoversi da destra verso sinistra.
Nel
giro di pochi secondi mi ritrovo in piedi con la mano sinistra stretta alla
mano destra di Gio.
Tutto
il pubblico è in piedi e urlando “El teremoto! El teremonto!” si
scaraventa verso l’uscita del teatro.
Inciampo,
rischio di essere travolto dalla folla impaurita che cerca un improbabile
scampo, per fortuna Gio mi sostiene e ci ritroviamo fuori nel campo.
Sembra
di essere al sicuro.
Le
statue che adornano la facciata della Chiesa di San Fantin ci sovrastano
incombenti.
Basta
che la scossa sia un po’ più forte, tale da alterare l’equilibrio instabile
delle case veneziane, per provocare una rovina.
Case
e Palazzi a Venezia sono addossate le une contro le altre .
Restano
in piedi non perché poggiano su fondamenta sicure ma grazie al loro reciproco
sostegno.
La
scossa più rovinosa è passata.
Le
statue rimangono al loro posto come gli insidiosi pinnacoli che fregiano gli
edifici civili.
“Se
qua casca na statua semo fregai!” sentenzio.
“Il
terremoto sembra cessato.” mi rassicura Gio.
La
paura non impedisce di volere rientrare a seguire lo spettacolo.
La
direzione ritiene non prudente continuare la rappresentazione; gli artisti
impauriti hanno cercato rifugio in un luogo più riparato.
Dove
sta questo posto non esposto ai rischi del terremoto a Venezia? Impossibile
dirlo.
Forse
si può trovare un po’ di sicurezza dormendo all’aperto in Piazza San Marco o in
qualche raro spiazzo sgombro da fabbricati.
Il
ritorno procede tranquillo.
Tutto
bene fino alla fondamenta della Misericordia.
Stiamo
percorrendola quando una scossa improvvisa fa ribollire l’acqua, mentre le
barche placidamente ormeggiate alle bricole hanno un sussulto.
Un
sandolo sembra essere risucchiato in un improvviso vortice.
Arriviamo
alla Fondamenta dei Mori.
Palazzo
Tintoretto è stranamente illuminato a giorno.
Nonostante
l’ora, tutte le luci delle stanze che danno sul rio sottostante sono
accese.
I
residenti sono sveglissimi; la paura non fa dormire sonni tranquilli.
Tutti
cercano parole rassicuranti dal vicino di casa.
La
televisione è accesa per cercare di sentire qualche notizia in più che confermi
che il terremoto non ha recato danni a cose e soprattutto a persone.
“Ti
ga sentio che scossa.” urlo a Germano che è affacciato alla finestra
dell’ultimo piano.
Germano
è un uomo di mare robusto e abbronzatissimo. La sua muscolatura possente fa
capire che non ha paura di nulla.
E’
abituato a veleggiare nell’alto
Adriatico sfidando la bora e le insidie della natura non gli fanno timore.
“No
ghe xe dani. Xe cascada solo na piera in campo S. Fantin!” mi rassicura.
“Per
fortuna che semo venui via per tempo” penso.
Sulla
rampa di scale incontro la Federica, dagli occhi azzurri da gatta, che cerca
sicurezza e vuole scendere in fondamenta.
Cerco
di rassicurala. “Anche se ti sta in fondamenta se casca tuto no ghe xe
scampo!”
Più
convincente è l’antico motto veneziano. “Magna e bevi che la via xe
un lampo!”
La
Gio decide con la Silvana di cacciare la paura con dei boni bigoi in salsa
e con un brindisi allo scampato pericolo.
In
due e due quattro la mia tavola è imbandita e libiamo mentre una vetrinetta
dove tengo in esposizione dei ninoli d’argento tintinna al vibrare
dell’ennesima scossa.
7.
Capitolo.
La nuova città.
Sono
un carrierista, non capisco perché si debba lavorare senza aspirare ad un ruolo
più importante di quello che si ricopre.
Ricoprire
funzioni di una certa importanza non comporta soltanto uno stipendio più
interessante ma consente di svolgere un lavoro più creativo e, quindi, più
divertente.
La
noia di dovere ripetere tutti i giorni le stesse operazioni si può sconfiggere
solo preparandosi a svolgere un lavoro dirigenziale.
Poi,
dopo averlo ottenuto, ci si lamenta perché ci sono troppe grane, impegni
stressanti e scarse soddisfazioni economiche rispetto alla fatica.
Il
destino è quello di lamentarsi sempre senza, però, abbandonare le posizioni
tanto criticate.
Così
abbandono la quiete della Società per tentare la strada dei concorsi da
dirigente.
Al
primo concorso mi dicono di non partecipare perché è inutile!
Voglio
battere la testa contro il muro ed, infatti, vince il candidato favorito.
Supero
un secondo concorso per il ruolo di dirigente in una ridente città adagiata
nella campagna veneta.
Le
mie nuove funzioni si annunciano più dinamiche.
Sicuramente
le emozioni non mancano.
Non
passa giorno che non ci sia un problema nuovo.
“Ti
ga voesto la bicicletta ora pedala. Te lo gavevo dito de star a Venezia” mi
dice il saggio Germano.
La
Società è un ente di studio, questa è un’amministrazione operativa.
L’ente
non ha impostato un corretto rapporto di informazione sull’attività svolta.
Il
lavoro è imponente.
La
stampa attacca quasi quotidianamente la gestione con critiche feroci.
Mi
rendo conto che i giornalisti fanno il loro mestiere, vogliono essere presenti
sui problemi locali..
Vanno
a caccia di notizie e pubblicano quelle che sono loro fornite.
Certo,
verificare se la notizia è fondata prima di pubblicarla, è più corretto; si sa,
però, che di tempo ce n’è poco e se qualcuno ti dà una gustosa nuova novella
perché non cercare di vendere qualche copia in più?
Per
una replica o una smentita c’è sempre tempo; così la polemica alimenta la
voglia di informazione o meglio di pettegolezzo locale.
Per
le precisazioni in ogni modo nessuno ti viene certo a cercare.
Devi
darti da fare, cominciare a telefonare, dire con forza le tue ragioni, mandare
lettere di rettifica.
Una
vera manna per la stampa che può continuare a pubblicare ulteriori notizie che
alimentano le discussioni.
Queste
cronache locali sono le più seguite.
“Ti
ga sentio cossa el ga dito. Ti ga visto cossa el ga fato ” le chiacchiere
da bar si sprecano.
Intrattenere
pubbliche relazioni con il cronista più puntiglioso mi riesce particolarmente
facile.
Replicare
colpo su colpo a notizie infondate con documenti certi è un gioco da ragazzi.
“Perché no i ghe ga pensa prima?” mi
chiedo stupito dei facili successi.
Dopo
un paio di interventi mirati sono rispettato da tutti i cronisti locali che mi
ritengono una fonte importante di notizie.
Prima
di pubblicare il solito articolo denigratorio sull’ente ed i suoi
amministratori i reporter vengono a verificare la mia versione.
Gli
articoli fatti in contraddittorio sono più divertenti e la stampa, fornendo
delle informazioni più attendibili, ci guadagna in tiratura.
Basta
poco per essere credibili. E’ sufficiente trasmettere le notizie quelle vere,
quelle documentate.
La
tensione sale con la minaccia dell’occupazione dell’ente per fare un’assemblea
aperta che discuta i problemi più urgenti.
Sono
il dirigente di grado più elevato presente in sede in quel momento. Gli altri
erano assenti per urgenti motivi, si erano recati altrove al sicuro.
Ordino
di evitare ogni discussione ai dipendenti onde evitare ogni spiacevole rissa ed
abbandoniamo l’ente ai manifestanti.
La
prassi mi impone di denunciare l’occupazione di un locale pubblico.
“Bisogna che me cava da le petole” mi
ripeto.
Devo
evitare che gli eventuali, possibili danneggiamenti mi possano essere
addebitati per non avere vigilato a sufficienza.
Sono
preoccupatissimo per un ipotetico danno erariale a me imputabile.
Arrivo
trafelato alla locale stazione di guardia all’ordine pubblico.
Mi
qualifico e faccio presente l’accaduto.
“Nun
ce riguarda. Provi a domannà a la Prefetura.” mi dice il piantone.
Sono
le cinque e trenta e tra poco deve tornare a casa, magari deve andare a fare la
spesa al supermercato con la moglie. Non può di certo mancare!
Forse
è questo il motivo di quello scarica barile?
Riprendo
a correre e mi dirigo alla Prefettura dove denuncio l’accaduto.
Sono
ricevuto da un gentilissimo ed efficientissimo Vice Prefetto.
Il
funzionario zelante mi tranquillizza e, tempestivamente, organizza una squadra
per riprendere possesso della sede dell’ente.
“Tanto impegno xe servio per sbaragliar la
concorenza?” mi chiedo tra me e me.
Quando
arrivano le forze dell'ordine i manifestanti sono già andati via per evitare
guai.
Le
grane il giorno dopo le deve avere avute il piantone.
Immagino
sia stato trasferito in Barbagia per punizione e ne rido di gusto.
Quando
il colonnello è arrivato in ufficio a scusarsi è furibondo col sottoposto che
ha impedito un’azione e soprattutto ha fatto fare una bella figura alla
concorrenza.
“La
prossima volta mi raccomando, venga ancora prima da noi” mi supplica.
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I
dipendenti dell’ente, che per anni non hanno mai protestato, ora che è arrivato
il nuovo dirigente vogliono un nuovo contratto ed un inquadramento più consono.
Quando
sei dirigente cambia il tuo rapporto con i colleghi di lavoro, diventi di fatto
un nemico.
Credono
tu sia uno che se può li frega.
Pensano
che tu voglia farli pagare meno del dovuto per fare bella figura.
Forse
è vero?
Le
assemblee che hanno ad oggetto il rinnovo dei contratti di lavoro sono delle
bolge.
Soprattutto
se dall’altra parte è arrivato uno nuovo che non ha molta esperienza da contrapporre.
Trovo
come unico rimedio quello di inforcare degli occhiali scuri e mi rifugio al
riparo di questa tenue cortina come ultima trincea agli assalti verbali.
Imparo
subito che le male parole e le ingiurie non fanno poi tanto male, basta solo
non prendersela.
Il
giorno successivo gli stessi che mi hanno insultato mi riabilitano con una
serie di precisazioni.
“No
la gavemo miga con lu. Xe na storia vecia. Bisogna risolver problemi
antichi.”
I
veneti sono brave persone che si fanno portare un po’ oltre le buone maniere
dal fatto di parlare tutti insieme.
Si
sa, una parola tira l’altra e gli animi anche dei più tranquilli si
surriscaldano.
Presi
singolarmente sono persone tranquille, educate, molto disponibili, ma quando
sono messi nel gruppo le istanze si trasformano in recriminazioni, le proteste
in vituperi, le parole più normali in insolenza gratuita.
Il
fine settimana lo passiamo spesso a Cremona.
Vedo
che Gio ama tornare dai suoi e si ritrova nella città del Torrazzo che ha
abbandonato dagli anni dell’Università.
Chissà
che non ci sia l’occasione di tornare.
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