1.
Capitolo.
L’assassinio.
Quella
mattina mi sono svegliato presto, sono arrivato in ufficio di buon’ora.
Ci
sono alcune pratiche urgenti da sbrigare.
Anche
l’On. Aldo Moro si è svegliato presto quella mattina; ha un compito importante
da compiere.
La
sua è una decisione storica per il paese.
Deve
mettere in discussione alla Camera la fiducia necessaria a dare il via ad un
governo a guida di Giulio Andreotti.
Il
nuovo esecutivo è destinato a ricevere, come concordato, l’appoggio anche dei comunisti.
Una
maggioranza più ampia per arrivare alla fine della legislatura con un solo
esecutivo.
Quello
che deve essere un passaggio politico verso una forma di governo più stabile,
con una maggioranza più solida, ha dato origine ad un incubo.
L’On.
Moro è stato rapito in Via Fani; gli uomini della scorta sono stati uccisi.
La
prigionia del presidente del più rappresentativo partito italiano mette in
evidenza, a prescindere da ogni altra considerazione, uno Stato debole,
incapace di difendere i suoi massimi rappresentanti.
Il
Presidente è lasciato in balia di un commando brigatista.
Un
tribunale rivoluzionario ha potuto indisturbato mettere a segno un sequestro
nel cuore di Roma, ammazzare dei tutori dell’ordine, tenere prigioniero e
condannare a morte il capo di un governo.
Sembra
che lo Stato sia imbelle, incapace di difendere il Presidente del Consiglio dei
Ministri.
L’Italia
si è fermata, saputa la notizia.
Nel
pomeriggio c’è un corteo di solidarietà.
Sono
sceso in piazza anch’io a manifestare il sostegno alla famiglia dello statista
scomparso, alla Repubblica e alle istituzioni.
“Dove
finimo adeso!” Antonio un collega di lavoro che marcia con me è furibondo e
teme per il nostro futuro.
Nei
momenti di maggior confusione ed incertezza gli italiani dimostrano di essere
ben presenti e di non subire scossoni senza reagire fermamente.
Gli
autori dell’esecuzione dopo questo gesto efferato sono più isolati nel paese.
Sono
rimasti soli.
Non
hanno ottenuto il loro scopo.
Le
manifestazioni sorgono spontanee in tutto il paese.
Gli
italiani si sono dissociati in modo evidente dagli autori del crimine.
Non
c’è sostegno per chi vuole colpire il simbolo delle istituzioni democratiche.
2.
Capitolo.
La profezia della zia Marta.
La
nuova casa si affaccia su di un canale che placido si diparte dal fiume e cinge
la fascia ovest della città.
A
fianco un enorme giardino confina con il condominio dove abitiamo.
I
merli che trovano riparo sugli alberi vengono a farci visita.
Curano
vigili ogni nostro spostamento.
Basta
un attimo di disattenzione e si precipitano sul terrazzino dove depositiamo la frutta
appena acquistata al mercato.
Gli
uccelli non fanno complimenti e banchettano alla nostra salute lasciandoci solo
i torsoli.
Treviso
è una città allegra; sono felice di lavorare e di abitare qui.
Le
febbri criptogenetiche che angustiavano Gio sono passate, ho avuto il lavoro
che desidero.
Tutto
va per il meglio.
Organizziamo
un incontro con i parenti di Gio per inaugurare la casa nuova.
Sono
venuti a trovarci nella nuova casa per festeggiare il mio nuovo lavoro.
E’
bello trascorrere ore serene in famiglia con i tuoi parenti quando hai dei
successi da condividere e tutti ti partecipano la loro gioia.
Ti
senti ottimista per il futuro, ti senti in grado di sfidarlo. L’avvenire non ti
fa paura.
Io
non ho mai avuto il desiderio di conoscere il destino.
Non
sono mai ricorso all’opera di cartomanti, indovini né ho fatto giochi per
tentare di indovinare quello che mi attende.
Ho
quel senso di paura dell’ignoto che mi trattiene dal volere conoscere in
anticipo quello che mi deve accadere.
Sono
l’unico in quella compagnia, tutti gli altri hanno una voglia matta di sapere,
di conoscere quello che li aspetta.
La
zia Marta non lo reclamizza. E’ certo, però, che abbia un potere medianico.
Riesce
a fare girare un piattino su di un foglio dove sono segnate delle lettere.
Appena
a contatto con la mano della zia, il piattino comincia a girare vorticosamente.
L’entità
evocata risponde alle domande che i presenti, seduti a catena e tenendosi le
mani, le pongono.
La
zia fa viaggiare il disco di ceramica sulle lettere che compongono le risposte
che intende fornire.
Messe
insieme una dopo l’altra le sillabe compongono delle parole.
La
mano della zia è priva di forza ed è trascinata dal piattino sempre più
velocemente.
Lo
spirito non si sottrae alla curiosità di tanti richiedenti.
Tutti
vogliono avere notizie dal nonno paterno della Gio che si presenta per
rispondere alle domande. Automaticamente, senza molto senso, la zia legge a
voce alta.
La
domanda di Gio è facilmente intuibile.
“Avremo
dei figli?” chiede dubbiosa: sono passati alcuni anni dal nostro matrimonio e bambini
non ne sono ancora arrivati.
Tutti
sono curiosi di sapere cosa risponde il nonno Cesare ad una domanda così
facilmente verificabile.
“b..i..s..o..g..n..a...a..s..p..e..t..t..a..r..e..
t..r..e.. a..n..n..i..” le lettere scorrono lente poi la zia si interrompe
perché la mano gira vorticosamente e le crea una tensione emotiva.
L’indovina
abbisogna di un momento di pausa.
La
famiglia è impaziente di sapere e si accalcano tutti anche quelli, come la
Titti, che prima si tenevano in disparte
perché dicevano di non credere a quella messa in scena.
“Nasce
fra tre anni?” puntualizza Gio che è la più interessata, credendo ciecamente
alle notizie dall’al di là.
Io
sono un po’ più scettico anche perché ho paura del futuro, lo guardo con
sospetto.
Sono
pessimista per natura ed ho timore che possano accadere solo cose spiacevoli.
Ritengo,
pertanto, che è meglio affrontare il
futuro senza conoscere quello che il
destino ci riserva.
“d..a..l….r..e..s..t..a..u..r..o....d..e..l..l..a…..n..u..o..v..a…..c..a..s..a”
il piattino continua imperterrito a girare sulle lettere.
“E’
questa la nuova casa?” insiste Gio che non capisce se la predizione si riferisca
ad un successivo trasloco.
Ci
siamo appena trasferiti sembra impossibile andare in una nuova città .
“n..u..o..v..a..c..a..s..a..”
ripete le stesse lettere di prima senza aggiungere altro il nostro vate.
I
più scettici incominciano a sollevare dei dubbi.
“Ma
quale nuova casa se abitate qui da poco tempo. La casa è questa” precisa lo zio
Giovanni.
“Ti
dico che ci aspetta un nuovo trasferimento:” conferma sicura Gio che si ritiene
l’interprete più attendibile delle indicazioni fornite dal piattino.
La
zia Marta è stanca e si rifiuta di dare ulteriori precisazioni sulle predizioni
del nonno Cesare.
Si
capisce però che è contenta di essere stata, sia pure in quella forma, in
contatto con lui.
3.
Capitolo.
Il ritorno a Cremona.
Non
è passato neppure un anno da quando mi sono trasferito a Treviso che vengo a
sapere che si è liberato un posto della mia stessa qualifica a Cremona.
Inoltro
la domanda di trasferimento ragionando più col cuore che con la testa.
L’impiego
è una sorta di nicchia. Bisogna assicurarsi che tutto sia calibrato a puntino
perché l’inserimento possa definirsi soddisfacente.
Andare
alla cieca in un nuovo ufficio senza sapere se si è graditi o meno è
leggermente azzardato.
Sono
giovane e fiducioso nelle mie forze, per questo mi catapulto in questa nuova
avventura lavorativa senza alcuna protezione.
Non
riesco ad immaginare di rompere le uova nel paniere a qualcuno che su quella
carica fa affidamento.
La
domanda di trasferimento è impugnata al tribunale regionale amministrativo da
chi vanta la pretesa sull’attribuzione di quel posto.
Rischio
di rimanere senza lavoro e dopo essermi licenziato non ho più nessuna
possibilità di ritornare.
“Chi
va a rosto perde el posto.” mi ripete al telefono il vecchio direttore che non
ha ancora digerito la mia lettera di dimissioni.
Si
rifuta di sentire qualsiasi proposta di ripensamento dopo quel tradimento.
Sapendo
che ho intenzione di andarmene, di certo non fanno nulla per tenermi
provvisoriamente.
C’è
un’aria non del tutto positiva sul mio arrivo a Cremona.
Non
posso neppure ritornare indietro perché ho venduto la casa di abitazione
acquistandone un’altra a Cremona.
Considero
la città la mia sede definitiva, salvo ripensamenti.
Quando
ci sono dei problemi che si accavallano è inutile volerli risolvere in
anticipo.
E’
meglio aspettare, lasciarli stemperare.
E’
il tempo che trova di solito gran parte delle soluzioni.
Le
grane a volte si risolvono da sole senza un eccessivo impegno da parte nostra.
Fortunatamente
il Tribunale non sospende la mia delibera di assunzione dato che i ricorrenti
non hanno titolo per aspirare al posto che ricopro.
A
posteriori l’esito di questa sentenza salomonica appare scontato, ma ho passato
dei brutti momenti.
Posso
emettere un lungo respiro di sollievo solo dopo la notifica del provvedimento e
dedicarmi al restauro della nuova casa.
Si
trova a due passi dal Duomo e dall'ultima finestrella della soffitta si può
ammirare il Torrazzo.
La
zia Bice mi ha appena fatto vedere una fotografia color seppia che ritrae il
nonno Nicola in mezzo a tre muratori mentre è intento a dirigere dei lavori
sulla sua casa di Rialto.
Mi
deve avere trasmesso la malattia del mattone perché anch’io sto facendo la
stessa cosa anche se in maniera più modesta.
Abbiamo
acquistato quella casa per destinarla a dimora della nostra famiglia.
"Xe
na vera casa" dice Germano quando gli faccio vedere il progetto.
Sono
quelle case cui ti affezioni e difficilmente lasci.
Una
casa che è il rifugio dei tuoi figli e ritrovo per amici e parenti che vogliono
esserti vicini.
L’arch.
Ferruccio è un collega di lavoro.
E’
un toscano senza peli sulla lingua che ha elaborato il progetto di restauro.
Bonario
e paziente mi guida nella difficile impresa.
La
casa è un vero labirinto che si innalza in altezza su più piani.
E'
stata utilizzata solo in parte negli ultimi anni.
Il
degrado è evidente. Non ci sono bagni decenti né una cucina efficiente né
riscaldamento centrale; anche l’impianto elettrico è da rifare.
Non
si salva niente; con pazienza bisogna sistemare tutto.
C’è
una scala esterna che collega la cantina con il piano terra, il primo piano e
la soffitta, ma questi locali sono autonomi non essendo collegati tra loro.
Ferruccio
ipotizza la soluzione più logica collegando le stanze fra di loro in un
contesto funzionale.
Non
è facile avere i permessi dal comune che vuole farmi eliminare le
superfetazioni, trovare la ditta che dia il maggior affidamento, recuperare le
risorse finanziarie e finalmente iniziare i lavori.
Tutte
le sere, dopo il lavoro, andiamo con Gio a vedere i lavori e a fare dei
progetti di arredamento.
I
lavori marciano spediti.
Gianni
e Clivio sono i nostri maestri muratori.
Gianni
è estroverso e ciarliero ha l’aria sempre sorridente di chi con le buone
maniere è sicuro di risolvere le situazioni più intricate.
Clivio
è più introverso e taciturno sa fare bene il suo lavoro come tutti quelli che
parlano poco.
Sono
loro che supportano piastrellisti, idraulici, elettricisti, falegnami, fabbri e
pittori.
La
cosa più difficile e metterli tutti d’accordo.
Il
piastrellista ha bisogno del muratore che gli faccia assistenza mentre posa il
pavimento.
“Io
non posso lavorare se prima il muratore non mi fa le tracce sul muro.” dice
l’idraulico.
”Se
il muratore non mura i falsi telai per poter fissare le porte e le finestre
come faccio ad iniziare?” insiste il falegname.
E’
una lotta continua che deve essere affrontata con infinita pazienza perché hai
bisogno di tutti e non puoi scontentare nessuno.
Alla
sera quando ci troviamo per verificare i lavori tuttti si trovano d’accordo
davanti ad una bottiglia di vino bianco frizzante.
I
bar sono i centri di ritrovo per tutti gli artigiani.
Se
te ne manca uno “Ghe pensi mi” mi dice il Gianni “lo trovo stasera al
bar dell’Angelo.”
4.
Capitolo.
Le belle rane.
“Volete
venire a cena da noi sabato sera. Siamo in campagna a Colzaniga. Ci sono degli
amici” mi dice Sandra al telefono.
Sandra
è una donna manager bionda con gli occhi verdi, di una bellezza aggressiva ma
nel contempo accattivante. Abile a mettere le persone sempre a loro agio
raccontando solo quello che vogliono sentirsi dire.
Una
venditrice esagerata capace di farti comperare un panfilo per navigare in uno
stagno.
Perennemente
in viaggio, meta prediletta il Grand
Hotel di Roma, ama trascorre il sabato sera in campagna in compagnia degli
amici.
Non
conosco i suoi amici, ma non ho mai rinunciato ad un invito a cena fattoci da
una persona simpatica; anche Gio aderisce volentieri alla scampagnata.
Non
sappiamo dov’è Colzaniga, ma giungiamo velocemente.
La
provinciale si snoda lungo la campagna più florida d’Italia. A volte il nastro
scuro della strada sembra scomparire sepolta fra i pennacchi del frumentone.
Non
riesco a capire perché il percorso non corre mai dritto pur attraversando delle
distese pianeggianti.
L’itinerario
segue delle linee curve e tortuose disegnate da un progettista dispettoso.
Il
granoturco dà l’unità al paesaggio che non è mai monotono.
L’ergersi
di un campanile, lo scorrere pacifico di un corso d’acqua e i continui incroci
stradali movimentano quel paesaggio sonnolento.
La
pace agreste domina sovrana.
Si
sente soltanto il frinire delle cicale.
Abbasso
il finestrino della vettura per ascoltare quel suono insolito nella laguna.
Mi
sento perso in quel grande mare d’erba dove si incrociano rare vetture.
Sono
venuto via da un’isola che ha coltivato relazioni culturali e commerciali
intense con tutto il resto del mondo e sono arrivato in mezzo ad un altro mare
di granturco che protegge, più che le onde dell’Adriatico, lo splendido
isolamento della bassa padana dal ritmo sfrenato della vita moderna.
Finalmente
arriviamo al paese; la strada sembra finire contro la facciata della chiesa poi
scivola via a destra a fianco di una cascina.
Lì
le case sono cascine e gli abitanti sono tutti coltivatori.
“Dov’è
la casa di Sandra?” chiedo in italiano - perché penso non capisca il dialetto
veneto - ad una vecchietta che, infagottata nella sua palandrana nera, sopporta
stoicamente il caldo dell’estate.
“L’è
là” mi risponde asciutta in un dialetto gutturale dove la musicalità del
linguaggio è decisamente assente.
La
villa è nascosta tra gli alberi; si
intravede appena dal cancello di ingresso.
Entriamo
non appena il cancello automatico si schiude.
Il
viottolo d’ingresso immerso nel verde si apre nella grande aia attorniata dalle
abitazioni dei contadini; la prima a destra è la casa padronale.
E’
la casa che tutti vorrebbero avere.
Un
enorme barchessale funge da porticato e su di esso si apre l’ingresso della
dimora.
L’aspetto
rustico dell’esterno si trasforma all’interno
in un comodo arredamento moderno.
Il
salotto ha un’aria accogliente, elegante e familiare nel contempo: una serie di
divani di pelle nera, un pianoforte verticale, una tela tagliata di Lucio
Fontana, alcuni dipinti dalla nostra ospite che rappresentano dei paesaggi
padani e altri quadri di autori contemporanei.
Ho
l’impressione di esserci stato da sempre in quell’ambiente che mi è subito
familiare.
Ci
accoglie Gigi. Il marito della nostra ospite è un ragazzone alto e massiccio
dall’aria buona che ispira simpatia. “
Vi piacciono i gamberoni” ci chiede mentre è intento a dare le necessarie
disposizioni al domestico per dare inizio al servizio “Prego fate come foste a
casa vostra.”
Gli
amici sono già arrivati e stanno cingendo d’assedio i vassoi degli antipasti.
Abbandonano
tosto la presa per la curiosità di conoscere i nuovi arrivati.
Gio
è conosciuta da tutti, dato che è la figlia del Professore.
Io
sono l’uomo nuovo, il nuovo venuto. Noto che c’è una certa curiosità nei miei
riguardi.
“El
vien da Venezia” mi presenta ai nuovi amici Gano sorridendo della mia
inflessione dialettale.
“Io
sono Gano traditore di amicizie” mi dice sorridendo un signore alto dai modi
affabili “Questa è Ninì mia moglie.”
Gano, naturale anfitrione, dall’aria distinta con un
sorriso sornione, mi introduce alla compagnia.
“Questo
è Rutilio e lei è Tina” mi indica un ragazzone robusto dall’aria un po’ triste
ed una graziosa ragazzina bionda dai lineamenti gentili.
Le
presentazioni continuano.
“Lui
è Spregi e lei Carla.” Spregi è un signore non molto alto con i capelli
leggermente arricciati sulla fronte, dall’aria cordiale ma nervosa incapace di
rimanere fermo.
Carla,
invece, è la moglie biondina, dolce e gentile che compensa i modi un po’
sbrigativi del marito.
Lui
è Vanni, lei è Fiorina. Vanni è un pezzo d’uomo alto e robusto dai modi cortesi
ma sbrigativi tipici dell’imprenditore lombardo sicuro di sé e delle sue
possibilità, mentre Fiorina e dolce e delicata una deliziosa bambolina.
“Lui
è Varot “mi dice, infine, come ad indicare la ciliegina sulla torta “è il
nostro pianista.”
Varot,
precocemente stempiato, due baffoni spioventi
e un’aria solo apparentemente triste, assomiglia ad un gufo.
E’
un istrione nato, straordinario affabulatore lui conosce a memoria la musica ed
i testi di tutte le canzoni goliardiche. Varot può continuare a suonare instancabile per una
notte intera in un crescendo forsennato trascinando un carrozzone di note
carico di allegria.
“Lei
è Manu sua moglie” mi dice Gano indicandomi la corista più scatenata nel
ripetere l’incalzante ritornello.
Le
mani di Varot eseguono sulla tastiera scale sempre più azzardate mentre mi dà
il benvenuto nella festosa compagnia con un cenno del capo e col suo sorriso
sornione.
E’
intento a suonare un ritornello con insolita passione, facendo scorrere le
lunghe dita affusolate sui tasti bianchi del pianoforte con un vigore che
trascina l’irruente coro.
“Zan
zan zan le belle rane,
zan
le belle rane zan!
“Zan
zan zan le belle rane,
zan
le belle rane zan!”
Nessuno
può distoglierlo mentre suona le belle rane.
Capisco.
Deve essere il motivo simbolo del gruppo, quello che più li accomuna nelle loro
riunioni, quello che fa scattare una sorta di solidarietà di appartenenza.
Lo
accompagna con la chitarra Lucio che sussurra il ritornello con un tono di voce
molto basso da cantante jazz.
Lucio
è un personaggio che riassume in sé l’estro del musicista e la comicità del
barzellettiere.
Il
suo desiderio è di essere sempre in compagnia ad ascoltare o a fare musica.
E’
il compagno ideale di ogni festeggiamento.
Può
suonare o raccontare barzellette senza tregua.
”Alle
tre devo tornare a casa” si schermisce.
Nanda
sua moglie è una signora castana molto dolce dal tono di voce tranquillo.
La
montatura degli occhiali le conferisce
un’espressione apparentemente seria.
Dimostra
un infinito amore a restare vicino al suo uomo, ad assecondarlo in questa sua
voglia spasmodica di note e compagnia.
E’
una delle coriste più apprezzate che si cimenta su impossibili seconde voci.
Il
ritornello è ripetuto dal coro in maniera sempre più ispirata inventando
impossibili variazioni sul tema.
L’atmosfera
diventa sempre più festosa; gli altri amici si attestano a fianco del
pianoforte prendendo una posizione consueta ripetendo incessantemente in coro
lo stesso ritornello.
Più
lo ripetono, più si divertono come se quella musica fosse inarrestabile.
E’
come uno scacciapensieri che ti entra nella testa e rimuove le ansie le
preoccupazioni.
Rimangono
nel tuo cervello solo le belle rane che fanno zan.
E’
del tutto naturale per me accostarmi a quel coro improvvisato per partecipare
all’avventura delle belle rane.
Più
tardi l’atmosfera si fa ovattata.
“Sapete
che Nanda sa leggere la mano” suggerisce il solito Gano tanto per ravvivare
l’atmosfera.
Tutti
fanno a gara stringendosi intorno all’indovina per conoscere il futuro.
“Vedi
la linea della fortuna è quella lì scende dal monte di Venere” spiega paziente
Nanda che sorridendo propone a tutti la sua interpretazione dei segni della
mano.
Io
sono restio a conoscere il futuro, forse ne ho paura.
Il
naturale timore dell’ignoto tipico di chi ha bisogno di continue certezze.
Gio
no. E' curiosa di conoscere; come tutti gli ottimisti ha una irriducibile
fiducia nell’avvenire.
“Avremo
dei figli ?” chiede.
“Ecco
qui la linea dei figli : Ne vedo due. No anzi tre .Vedi qui la linea è incerta”
e così dicendo insiste con le sue dita sul palmo di Gio quasi a volerlo aprire
di più per leggere meglio quei segni misteriosi.
“No
xe vero! No xe posibile! Uno o do sì, ma tre?” non ci voglio proprio
credere.
“Ti
dico che saranno tre.” ripete Nanda senza scomporsi.
A
quel punto si avvicina Rutilio spinto da Tina che, come tutte le donne, è
curiosa e vuol sapere di come andranno gli affari della loro società.
“Bene,
bene gli affari vanno bene” conferma Nanda che poi improvvisamente si fa seria.
“Qui
vedo una linea negativa che si spezza, vedo la linea della vita che si
interrompe. No lasciamo perdere non mi va di continuare!” neanche la più cupa
profezia di Cassandra può interrompere l’allegria di Colzaniga.
Gano
tenta si stemperare la tensione che per un momento è calata sull’allegra
compagnia.
“Sono
tutte favole. Chi ci crede alle linee della mano?” esclama e cambia discorso.
“Dov’è
Sandra?” chiede mentre cerca di impossessarsi di uno stuzzichino.
“Si
sta preparando” gli risponde il coro degli invitati.
La
padrona di casa tiene molto ai minimi particolari.
Sandra
appare, subito dopo, quasi aspettasse il richiamo dei suoi ospiti, sul
ballatoio del primo piano che sovrasta il salotto.
E’
nella sua forma migliore e si appresta a scendere accolta dai saluti festosi
dei commensali.
Sembra
una diva del cinema muto.
Si
intuisce che le piace apparire in una scenografia speciale e sentire il vivo
apprezzamento dei suoi ospiti per la sua forma fisica e per il suo successo.
Ha
due occhi verdi profondi che ti penetrano dentro.
Sembra
ad un primo istante che quello sguardo ti voglia gelare il sangue; poi
improvvisamente si apre ad un sorriso e la sua espressione da donna manager si
trasforma in quella dolce, rilassata e gioiosa della prima donna di Colzaniga.
E’
una donna che ritiene di avere raggiunto i suoi sognati traguardi economici e
sociali, ma che nel contempo aspira a molto di più. Vuole semplicemente il massimo.
Forse
il suo stile è diverso o è al confine di quello che propongono le risate e
canzoni della compagnia di ospiti.
L’allegria
che vuole perpetuare la spensieratezza della giovinezza è la ricetta per che
anima le serate a Colzaniga.
Ogni
problema qui è lasciato fuori della porta e si pensa solo a cantare.
E’
bello fare per qualche sera le cicale e cantare alla vita senza ombra di
preoccupazioni.
C’è
bisogno ogni tanto di ossigenarsi e fare il pieno di buon umore ad allegria per
resistere fino al prossimo incontro.
Poi
tutti a tavola.
La
cucina di Colzaniga può competere con il migliore ristorante della bassa.
Nessuno
può superare Gigi nel calore che mette nell’accoglierti.
E’
l’ospite prefetto che ciascuno vuole incontrare.
Fa
di tutto per metterti a tuo agio per farti sentire come se fossi a casa.
Per
questo la combriccola ama Colzaniga.
Colzaniga
è il luogo simbolo del tempo felice trascorso insieme accomunati dal piacere
dell’appartenenza ad un gruppo.
Sono
gli aspetti più piacevoli del vivere insieme.
Sono
scintille di intesa che scattano fra persone diverse e che ti fanno vivere
momenti indimenticabili.
E’
un gruppo che non vuole perdere l’occasione di rivedersi; tutti fanno a gara
per ospitare la prossima serata per il piacere di stare insieme in allegria.
“Venite
al Ballottino.” propone Gio .
“No
vediamoci nella mia villa in campagna “ insite Spregi.
“Io
preferisco rimanere a Colzaniga” ripete in nostro anfitrione.
“Va
bene torniamo a Colzaniga.”
“Colzaniga
mon amour.”
Gli
ospiti continuano a cantare e non smettono neanche quando salgono nelle vetture
per tornare a casa.
Varot
fa un giro dell’aia con la vettura; poi, pentito di andarsene così presto si
ferma scende e prosegue col suo “Zan zan zan le belle rane.”
Come
se volesse riprendere la serata.
Colzaniga
è un’emozione che non vuoi interrompere, come vorresti restare ad ascoltare il
canto della cicala o a vedere il tramonto del sole sul Po.
E’
un’esperienza che può durare una sola stagione, ma è destinata al ricordo di
tutta una vita.
5.
Capitolo.
I figli.
Dopo
il terzo anno che i lavori sono stati ultimati ci manca solo un figlio per
completare il disegno di una vita in due.
La
prima figlia è stata lungamente attesa ma non ci ha deluso: è arrivata
puntualmente.
La
nuova casa è proprio quella di Cremona ed i tempi sono stati quelli indicati
nelle predizioni del piattino.
Tutti
sono liberi di crederci, ma questo è quello che è successo!
Anche
la Titti ora ci crede.
E’
stata lei ad andare a prendere i risultati del test di gravidanza il giorno di
Santa Lucia.
E’
lei che ci porta la notizia.
La
nascita del primo figlio ti fa cambiare la vita.
Incominciano
le prime serie preoccupazioni e finisce la libertà di una vita in due.
“Come
sta Paola?” ci interroga la madre superiora della clinica.
Pensa
evidentemente che il primogenito non possa che portare il nome dell'illustre
nonno.
Gio,
però, la pensa diversamente, lei ritiene che Paola non sia un nome indicato per
una bambina meglio dare quel nome al futuro maschietto.
Decide
di chiamarla Nicoletta perché è un nome che le piace tanto; io penso che il
nome del figlio debba sceglierlo la madre.
E’
una ricompensa che le spetta dopo aver affrontato i dolori e le gioie del parto
e quindi non suggerisco nulla. Sto semplicemente zitto, cosa che non capita
molto spesso.
Sono
contento perché porta il nome del nonno Nicola.
La
Mena è l’ostetrica della clinica. Ha fatto nascere migliaia di bambini in una
vita dedicata a questa attività professionale ed è prodiga di consigli che
diligentemente annotiamo.
Sono
lì dietro il vetro spesso che protegge gli infanti dai microbi degli adulti.
“La
vuole vedere più da vicino?” mi chiede.
La
Mena me la scaraventa in braccio.
“Bisogna
pure che si eserciti al mestiere di padre” mi consiglia bonariamente.
Sono
decisamente impacciato in questo nuovo ruolo.
Quell’affarino
è troppo piccolo, troppo delicato, ho paura di fargli del male con le mie mani
non abituate.
“Coraggio
.. coraggio, non è poi così difficile. Deve fare pratica”, mi incoraggia la
Mena.
La
Gio partecipa con un abbraccio ed un tenero bacio; è troppo impegnata a
superare ancora l’anestesia dovuta al cesareo.
Pannolini,
biberon, rigurgiti, notti insonni ad aspettare che quel coso urlante si
addormenti, ma anche tanti sorrisi, tante piccole gioie, le prime parole
papa... mamma; la vita è fatta di tutti questi piccoli attimi: di gioie e
dolori.
Se
di figli ne hai tre non puoi parlare solo di uno perché gli altri si offendono
e non hanno voglia di aspettare il seguito della storia!
Poi
ci si mette di mezzo anche Marcello che si picca di essere un critico
letterario di chiara fama che dirige famosi cineforum.
I
maligni affermano che invece di fare cultura gli associati tengano delle gran
cene.
“Me
fasa el piacer! El scritor so mi e faso quelo che vogio!”
La
sua critica può influire negativamente sulla edizione del volume – rifletto -
può censuralo irrimediabilmente!
Meglio
stare al gioco dei potenti.
Paolo
è il secondogenito.
Dopo
il primo parto la strada è tutta in discesa.
Non
ci vuole forse un maschio per potere dare al professore il dovuto lustro?
Il
diciassette è proprio il mio numero fortunato.
Dopo
diciassette mesi eccomi qui ancora tutto preoccupato: riuscirò a portare in
clinica per tempo il pancione sempre più ingombrante di Gio?
Un
istante: bisogna consultare l’oroscopo per vedere se il quadro astrale è
favorevole.
Incappare
in una congiuntura dissonante potrebbe essere spiacevole per tutti soprattutto
per il piccolo che felice, nel ventre di sua madre, non sa cosa l’attende.
Si
decide che è meglio aspettare ancora un giorno e poi il ricovero.
La
madre superiora è lì incombente.
“Allora
quando nasce Paolo!” formula amabilmente la sua domanda retorica.
La
risposta la sa già e sorride per avere contribuito a vedere felice l’amato Professore.
Paolo
è lì piccolo, piccolo con qualche pelo biondo in testa che ammicca, almeno così
sembra, dietro la vetrata che protegge i neonati in esposizione nel reparto
natalità della clinica.
“Sarà
biondo e alto come il nonno” prevede Giansandro con la sua risata accattivante
che illumina immancabilmente il suo faccione su cui troneggiano, come usano gli
uomini della padania, due baffoni alla Peppone “un gran donnaiolo come me!”
Compagno
di cento cene ed abbondanti bevute è venuto a portare il suo sorriso e la sua
simpatica amicizia.
Ora
sono lì con tutte e due le braccia occupate a ninnare i miei gioielli!
Dopo
due figli, una femmina ed un maschio, sembra che il quadro familiare sia
completato.
Qualcuno
assicura che due figli sono troppo pochi “Ce ne vogliono tre!” profetizza.
Nella
vita però non si sa mai.
Soprattutto
se vai a fare una vacanza a Chienes e a Gio viene voglia di mangiare dei gurchen sotto aceto.
Qui
grossi cetrioli che gli altoatesini amano mangiare con i würstel.
Tutti
sanno che i gurchen hanno degli
effetti collaterali tanto è vero che le famiglie altoatesine sono tutte
numerose per il grosso consumo di cetrioli.
Io
però in Altoadige ci sono andato solo quell’anno a trascorrere le vacanze in
una villetta con Vil.
Ricordiamo
assieme i temi del liceo e gli sberloni che Pit ci rifilava nell’aula di scienze.
Ne
è passato di tempo ed ora siamo qui con i figli da spupazzare.
Lui,
che è un esperto, e sua moglie Sandra, che è una previdente, si sono sempre
rifiutati di mangiare i gurchen.
Dopo
pochi mesi la buona notizia: sta per arrivare anche Isabella!
E’
un nome impegnativo, penso, ma se le figlie assomigliano alla madre non ci sono
problemi!
Anche
la Titti si è stupita (felicemente) quando ha saputo la nuova.
Il
terzo figlio, se non hai più vent’anni, è un dolce e inevitabile fardello.
Ci
vuole coraggio e fiducia nell’aiuto di Dio.
Siamo
tutti felici e abbiamo aggiunto a tavola un altro seggiolone.
Per
ninnolarli tutti e tre devo fare i turni.
Va
bene così, finché c’è la salute.
Siamo
famosi per il nostro record, tutto in
contro tendenza, nella cerchia dei conoscenti.
In
un momento in cui la società opulenta è sempre meno propensa alle famiglie
numerose, noi proseguiamo sulla strada antica.
Giulio,
che pensa di essere più furbo, sorride; lui ha proprio la voglia di prendere in
giro.
Mi
incontra nei corridoi del Tribunale ironizza su quel aumento repentino della
famiglia.
“Come
ci si organizza la vita con tre figli?” chiede pensando si essere spiritoso.
“Basta
investire in baby sitter che la vita è quella di prima, anzi si sta più felicemente
in compagnia.
Meglio
avere una famiglia numerosa che vivere da soli .
Da
due a tre figli non c’è molta differenza.
Provaci”
rispondo sereno.
“
Non sono mica matto!” mi risponde poco convinto.
Ridi, ridi Giulio - ancora non lo sai - ma fra poco
eguaglierai anche tu il mio record!
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