Capitolo sedicesimo
La giurisdizione
ordinaria
Guida
bibliografica.
1.
La
giurisdizione ordinaria.
La dottrina nota la
differenza strutturale tra mezzi di tutela ordinaria e mezzi di tutela amministrativa.
La tutela
amministrativa è disciplinata dalla legge che indica gli usi ammessi del bene
pubblico e i comportamenti - definiti per lo più abusivi - che consentono
l’esercizio della tutela da parte dell’amministrazione. La legge speciale evidenzia
i comportamenti concreti che consentono l’uso della tutela.
La tutela
ordinaria è indicata dal codice civile per schemi astratti, ad esempio la
turbativa, è il giudice che nel caso concreto deve determinare se il
comportamento costituisce concreta offesa al bene pubblico. Cassese 1969, 532.
L’evoluzione
legislativa e dottrinale presenta alcune innegabili linee di tendenza che
convergono nella direzione dell’ampliamento dell’area del diritto soggettivo.
Caringella 2005, 189.
2. L’azione
di rivendicazione.
La dottrina afferma
che l’azione di rivendicazione non trova neppure motivazione beni demaniali.
Dato che l’ente
pubblico ha la proprietà ed il possesso dei beni demaniali esso non può perdere
il relativo possesso. La perdita del possesso equivale, infatti, alla
cessazione della funzione alla quale il bene è destinato. Nel momento in cui
inizia il possesso la demanialità del bene è già cessata con conseguente
utilità della azione di rivendicazione. Guicciardi 1934, 416.
3. Le azioni
possessorie esercitate dalla pubblica amministrazione.
La dottrina
rileva che l’ente pubblico dotato di autotutela fa solitamente ricorso a questa
anziché al mezzo di difesa ordinaria. Cassese 1969, 508.
3.1. Le
azioni possessorie esercitate da terzi rispetto a beni della pubblica dati in
concessione.
La dottrina
afferma che l’art. 1145 c.c., ha la funzione di riconoscere il possesso dei
beni demaniali da parte di soggetti privati senza tuttavia riconoscere uno
degli effetti del possesso: quello di condurre all’acquisto della proprietà.
Cassese 1969, 508.
4. La
responsabilità per danni. I danni per la cattiva manutenzione del
demanio stradale.
E' costante in
dottrina l'affermazione che l'ente proprietario della strada, che sia aperta al
pubblico transito, abbia l'obbligo di mantenerla in condizioni che non
costituiscano per l'utente una situazione di pericolo nascosto. Centofanti
2005, 285.
5. Il danno per
l'esecuzione di un'opera pubblica
E’ pacifica la
giurisdizione del giudice ordinario. La Corte costituzionale ha dichiarato
l'incostituzionalità dell'art. 34, 1° co., d. lg. 31.3.1998
n. 80, mod. art. 7, lett. b), l. 21.7.2000,
n. 205. Corte cost. 6.7.2004, n. 204.
Il giudice delle
leggi, con il sanzionare disposto dell'art. 34, 1° co., d.lg. 80/1998, e l'attribuzione
- con riferimento ai comportamenti della pubblica amministrazione in materia
urbanistica e dell'edilizia - alla giurisdizione esclusiva, ha rimarcato come
il legislatore ordinario ben può ampliare l'area della giurisdizione esclusiva
purché lo faccia con riguardo a materie che, in assenza di tale previsione,
contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica
amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità. La Corte ha
escluso che la mera partecipazione del soggetto pubblico al giudizio sia
sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo e ha
evidenziato come non sia sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico
interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al giudice
amministrativo.
Corollario di tali affermazioni è chela giurisdizione esclusiva nell'attuale assetto costituzionale, non è estensibile alle controversie nelle quali la pubblica amministrazione non esercita - nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici - alcun potere pubblico.
Corollario di tali affermazioni è chela giurisdizione esclusiva nell'attuale assetto costituzionale, non è estensibile alle controversie nelle quali la pubblica amministrazione non esercita - nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici - alcun potere pubblico.
6. Il danno
ambientale.
La tutela
dell'ambiente e dell'ecosistema, ex art. 117, 2° co., lett. s, cost., è
riservata alla legislazione esclusiva dello Stato.
L’art. 299, d.lg.
3.4.2006, n. 152, riserva al Ministro le funzioni e i compiti spettanti allo
Stato in materia di tutela, prevenzione e riparazione dei danni all’ambiente.
Tale accentramento
delle funzioni in capo al Ministro solleva dubbi in rapporto alle disposizioni
del successivo comma tre dell’art. 117, cost.- che delega alla legislazione
concorrente delle regioni la tutela del territorio già riconosciute sotto il
profilo della legittimazione attiva all'azione dall’art. 9, d.lg. 18.8.2000, n.
267. Robustella 2006, 787.
La giurisprudenza
precedente all’entrata in vigore del codice ambiente ha precisato che è legittimato
al risarcimento del danno ambientale, ai sensi dell'art. 18, 3° co., l.
8.7.1986, n. 349, il solo ente territoriale offeso nell'ambiente come assetto
del territorio, che è, appunto elemento costitutivo dell'ente stesso. Cass.
pen., sez. III, 13.11.1992, RGA, 1993, 275.
Il risarcimento può
spettare al Comune la liquidazione del danno ambientale, salva l'eventuale
concorrente legittimazione dello Stato per la parte di danno che si ripercuote
sulla collettività generale. Cass. pen., sez. III, 22.12.1999, n. 1928, RP,
2000, 714.
La giurisprudenza
ha precisato che anche la regione può costituirsi parte civile nel procedimento
penale contro gli autori di fatti produttivi di danno ambientale, per
esercitare in quella sede l'azione di risarcimento. Corte Cost., 12.4.1990, n.
195, CS, 1990, II, 675.
La giurisdizione in
materia di danno ambientale è attribuita al giudice civile o al giudice penale
nel caso di costituzione di parte civile nel relativo giudizio. Dell’Anno 2000,
173.
7. La
determinazione del danno.
La dottrina
invoca una organizzazione amministrativa capace di raccordare da un lato
l'attività del Ministero dell'ambiente (di per sé privo di qualsiasi struttura
periferica in grado di raccogliere, ordinare e valutare tutti gli elementi e le
conoscenze indispensabili all'utile esercizio dell'azione con riferimento alla
singola condotta lesiva dell'ambiente) con i compiti, dall'altro, della locale
Avvocatura distrettuale dello Stato, organo tecnico esclusivo titolare della
rappresentanza dell'Amministrazione statale nel processo e responsabile delle
scelte difensive di volta in volta da compiere. Schiesaro 2003, 1, 173.
8.
La legittimazione processuale delle associazioni ambientaliste.
La dottrina
considera ammissibile la costituzione di parte civile è quando, avendo le
associazioni dato prova di continuità di azione, di aderenza al territorio e
della rilevanza del loro contributo, l'interesse diffuso alla tutela ambientale
si sia concretizzato in una determinata realtà storica di cui il sodalizio ha
fatto il proprio scopo. Morlacchini 2004, 5, 1714.
La giurisprudenza
si è posta il problema se le associazioni ambientaliste possano costituirsi
parti civili nel giudizio penale.
Alcune sentenze
hanno precisato che le associazioni ambientalistiche, anche se riconosciute ai
sensi dell’art. 13, l. 349 del 1986, non sono legittimate a costituirsi parti
civili solo per la tutela del loro interesse astratto e diffuso all'integrità
dell'ambiente. Cass. pen., sez. III, 29.9.1992, FI, 1993, II, 475.
L’indirizzo
giurisprudenziale prevalente ammette che le associazioni individuate a norma
dell'art. 13, l. 349 del 1986, sono legittimate a costituirsi parte civile nei
confronti di imputati di reati produttivi di danno ambientale, in quanto
titolari di un vero e proprio diritto soggettivo alla conservazione e integrità
dell'ambiente. Pret. Velletri, 9.10.1992, GP, 1993, III, 490.
Anche se è stata
limitata la loro azione nel senso che alle associazioni ambientaliste nei
giudizi per i danni patrimoniali è consentito solo un intervento ad
adiuvandum. Le stesse associazioni, invece, non possono ottenere la
liquidazione del danno ambientale in termini monetari. Cass. pen., sez. III,
10.10.1993, RPE, 1995, 372.
9.
Il danno arrecato dalla selvaggina protetta.
Altra giurisprudenza
ha affermato che le situazioni di eventuale pregiudizio che i proprietari dei
tali terreni possono subire, o per limitazioni dirette di attività o per una
forma indiretta di limitazione di sfruttamento, derivante dall'impossibilità di
abbattimento degli animali selvatici, sono situazioni meramente conseguenti e
connesse alla tutela dell'interesse collettivo, rispetto al quale la situazione
giuridica del privato è degradata ad interesse.
Occupandosi di una
fattispecie in cui il privato aveva lamentato danni a due appezzamenti di
terreno inclusi nel comprensorio del Parco naturale dei Monti Sibillini, che
erano stati invasi in ore notturne da cinghiali usciti dai boschi circostanti,
la giurisprudenza ha posto in risalto la singolarità della figura dei parchi
naturali e del regime giuridico dei terreni agricoli in essi compresi, soggetti
a forti restrizioni del diritto di proprietà e di godimento in vista delle
perseguite finalità di tutela e miglioramento della flora e della fauna e della
conservazione dell'ambiente.
L’interpretazione
giurisprudenziale ha finito, però, col ritenere risolutivo, ai fini della
affermata giurisdizione del giudice amministrativo, il fatto che, coerentemente
con tutto questo, nella disciplina dettata dalla l. 12.7.1923, n. 1511 e dal
relativo regolamento r.d. 27.9.1923, n. 2124, per il Parco Nazionale d'Abruzzo,
non era disposto alcun indennizzo ragguagliato alla effettività dei danni
cagionati dagli animali selvatici a singole coltivazioni.
Detta normativa ha previsto solo
un compenso che, in assenza di elementi normativamente prefissati per la sua
determinazione e liquidazione, non assumeva alcun carattere di certezza, almeno
nel quantum, cosicché doveva ritenersi che la situazione vantata al
privato danneggiato fosse solo di interesse legittimo. Cass. civ., Sez. U.,
23.11.1995, n. 12106, GC, 1996, I, 702.
1. La
giurisdizione ordinaria.
La domanda di
accertamento di diritti soggettivi rientra nella giurisdizione ordinaria.
Essa comprende
le controversie relative al riconoscimento della demanialità del bene oggetto
di vertenza, ai rapporti obbligatori tra amministrazione e privati e le
controversie sulle indennità relative a concessioni rilasciate dalla pubblica
amministrazione.
La controversia che
si risolva essenzialmente nell'accertamento del carattere demaniale o meno del
suolo stesso è di pertinenza del g.o., in quanto la posizione che fa valere il
soggetto che assume di essere proprietario dell'immobile è di diritto
soggettivo.
Né ricorrono, nella
fattispecie, i presupposti per l'applicazione dell'orientamento
giurisprudenziale che afferma la giurisdizione amministrativa qualora il
ricorso proposto contro una ingiunzione di sgombero di area demaniale lamenti
lo scorretto esercizio dei poteri di autotutela dell'autorità marittima, in
particolare sotto il profilo della omessa effettuazione della delimitazione del
demanio marittimo ai sensi dell'art. 32 c. nav. e dell'art. 58 del relativo
regolamento di esecuzione: l'interessato non aveva, infatti, formulato siffatte
censure, limitandosi a contestare la demanialità dell'area in questione.
Nella specie la
vertenza aveva come oggetto la richiesta di annullamento di un'ingiunzione di
sgombero di suolo demaniale marittimo.
(T.A.R. Calabria
Reggio Calabria, 8.9.2005, n. 1399, FATAR, 2005, f. 9, 2984).
Le controversie
concernenti le pretese risarcitorie avanzate dalla p.a. nei confronti dei
privati per abusiva occupazione di demanio esulano dalla giurisdizione
amministrativa, non potendo essere ricondotte all'ambito di applicazione
dell'art. 5, l. 6.12.1971, n. 1034.
Si tratta di
rapporti obbligatori di dare-avere, senza alcuna interferenza su atti o
provvedimenti relativi a concessione del bene pubblico.
Né in dette
controversie la giurisprudenza considera applicabile l'art. 34, d.lg.
31.3.1998, n. 80, che regola la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in materie di risarcimento del danno poiché si tratta di
conseguenze risarcitorie derivanti da comportamenti di privati.
(T.A.R. Sardegna,
sez. II, 27.9.2004, n. 1399, FATAR, 2004, 2746).
La giurisprudenza, nelle
controversie in materia di indennità, è orientata a considerare che l’art. 5,
l. n. 1034/1971 ha inteso far salva la giurisdizione del giudice ordinario
soltanto nell’ipotesi in cui la controversia non abbia ad oggetto la
determinazione di canoni che implicano l’esercizio di una discrezionalità da
parte della p.a., ossia non coinvolga la verifica dell’azione autoritativa di
quest’ultima (Cass. civ., sez. un., 31 marzo 2005, n. 6744).
Pertanto, la giurisdizione del giudice ordinario non riguarda tutte le controversie in materia di indennità, canoni e altri corrispettivi.
Pertanto, la giurisdizione del giudice ordinario non riguarda tutte le controversie in materia di indennità, canoni e altri corrispettivi.
Essa non è una giurisdizione
piena, ma ha ad oggetto solo quelle controversie relative a diritti soggettivi.
Restano riservate al giudice ordinario quelle cause che, implicando l’esercizio
di poteri discrezionali della p.a., attengono a interessi legittimi.
Se, dunque, la determinazione della misura del canone non consegue all’applicazione di criteri predeterminati, ma presuppone la corretta qualificazione del rapporto concessorio, viene in rilievo l’esercizio di un potere discrezionale della p.a., e si verte in tema di interessi legittimi, con conseguente giurisdizione del g.a.
Se, dunque, la determinazione della misura del canone non consegue all’applicazione di criteri predeterminati, ma presuppone la corretta qualificazione del rapporto concessorio, viene in rilievo l’esercizio di un potere discrezionale della p.a., e si verte in tema di interessi legittimi, con conseguente giurisdizione del g.a.
La
giurisdizione del giudice ordinario in tema di canoni, indennità e altri
corrispettivi per la concessione di beni demaniali (art. 5, l. n. 1034/1971)
non riguarda «tutte» le controversie in materia (non è, altrimenti detto, una
giurisdizione «piena»), ma solo quelle relative a diritti soggettivi, restando
riservate al giudice ordinario quelle che, implicando l’esercizio di poteri
discrezionale della p.a., attengono ad interessi legittimi. Se, dunque, la
determinazione della misura del canone non consegue all’applicazione di criteri
predeterminati, ma presuppone la corretta qualificazione del rapporto
concessorio, viene in rilievo l’esercizio di un potere discrezionale della
p.a., e si verte in tema di interessi legittimi, con conseguente giurisdizione
del giudice amministrativo.
E’
quanto si verifica nel caso di specie.
Infatti, la determinazione dei canoni e la richiesta di conguaglio sono state l’effetto diretto di una questione di corretta qualificazione del rapporto concessorio: l’amministrazione, che aveva inizialmente qualificato la concessione come attinente ad attività turistico - ricreativa, la ha in un secondo momento qualificata come attinente ad attività riguardante la navigazione. Consequenziale è stata la rideterminazione dei canoni.
Infatti, la determinazione dei canoni e la richiesta di conguaglio sono state l’effetto diretto di una questione di corretta qualificazione del rapporto concessorio: l’amministrazione, che aveva inizialmente qualificato la concessione come attinente ad attività turistico - ricreativa, la ha in un secondo momento qualificata come attinente ad attività riguardante la navigazione. Consequenziale è stata la rideterminazione dei canoni.
(Cons. St., Sez. VI, 27.6.2006, n. 4090).
Dopo la riforma ex legge n. 205
del 2000, il riparto della giurisdizione in materia di concessione di beni
pubblici resta regolato dall'art. 5, l. n. 1034 del 1971, con distinzione dei
ricorsi contro "atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessioni di
beni", devoluti alla competenza dei tribunali amministrativi regionali,
dalle controversie concernenti "indennità, canoni ed altri
corrispettivi", per i quali resta salva la giurisdizione dell'autorità
giudiziaria ordinaria, la controversia concernente canoni o altri corrispettivi
di contenuto meramente patrimoniale e che abbia ad oggetto l'accertamento dei
presupposti della loro debenza è riservata alla giurisdizione del g.o. e,
poiché il giudizio di specie non coinvolge alcuna verifica dell'azione
autoritativa della p.a. sull'intera economia del rapporto concessorio, deve
ritenersi che non sia, comunque, attratto nella sfera di competenza del g.a. (T.A.R. Lazio, sez. II, 14.2.2005,
n. 1289, GM,
2005, f. 7/8, 1722).
2. L’azione
di rivendicazione.
La dottrina
ammette che i rimedi petitori devono essere ammessi per i beni pubblici
(Cassese 1969, 499).
1. Il proprietario
può rivendicare la cosa da chiunque la possiede o detiene e può proseguire l'esercizio
dell'azione anche se costui, dopo la domanda, ha cessato, per fatto proprio, di
possedere o detenere la cosa. In tal caso il convenuto è obbligato a
ricuperarla per l'attore a proprie spese, o, in mancanza, a corrispondergliene
il valore, oltre a risarcirgli il danno.
2. Il proprietario, se consegue direttamente dal nuovo possessore o detentore la restituzione della cosa, è tenuto a restituire al precedente possessore o detentore la somma ricevuta in luogo di essa.
3. L'azione di rivendicazione non si prescrive, salvi gli effetti dell'acquisto della proprietà da parte di altri per usucapione.
(art. 948, c.c.).
2. Il proprietario, se consegue direttamente dal nuovo possessore o detentore la restituzione della cosa, è tenuto a restituire al precedente possessore o detentore la somma ricevuta in luogo di essa.
3. L'azione di rivendicazione non si prescrive, salvi gli effetti dell'acquisto della proprietà da parte di altri per usucapione.
(art. 948, c.c.).
L'azione di
rivendica proposta dal privato contro la pubblica amministrazione diventa
contestazione della proprietà pubblica; essa per la giurisprudenza rientra
nella giurisdizione ordinaria.
In tema di
controversie relative a provvedimenti comunali di classificazione delle strade,
laddove il ricorrente contesti la proprietà pubblica della strada, la domanda
assume il contenuto di una vera e propria azione di rivendicazione o di
accertamento negativo di servitù, che rientra nella giurisdizione del giudice
ordinario.
L'azione di
rivendica di beni archeologici ha delle peculiarità del tutto particolari.
Essa è promossa
dall'amministrazione statale per affermare la proprietà a titolo originario del
bene da parte dello Stato.
Il ritrovamento o
la scoperta dei beni stessi in data anteriore all'entrata in vigore della l.
364 del 1909, non è fatto costitutivo negativo del diritto azionato, ma fatto
impeditivo che deve essere provato da chi l'eccepisce.
Dal complesso delle
disposizioni, contenute nel codice civile e nella legislazione speciale,
regolante i ritrovamenti e le scoperte archeologiche, ed il relativo regime di
appartenenza, la giurisprudenza ricava il principio generale della proprietà
statale delle cose d'interesse archeologico e della eccezionalità delle ipotesi
di dominio privato sugli stessi oggetti.
qualora
l'amministrazione intenda rientrare in possesso dei beni detenuti da soggetti
privati, incombe al possessore l'onere della prova, e della dedotta scoperta, e
appropriazione, anteriormente all'entrata in vigore della l. 364 del 1909, a
partire dalla quale le cose ritrovate nel sottosuolo appartengono allo Stato.
Poiché, dalla
entrata in vigore della l. 20.6.1909, n. 364, la proprietà sui reperti
archeologici appartiene, a titolo originario, allo Stato, il privato che
rivendichi il proprio diritto di proprietà su detti beni può solo eccepire,
fornendone la relativa prova, che i beni stessi sono stati acquisiti in
proprietà privata prima del 1909 ovvero far valere una delle ipotesi nelle
quali la l. 1.6.1939, n. 1089, consente che quei beni ricadano in proprietà di
privati.
La disciplina delle cose d'interesse archeologico non crea un'ingiustificata posizione di privilegio probatorio. Lo Stato, nell'azione di rivendica dei beni archeologici può avvalersi di una presunzione di proprietà statale. La presunzione può essere determinata, oltre che da un id quod plerumque accidit di fatto - nella specie, peraltro, furono rinvenute sugli oggetti tracce di terra, segno della provenienza da scavi - anche da una normalità normativa.
Nel giudizio di
accertamento della proprietà pubblica di beni archeologici in possesso di
privati, il ritrovamento o la scoperta dei beni stessi in data anteriore
all'entrata in vigore della legge n. 364 del 1909, costituente ipotesi di
legittimo possesso da parte di privati, deve essere provato, in quanto
circostanza eccezionale, da chi l'eccepisce.
Conseguentemente,
opponendosi una circostanza eccezionale, idonea a vincere la presunzione, deve
darsene la prova (Cass. Civ., sez. I, 18.4.1995, n. 4337).
Spetta inoltre al privato, che ragionevolmente - dato il tempo trascorso, ormai, dal 1909 – deduce di aver ricevuto il bene a titolo derivativo, per successione ereditaria, dare compiuta dimostrazione sia sotto il profilo della ricomprensione del bene nell'asse ereditario, sia del ritrovamento in epoca anteriore alla l. 364 del 1909. A meno che non si tratti di acquisto lecito da chi legittimamente possedeva il bene: ma di ciò deve analogamente darsi dimostrazione.
Spetta inoltre al privato, che ragionevolmente - dato il tempo trascorso, ormai, dal 1909 – deduce di aver ricevuto il bene a titolo derivativo, per successione ereditaria, dare compiuta dimostrazione sia sotto il profilo della ricomprensione del bene nell'asse ereditario, sia del ritrovamento in epoca anteriore alla l. 364 del 1909. A meno che non si tratti di acquisto lecito da chi legittimamente possedeva il bene: ma di ciò deve analogamente darsi dimostrazione.
3. Le azioni
possessorie esercitate dalla pubblica amministrazione.
L’esercizio delle
azioni possessorie da parte della pubblica amministrazione contro i terzi è
alternativo all'utilizzo dell'autotutela possessoria iuris publici.
La dottrina
ammette unanimemetne l’azione di amnutenziome. Essa esclude l’azione di
rentegrazione.
Il bene infatti
o è ancora demaniale e allora non può essere possedutio da un terzo e quindi
non sussite lo stesso rpesupposto dell’azione.
Altra ipotesi
possibile il ene è in possesso di un terzo e allora non è più demaniale poiché
un bene demanile non può essere in possesso di un terzo (Cassese 1969, 508).
Resta ovviamente
ferma la possibilità per l’amministrazione di adire la competente autorità
giudiziaria attraverso un'azione petitoria diretta a far dichiarare
l'accertamento del proprio diritto sul bene immobile in questione.
L'autotutela della
pubblica amministrazione è espressione della sua supremazia.
Essa può essere
esercitata solo nei confronti di soggetti privati, non anche nei confronti di
soggetti che fanno parte anch'essi della pubblica amministrazione e che, in
quanto tali, sono nella medesima condizione giuridica.
Pertanto, un Comune
non può esercitare i propri poteri di autotutela a difesa della proprietà
demaniale, secondo la previsione dell'art. 823, 2° co., c.c., nei confronti di
una Regione.
Principio espresso
in controversia possessoria promossa dalla Regione nei confronti di un Comune;
enunciando il principio di cui in massima, le S.U. hanno dichiarato la
giurisdizione del g.o.
3.1. Le
azioni possessorie esercitate da terzi rispetto a beni della pubblica dati in
concessione.
I privati
concessionari di beni pubblici possono esercitare l’azione di spoglio qualora
vi siano turbative nel loro possesso da parte di terzi.
La giurisprudenza
ha inteso lo spoglio non solo come privazione del possesso, ma anche come
ostacolo, impedimento al suo libero ed incondizionato esercizio.
1. Il possesso
delle cose di cui non si può acquistare la proprietà è senza effetto.
2. Tuttavia nei rapporti tra privati è concessa l'azione di spoglio rispetto ai beni appartenenti al pubblico demanio e ai beni delle province e dei comuni soggetti al regime proprio del demanio pubblico.
3. Se trattasi di esercizio di facoltà, le quali possono formare oggetto di concessione da parte della pubblica amministrazione, è data altresì l'azione di manutenzione.
2. Tuttavia nei rapporti tra privati è concessa l'azione di spoglio rispetto ai beni appartenenti al pubblico demanio e ai beni delle province e dei comuni soggetti al regime proprio del demanio pubblico.
3. Se trattasi di esercizio di facoltà, le quali possono formare oggetto di concessione da parte della pubblica amministrazione, è data altresì l'azione di manutenzione.
(art. 1145, c.c.).
La giurisprudenza
ritiene che a tutela del possesso relativo al passaggio esercitato su strada
vicinale ad uso pubblico è esperibile, nei rapporti fra privati - ai sensi
dell'art. 1145, 2° co., c.c. - l'azione di spoglio.
Tale tutela è
concessa indipendentemente dalla titolarità da parte del privato di un uso
speciale od eccezionale sul bene.
La lesione del
possesso, tutelabile con l'azione di reintegrazione, è causata non soltanto con
la privazione del possesso ma anche con gli atti che determinino l'ostacolo o
l'impedimento al suo libero ed incondizionato esercizio.
Nella specie la
Corte, ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito che aveva
qualificato come azione di reintegrazione e non di manutenzione del possesso
quella proposta dai ricorrenti a tutela del passaggio da loro esercitato su strada
vicinale ad uso pubblico, che era stato ostacolato dalla convenuta, la quale -
assumendo di esserne proprietaria - aveva diffidato i ricorrenti a non
praticarlo, collocando segnali di divieto di passaggio all'imbocco della
strada.
L'esperibilità
dell'azione di spoglio anche rispetto ai beni appartenenti al pubblico demanio
ed ai beni degli enti pubblici territoriali ad essi equiparati, espressamente
ammessa dall'art. 1145 c.c., comporta che la questione in ordine alla natura
demaniale o meno del bene è, in materia di azioni possessorie, del tutto
ininfluente sul thema decidendum (Cass. Civ., sez. II, 17.8.2005,
n. 16967).
La dottrina nega
che l’azione di spoglio sia attribuibile per tutti i beni demaniali
distinguendo i beni in proprietà ed uso collettivo sottoposti a riserva dai
beni in proprietà ed uso esclusivo dell’ente pubblico. I beni del demanio
militare di cui l’ente pubblico è esclusivo utilizzatore, ad esempio, ne sono
esclusi.
Nel primo caso
l’ente pubblico è mero gestore e quindi le azioni a difesa del possesso sono
attribuite ai membri della collettività che li utilizzano, mentre nel secondo
caso l’ente pubblico è non solo proprietario ma anche unico utilizzatore e
quindi solo all’amministrazione spettano le azioni a tutela del possesso
(Cassese 1969, 515).
3.2. Le
azioni possessorie contro la pubblica amministrazione.
L'azione
possessoria contro la pubblica amministrazione è sempre di competenza
dell'autorità giudiziaria ordinaria e il divieto ad essa imposto dall'art. 4
della l. 2248/1865 all. e) - di non revocare o modificare atti amministrativi -
opera come limite interno di tale giurisdizione.
Di fatto tale
ipotesi si realizza nel caso di occupazione abusiva di beni demaniali di cui
l’amministrazione affermi, invece, la demanialità.
L’oggetto del
giudizio è quindi l’accertamento della demanialità e l’azione possessoria
appare residuale e quindi in pratica difficilmente praticabile.
La giurisprudenza
ritiene sussista la giurisdizione amministrativa qualora la controversia sia
relativa al sottostante rapporto di concessione che giustifichi il possesso del
bene da parte del privato.
In materia di
azioni possessorie contro la p.a., la cognizione sulle stesse appartiene al
giudice ordinario o a quello amministrativo, a seconda che sulla situazione di
potere di fatto dedotta in causa possa farsi astrattamente corrispondere una
situazione soggettiva di diritto ovvero di interesse legittimo. Ne segue, per
l'effetto, che ove la domanda di reintegra nel possesso abbia ad oggetto un
bene del pubblico demanio, di cui il ricorrente godeva in virtù di una
concessione-contratto di bene pubblico, la giurisdizione spetta, in via
esclusiva, al giudice amministrativo.
4. La
responsabilità per danni. I danni per la cattiva manutenzione del demanio
stradale.
La discrezionalità
della pubblica amministrazione, nella vigilanza e nel controllo dei beni
demaniali, è delimitata dal principio del neminem laedere.
E’ configurabile la
responsabilità della p.a., a norma dell'art. 2051 c.c., per il danno cagionato
al privato da un bene demaniale, atteso che questo, essendo nella custodia
dell'amministrazione medesima, rientra nel suo potere di vigilanza e controllo.
Ciascuno è
responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi
il caso fortuito.
(art. 2051 c.c.).
Il mancato o
negligente esercizio del potere, presunto dall'art. 2051 c.c., segna il limite
del potere discrezionale di essa.
La giurisprudenza
evidenzia che la presunzione di responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. non
opera nei confronti della p.a. per danni cagionati a terzi da beni demaniali
sui quali è esercitato un uso ordinario, generale e diretto da parte dei
cittadini.
Tale presunta
responsabilità trova un limite con riguardo ai beni demaniali sui quali è
esercitato un uso ordinario generale e diretto da parte dei cittadini (demanio
marittimo, fluviale, lacuale stradale, autostradale, strade ferrate), quando
cioè l'estensione del bene stesso renda praticamente impossibile l'esercizio di
un continuo ed efficace controllo che valga ad impedire l'insorgenza di cause
di pericolo per i terzi, restando invece applicabile in relazione ai beni
demaniali che, per la loro limitata estensione territoriale, consentono
un'adeguata attività di vigilanza, come è nel caso dell'erosione di fette di
terreno cagionata dal corso d'acqua di un fiume.
(Trib. sup.re
acque, 21.10.2002, n. 131, DT, 2003, 264).
Per quanto attiene
al demanio stradale è costante in giurisprudenza l'affermazione che l'ente
proprietario della strada, che sia aperta al pubblico transito, abbia l'obbligo
di mantenerla in condizioni che non costituiscano per l'utente una situazione
di pericolo nascosto.
Si considera che
l'utente faccia logicamente affidamento nella apparente agibilità della strada.
Il pericolo
sussiste qualora vi sia il requisito oggettivo della non visibilità e quello
soggettivo della non prevedibilità del pericolo, il cui accertamento è
riservato al giudice di merito.
La discrezionalità
amministrativa incontra il suo limite nella regola del neminem laedere,
che, in caso di violazione, può dare luogo a responsabilità civile, penale e
disciplinare, con conseguente dovere del risarcimento dei danni a favore del
cittadino leso dalla incuria della p.a.
Caso tipico, ma non
esclusivo, di violazione della regola neminem laedere è, appunto,
l'insidia o trabocchetto che cagioni danno all'utente della strada.
Per insidia si deve
intendere un inganno, un agguato, un tranello, una trappola, oppure un pericolo
non facilmente individuabile; per trabocchetto si deve intendere ciò che
nasconde bene una difficoltà o un tranello.
(App. Milano,
3.4.2001, RGPL, 2001, 749).
Il principio è
applicabile anche qualora l'insidia derivi da lavori stradali che abbiano
comportato insidia o trabocchetto, che hanno provocato il sinistro per mancanza
di cartelli di segnalazione, anche se rimossi da terzi e per la conseguente
impossibilità di vedere da parte del conducente lo stato della strada.
Per contro l’idonea
segnalazione elimina la responsabilità.
Non costituisce
insidia, e non può essere quindi fonte di responsabilità per la p.a., una
superficie mattonata di un vialetto, appena posta in opera ed asseritamene
scivolosa, esistente su demanio comunale, ove l'ente proprietario abbia
disposto il divieto di accesso ai pedoni con apposite transenne a causa dei
lavori in corso.
(Trib. Brindisi,
21.4.2005).
Il risarcimento è
escluso nel caso di anomalie "non strutturali", ai fini della
configurabilità del "caso fortuito" nel caso di modificazione
repentina, imprevedibile e non evitabile per l'impossibilità di un tempestivo
intervento.
Fattispecie in tema
di caduta a causa di un avvallamento nella pavimentazione di un marciapiede
profondo circa 10 cm e posto tra alcune radici di alberi sporgenti e uno
scivolo destinato a facilitare l'attraversamento della strada alle persone non
deambulanti.
(Trib. Roma,
15.4.2005).
5. Il danno per
l'esecuzione di un'opera pubblica.
La discrezionalità
della pubblica amministrazione circa i criteri e le modalità di esecuzione di
un opera pubblica in relazione all'apprezzamento ad essa demandato degli
interessi e delle esigenze della collettività dei cittadini e degli strumenti
atti a soddisfarli, non esime l'amministrazione dall'osservare le specifiche
disposizioni di legge e di regolamento e le generali norme di prudenza e
diligenza, imposte dal già ricordato precetto del neminem laedere a
tutela dell'incolumità dei cittadini e dell'integrità del loro patrimonio.
Se dall’esecuzione
dell’opera deriva un danno al terzo, questo ha azione risarcitoria, anche in
forma specifica, davanti al giudice ordinario, vertendosi in tema di fatto
illecito lesivo di posizioni di diritto soggettivo (Cass. Civ., Sez. Un., 6.12.1988
n. 6635).
Il giudice ordinario, in tali ipotesi, non solo può accertare gli obblighi dell'amministrazione, condannandola al risarcimento del danno, ma può anche pronunciare condanna di essa ad un facere specifico, senza violazione del limite interno delle sue attribuzioni giurisdizionali fissato dall'art. 4, l. 20.3.1865, n. 2248, all. e), perché non operando l'ente pubblico come autorità, detto facere non può considerarsi alla stregua di una attività provvedimentale o comunque riservata all'escluso apprezzamento della competente autorità amministrativa.
Il giudice ordinario, in tali ipotesi, non solo può accertare gli obblighi dell'amministrazione, condannandola al risarcimento del danno, ma può anche pronunciare condanna di essa ad un facere specifico, senza violazione del limite interno delle sue attribuzioni giurisdizionali fissato dall'art. 4, l. 20.3.1865, n. 2248, all. e), perché non operando l'ente pubblico come autorità, detto facere non può considerarsi alla stregua di una attività provvedimentale o comunque riservata all'escluso apprezzamento della competente autorità amministrativa.
La discrezionalità
della p.a. circa i criteri e le modalità di esecuzione di un'opera pubblica in
relazione all'apprezzamento ad essa demandato degli interessi e delle esigenze
della collettività dei cittadini e degli strumenti atti a soddisfarli, non
esime l'amministrazione dall'osservare le specifiche disposizioni di legge e di
regolamento e le generali norme di prudenza e diligenza, imposte dal precetto
del neminem laedere a tutela dell'incolumità dei cittadini e
dell'integrità del loro patrimonio, con la conseguenza che se dall'osservanza
di tali norme derivi un danno al terzo, deve a questi riconoscersi azione
risarcitoria, anche in forma specifica, davanti al g.o., vertendosi in tema di
fatto illecito lesivo di posizioni di diritto soggettivo.
Il danno, arrecato
alla proprietà immobiliare del privato in conseguenza dell'esecuzione di
un'opera pubblica, per essere indennizzabile deve riguardare la perdita o la
diminuzione del reddito o del valore di scambio del bene medesimo.
Esso non è
ravvisabile quando nella realizzazione dell'opera pubblica la p.a. abbia
osservato le norme poste a tutela della proprietà privata.
Non sono, pertanto,
indennizzabili la limitazione dell'insolazione e dell'aerazione derivante all'immobile
del privato dall'esecuzione di un'opera pubblica eseguita nel rispetto delle
leggi, trattandosi di utilità non protette come diritti soggettivi, né la
maggiore difficoltà di accesso alla pubblica via a carico dell'immobile del
privato non integra perdita di una parte del contenuto patrimoniale del diritto
di proprietà.
Nella specie, è
stato ritenuto che non integrasse un pregiudizio indennizzabile la circostanza
che la strada per accedere al centro abitato era stata interrotta per creare
l'attraversamento della autostrada e che in alternativa era stata costruita
altra strada per il raggiungimento del centro abitato con un percorso maggiore.
(Cass. Civ., sez. I, 6.4.1982, n. 2106).
6. Il danno
ambientale.
L’art. 300, d.lg.
3.4.2006, n. 152, definisce danno ambientale qualsiasi deterioramento
significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o
dell’utilità assicurata da quest’ultima.
Il secondo comma
dell’art. 300, d.lg. 3.4.2006, n. 152, contiene un vero e proprio elenco degli
ambiti che possono essere oggetto di deterioramento ambientale che restringe
apparentemente i fatti che possono essere lesivi dell’ambiente.
La norma afferma
che costituisce danno ambientale, in particolare, il deterioramento, in
confronto alle condizioni originarie, provocato:
a)
alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e
comunitaria di cui alla l. 11.2.1992, n. 157, recante norme per la protezione
della fauna selvatica, e di cui al d.p.r. 8.9.1997, n. 357, relativa alla
conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora
e della fauna selvatiche, nonché alle aree naturali protette di cui alla l.
6.12.1991, n. 394;
b) alle acque
interne, mediante azioni che incidano in modo significativamente negativo sullo
stato ecologico, chimico e/o quantitativo oppure sul potenziale ecologico delle
acque interessate;
c) alle acque
costiere ed a quelle comprese nel mare territoriale mediante le azioni
suddette, anche se svolte in acque internazionali;
d)
al terreno, mediante qualsiasi contaminazione che crei un rischio significativo
di effetti nocivi, anche indiretti, sulla salute umana a seguito
dell’introduzione nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze, preparati,
organismi o microrganismi nocivi per l’ambiente.
Tale elenco è da
considerarsi esemplificativo e non tassativo.
E’ evidente,
infatti, che sono lesivi dell’ambiente tutte le fattispecie di interventi
realizzati senza la cosiddetta autorizzazione ambientale, invece che il
legislatore fa specifico riferimento a fattispecie definite dalla Direttiva
2004/35/CE.
La giurisprudenza
precedente all’entrata in vigore del codice dell’ambiente ha affermato che
l’ipotesi di danno ambientale si realizza nelle seguenti fattispecie.
Nel caso di
violazione dell'art. 21, 1° e 3° co., l. 10.5.1976, n. 319, recante norme per
la tutela delle acque dall’inquinamento, consistente nello sversamento, nelle
acque del torrente Bormida, di reflui di lavorazioni industriali contenenti
valori di pH superiori al consentito (Cass. pen., sez. III, 31.3.1994, CP,
1995, 1610).
Nel caso di
procedimento per costruzione senza concessione ed in violazione dell'art. 734,
c.p., e della l. 8.8.1985, n. 431, e di discarica abusiva per lavori appaltati
dal Ministero delle poste e telecomunicazioni, concernenti la realizzazione di
una stazione radio con traliccio metallico e posa in opera di cavo coassiale in
zona di alto valore paesaggistico e storico (Cass. pen., sez. III, 18.4.1994, CP,
1995, 1932).
Nel caso di
sversamento di reflui inquinanti oltre i limiti consentiti comporta un danno
all'equilibrio ambientale risarcibile, ex art. 18, l. 8.7.1986, n. 349,
nell’ipotesi di una compromissione, di una alterazione, di un deterioramento o,
nei casi più gravi, di una distruzione totale o parziale del sistema naturale
interessato; tale danno è sicuramente riscontrabile in caso di immissione di un
corpo ricettore di inquinanti chimici oltre la soglia ritenuta pericolosa dalla
legge (Cass. pen, sez. III, 10.11.1993, RGA, 1995, 91).
Nell'ipotesi della
semplice alterazione di una delle componenti ambientali, sicuramente
riscontrabile nel caso di immissione in un corpo ricettore di inquinanti
chimici oltre la soglia ritenuta pericolosa dalla legge, tale da giustificare
addirittura la sanzione penale. Nella specie la suprema Corte ha osservato che
per i ripetuti scarichi, alcuni contenenti perfino mercurio, un danno
ambientale era stato accertato e giustamente ne erano stati considerati
destinatari lo Stato e gli enti territoriali. (Cass. pen., sez. III,
10.11.1993, CP, 1995, 1351).
Esula dal concetto
di danno ambientale l'impugnativa di atti di pianificazione del territorio (T.A.R. Toscana, sez. I,
25.5.2005, n. 2576,
FATAR, 2005, n. 5, 1463.
Non è consentita
un'opposizione di merito alla scelta dell'amministrazione di intervento in una
zona della città che, comunque, è idoneo ad incidere sulla morfologia
paesaggistico-ambientale della zona, nonché sull'assetto urbanistico e
architettonico del centro come negli anni consolidatosi", sostituendo così
i propri apprezzamenti estetici e funzionali a quelli che, secondo la legge,
sono, invece, riservati all'Amministrazione comunale.
Provoca danno ambientale, secondo detta disposizione, un qualunque fatto doloso o colposo, in violazione di disposizioni di leggi o di provvedimenti adottati in base a legge, che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto od in parte.
Provoca danno ambientale, secondo detta disposizione, un qualunque fatto doloso o colposo, in violazione di disposizioni di leggi o di provvedimenti adottati in base a legge, che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto od in parte.
Secondo la dottrina
si ha responsabilità per danno ambientale non solo quando si lede un vincolo
ambientale in senso stretto, ma anche quando è violato uno dei tre settori
della legislazione ambientale in senso lato: la bellezza naturale; la difesa
dell’ambiente; l’urbanistica (Assini 2005, 2402).
La
giurisdizione in materia di danno ambientale è attribuita al giudice civile o
al giudice penale nel caso di costituzione di parte civile nel relativo
giudizio, ex art. 311, d.lg. 152/2006.
1. Il Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio agisce, anche esercitando l'azione
civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma
specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, oppure procede ai
sensi delle disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto.
(art. 311, d.lg.
3.4.2006, n. 152)
La giurisprudenza
ha precisato le condizioni per l’esperimento dell’azione di risarcimento.
Essa può essere
promossa soltanto quando sussista un pregiudizio concreto alla qualità della
vita della collettività, sotto il profilo dell'alterazione, del deterioramento
o della distruzione, in tutto o in parte, dell'ambiente.
Non danno luogo a
risarcimento, di regola, violazioni meramente formali. La lesione dell'immagine
dell'ente territoriale, nella specie Comune e Provincia, il quale, dalla
commissione di reati ambientali veda compromesso il prestigio derivante
dall'affidamento di compiti di controllo o gestione, costituisce danno non
risarcibile autonomamente. In tale caso il risarcimento deve essere
riconosciuto soltanto quando sia stato concretamente accertato il detto danno
ambientale, al quale sia collegata, come aspetto non patrimoniale, la
menomazione del rilievo istituzionale dell'ente (Cass. pen., sez. III,
19.3.1992, CP, 1993, 1532).
7. La
determinazione del danno.
La l. 349 del 1986
ribadisce che per la determinazione del danno deve essere preso in
considerazione il costo del ripristino delle risorse naturali il profitto
indebito conseguito dall’autore del danno e del grado della colpa dell’agente.
Per la
quantificazione del c.d. danno ambientale è necessario valutare sia l’attività
edificatoria, in specie immobili su aree demaniali, che la successiva
utilizzazione delle stesse, considerato che l’art. 18, l. 349 del 1996, pone
tra i criteri di liquidazione del danno, quello del profitto conseguito dal
trasgressore collegato anche all’attività di destinazione e sfruttamento delle
opere.
(Trib.
Napoli, 10.10.2004).
La giurisprudenza
ammette che in mancanza di misurazioni qualitative e quantitative
dell'inquinamento, il danno ambientale sia liquidato dal giudice penale sulla
scorta dei criteri equitativi dettati dall'art. 18, l. 349 del 1986, ed il suo
ammontare, fermo restando il costo di ripristino delle risorse naturali, varia
in funzione del grado della colpa e del profitto indebito conseguito dal
trasgressore. (Trib. Venezia, 27.11.2002, RgAmb, 2003, 163).
Il giudice deve,
comunque, tenere conto della gravità della colpa individuale, delle spese
necessarie per il ripristino e del profitto derivato al trasgressore dal suo
comportamento di danneggiamento dei beni ambientali.
Qualora più persone
abbiano concorso nel compiere lo stesso danno, ciascuno deve rispondere secondo
la propria responsabilità individuale.
Ove possibile, il
giudice ordina il ripristino dei beni ambientali, a spese del responsabile,
nella sentenza di condanna.
La riscossione dei
crediti in favore dello Stato risultanti dalle sentenze di condanna lo Stato si
effettua a mezzo ruolo.
L’art. 311, 3° co.,
d.lg. 3.4.2006, n. 152, dà una definizione più compiuta dei criteri per
determinare il risarcimento.
Detta precisa,
infatti, che alla quantificazione del risarcimento per equivalente patrimoniale
il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio provvede in applicazione
dei criteri enunciati negli Allegati 3 e 4 al d.lg. 3.4.2006, n. 152.
Il risarcimento di
danni provocati da impianti i cui progetti sono sottoposti a VIA, all. 3, deve
essere quantificato tenendo in evidenza gli elementi di verifica richiesti per
l'assoggettamento a VIA di quei progetti con particolare riferimento alle
caratteristiche dei progetti alla loro localizzazione e alle caratteristiche
del loro impatto potenziale.
8.
La legittimazione processuale delle associazioni ambientaliste.
Le seguenti
associazioni di protezione ambientale sono state individuate con decreti del
Ministero dell’ambiente: Agriturist; Amici della terra; Associazione
Greenpeace; Associazione Kronos 1991; Club Alpino Italiano; Federnatura; Fondo
ambiente italiano; Gruppi ricerca ecologica; Italia nostra; Lega ambiente; Lega
italiana per i diritti dell’animale; Lega italiana protezione uccelli; Mare
vivo; Touring Club Italiano; World Wildelife Fund.
Le associazioni di
protezione ambientale hanno le seguenti facoltà:
1) il potere di
denunciare, assieme ai cittadini, i fatti che danneggino i beni ambientali di
cui siano a conoscenza, con lo scopo di sollecitare l’intervento da parte dei
soggetti pubblici autorizzati;
2) il potere
d’intervenire nei giudizi per danno ambientale e di ricorrere al tribunale
amministrativo per l’annullamento di atti illegittimi, ai sensi dell’art. 18,
4° e 5° co., l. 349 del 1986.
Le associazioni
ambientalistiche sono legittimate a ricorrere avverso il rilascio di
concessioni edilizie, risultando esteso il concetto di ambiente a problemi di
conservazione del paesaggio urbano e rurale nonché del carattere ambientale
della città in rapporto al grande sviluppo attuale degli insediamenti edilizi
(T.A.R. Toscana, sez. I, 18.3.1994, n. 246, FA, 1994, 1523).
La giurisprudenza
ha precisato che l'art. 18, 5° co., della l. 349 del 1986, riconosce alle
associazioni di protezione ambientale espressamente individuate, con atto di
accertamento avente effetti costitutivi, nel decreto ministeriale emanato ai
sensi dell'art. 13, c. 1, della Legge stessa un interesse individuale a
ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti
amministrativi illegittimi, puntualizzandosi in esse la tutela di interessi
diffusi e connettendosi a tali interessi, per forza normativa, la garanzia
propria degli interessi legittimi (T.A.R. Lazio, sez. I, 21.9.1989, n. 1272, GI,
1992, III, 1, 516).
E' priva della
legittimazione ad agire l'associazione ambientalista che non presenti le
caratteristiche definite dagli artt. 13 e 18, 5° co., l. 8.7.1986, n. 349,
consistenti nell'essere un'associazione nazionale, riconosciuta con decreto del
ministro per l'ambiente, presente in almeno cinque regioni (T.A.R. Veneto, sez.
II, 9.6.1992, n. 475, FA, 1993, 179).
Le associazioni di
protezione ambientale individuate ai sensi dell'art. 13, l. 6.7.1986, n. 349,
possono proporre le azioni risarcitorie conseguenti a danno ambientale, di
competenza del giudice ordinario, che spettano al comune o alla provincia.
Le associazioni di
protezione dell'ambiente possono intervenire nel processo e costituirsi parti
civili, in quanto abbiano dato prova di continuità della loro azione, aderenza
al territorio, rilevanza del loro contributo, ma soprattutto perché formazioni
sociali nelle quali si svolge dinamicamente la personalità di ogni uomo,
titolare del diritto all'ambiente.
(Cass. pen., sez. III, 1.10.1996, n. 9837, DPP,
1997, 590).
La giurisprudenza
ha precisato che l'eventuale risarcimento del danno deve essere liquidato in favore
dell'Ente sostituito (Cass. Pen., sez. III, 3.12.2002,
n. 43238, CP,
2004, 1711).
Una diretta
partecipazione all'esercizio dell'azione di danno, è stata invece prevista
dall'art. 9, d.lg. n. 267/2000, che ha introdotto un meccanismo di sostituzione
processuale, in forza del quale le associazioni riconosciute possono proporre
le azioni risarcitorie spettanti al Comune o alla Provincia, nei casi in cui
tali enti siano rimasti inerti.
Ai fini che qui interessano, giova ricordare che quest'ultimo riconoscimento normativo si è inserito in un sistema processuale diverso da quello vigente al momento dell'approvazione della l. 349/1986, al cui interno gli enti rappresentativi degli interessi lesi dal reato, portatori di un interesse penale alla repressione del fatto criminoso, hanno lo status di autonoma figura soggettiva, munita della facoltà di intervenire nel procedimento, ex artt. 91 e ss. c.p.p.
L'intervento de quo, subordinato al consenso della persona offesa, ex art. 92 c.p.p., è svincolato da finalità di tipo risarcitorio.
Ai fini che qui interessano, giova ricordare che quest'ultimo riconoscimento normativo si è inserito in un sistema processuale diverso da quello vigente al momento dell'approvazione della l. 349/1986, al cui interno gli enti rappresentativi degli interessi lesi dal reato, portatori di un interesse penale alla repressione del fatto criminoso, hanno lo status di autonoma figura soggettiva, munita della facoltà di intervenire nel procedimento, ex artt. 91 e ss. c.p.p.
L'intervento de quo, subordinato al consenso della persona offesa, ex art. 92 c.p.p., è svincolato da finalità di tipo risarcitorio.
In particolare,
esso ha la funzione di garantire l'apporto conoscitivo degli enti collettivi al
processo, in materie connotate da particolare complessità tecnica - come
l’edilizia, l’ambiente e la tutela dei consumatori - e regolate da normative in
continua evoluzione, nell'affrontare le quali l'ufficio del pubblico ministero
era stato ritenuto incapace di garantire un esercizio tempestivo e costante dell'azione
penale.
Le associazioni
ambientalistiche sono legittimate a costituirsi parte civile iure proprio,
nei procedimenti per reati ambientali.
Niente osta alla costituzione di parte civile delle associazioni ambientalistiche che abbiano subìto un danno risarcibile dal reato, alla stregua di un qualunque soggetto dell'ordinamento.
Niente osta alla costituzione di parte civile delle associazioni ambientalistiche che abbiano subìto un danno risarcibile dal reato, alla stregua di un qualunque soggetto dell'ordinamento.
Si pensi, ad
esempio, ai reati contro il patrimonio o contro l'onore, come l’attentato
contro la sede dell'associazione, o, più in generale, ai casi in cui il
perseguimento dei fini statutari sia stato impedito o ostacolato da
comportamenti criminosi spiegati nei confronti dei legali rappresentanti o dei
portavoce del sodalizio.
Le stesse considerazioni valgono nei casi di danno ambientale.
Le stesse considerazioni valgono nei casi di danno ambientale.
Se, pertanto, dal
fatto lesivo dell'ambiente sia derivato anche un autonomo danno
all'associazione, questa è certamente legittimata, secondo le regole ordinarie,
ad esercitare l'azione civile riparatoria, come nell'ipotesi in cui è
proprietaria dell'area boschiva danneggiata da una costruzione abusiva, o la
sua sede è situata in una zona interessata da un disastro ambientale.
Accanto a questa legittimazione ordinaria, la prevalente giurisprudenza di legittimità, riprendendo idee elaborate sotto la vigenza del c.p.p. del 1930, ammette una legittimazione speciale.
In caso di danno ambientale le associazioni possono costituirsi parte civile in quanto tali, e cioè nella qualità di soggetti che perseguono la finalità statutaria di tutela dell'ambiente.
La tesi si articola nei seguenti passaggi: a) il danno ambientale, in quanto lesivo di un bene rilevante ex art. 2 cost., reca, ipso facto, un'offesa alla persona umana nella sua dimensione individuale e sociale; b) per le associazioni ambientalistiche, la lesione riguarda il diritto della personalità del sodalizio, in relazione allo scopo perseguito; c) il conseguente danno ha natura sia patrimoniale - per i costi sostenuti nello svolgimento delle attività di propaganda e di sensibilizzazione della pubblica opinione - sia non patrimoniale per le frustrazioni degli associati nonché per il discredito derivante dal mancato raggiungimento dello scopo, che potrebbe indurre gli stessi associati a privare il sodalizio del loro sostegno personale e finanziario.
Accanto a questa legittimazione ordinaria, la prevalente giurisprudenza di legittimità, riprendendo idee elaborate sotto la vigenza del c.p.p. del 1930, ammette una legittimazione speciale.
In caso di danno ambientale le associazioni possono costituirsi parte civile in quanto tali, e cioè nella qualità di soggetti che perseguono la finalità statutaria di tutela dell'ambiente.
La tesi si articola nei seguenti passaggi: a) il danno ambientale, in quanto lesivo di un bene rilevante ex art. 2 cost., reca, ipso facto, un'offesa alla persona umana nella sua dimensione individuale e sociale; b) per le associazioni ambientalistiche, la lesione riguarda il diritto della personalità del sodalizio, in relazione allo scopo perseguito; c) il conseguente danno ha natura sia patrimoniale - per i costi sostenuti nello svolgimento delle attività di propaganda e di sensibilizzazione della pubblica opinione - sia non patrimoniale per le frustrazioni degli associati nonché per il discredito derivante dal mancato raggiungimento dello scopo, che potrebbe indurre gli stessi associati a privare il sodalizio del loro sostegno personale e finanziario.
9.
Il danno arrecato dalla selvaggina protetta.
Vi è controversia
in giurisprudenza sull’attribuzione della giurisdizione
in materia di
risarcimento dei danni arrecati dalla selvaggina protetta alle colture
agricole.
Un orientamento
ritiene che trattandosi di lesione di diritti soggettivi la controversia
rientri nella giurisdizione ordinaria.
Occupandosi del
caso di un'azienda agricola compresa in una "zona di rifugio" della
selvaggina in base all'art. 20 della l.r. Veneto 14.7.1978, le cui colture ad
orzo e frumento avevano subito danni a causa della eccessiva quantità di
passeri esistenti in tale zona, la giurisprudenza ha attribuito alla posizione
del proprietario danneggiato la consistenza di diritto soggettivo.
E’ stato affermata,
perciò, la giurisdizione del giudice ordinario - nonostante la ritenuta
inconsistenza del richiamo agli artt. 2043 e 2052 cod. civ. ed il
riconoscimento che gli uccelli, come fauna selvatica, appartengono al
patrimonio indisponibile dello Stato e sono tutelati nell'interesse della
comunità nazionale.
Dall’art. 20, l.r.
Veneto 14.7.1978, e dagli artt. 6 e 26, legge-quadro 27.12.1977 n. 968,
contenente principi generali e disposizioni per la protezione e la tutela
faunistica e disciplina della caccia, emerge che l'indennizzo da esse previsto
per i terreni, compresi nelle zone di rifugio, i quali ricevano pregiudizio
economico a causa della fauna selvatica protetta, ha funzione risarcitoria in
senso stretto e, quindi, di reintegrazione patrimoniale, così da doversi
escludere un potere discrezionale dell'amministrazione sia in ordine all'an,
sia in ordine al quantum debeatur (Cass. civ., Sez. U., 27.10.1995 n.
11173).
In un’altra
fattispecie disciplinata dall'art. 22 della l.r. Lombardia 22.3.1980 n. 33 -
che detta le norme di attuazione del Piano territoriale di coordinamento del
Parco Lombardo della Valle del Ticino, stabilendo che i danni arrecati dalla
selvaggina alle colture agricole all'interno della fascia di silenzio venatorio
saranno risarciti dal Consorzio, previo accertamento del danno, con
finanziamenti regionali - si è discusso se il danneggiato abbia una posizione
tutelabile avanti al giudice ordinario ovvero se, al contrario, il risarcimento
sia pur sempre sottoposto ad un controllo da parte del Consorzio e ad una
compatibilità con le disponibilità finanziarie erogate dalla Regione.
L’intervento
regionale, infatti, esclude quel carattere di certezza che è tipico del diritto
soggettivo e fa viceversa palese la subordinazione - propria dell'interesse
legittimo - ad un interesse pubblico prevalente.
Si argomenta, ancora,
che le norme sul ristoro dei danni all'interno delle aree protette configurano
norme di azione, come si evincerebbe dalla dizione dell'art. 15, 3° e 4° co.,
della legge quadro 6.12.1991, n. 394, là dove si prevede che l'Ente Parco è
tenuto ad indennizzare i danni provocati dalla fauna selvatica del Parco e che
il regolamento del Parco stabilisce le modalità per la liquidazione e la
corresponsione degli indennizzi.
In detto caso è
stato ritenuto che la qualificazione come diritto soggettivo o interesse
legittimo delle posizioni giuridiche configurabili a favore degli interessati
relativamente ai ristori conseguibili per i pregiudizi arrecati dalla fauna
selvatica alle colture agricole non è automaticamente correlata alla ubicazione
- all'esterno o all'interno delle zone di protezione - dei fondi danneggiati e
deve invece attribuirsi essenziale rilievo al concreto atteggiarsi della
disciplina positiva.
In applicazione di
tale criterio, deve riconoscersi la natura di diritto soggettivo - comportante
la giurisdizione del giudice ordinario - alla pretesa al risarcimento dei danni
provocati alle coltivazioni dalla fauna selvatica nell'ambito del Parco
lombardo della Valle del Ticino, fondata sull'art. 15 della "legge -
quadro" sulle aree protette n. 394 del 1991, che prevede, senza margini di
discrezionalità, l'obbligo dell'Ente parco di indennizzare i danni provocati
dalla fauna selvatica del parco nel termine di novanta giorni dal loro
verificarsi; né portata diversa è attribuibile all'art. 22, 6° co., della l.r.
Lombardia n. 33 del 1980 - norme di attuazione del piano territoriale di
coordinamento del parco del Ticino - che, nel disciplinare l'aspetto di finanza
pubblica, prevedendo finanziamenti regionali, ribadisce l'obbligo del Consorzio
di risarcire i danni arrecati dalla selvaggina alle colture all'interno della
fascia di silenzio venatorio (Cass. civ., Sez. U., 30.12.1998, n. 12901, GCM,
1998, 2664).
Capitolo diciasettesimo
La giurisdizione del Tribunale
delle acque
Guida bibliografica.
1. La giurisdizione del
Tribunale delle acque pubbliche.
Il t.u. approvato con r. d.
1775/1933 sulle acque pubbliche istituisce un sistema di giurisdizione in detta
materia costituito dai Tribunali regionali e dal Tribunale superiore delle
acque pubbliche.
Le particolarità di tali
controversie, caratterizzate dalla necessità di una particolare conoscenza
tecnica, ha giustificato la composizione di tali collegi nei quali sono
presenti gli esperti del settore. Centofanti 2005, 293.
2. La giurisdizione del Tribunale
superiore delle acque.
Il Tribunale superiore delle
acque pubbliche è giudice in grado di appello di tutte le cause decise in primo
grado dal Tribunale regionale, ex art. 142, r. d. 1775/1933. Centofanti
2005, 295.
1. La giurisdizione del
Tribunale delle acque pubbliche.
La giurisdizione dei Tribunali
delle acque pubbliche è divisa tra quella del Tribunale delle acque pubbliche
che decide sulle controversie relative alla demanialità delle acque e quella
del Tribunale Superiore delle Acque che è competente sui provvedimenti
amministrativi che riguardano l'utilizzazione del demanio idrico.
Ai sensi dell'art. 140, T.U. n. 1775/1933, rientrano nella giurisdizione
del Tribunale delle acque pubbliche tutte le controversie relative: a) alla
demanialità delle acque; b) ai limiti dei corsi e dei bacini, loro alveo e
sponde; c) alle derivazioni e utilizzazioni delle acque e relativi diritti di
utenza; d) alle indennità per occupazioni ed espropriazioni occorrenti per
l'esecuzione di opere idrauliche; e) al risarcimento dei danni a causa di opere
idrauliche eseguite dall'amministrazione.
Le controversie che non hanno per
oggetto la demanialità del bene rientrano nella giurisdizione ordinaria.
La norma di cui all'art. 140, 1°
co., lett. c) del r.d. n. 1775 del 1933, non comporta la necessità di
rimessione alla cognizione del giudice specializzato di tutte le controversie
attinenti, direttamente o indirettamente, al regime delle acque pubbliche, presupponendo,
per converso, la sola devoluzione, al detto giudice, delle specifiche
controversie implicanti la necessità di particolari conoscenze extragiuridiche
per la soluzione dei problemi tecnici riconnessivi, con esclusione, pertanto,
di ogni questione che, non attenendo al regime delle derivazioni od
utilizzazioni di acque pubbliche (e non implicando la soluzione di problemi
tecnici, ma solo di tematiche squisitamente giuridiche), possa influire solo
indirettamente su tale regime.
La controversia relativa al
pagamento di un indennizzo per l'occupazione sine titulo di un
suolo - pacificamente appartenente al demanio lacustre - ed all'occupazione di
costruzioni ed opere su di esso insistenti (oltre che relativa all'accertamento
della titolarità di eventuali diritti reali sui manufatti), non presupponendo
la soluzione né di problemi tecnici, né di questioni circa la delimitazione
dell'alveo o delle sponde del lago - ovvero l'accertamento della demanialità
delle acque - deve ritenersi senz'altro devoluta alla cognizione del giudice
ordinario.
Il petitum sostanziale
della domanda è determinante per stabilire la competenza del giudice.
Appartengono alla competenza del
giudice ordinario (nella specie, il tribunale di Catanzaro), e non a quella del
tribunale delle acque pubbliche, alla stregua dell'art. 140 t.u. n. 1775 del
1933, le controversie nelle quali si discuta se un terreno, ubicato nei pressi
della foce di un corso d'acqua, appartenente al demanio fluviale ovvero
marittimo, sia suscettibile di usucapione, per effetto di una
sdemanializzazione tacita, in difetto di uno specifico atto ad hoc della
p.a., non venendo, in tal caso, in discussione la demanialità del bene, né
dovendosi accertare preliminarmente se, ed entro quali limiti, il bene abbia
cessato di fare parte dell'alveo del torrente.
2. La giurisdizione del
Tribunale superiore delle acque.
La giurisdizione del Tribunale
Superiore delle Acque è fissata dall'art. 143, 1° co., lett. a) del
T.U. n. 1775 del 1933.
La norma, infatti, istituisce, in
unico grado, un procedimento che ha il carattere di giudizio di impugnazione,
per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, contro i
provvedimenti definitivi adottati dall'amministrazione in materia di acque
pubbliche e, data la sua lata e onnicomprensiva previsione, si attaglia a tutti
i provvedimenti amministrativi che, pur costituendo esercizio di un potere non
prettamente attinente alla materia, riguardino comunque l'utilizzazione del
demanio idrico, incidendo in maniera diretta ed immediata sul regime delle
acque pubbliche (Cass., Sez. Un., 15.7.1999, n. 403. Cons. St., Sez. V, 3.12.2001,
n. 6012).
La giurisprudenza ha affermato che in relazione al principio desumibile dall'art. 143, 1° co., lett. a), r.d. 11.12.1933, n. 1775 - che attribuisce alla cognizione diretta del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche i ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge avverso i provvedimenti presi dall'amministrazione "in materia di acque pubbliche" - devono ritenersi devoluti alla cognizione del Tribunale Superiore anche i provvedimenti amministrativi che, pur incidendo su interessi più generali e diversi rispetto a quelli specifici relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico, attengano comunque all'utilizzazione di detto demanio idrico, interferendo immediatamente e direttamente sulle opere destinate a tale utilizzazione e, in definitiva, sul regime delle acque pubbliche (Sez. Un. 26.7.2002, n. 11099).
La giurisprudenza ha affermato che in relazione al principio desumibile dall'art. 143, 1° co., lett. a), r.d. 11.12.1933, n. 1775 - che attribuisce alla cognizione diretta del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche i ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge avverso i provvedimenti presi dall'amministrazione "in materia di acque pubbliche" - devono ritenersi devoluti alla cognizione del Tribunale Superiore anche i provvedimenti amministrativi che, pur incidendo su interessi più generali e diversi rispetto a quelli specifici relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico, attengano comunque all'utilizzazione di detto demanio idrico, interferendo immediatamente e direttamente sulle opere destinate a tale utilizzazione e, in definitiva, sul regime delle acque pubbliche (Sez. Un. 26.7.2002, n. 11099).
I
giudizi d’impugnazione dei provvedimenti amministrativi che attengono
all’utilizzazione del demanio idrico - Cass. Civ., sez. un., 26.7.2002, n.
11099 - come appunto il provvedimento d’approvazione di una derivazione d’acque
per uso idropotabile della popolazione; nonché sulle occupazioni di fondi che
si rendano a tal fine necessarie - Cass. Civ., sez. un., 11.7.2000, n. 479 -; e
infine sulle concessioni edilizie strettamente finalizzate alla suddetta
utilizzazione delle acque - Cass. Civ., sez. un., 4.8.2000, n. 541 - sono
devoluti alla giurisdizione del tribunale superiore delle acque pubbliche, ex
art. 143, alinea “a” del r.d. 11.12.1933, n. 1775 sulle acque pubbliche.
(Cons. St., Sez. V, 15.4.2004, n. 2146).
Rientra nella competenza del
Tribunale superiore delle acque pubbliche, nelle materie nelle quali ha
giurisdizione, la controversia in tema di legittima determinazione del canone
di concessione.
Nella specie, si faceva questione
della determinazione del canone per l'utilizzo di porzioni di demanio fluviale
(Trib. sup.re acque, 22.2.1999, n. 37, CS, 1999, II, 261).
La giurisprudenza ravvisa il discrimen,
che delimita la giurisdizione del
Tribunale superiore delle acque
pubbliche rispetto a quella del giudice ordinario, nell’oggetto della richiesta
formulata in giudizio.
In tema di diritti esclusivi di
pesca, la giurisdizione riservata al tribunale superiore delle acque pubbliche
dall'art. 143, r.d. 1775/33, che non è né generale né esclusiva, è limitata in base
al collegamento a fattispecie tipiche qualificate dal contenuto e dalla forma
dei provvedimenti impugnati, dalla procedura richiesta per la loro emanazione e
dalla autorità pubblica da cui promanano, ossia alla cognizione dei ricorsi
proposti contro provvedimenti di revoca o di decadenza dei diritti su acque del
demanio marittimo, fluviale, lagunare e, in genere, su ogni acqua pubblica,
adottati dai ministeri competenti. Pertanto, spetta alla cognizione del giudice
ordinario la causa avente ad oggetto la rimozione dell'impianto di itticoltura
intensiva, installato da un privato nel tratto di mare, ove si assume esistente
il diritto esclusivo di pesca derivante da antiche concessioni, rilasciate ad
altro privato, perché caratterizzata dall'accertamento solo incidentale, tra le
parti, dall'attuale esistenza del diritto a tutela del quale è stata chiesta la
rimozione degli impianti, senza che venga in discussione alcun provvedimento
amministrativo.
Del pari gli atti aventi ad
oggetto le acque pubbliche non rientrano nella giurisdizione del giudice
amministrativo.
Poiché l'art. 143, 1° co., lett.
a), r.d. 11.12.1933, n. 1775, attribuisce alla cognizione diretta del tribunale
superiore delle acque pubbliche i ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e
violazione di legge avverso i provvedimenti adottati dall'Amministrazione in
"materia di acque pubbliche", esulano dalla giurisdizione del giudice
amministrativo (che può rilevarne il difetto in ogni stato e grado del
processo) anche i casi in cui l'atto, pur costituendo esercizio di un potere
non propriamente attinente alla materia in parola (cioè: pur incidendo su
interessi più generali e diversi rispetto a quelli specifici relativi alla
demanialità delle acque od ai rapporti concessori di beni del demanio idrico)
attenga comunque all'utilizzazione di dette risorse, interferendo
immediatamente sulle opere destinate a tale utilizzazione e, in definitiva, sul
regime delle acque pubbliche.
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