PARTE
SECONDA I VINCOLI EX LEGE
CAPITOLO VII
I VINCOLI
ALLA PROPRIETÀ PRIVATA DISPOSTI DALLA LEGGE
SOMMARIO:
87. I vincoli di rispetto dei beni di interesse paesaggistico nel t.u. dei beni
culturali e ambientali.
88. I
vincoli regionali e ministeriali.
89. Il
procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico.
90.
L’autorizzazione regionale.
91. Il
potere ministeriale.
92. I
vincoli di rispetto del patrimonio artistico. I beni soggetti.
93. Il
procedimento di vincolo. L’accesso.
94. La
dichiarazione dell’interesse storico ed artistico. I poteri del Ministero.
95.
L’autorizzazione per interventi edilizi su immobili di interesse storico ed
artistico.
96. Il
vincolo indiretto.
97. I
vincoli di destinazione.
98. I
vincoli cimiteriali.
99. I vincoli
di rispetto per le aree distrutte dall’incendio.
100. I
vincoli aeronautici.
101. Il
rilascio del permesso di costruire.
102. I
vincoli stradali. La definizione del centro abitato.
103. Le
distanze dalle strade.
104. Le
distanze per gli edifici preesistenti.
105. I
vincoli autostradali.
106. I
vincoli ferroviari.
107. I
limiti nell’applicazione del vincolo.
108. I
vincoli di rispetto delle acque pubbliche.
109. I
limiti all’applicazione della normativa.
110. I
vincoli di rispetto delle acque per consumo umano.
111. I
vincoli di rispetto delle distanze dalle farmacie.
112. I
vincoli di rispetto degli elettrodotti.
113. La
disciplina regionale integrativa alla luce delle decisioni della Corte
costituzionale.
114.
L'installazione di impianti pericolosi.
115. I
vincoli di rispetto degli impianti di carburanti liquidi.
116. Le
distanze di sicurezza nel d.lg. 334/1999.
117. La
differenza fra i vincoli imposti ex lege ed i vincoli di piano. La
mancanza dell’indennizzabilità.
87. I vincoli di rispetto dei beni
di interesse paesaggistico nel t.u. dei beni culturali e ambientali.
LEGISLAZIONE: l. 29.6.1939, n. 1497, art. 1 - l.
8.8.1985, n. 431, art. 1 - d.lg. 29.10.1999, n. 490, artt. 139, 146 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, artt. 134,
142.
I beni di
interesse paesaggistico trovano una prima forma di tutela con la l. 29.6.1939,
n. 1497.
Essa ha un
contenuto prettamente conservativo dell’esistente patrimonio delle cosiddette
bellezze naturali per evitare che l’urbanizzazione del territorio cancelli definitivamente
ambiti del territorio di particolare rilevanza.
E’
necessario, però, un atto di accertamento della natura paesaggistica o
ambientale del bene.
In carenza
di un atto dell’amministrazione che acclari volta per volta la qualità del
bene, esso si trova privo di ogni tipo di tutela che consenta all’autorità
preposta al vincolo un preventivo esame degli interventi edilizi che la
proprietà voglia realizzare.
La tutela
del paesaggio è stata assunta a principio fondamentale dall’art. 9 della cost.;
esso non può essere condizionato a nessun altro valore. La dottrina rileva che
la mancanza di specificazione rafforza l’idea stesa della tutela.
La
Repubblica tutela tutto il paesaggio: si tratta un concetto di tutela
caratterizzata dal duplice aspetto della integrità e della globalità
(Tamiozzo
2000, 112).
L’art. 134,
d.lg. 22.1.2004, n. 41, che mod. l’art. 139, d.lg. 490/1999, che abroga l'art.
1, l. 1497/1939, prevede la possibilità di
imporre vincoli speciali su singoli beni paesaggistici.
La legge Galasso,
sost. d.lg. 22.1.2004, n. 41, ha introdotto un concetto più vasto di ambiente
che caratterizza non il bene in sé, ma individua un contesto più ampio del
territorio in cui il bene si colloca.
Essa
sottopone ad una maggiore tutela i beni aventi rilevante interesse ambientale
aumentando il limite di rispetto in attesa dei piani paesaggistici.
E’ definita
una serie di beni che si ritengono oggettivamente, per la loro stessa
esistenza, meritevoli di tutela e sono fissati dei limiti spaziali entro i quali
è vietato ogni intervento prima che sia data una regolamentazione mediante i
piani territoriali paesistici, ex art. 142, d.lg. 22.1.2004, n. 41.
Dalla
elencazione proposta si evidenzia che si possono distinguere due differenti
categorie di beni.
La prima
comprende i beni il cui riconoscimento è automatico. Non vi sono difficoltà a
classificare nella categoria, ad esempio, i fiumi, le cui caratteristiche sono
evidenti.
La seconda
categoria comprende beni il cui riconoscimento presuppone un atto ricognitivo
della pubblica amministrazione.
In tal caso,
come, ad esempio, nell’ipotesi di beni di interesse archeologico, il vincolo
può essere posto solo ove sussista un idoneo atto di ricognizione da parte
degli organi competenti, che attesti il presupposto stesso per l’apposizione
del vincolo:
Sebbene il
vincolo gravante sulle zone di interesse archeologico ai sensi dell'art. 1
lett. m) l. 8.8.1985, n. 431 abbia natura paesaggistica, e come tale sia
affidato in via diretta all'Autorità regionale, - e soltanto in sede di
controllo e vigilanza allo Stato - non è consentito che l'attività ricognitiva
dell'interesse archeologico di una zona determinata, ai fini dell'inclusione
della medesima fra quelle sottoposte a vincolo ex lege, prescinda dalla
effettiva presenza di valori archeologici, il cui particolare rapporto col
paesaggio costituisce la ratio della tutela prevista dalla l. 431/1985.
La
sussistenza di emergenze archeologiche sul territorio o, quantomeno, la
accertata e notoria possibilità che in esso si trovino reperti archeologici
costituisce il presupposto necessario e sufficiente perché una zona sia
dichiarata di interesse archeologico e, come tale, assoggettata al vincolo
paesaggistico di cui all'art. 1 lett. m) della l. 431/1985.
Qualora
siano assenti gli elementi minimi necessari da cui dedurre la presenza di
valori archeologici - sia sul piano dell'effettivo rinvenimento di reperti, sia
su quello della accertata e notoria possibilità che essi si trovino su un'area
determinata - non sussistono le condizioni per l'inserimento dell'area fra le
dette zone di interesse archeologico
(T.A.R.
Toscana, sez. III, 6.3.1996, n. 185, TAR, 1996, I, 1981).
88. I vincoli regionali e ministeriali.
LEGISLAZIONE: d.p.r. 616/1977, art. 82, 5° co. -
l. 431/1985, art. 1 ter, 1 quinquies.
Un vincolo
particolare riguarda alle aree individuate dalle regioni e assoggettate a
tutela paesaggistica.
Le regioni,
entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto, possono individuare con indicazioni
planimetriche e catastali, nell'ambito delle zone elencate dal quinto comma
dell'art. 82 del d.p.r. 24.7.1977, n. 616, come integrato dal precedente art.
1, nonché nelle altre comprese negli elenchi redatti ai sensi della l.
29.6.1939, n. 1497, e del r. d. 3.6.1940, n. 1357, le aree in cui è vietata,
fino all'adozione da parte delle regioni dei piani di cui al precedente art. 1 bis,
ogni modificazione dell'assetto del territorio nonché qualsiasi opera edilizia,
con esclusione degli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di
consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei
luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici. La notificazione dei provvedimenti
predetti avviene secondo le procedure previste dalla l. 29.6. 1939, n. 1497, e
dal relativo regolamento di esecuzione approvato con r. d. 3.6.1940, n. 1357
(art. 1 ter,
l. 431/1985).
Un altro
vincolo ha come oggetto le aree e i beni individuati nei decreti ministeriali,
cosiddetti Galassini, che hanno posto vincoli di inedificabilità prima della
legge e i cui effetti sono confermati, appunto, dalla l. 431/1985.
Le aree ed i
beni individuati ai sensi dell'art. 2 del d. m. 21.9.1984, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 265 del 26.9.1984, sono inclusi tra quelli in cui è
vietata, fino all'adozione da parte delle regioni dei piani di cui all'art. 1 bis,
ogni modificazione dell'assetto del territorio nonché ogni opera edilizia, con
esclusione degli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di
consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei
luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici
(art. 1 quinquies,
l. 431/1985).
Tali
disposizioni, fino all'adozione dei piani paesistici regionali, impongono
vincoli di inedificabilità assoluta.
Nell'ambito
delle aree individuate dalle regioni, ai sensi dell’art. 1 ter della l.
8.8.1985, n. 431 e dell’art. 82, 5° co., d.p.r. 24.7.1977, n. 616 ai fini
dell'applicazione delle misure di salvaguardia vanno compresi anche gli
immobili in esse ricadenti, che sono, pertanto, assoggettati ad una temporanea
inedificabilità fino all'approvazione dello strumento programmatorio, piano
paesistico e/o piano urbanistico territoriale
(Cons. St., sez. VI, 20.9.1995, n. 941, RGA,
1996, 483).
L’imposizione
del vincolo ex lege o per effetto del provvedimento amministrativo
comporta il divieto di realizzare qualsiasi opera in carenza di autorizzazione.
Il vincolo è
operante a prescindere dall'adozione dei piani paesistici regionali ed è quindi
sempre necessaria l'autorizzazione paesistica per opere che possano stabilmente
alterare l'ambiente
(Cass. pen., sez. III, 1.3.1991, DGA,
1992, 610).
Il divieto
assoluto di edificabilità, conseguente ai vincoli imposti dalla l. 431/1985,
persiste fino all’approvazione formale del piano paesistico regionale.
Ai sensi
dell'art. 1 quinquies della l. 431/1985 l'operatività di tale
salvaguardia cautelare non tollera deroghe sino a quando non siano adottati
dalle Regioni i piani paesistici previsti dal precedente art. 1 bis;
peraltro, per ritenere adottati i suddetti piani non è sufficiente la loro
materiale predisposizione, occorrendo invece che, concluso il loro processo
formativo, essi siano stati approvati e siano quindi operativi.
Ne consegue
che non avendo il Consiglio regionale della Campania provveduto ad approvare il
piano paesistico, persiste in tale Regione il divieto assoluto di edificabilità
stabilito dal ricordato art. 1 quinquies, l. 431/1985
(Cass. pen., Sez. U., 25.3.1993, RGE,
1993, I, 973).
89. Il procedimento di dichiarazione di notevole
interesse pubblico.
LEGISLAZIONE: l. 1497/1939, art. 7 - d.lg.
490/1999, artt. 139, 140, 141, 149, 151 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, artt. 137, 138, 146.
L’iter
procedurale per deliberare la dichiarazione di notevole interesse pubblico
delle aree ed immobili oggetto del cod. beni cult. è previsto dall’art. 137
ss., d.lg. 22.1.2004, n. 41, che abroga l’art. 140, d.lg. 490/1999 (Mengoli
2003, 463).
Il
procedimento è radicalmente modificato dagli artt. 137 ss., d.lg. 22.1.2004, n.
41, dalla data della sua entrata in vigore 1.5.2004.
La norma ha
attribuito al direttore della regione o degli altri enti pubblici interessati
l’iniziativa di acquisire le informazioni necessarie a proporre alla
Commissione, istituita in ogni provincia, l’identificazione dei beni e dei
luoghi di notevole interesse ambientale, ex art. 138, d.lg. 22.1.2004, n. 41.
La proposta
deve essere motivata con riferimento alle caratteristiche storiche culturali,
naturali, morfologiche ed estetiche proprie degli immobili e delle aree oggetto
del provvedimento.
Il vincolo
paesaggistico di cui all'art. 9 l. r. Piemonte 5.12.1977 n. 56, che consente
(tenuto conto dell'introduzione da parte della l. 8.8.1985, n. 431 della
nozione di tutela non di singoli beni, quale si ricavava dalle disposizioni
risalenti al 1939, ma di intere aree di interesse pubblico) di includere ampie
porzioni di territorio nel novero delle zone da salvaguardare in base a
considerazioni prevalentemente ambientali, anche se ha tratto occasionalmente
spunto da istanze dirette alla tutela dei luoghi della battaglia della Bicocca
del 1849, è legittimamente imposto dalla regione allorché dalla motivazione
contenuta nella deliberazione si evinca che il fine concretamente perseguito
sia quello di estendere la protezione dei luoghi oggetto di memoria storica
alla più estesa zona circostante, presa in considerazione perché dotata di
pregi paesaggistici non comuni
(T.A.R.
Piemonte, sez. I, 21.12.2002, n. 2102).
La
giurisprudenza ha dichiarato unanimemente illegittimo il provvedimento
Privo o con
motivazione insufficiente.
È
illegittima l'imposizione di un vincolo diretto da parte del Ministero per i
beni culturali e ambientali che, senza fornire adeguata motivazione, abbia
disatteso il parere della locale sovrintendenza che aveva concluso per
l'assenza di pregio dell'immobile e proposto l'imposizione soltanto di un
vincolo indiretto
(Cons. St., sez. VI, 5.10.2001, n. 5235, RGE,
2001, I, 1213).
La proposta
deve essere pubblicata per novanta giorni all’albo pretorio dei comuni
interessati e deposita presso i loro uffici, inoltre deve essere diffusa la
notizia sulla stampa.
A tal punto
la regione comunica l’avvio del procedimento di dichiarazione di notevole
interesse pubblico al proprietario interessato e al comune interessato.
I soggetti
interessati possono presentare osservazioni entro il termine perentorio di
sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione.
La
giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del cod. beni cult. ha ritenuto
che l’interesse al proceidemtno è limitato ai proprietari o detentori del bene.
Il ricorso
può essere proposto solo dai proprietari, possessori o detentori di beni
immobili situati nelle zone vincolate ai sensi della legge citata; pertanto è
inammissibile il ricorso de quo prodotto da un Comune o da una
Associazione di industriali non proprietari di beni vincolati
(Cons. St., sez. II, 17.5.1978, n. 925, RGE,
1981, I, 146).
Il
provvedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico è altresì
notificato in via amministrativa ai proprietari degli immobili; il che comporta
la necessità di munirsi di apposita autorizzazione rilasciata da parte della
sovrintendenza inerente ai progetti dei lavori (Filippi 1996, 195).
La mancata
notifica degli elenchi ai proprietari non è stata considerata dalla
giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del cod. beni cult. causa di
illegittimità del procedimento.
E' infondata
la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della l.
29.6.1939, n. 1497, nella parte in cui non dispongono la notificazione degli
elenchi di cui ai nn. 3 e 4 dell'art. 1 della stessa legge, ai proprietari,
possessori o detentori, a qualsiasi titolo, degli immobili così come previsto
per gli elenchi delle cose di cui ai nn. 1 e 2 del medesimo art. 1, con
riferimento agli artt. 3, 24, c. 2, e 97, c. 1, della costituzione
(Corte
cost., 28.7.1995, n. 417, FI, 1996, I, 422).
Le
competenze già degli organi statali centrali e periferici inerenti alla tutela
dei beni ambientali ed alle funzioni delle Commissioni provinciali sono state
delegate alle Regioni, ai sensi dell’art. 146, d.lg. 22.1.2004, n. 41, che mod.
art. 140, d.lg. 490/1999.
Le Regioni
hanno emanato proprie leggi per disciplinare l’esercizio delle funzioni loro
delegate.
Alcuni
compiti amministrativi sono stati riservati agli organi regionali, altri sono
stati subdelegati ai Comuni.
Ad esempio,
nella regione Emilia Romagna la competenza al rilascio dell'autorizzazione
ambientale è stata subdelegata ai comuni dall'art. 10 della l. r. 1.8.1978, n.
26.
Del pari la
l. r. Lombardia 18/1997 ha delegato ai comuni il rilascio dell'autorizzazione
e, in base al principio di sussidiarietà, che impone all’ente di grado
superiore di non espletare l’attività amministrativa attribuita all’ente sotto
ordinato, ha riservato alla regione le funzioni in materia di autorizzazione
ambientale per le opere di competenza dello Stato, per gli interventi di
smaltimento rifiuti e per quelli riguardanti l’attività mineraria.
La
composizione delle Commissioni per i beni ambientali è stata rinnovata e la
loro competenza territoriale in alcune Regioni è rimasta a carattere
provinciale, mentre in altre essa è stata adeguata alla circoscrizione di una
pluralità di comuni o delle Comunità montane.
90. L’autorizzazione regionale.
LEGISLAZIONE:
d.lg. 29.10.1999, n. 490, art. 146 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, art. 146.
Il cod. beni
cult. sottopone gli interventi di modifica o di alterazione dei beni
ambientali, oggetto di tutela, ad autorizzazione ambientale di competenza della
regione o all’autorità da essa delegata, ex art. 146 d.lg. 22.1.2004, n. 41.
Vi è,
pertanto, un secondo controllo che si affianca alla disciplina urbanistica
comunale.
L’intervento
sul bene, quindi, deve essere prima autorizzato dalla regione e poi,
successivamente, deve ottenere il rilascio del permesso di costruire da parte
del comune.
Non cambiano
le caratteristiche dell’intervento autorizzatorio già rilevate dalla dottrina
precedente all’entrata in vigore del cod. beni cult.
L’autorizzazione
si sostanzia in un apprezzamento tecnico discrezionale che muove da una
comparazione tra lo stato attuale dell’immobile e quello che potrà assumere in
seguito alle opere progettate, in funzione di verifica della non menomazione di
quegli aspetti esteriori ai quali è collegata la protezione ambientale
(Alibrandi e
Ferri 1995, 599).
Il sistema
di dichiarazione di interesse pubblico viene meno qualora la pianificazione
urbanistica comunale abbia già regolamentato gli interventi su detti beni.
Resta
ugualmente l’obbligo di richiedere l’autorizzazione prima dell’esecuzione di
lavori.
Non sono
sottoposte a vincolo le aree che al 6.9.1985 erano delimitate negli strumenti
urbanistici come zone A e B e - limitatamente alle parti comprese nei piani pluriennali
di attuazione - le altre zone, come delimitate negli strumenti urbanistici, ai
sensi del d.m. 2.4.1968, n. 1444; inoltre, nei comuni sprovvisti di tali
strumenti, i centri edificati perimetrati, ai sensi dell'art. 18 della l.
865/1971.
L'art. 146,
d.lg. 490 del 1999, non ha mutato tale principio di vicolo contenuto nella
legge Galasso, poiché l'aggiunta, rispetto alla precedente formulazione,
dell'indicazione temporale specifica del 6.9.1985 ha l'unico scopo di definire
esplicitamente il termine di inizio della deroga, dato il tempo trascorso
dall'entrata in vigore dell'originaria disposizione.
La norma
nulla ha mutato in ordine alla cessazione degli effetti ivi previsti; ove
dovesse ritenersi diversamente, la norma sarebbe costituzionalmente illegittima,
in relazione agli artt. 76 e 77, 1° co. cost., per straripamento dai limiti
della delega legislativa, che autorizzava il Governo a redigere un testo unico
cosiddetto ricognitivo o di mera compilazione, senza alcuna possibilità di
apportare modificazioni sostanziali alla disciplina previgente
(Cass. pen., sez. III, 26.3.2001, UA,
2001, 689).
La
pianificazione urbanistica comunale può consentire delle deroghe alla
disciplina delle distanze; essa deve tenere presenti le esigenze ambientali che
devono essere, comunque, tutelate.
Il piano
regolatore comunale può consentire l'edificazione anche a distanza inferiore ai
dieci metri dall'argine di un fiume – distanza prevista nella norma fissata in
via sostitutiva generale - ma la disciplina urbanistica, per essere idonea a
disporre in tal senso derogativo, deve essere improntata espressamente alla
necessità di difesa del fiume e non essere ispirata a fini urbanistici o
criteri costruttivi
(T.A.R.
Emilia Romagna, sez. Parma, 29.5.1989, n. 197, FA, 1989, 3118).
La necessità
del rispetto delle distanze deve essere salvaguardata nella realizzazione di
qualsiasi opera, anche di interesse pubblico, come, ad esempio, di una
discarica di rifiuti.
Ai sensi del
punto 4.2.2, lett. a) della delibera del comitato interministeriale 27.7.1984
istituito ai sensi dell'art. 5, d.p.r. 10.9.1982, n. 15, per l'assolvimento
delle funzioni di competenza statale in materia di rifiuti previste dall'art.
4, d.p.r. cit., una discarica controllata per lo smaltimento di rifiuti deve
essere ubicata a distanza di sicurezza, in relazione alle caratteristiche
geologiche e idrogeologiche del sito, sia dai punti di approvvigionamento di
acque destinate ad uso potabile sia di alveo di laghi, fiumi e torrenti,
essendo in ogni modo vietata, ai sensi dell'art. 1, l. 8.8.1985 n. 431, la
localizzazione dell'impianto nella fascia dei 150 metri dall'alveo di un corso
d'acqua iscritto nell'elenco delle acque pubbliche
(T.A.R. Molise, 16.7.1998, n. 254, RGSan,
1999, f. 184-8, 137).
La giurisprudenza
ha ripetuto che l’opera pubblica di un comune, pur non essendo soggetta al
permesso di costruire, deve essere soggetta ad autorizzazione ambientale e
rispettare la disciplina delle distanze.
Le opere
pubbliche comunali non sono soggette a concessione edilizia, ma il costruttore
pubblico non è esonerato dal regime dell'autorizzazione derivante dalla
edificazione in zona sottoposta a vincolo ambientale.
Né, sotto
questo profilo, un regime derogatorio, per le opere realizzate in Sicilia, è
desumibile dall'art. 19, l. reg. siciliana.
Nell'affermare
il principio la Corte ha ritenuto soggetta ad autorizzazione la costruzione di
un manufatto in cemento armato destinato ad alloggiare la strumentazione di un
impianto di potabilizzazione delle acque, costruito a m. 45 di distanza
dall'alveo di un torrente iscritto nell'elenco delle acque pubbliche
(Cass. pen., sez. III, 6.11.1997, n. 27988, GP,
1999, II, 117).
91. Il potere ministeriale.
LEGISLAZIONE:
d.lg. 490/1999, artt. 149, 153 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, art. 150.
Il Ministero
per i beni e le attività culturali ha, parallelamente alla regione, un potere
supplettivo di tutela delle bellezze naturali che si manifesta anche prima
dell’imposizione del vincolo, purché successivamente si addivenga
all’approvazione dell’elenco nei termini perentori fissati dalla legge.
1.
Indipendentemente dall’avvenuta pubblicazione all’albo pretorio prevista dagli
articoli 139 e 141 ovvero dall’avvenuta comunicazione prescritta dall'articolo
139, 4° co., la Regione o il Ministero ha facoltà di:
a) inibire
che si eseguano lavori senza autorizzazione o comunque capaci di pregiudicare
il bene;
b) ordinare,
anche quando non sia intervenuta la diffida prevista alla lettera a), la
sospensione di lavori iniziati.
2. Il
provvedimento di inibizione o sospensione dei lavori incidenti su immobili o
aree non ancora dichiarati di notevole interesse pubblico cessa di avere
efficacia se entro il termine di novanta giorni non sia stata effettuata la
pubblicazione all’albo pretorio della proposta della commissione di cui
all'articolo 138 o della proposta dell’organo ministeriale prevista
all'articolo 141, ovvero non sia stata ricevuta dagli interessati la
comunicazione prevista dall’articolo 139, 4° co.
(art. 150,
d.lg. 22.1.2004, n. 41).
Tale potere,
già previsto dall'art. 8, l. n. 1497 del 1939, e dall’art. 153, d.lg. 490/1999,
può essere esercitato anche quando il bene non è ancora inserito negli elenchi
dei beni vincolati, per cui la dottrina ne ravvisa il carattere di procedimento
cautelare.
E’ chiara ed
indiscussa la loro natura di misure cautelari, avendo la funzione di un
intervento urgente volto ad evitare che la instaurazione del regime di tutela
nelle vie ordinarie sopravvenga, dati i tempi occorrenti per i relativi
procedimenti amministrativi, quando siano già state portate a compimento delle
irrimediabili alterazioni dei luoghi lesive della bellezza naturale
(Alibrandi e
Ferri 1995, 599).
L’intervento
può essere effettuato anche nel corso dell'esecuzione dei lavori per evitare
che questi alterino irreversibilmente lo stato dei luoghi.
Il ministero
può ordinare la sospensione di lavori edilizi, già autorizzati con concessione
edilizia, anche nel periodo successivo alla emanazione del decreto di
imposizione e del vincolo e fin quando esso divenga esecutivo con la
pubblicazione nella G.U.; può ordinare la stessa sospensione quando le
costruzioni in corso - in assenza di adeguate prescrizioni da parte della
commissione edilizia integrata - siano in contrasto con le esigenze di tutela
di un complesso monumentale.
Il
procedimento di sospensione dei lavori edificatori in aree comprese nel decreto
di vincolo paesistico, è legittimamente emanato in pendenza della pubblicazione
del decreto stesso sulla gazzetta ufficiale della repubblica e pertanto prima
che siano realizzati compiutamente i requisiti di efficacia, ai sensi
espressamente dell'art. 153, 1° co., t.u. 29.10.1999, n. 490, che ha ribadito
la norma già indicata nell'art. 8 della l. n. 1497 del 1939
(Cons. St.,
sez. VI, 20.102000, n. 5661).
I vincoli
paesistici che accertano una naturale vocazione dei luoghi alla inedificabilità
sono imposti senza indennizzo alle proprietà che ne sono oggetto (Corte cost.,
9.5.1968, n. 56).
L’obbligatorietà
della pianificazione paesistica è confermata dall’art. 150, d.lg. 22.1.2004, n.
41, che mod. l’art. 149, d. lg. 29.10.1999, n. 490.
In carenza
di pianificazione gli immobili sono soggetti ad un vincolo permanente di tutela
(Mengoli 2003, 455).
Le regioni
il Ministero per i beni e le attività culturali ed il Ministero dell’ambiente e
della tutela del territorio possono stipulare accordi per l’elaborazione
d’intesa dei piani paesaggistici.
In caso di
mancato esercizio del potere da parte delle regioni scatta quello sostitutivo
del Ministero che si esercita attraverso l’emanazione di atti di indirizzo.
92. I vincoli di rispetto del
patrimonio artistico. I beni soggetti.
LEGISLAZIONE:
d.lg. 29.10.1999, n. 490, artt. 2, 5 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, artt. 10, 12.
La tutela
sul patrimonio artistico è attuata dall’art. 10, d.lg. 22.1.2004, n. 41, che
mod. artt. 5 e ss., d.lg. 490/1999, tramite un meccanismo di vincolo di
interesse pubblico - sulle cose d’interesse artistico o storico - notificato
con un procedimento speciale.
Il
provvedimento di vincolo di particolare interesse artistico e storico colpisce
le cose mobili ed immobili, tassativamente indicate dall'art. 10, d.lg. 22.1.2004, n. 41, art.
150.
1. Sono beni
culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli
altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto
pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, che presentano
interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico
(art. 10, -
d.lg. 22.1.2004, n. 41).
La
giurisprudenza ha precisato che il provvedimento di vincolo deve indicare
dettagliatamente sia il bene cui si riferisce sia i motivi che lo giustificano.
Il
provvedimento di vincolo deve indicare, nella relazione che lo accompagna,
quale interesse lo motivi, fra quelli indicati nell'art. 2, d. lg. n. 490 del
1999, onde esso appare contraddittorio quando si riferisce al 1° co., lett. a),
di detta disposizione (interesse artistico, storico, archeologico o demo -
antropologico) mentre la relazione valorizza invece la connessione
dell'immobile con la storia politica della città di Trieste, cioè con uno degli
elementi considerati dal 1° co., lett. b) dell’art. 2, d. lg. n. 490/1999
(T.A.R.
Friuli Venezia Giulia, 25.7.2002, n. 593).
Tali beni
devono avere un particolare collegamento con la storia della cultura della
città:
L’imposizione
del vincolo deve risultare motivata con la sussistenza sia dell'immedesimazione
e compenetrazione dei valori storico-culturali con le strutture materiali
nonché del collegamento dei beni e della loro utilizzazione con gli eventi
storico-culturali della città, sia del pregio artistico dell'immobile e di
alcuni arredi in esso contenuti
(T.A.R.
Sardegna, 13.2.1997, n. 192, T.A.R., 1997, I, 1557).
Il
procedimento di vincolo non è correlato ad uno strumento di pianificazione
territoriale, ma ad un atto del Ministero per i beni e le attività culturali.
93. Il procedimento di vincolo.
L’accesso.
LEGISLAZIONE: l. 241/1990, art. 7 - d.lg.
29.10.1999, n. 490, art. 7 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, art. 12.
Il
procedimento di vincolo si articola attraverso tre atti distinti: 1) la
dichiarazione dell’interesse storico ed artistico; 2) la notifica da parte
dell’autorità che porta a conoscenza dell’interessato la dichiarazione; 3) la
trascrizione al fine di rendere edotti i terzi dei vincoli gravanti sulla cosa
qualora si tratti di beni soggetti a pubblicità immobiliare (Mengoli 2003,
509).
La dottrina
rileva l’applicazione obbligatoria del procedimento di accesso previsto dalla
l. 241/1990 (Assini 2000, 62).
Il
procedimento tende a riconoscere la partecipazione del soggetto proprietario
dell’immobile garantendo la pubblicità dell’iniziativa ministeriale.
La
giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del cod. beni cult. ha
affermato che il contenuto della comunicazione di avvio del procedimento deve
essere tale da porre il destinatario nella condizione di potere partecipare al
procedimento di accesso formulando osservazioni congrue e pertinenti.
La
comunicazione di avvio del procedimento di dichiarazione dell'interesse particolarmente
importante delle cose immobili di cui all'art. 2, 1° co., lett. a) e b), d.lg.
n. 490 del 1999, deve contenere, ai sensi del successivo art. 7, non solo gli
elementi identificativi del bene, nella specie mancanti, ma soprattutto quelli
valutativi, cioè i presupposti dell'apposizione del vincolo da parte
dell'organo procedente, di cui nel caso non si trova traccia, impedendo al
destinatario di presentare osservazioni pertinenti all'orientamento
dell'amministrazione, non essendo dato comprendere il motivo per cui essa ha
ritenuto l'immobile meritevole di tutela
(T.A.R.
Friuli Venezia Giulia, 25.7.2002, n. 593).
La
giurisprudenza ritiene che la pubblicità abbia effetti costitutivi e, pertanto,
l’omissione della fase partecipativa comporta l’illegittimità del successivo
procedimento.
La regola di
cui all'art. 7, l. n. 241 del 1990, che stabilisce in termini generali la
necessità che sia dato avviso dell'avvio del procedimento ai soggetti nella cui
sfera è destinato ad incidere il provvedimento finale, è ribadita, con
riferimento al procedimento di imposizione di vincolo indiretto ai sensi
dell’art. 49, 3° co., d.lg. 29.10.1999, n. 490.
Tale norma
prevede che la comunicazione suddetta deve essere eseguita con le modalità
previste dall'art. 7, 2° co., l. n. 241 del 1990, ovvero, se per il numero di
destinatari la comunicazione personale non sia possibile o risulti
particolarmente gravosa, mediante idonee forme di pubblicità
(Cons. St., sez. VI, 25.6.2002, n. 3478, FACDS,
2002, 1510).
È
illegittimo il decreto del Ministero per i beni e le attività culturali che
impone su un immobile il vincolo archeologico indiretto, ex art. 49, d. lg.
29.10.1999, n. 490 senza, tuttavia, comprovare l'avvenuto adempimento della
comunicazione
dell' avvio del procedimento con le modalità di cui all' art. 7, l. 7.8.1990,
n. 241 ovvero le altre idonee forme di pubblicità
(T.A.R.
Calabria Reggio Calabria, 8.6.2001, n. 445).
94. La dichiarazione dell’interesse
storico ed artistico. I poteri del Ministero.
LEGISLAZIONE:
l. 1.6.1939, n. 1089, artt. 1, 3 - d.lg. 29.10.1999, n.
490, art. 23 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, art. 12, 2° co.
La
dichiarazione dell’interesse storico ed artistico deve essere effettuata
dall'amministrazione fornendo indicazioni specifiche circa la concreta
sussistenza di reperti di interesse artistico, storico, archeologico o
etnografico.
L’art. 12,
4° co., d.lg. 22.1.2004, n. 41, precisa che non è sufficiente una corretta
motivazione e che essa deve essere in linea con gli indirizzi di carattere
generale stabiliti dal Ministero al fine di assicurare uniformità di
valutazione.
Ci si
aspetta, quindi, una maggiore razionalizzazione nell’opera di salvaguardia, con
una intensificazione della protezione delle opere di maggior pregio e con una
maggiore flessibilità nelle gestione delle opere minori che ne consenta la
catalogazione, la tutela, oltre che la commerciabilità.
Il
provvedimento di imposizione del vincolo storico - artistico, di cui agli artt.
1 e 3, l. 1.6.1939 n. 1089, può essere legittimamente adottato anche sotto la
pressione dell'opinione pubblica e senza previo contraddittorio con gli
interessati, ma deve necessariamente contenere una puntuale motivazione, sia
pure nella forma per relationem, con la quale l'Amministrazione dimostri
di aver compiutamente valutato gli elementi che costituiscono i presupposti per
l'imposizione stessa
(T.A.R.
Lazio, sez. II, 3.12.1999, n. 2517, FA, 2000, 2354. T.A.R. Puglia Bari,
sez. I, 3.11.1999, n. 1481, UA, 2000, 211).
In tal senso
la giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del cod. beni cult. ha
evidenziato la necessità della materiale presenza fisica del bene che si
intende tutelare.
Presupposto
imprescindibile per l'imposizione del vincolo diretto, di cui agli artt. 1 e 3,
l. 1089 del 1939, è l'effettiva esistenza delle cose da tutelare; ne discende
che il decreto impositivo si deve considerare illegittimo per mancanza o errore
nei presupposti, ove si dimostri che nella zona vincolata in realtà non esiste
alcun bene archeologico suscettibile di protezione
(Cons. St., sez. VI, 4.11.2002, n. 5997, FACDS,
2002, 2941).
L’obbligo
della motivazione è costitutivo del provvedimento di vincolo e la sua mancanza
rende censurabile l’atto presso la giustizia amministrativa.
L'amministrazione
dei beni culturali e ambientali, nell'esercizio del potere di vincolo diretto
su beni immobili di proprietà privata, ai sensi dell'art. 1, l. 1.6.1939, n.
1089, pur fruendo di discrezionalità nella valutazione degli interessi
tutelati, ha l'obbligo di motivare adeguatamente la misura imposta con
sacrificio del diritto del privato
(Cons. St.,
sez. VI, 8.3.2000, n. 1171, FA, 2000, 927).
Questo
procedimento interessa i beni di proprietà privata poiché, se i beni sono di
proprietà pubblica, l’assoggettamento alla legge è automatico.
I beni
soggetti a vincoli notificati non possono essere demoliti, rimossi, modificati
o restaurati senza l’autorizzazione del Ministero.
I competenti
organi del Ministero notificano ai privati, proprietari a qualsiasi titolo dei
beni, il vincolo sulle cose che siano di particolare interesse.
Tale atto di
vincolo è trascritto, per i beni immobili, nei registri delle Conservatorie
immobiliari ed esso mantiene la sua efficacia nei confronti di ogni successivo
proprietario o detentore, a qualsiasi titolo, del bene.
Il
Ministero, con il concorso delle regioni e degli altri enti pubblici, assicura
la catalogazione dei beni culturali; esso coordina le relative attività.
La
dichiarazione, diretta ad affermare che un bene è di interesse storico o
artistico, pur non essendo il fondamento del vincolo, che nasce infatti dalla
stessa legge, rende noto a tutti che si è accertata l’esistenza in un bene dei
requisiti che ne dispongono una immediata rigorosa tutela e che, pertanto, da
quel momento in poi, si intende presentare ricorso alla stessa legge.
Ne consegue
che il bene, dopo tale dichiarazione, acquista una nuova qualificazione che ne
limita notevolmente l’uso e che impedisce qualsiasi modifica dello stesso senza
autorizzazione.
Qualora sia
intervenuto il vincolo i privati devono sottoporre al Ministero o al
sovrintendente i progetti delle opere che intendano eseguire sul bene per
ottenere la relativa approvazione, ai sensi dell’art. 12, d.lg. 22.1.2004, n.
41, che sost. art. 23, d.lg. 490/1999.
95. L’autorizzazione per interventi
edilizi su immobili di interesse storico ed artistico.
LEGISLAZIONE l. 1089/1939, art. 18, 59 - l.
15.5.1997, n. 127, art. 12 - d.lg. 490/1999, artt. 21, 23, 24, 28, 131 - d.lg.
22.1.2004, n. 41, artt. 21, 22, 160.
E’ fatto
obbligo di richiedere l’autorizzazione al Ministero per i beni e le attività
culturali per la demolizione e lo spostamento dei beni
soggetti a vincolo o per lo
smembramento di collezioni, ai sensi dell’art. 21, d.lg.
22.1.2004, n. 41, che sost. art. 21, d.lg. 490/1999.
I progetti
per interventi di esecuzione di opere e lavori su beni appartenenti a privati
devono essere sottoposti alla Soprintendenza per ottenere la relativa
approvazione, ai sensi dell’art. 22, d.lg.
490/1999, che sost. art. 23, d.lg. 490/1999.
I beni
soggetti a vincolo, infatti, non possono essere utilizzati in modo non
compatibile con il loro carattere storico o artistico o in modo da pregiudicare
la loro conservazione od integrità (Mengoli 2003, 516).
Al fine
dell'esercizio della funzione di cui agli artt. 21, 1° co., e 23 t.u.
29.10.1999, n. 490, è condizione necessaria e sufficiente che l'elaborato
progettuale trasmesso alle autorità preposte alla tutela del vincolo sia idoneo
al raggiungimento dell'obiettivo che il procedimento avviato è finalizzato a
perseguire ovvero che dal medesimo risulti chiaramente individuabile
l'intervento futuro
(T.A.R.
Lombardia Milano, sez. II, 6.12.2002, n. 5093).
I
proprietari o i detentori, a qualsiasi titolo, di beni mobili ed immobili
riconosciuti d’interesse storico od artistico a seguito di notifica devono
sottoporre all’esame della competente Soprintendenza il progetto di qualunque
opera intendano realizzare, allo scopo di ottenerne la preventiva autorizzazione.
Qualora vi
sia assoluta urgenza si possono eseguire i lavori provvisori indispensabili per
evitare gravi danni ai beni, con l’obbligo di comunicarne immediata notizia
alla Soprintendenza.
Alla stessa
dovranno essere inviati in seguito, nel più breve tempo possibile, i progetti
definitivi dei lavori per averne l’approvazione.
Gli
interventi su immobili che presentano interesse storico artistico sono
assoggettati non solo al permesso di costruire, ma anche all'autorizzazione
rilasciata dalla competente Soprintendenza.
Fra le due
procedure non intercorre un rapporto di collegamento e, quindi, le
determinazioni del soprintendente non vincolano i provvedimenti del sindaco.
L'impugnazione
dei due atti ha ambiti operativi diversi, essendo diretta a censurare in un
caso l'autorizzazione della Soprintendenza per i motivi connessi alla tutela
dei beni culturali e, nell'altro, il permesso di costruire per motivi di natura
urbanistica.
La
giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del cod. beni cult. ha ritenuto
ammissibile l'impugnazione del solo provvedimento comunale avendo il ricorrente
fatto valere ragioni di natura esclusivamente urbanistica.
In sede di
autorizzazione di interventi edilizi su immobili vincolati ai sensi della l.
1.6.1939, n. 1089, il sindaco, a fronte dell'approvazione preventiva rilasciata
dalla competente soprintendenza, in base all'art. 18 della l. 1089/1939, ben
può effettuare valutazioni di ordine urbanistico-edilizio, pervenendo a
determinazioni negative o soprassessorie sull'istanza presentata
dall'interessato
(T.A.R.
Piemonte, sez. I, 10.10.1990, n. 386, T.A.R., 1990, I, 3847).
La
giurisprudenza ha ritenuto che la suddetta autorizzazione riguardi qualsiasi
tipo di lavori:
L'art. 18
della l. 1.6.1939, n. 1089 sulla tutela delle cose d'interesse artistico o
storico, che richiede la preventiva approvazione dei progetti delle opere che
si intendano eseguire sulle cose tutelate dalla legge, non si riferisce alle
opere edilizie, ma alle opere di qualunque genere, comprendendo con tale
espressione qualsiasi manufatto, anche se di limitata entità volumetrica ed a
carattere precario, purché idoneo ad arrecare pregiudizio all'interesse
tutelato
(Cass. pen., sez. III, 23.11.1984, CP,
1986, 131).
Il
procedimento di rilascio, prima disciplinato dall’art. 24, d.lg. 490/1999 (Mengoli 2003, 518), è ora normato dall’art. 22, d.lg. 22.1.2004, n. 41.
La scansione
procedimentale ne impone il rilascio entro 120 giorni dalla ricezione della
richiesta da parte della Soprintendenza.
E’ prevista
la sospensione del termine per richieste istruttorie.
Decorso il
termine il ricorrente può diffidare l’amministrazione a provvedere
E’ previsto
il silenzio assenso che si forma solo a seguito di inottemperanza
dell’amministrazione a provvedere dopo trenta giorni dal ricevimento della
diffida,
La tutela
statale attribuisce al soprintendente il potere di sospendere i lavori quando i
progetti relativi non siano stati preventivamente autorizzati dalla
soprintendenza, ai sensi dell’art. 28, d.lg. 22.1.2004, n. 41, che sost. art. 28, d.lg. 490/1999.
L’art. 160, d.lg. 22.1.2004, n. 41, che sost. l’art. 131, d.lg. 490/1999, disciplina il procedimento
sanzionatorio di rimessa in pristino di competenza del Ministero per i beni e
le attività culturali.
96. Il vincolo indiretto.
LEGISLAZIONE:
cost. 9, 2° co., c.c. 879 - l. 1.6.1939, n. 1089, art. 21 - d.lg. 29.10.1999, n.
490, art. 49 – d.lg. 22.1.2004, n. 41, art. 45.
Gli interventi
da effettuare su beni aventi particolare interesse storico od artistico non
sono regolati da normative di carattere particolare, che fissano speciali
vincoli o distanze da rispettare.
E’
attribuito, in ogni caso, al Ministero per i beni e le attività culturali il
potere di stabilire le distanze tese a proteggere l’immobile da interventi ritenuti dannosi, ex
art. 45, d.lg. 22.1.2004, n. 41, che sost. art. 49, d.lg. 29.10.1999, n. 490.
1. Il
Ministero ha facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme
dirette ad evitare che sia messa in pericolo l'integrità dei beni culturali
immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le
condizioni di ambiente e di decoro.
(Art. 45,
d.lg. 22.1.2004, n. 41).
Il procedimento
amministrativo è subordinato dalla giurisprudenza precedente all’entrata in
vigore del cod. beni cult. al preventivo esperimento della procedura di accesso
che deve consentire al privato interessato dall'azione amministrativa di
portare il suo apporto collaborativo.
È
illegittimo il provvedimento con il quale il Ministero per i Beni e le Attività
Culturali, a salvaguardia dell'integrità dell'immobile denominato Chiesetta di
S. Sergio e del suo originario rapporto con la campagna circostante, ha prescritto
l'inedificabilità delle aree circostanti e il mantenimento della loro
destinazione agricola, per violazione dell'art. 7, l. 7.8.1990, n. 241,
richiamato, dall'art. 49, d.lg. 29.10.1999, n. 490.
Esso
stabilisce in termini generali la necessità che dell'avvio del procedimento sia
dato avviso ai soggetti nella cui sfera è destinato ad incidere il
provvedimento finale.
Nel caso di
specie non trova applicazione l'indirizzo giurisprudenziale per il quale
l'obbligo di comunicazione dell'avvio viene meno ove la partecipazione
dell'interessato mediante osservazioni ed opposizioni non sia idonea, anche
solo in via astratta ed ipotetica, ad essere di una qualche utilità all'azione
amministrativa.
Si tratta,
infatti, di provvedimento connotato da valutazioni tecnico discrezionali per il
quale non è esclusa la possibilità di un apporto partecipativo del privato,
finalizzato a dare un diverso contenuto al provvedimento finale
(T.A.R.
Marche, 17.3.2003, n. 76).
Il potere
ministeriale è, dunque, un potere generale che risponde ai principi delle
logicità e della correttezza dell’azione amministrativa.
Il vincolo
indiretto previsto dall'art. 21, l. 1.6.1939, n. 1089, sostituito dall'art. 49,
d.lg. n. 490/1999, non ha un contenuto prescrittivo tipico, essendo rimesso all'apprezzamento
discrezionale dell'amministrazione e potendo variare in funzione della
protezione del bene, ed è legittimo anche se comporta l'inedificabilità
assoluta dell'area cui si riferisce; infatti, tale articolo prevede che possono
essere imposte anche misure non tipizzate dirette ad evitare che sia messa in
pericolo l'integrità dei beni tutelati, purché il provvedimento impositivo del
vincolo sia congruamente motivato e sorretto da un'adeguata istruttoria.
Nella
fattispecie la necessità di tutelare i terreni attorno al bene monumentale
sottoposto a vincolo diretto si ricava dalla relazione tecnico scientifica
allegata al
provvedimento impugnato, dalla quale, sebbene espressa in forma sintetica,
emerge l'importanza del collegamento fra la conservazione della situazione
ambientale e la fruizione dell'immobile di interesse storico artistico,
tutelato in via diretta
(T.A.R.
Toscana, 17.7.2000, n. 1693).
La dottrina
rileva la prevalenza degli interessi culturali su quelli urbanistici.
In sede di
valutazione comparativa tra interessi urbanistici e interessi connessi alla
tutela storico artistica o archeologica il legislatore fin dal 1939 ha
costantemente ritenuto di dovere attribuire prevalenza a questi ultimi e ciò in
coerenza con la natura di principio fondamentale rivestita dall'art. 9, 2° co.,
cost., in base al quale la repubblica tutela il paesaggio ed il patrimonio
storico artistico della nazione
(Tamiozzo
2000, 78).
La
giurisprudenza ha fissato i limiti del potere ministeriale che resta pur sempre
soggetto all’impugnazione presso la giustizia amministrativa, qualora sia
esercitato in modo non equilibrato e tale da rendere eccessivamente gravosi gli
oneri per la proprietà.
L'imposizione
del vincolo di inedificabilità previsto dall'art. 21, l. 1089 del 1939,
trasfuso nell'art. 49 del testo unico approvato col d.lg. 29.10.1999, n. 490,
costituisce espressione della discrezionalità tecnica della amministrazione, di
per sé sindacabile innanzi al giudice amministrativo quando la motivazione
risulti inadeguata o presenti manifeste incongruenze o illogicità
(Cons. St., sez. VI, 27.3.2001, n. 1767, RGE,
2001, I, 681).
Il potere
previsto dall'art. 21, l. 1.6.1939, n. 1089, con il quale il Ministro per i
beni culturali ed ambientali può imporre distanze, misure ed ogni altra
prescrizione a tutela dell'integrità, della prospettiva e delle condizioni di
luce, ambiente e decoro delle cose di interesse storico, artistico ed
archeologico contemplate dalla legge medesima, deve essere esercitato,
segnatamente nelle ipotesi in cui esso si traduce in prescrizioni
particolarmente gravose per i terreni interessati, secondo criteri di
ragionevolezza e proporzionalità, così da contemperare il sacrificio imposto al
privato con il fine di interesse pubblico perseguito
(T.A.R.
Lazio, sez. II, 9.11.1996, n. 2021, FA, 1997, 1487).
I
provvedimenti tesi a tutelare il bene oggetto di vincolo possono essere presi
secondo un apprezzamento discrezionale che non è censurabile dal giudice
amministrativo.
La
valutazione circa le modalità concrete degli interventi ritenuti necessari o
opportuni al fine della tutela dei beni di interesse artistico o storico non
può che rientrare nell'ambito delle valutazioni discrezionali
dell'amministrazione deputata alla cura dei relativi interessi pubblici, e tali
valutazioni sono di norma sottratte al sindacato del giudice amministrativo.
Nella
specie, è stata ritenuta la legittimità del decreto impositivo di vincolo di
inedificabilità anche temporanea su terreni qualificati come area di rispetto
intorno a resti archeologici ed individuata come omogenea in relazione alla
distanza dai ruderi
(T.A.R.
Sardegna, 9.10.1996, n. 1350, T.A.R., 1996, I, 4755).
Il
provvedimento non è subordinato ad alcun tipo di indennizzo da corrispondere
preventivamente alla proprietà.
La
legittimità del provvedimento di vincolo indiretto di cui all'art. 49, d.lg. 29.10.1999,
n. 490, non dipende dalla liquidazione di un'indennità, giacché questa non è
prevista dal disposto dell'art. 49 del t.u. sui beni culturali e ambientali, né
dall'art. 21, l. n. 1089 del 1939, riprodotto nello stesso art. 49 del t.u.
29.10.1999, n. 490
(Cons. St., sez. II, 30.10.2002, n. 2301, FACDS,
2002, 3273).
Tale
funzione è svolta a prescindere delle disposizioni urbanistiche vigenti che
hanno il diverso scopo della tutela del territorio.
Non possono
comunque essere invocate, come limite all’applicazione del potere ministeriale,
le norme sulle distanze previste dal c.c.
L'art. 879
c.c. esclude per gli edifici di interesse storico, archeologico ed artistico
l'applicabilità delle norme del codice civile sulla concessione forzosa del
muro, ma non anche quelle sulle distanze legali
(Cons. St., sez. V 30.9.1992, n. 889).
Le leggi in
materia, cui si riferisce l'art. 879 c.c. per indicare i beni di riconosciuto
interesse storico, archeologico e artistico non soggetti alla comunione
forzosa, sono solo quelle che realizzano la specifica tutela di questi valori
predisponendo un procedimento amministrativo diretto al loro accertamento
(Cass. civ., sez. II, 6.1.1981, n. 60, RGE,
1981, I, 758).
97. I vincoli di destinazione.
LEGISLAZIONE:
cost. 9, 42 - l. 1.6.1939, n. 1089, artt. 1, 2 - d.lg. 31.3.1998, n. 114, art. 10
- d.lg. 29.10.1999, n. 490, art. 2, lett. b), 53 - d.lg. 22.1.2004, n. 41, art.
10, 3° co., lett. a), 52.
Il nostro
ordinamento conosce anche forme di tutela indiretta dei beni culturali, ex art. 10, 3° co., lett. a), d.lg. 22.1.2004, n. 41, che sost. art. 2, lett. b), d.lg. 29.10.1999,
n. 490.
Detta norma
tutela beni che, sebbene privi di intrinseco valore artistico, abbiano un
collegamento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e
della cultura e che, in genere, rivestono un interesse particolare.
La
genericità del valore del bene è affermata dalla dottrina.
I suddetti
beni sono ritenuti di particolare significato per la loro connessione con fatti
storici qualificanti, anche se solo genericamente
(Alibrandi e
Ferri 1995, 164).
Le norme
istitutive del vincolo indiretto, l. 1.6.1939, n. 1089, artt. 1 e 2, sono state
oggetto di giudizio di costituzionalità in quanto il giudice remittente
riteneva che la costituzione non fornisse la possibilità di introdurre il
vincolo indiretto e, quindi, ravvisava un contrasto fra le suddette norme e
quelle costituzionali che tutelano i patrimoni storici.
Si trattava
di verificare la legittimità costituzionale del d.m. 4.4.1987, col quale il
Ministro per i beni culturali e ambientali sottoponeva a vincolo l'Antico Caffè
Genovese di Cagliari, dichiarato di interesse particolarmente importante, e del
d.m. 12.11.1984, con il quale il Ministero per i beni culturali e ambientali,
nel sottoporre a vincolo il Palazzo Fiano, sito in Roma, ha dichiarato d'interesse
particolarmente importante la Gioielleria Masenza, ubicata nello stesso
palazzo.
La corte
costituzionale ha affermato che gli artt. 1 e 2 della l. 1089/1939, prevedono
la tutela rispettivamente dei beni mobili o immobili di interesse storico, artistico,
archeologico, etnografico e di beni di interesse particolare per il loro
riferimento alla storia politica, militare, della letteratura, dell'arte e
della cultura in genere.
L'art. 11,
l. 1.6.1939, n. 1089, vieta una destinazione ed un uso delle suddette cose non
compatibile con il loro carattere e, comunque, tale da pregiudicarne la
conservazione e l'integrità.
La tutela
dei beni è determinata dal loro valore culturale e dal relativo interesse
pubblico, da accertarsi con atto amministrativo discrezionale, soggetto al
sindacato del giudice amministrativo.
Il valore
culturale dei beni di cui alla l. 1089/1939, è dato dal collegamento del loro
uso e della loro utilizzazione precedente con accadimenti della storia, della
civiltà o del costume anche locale.
In altri
termini, essi possono essere stati o sono luoghi di incontri e di convegni di
artisti, letterati, poeti, musicisti ecc.; sedi di dibattiti e discussioni sui
più vari temi di cultura, comunque di interesse storico-culturale, rilevante ed
importante, da accertarsi dalla pubblica amministrazione competente.
Detta
utilizzazione particolare non assume rilievo autonomo, separato e distinto dal
bene, ma si compenetra nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale e,
quindi, non può essere protetta separatamente dal bene, come si pretenderebbe.
L'esigenza
di protezione culturale dei beni, determinata dalla loro utilizzazione e dal
loro uso precedente, si estrinseca in un vincolo di destinazione che agisce
sulla proprietà del bene e può trovare giustificazione, per i profili
costituzionali, nella funzione sociale che la proprietà privata deve svolgere,
ex art. 42 cost.
Il vincolo
non può assolutamente riguardare l'attività culturale in sé e per sé,
considerata separatamente dal bene.
Tale attività,
invece, deve essere libera secondo i precetti costituzionali, ex artt. 2, 9 e
33 cost.
La stessa
iniziativa economica è libera, salvo il suo indirizzo e coordinamento a fini
sociali tramite leggi, ex art. 41 cost.
Vi sono
certamente attività culturali che lo Stato tutela con incentivi vari, specie di
natura finanziaria, disposti con leggi apposite, distinte da quella in esame.
La Corte,
inoltre, ha ritenuto che non risulti affatto violato l'art. 9 cost., che
impegna la Repubblica ad assicurare, tra l'altro, la promozione e lo sviluppo
della cultura nonché la tutela del patrimonio storico ed artistico della
Nazione, quale testimonianza materiale della civiltà e della cultura del Paese.
Per quanto
si desume da altri precetti costituzionali, lo Stato deve curare la formazione
culturale dei consociati alla quale concorre ogni valore idoneo a sollecitare e
ad arricchire la loro sensibilità come persone, nonché il perfezionamento della
loro personalità ed il progresso anche spirituale oltre che materiale.
In particolare,
lo Stato, nel porsi gli obiettivi della promozione e dello sviluppo della
cultura, deve provvedere alla tutela dei beni che ne sono testimonianza
materiale ed assumono rilievo strumentale per il raggiungimento dei suddetti
obiettivi sia per il loro valore culturale intrinseco sia per il riferimento
alla storia della civiltà e del costume anche locale; deve, inoltre, assicurare
alla collettività il godimento dei valori culturali che essa esprime.
È infondata,
in riferimento all'art. 9 cost., la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 1 e 2, l. 1.6.1939, n. 1089, nella parte in cui non prevedono la
possibilità di tutelare attività culturalmente rilevanti, caratterizzanti una
zona del territorio cittadino e, in particolare, i centri storici
(Corte
cost., 9.3.1990, n. 118, RGE, 1990, I, 328).
La dottrina
rileva come la giurisprudenza successiva alla pronuncia della Corte abbia
interpretato la norma fornendo un'interpretazione estensiva.
Essa
considera la categoria aperta in modo da comprendere quei beni che hanno avuto
un qualche scollegamento con fatti che comportano l’imposizione del vincolo.
Le recenti
linee di tendenza degli organi di tutela hanno portato a porre dei vincoli di
tutela sia su locali commerciali, in quanto qualificati come punti di incontro
e di scambi conviviali tra gente di cultura ovvero quali luoghi di incontro e
sollecitazione culturale, ma anche su laboratori e botteghe espressive di
determinate attività commerciali o artigianali di tipo tradizionale
(Crosetti
2002, 258).
Alcune
sentenze hanno precisato che costituiscono oggetto di tutela storico culturale
i beni nei quali siano incorporati valori storico artistici e culturali, e
quindi quelli attinenti a speciali discipline, ma non anche le gestioni
commerciali e gli esercizi artigianali, nei quali si svolgano attività inerenti
ai valori sopra menzionati.
Il vincolo
storico artistico, di cui agli artt. 1 e 2, l. n. 1089 del 1939, riguarda le
cose materiali incorporanti i valori culturali che sono la ragion d'essere
della tutela e non si estende fino a ricomprendere la gestione commerciale o
l'esercizio artigianale di determinate attività (svolte in detti locali e/o con
detti arredi) con una interpretazione analogica fortemente restrittiva del
principio di legalità che caratterizza i poteri ablatori della pubblica
amministrazione dell'art. 11 della stessa l. n. 1089 del 1939 che vieta che le
cose materiali soggette a detta tutela non possano essere adibite ad usi non
compatibili con il loro carattere storico ed artistico oppure tali da recare
pregiudizio alla loro conservazione o integrità forzando la lettura e la ratio
complessiva della legge al punto da trasformare la disposizione permissiva del
godimento del proprietario in conformità di limiti di interesse generale, in un
precetto impositivo di una servitù pubblica legislativamente innominata, in
contrasto con gli artt. 42 e 43 cost.; così che la norma in parola non
necessita per la sua osservanza di pervenire all'imposizione di un vincolo di
destinazione d'uso che investa i locali in cui siano conservate le cose
soggette a vincolo
(Cons.
Stato, sez. VI, 16.9.1998, n. 1266, FA, 1998, 2397).
La tutela
del vincolo di destinazione trova idoneo sostegno nella normativa che propone
una protezione particolare e peculiare per i centri storici.
Il d.lg.
31.3.1998, n. 114, all’art. 10, attribuisce alla legislazione regionale il
compito di affidare ai comuni maggiori poteri in materia di localizzazione e
apertura di centri di vendita nei centri storici.
Nella
regione Umbria, ai sensi dell'art. 39, 3° co., l. r. 3.8.1999, n. 24, le
autorizzazioni all'apertura di strutture di tipo M2, diversamente da quelle di
tipo M1, soggiacciono alla necessità della previa adozione dello strumento di
promozione previsto dal precedente art. 19 nonché dello specifico strumento di
intervento per la valorizzazione del centro storico previsto dall'art. 21 della
stessa legge, trattandosi di strutture che hanno maggiore rilevanza non solo
sotto il profilo commerciale, ma anche per gli impatti urbanistici ed
ambientali connessi
(T.A.R.
Umbria 24.1.2002, n. 37, FATAR, 2002, 110).
L’esercizio
del commercio in aree di valore culturale è stato oggetto di disciplina da
parte dell’ art. 52, d.lg. 22.1.2004, n. 41, che sost. art. 53, d.lg. 490/1999.
Tale
disposizione ha stabilito che il soprintendente con proprio provvedimento o i
regolamenti di polizia urbana devono individuare le aree aventi valore
archeologico, storico, artistico e ambientale, in cui l’esercizio del commercio
non è consentito o è consentito con particolari limitazioni.
La norma,
successivamente, specifica che per le ipotesi in cui l’esercizio del commercio
sia consentito entro limiti particolari esso è sempre subordinato al rilascio
del nulla osta da parte del sovrintendente e che esso può essere concesso solo
per le installazioni mobili, fatta salva l’autonomia legislativa regionale.
98. I vincoli
cimiteriali.
LEGISLAZIONE
r.d. 27.7.1934, n. 1265, art. 338, 1° e 5° co. - d.p.r. 10.9.1990, n. 285, art.
57.
I vincoli imposti dal r.d.
27.7.1934, n. 1265, per la realizzazione di cimiteri rispondono sicuramente a
criteri di ordine storico - artistico oltre che igienico.
Le motivazioni più articolate tese
a giustificare questi vincoli, che creano una zona di rispetto per questi
luoghi di culto e della memoria, sono da collegarsi ad un più moderno criterio
di tutela ambientale.
Gli antichi hanno riservato ai
luoghi di sepoltura dei defunti località di interesse paesaggistico; si pensi,
ad esempio, alla necropoli etrusca sita sul Golfo di Baratti.
L'art. 338, t.u. 27.7.1934, n.
1265, vieta di realizzare nuove costruzioni su terreni che si trovino a meno di
duecento metri dai cimiteri.
I
cimiteri debbono essere collocati alla distanza di almeno duecento metri dai
centri abitati. é vietato di costruire intorno agli stessi nuovi edifici e
ampliare quelli preesistenti entro il raggio di duecento metri.
Il
contravventore è punito con l'ammenda fino a lire 1000, (euro 5,16) e deve
inoltre, a sue spese, demolire l'edificio o la parte di nuova costruzione,
salvi i provvedimenti di ufficio in caso di inadempienza.
Il
prefetto, quando abbia accertato che a causa di speciali condizioni locali non
è possibile provvedere altrimenti, può permettere la costruzione e
l'ampliamento dei cimiteri a distanza minore di duecento metri dai centri
abitati.
Il
prefetto inoltre, sentito il medico provinciale e il podestà, per gravi e
giustificati motivi e quando per le condizioni locali non si oppongano ragioni
igieniche, può autorizzare, di volta in volta, l'ampliamento degli edifici
preesistenti nella zona di rispetto dei cimiteri.
I
provvedimenti del prefetto sono pubblicati nell'albo pretorio per otto giorni
consecutivi e possono essere impugnati dagli interessati nel termine di trenta
giorni.
Il
ministero per l'interno decide sui ricorsi, sentito il consiglio di Stato
(art.
338, t.u. 27.7.1934, n. 1265).
Il divieto, previsto dall'art. 338,
t.u. 27.7.1934, n. 1265, di costruire nuovi edifici entro il raggio di duecento
metri intorno ai cimiteri è assoluto ed è riferibile ad ogni tipo di fabbricato
o di costruzione, anche ad uso di abitazione, rendendo del tutto inedificabile
l'area colpita dal divieto medesimo.
Il vincolo cimiteriale è
inderogabile e sussiste ope legis e, quindi, indipendentemente dal fatto
che sia recepito dallo strumento urbanistico primario o secondario (T.A.R.
Umbria, 15.7.2002, n. 534, FATAR, 2002, 2455).
In detta fascia di rispetto
cimiteriale è vietato sia costruire nuovi edifici sia intervenire su manufatti
preesistenti con opere che comportino un'alterazione dei volumi o delle
superfici a prescindere dalla destinazione dell’edificio da realizzare,
compresi i manufatti destinati ad attività artigianali, in cui costante è la
presenza dell'uomo.
Il
divieto di costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici o ampliare quelli
preesistenti, entro il raggio di duecento metri, imposto dall'art. 338, r.d. 27
luglio 1934, n. 1265, si applica anche all'ampliamento dei fabbricati esistenti
e alle sopraelevazioni
(T.A.R. Abruzzo L'Aquila, 22.3.2002, n. 122, FATAR, 2002, 993. Cass. pen., sez. III,
24.5.1996, n. 8553, CP, 1997, 3163. Cons. St., sez. IV, 29.2.1996, n.
222, FA, 1998, 381).
E’ consentita deroga, che prima era
autorizzata dal prefetto; ora tale facoltà è attribuita alla competenza degli
stessi comuni, poiché non espressamente delegata alla regione o alla provincia,
ex art. 32, d.p.r. 616/1977 (Mengoli 2003, 565).
L’art. 32, d.p.r. 616/1977,
trasferisce ai comuni, in materia di igiene, tutte le competenze che non siano
espressamente attribuite ad organo dello Stato.
Il regolamento di polizia mortuaria
consente gli ampliamenti fino ad una distanza minima di 100 metri dal centro
abitativo, lasciando, però, in vigore la norma che prevede la possibilità di
ammettere una ulteriore deroga motivata.
1. I
cimiteri devono essere isolati dall'abitato mediante la zona di rispetto
prevista dall'art. 338 del t. u. delle leggi sanitarie, approvato con r. d.
27.7.1934, n. 1265 e successive modificazioni.
2.
Per i cimiteri di guerra valgono le norme stabilite dalla l. 4.12.1956, n. 1428
e successive modifiche.
3. É
vietato costruire, entro la fascia di rispetto, nuovi edifici o ampliare quelli
preesistenti.
4.
Nell'ampliamento dei cimiteri esistenti, l'ampiezza della fascia di rispetto
non può essere inferiore a 100 metri dai centri abitati nei comuni con
popolazione superiore ai 20.000 abitanti ed a 50 metri per gli altri comuni
(art.
57, d.p.r. 10.9.1990, n. 285).
La ratio della deroga è rivolta,
secondo la giurisprudenza, solo a consentire l’ampliamento dei cimiteri
preesistenti e non può essere invocata dai privati al fine di giustificare la
realizzazione di edifici nella fascia di rispetto.
La
deroga al limite minimo della fascia di rispetto cimiteriale ha la funzione non
già di consentire la riduzione in via definitiva della distanza all'uopo
dettata dall'art. 338, r.d. 27.7.1934, n. 1265, bensì di consentire, per
esigenze di carattere strumentale, l'ampliamento di un cimitero con riguardo
agli edifici già esistenti del centro abitato
(Cons.
Stato, sez. V, 23.8.2000, n. 4574, FA, 2000, 2673).
L'art.
57 D.P.R. 10.9.1990, n. 285 (recante il regolamento di polizia mortuaria),
ribadito che "i cimiteri devono essere isolati dall'abitato mediante la
zona di rispetto prevista dall'art. 33 del t.u. delle leggi sanitarie...",
ha statuito, al comma 3, che "è vietato costruire, entro la fascia di
rispetto, nuovi edifici o ampliare quelli preesistenti", consentendo, al
comma 4, soltanto una deroga per l'ampliamento dei cimiteri esistenti (e non
anche per la loro costruzione) negli stessi limiti già ammessi dall'art. 338
comma 4 t.u. sanitario, senza far cenno alcuno alla possibilità di riduzione
della fascia di rispetto e quindi, alla deroga di cui al successivo comma 5
art. 338 t.u. sanitario; di conseguenza deve ritenersi che la disposizione ha
regolato in modo novativo le fattispecie già disciplinate dall'art. 338 t.u.
sanitario, cit., con implicita abrogazione, per incompatibilità, di quelle parti
non riprodotte e, in particolare, della previsione di una deroga alla fascia di
rispetto cimiteriale non finalizzata all'ampliamento dei cimiteri esistenti
Il limite delle distanze del
cimitero dalle costruzioni confinanti non può essere in ogni caso derogato dal
provvedimento amministrativo.
Ai
sensi del combinato disposto dell'art. 338, 1° e 5° co., t.u. 27.7.1934, n.
1265, ribadito dall'art. 57, d.p.r. 10.9.1990, n. 285, nei comuni con
popolazione inferiore a 20.000 abitanti, il raggio di distanza minimo tra
cimitero e centro abitato è di 50 metri, con divieto assoluto, al di sotto di
detto limite, di costruire nuovi edifici o di ampliare quelli preesistenti
(T.A.R.
Valle d'Aosta, 28.2.1992, n. 19, T.A.R., 1992, 1384).
La realizzazione di una costruzione
in contrasto colle norme sulle distanze non consente nessuna legittimazione né
per la costruzione che rimane abusiva né per i diritti del confinante che non
può esigere il rispetto del principio della prevenzione.
La
costruzione in violazione della zona di rispetto cimiteriale, stabilita
dall'art. 338, r.d. 27.7.1934, n. 1265, finché non sia abbattuta, non esclude
l'operatività del principio della prevenzione, e quindi non legittima il vicino
a costruire in violazione delle distanze legali, ex art. 873 c.c.
(Cass. civ., sez. II, 22.8.1998, n. 8337, GCM,
1998, 1748).
Il divieto opera indipendentemente
dagli strumenti urbanistici ed eventualmente anche in contrasto con gli stessi.
Le fasce di rispetto cimiteriale
costituiscono, infatti,un vincolo urbanistico stabilito con leggi dello Stato,
art. 338, r.d. 27.7.1934 n. 1265, e delle regioni; esse, come tali, sono
operanti ex se indipendentemente dagli strumenti urbanistici vigenti ed
eventualmente anche in contrasto con i medesimi.
In
relazione ad un suolo rientrante nella zona di rispetto cimiteriale ed
assoggettato al relativo vincolo, ai sensi dell'art. 338 r.d. n. 1265 del 1934,
legittimamente il giudice di merito ne esclude l'edificabilità, anche se il
piano regolatore generale includa il suolo stesso in zona riservata ad edilizia
economica e generale, attesa l'illegittimità di tale eventuale inclusione e la
possibilità, in quella zona di rispetto, solo di un ampliamento di edifici
preesistenti, previa autorizzazione prefettizia.
Né, a
tal riguardo, è consentito far riferimento ad una pretesa edificabilità di
fatto divergente da tale vincolo imposto dalla legge, in quanto il comma 3
dell'art. 5 bis, l. 359 del 1992 richiede che l'edificabilità di fatto si
armonizzi con quella legale.
(T.A.R. Puglia Bari, sez. II, 4.11.2002, n. 4755, FATAR, 2002, 3749. Cass. Civ., sez. I, 23.9.1998, n. 9503, GCM, 1998, 1929).
99. I vincoli di rispetto
per le aree distrutte dall’incendio.
LEGISLAZIONE l. 1.3.1975, n. 47, art. 9, 4° co.
- l. 22.11.2000, n. 353, art. 10 - l. 24.12.2003, n. 350, art. 4, 173° co.
Allo scopo di combattere il
fenomeno degli incendi dolosi finalizzati a reperire aree all’attività
edificatoria a fini speculativi il legislatore ha sancito il divieto di
edificazione nei suoli interessati da incendi per almeno dieci anni dal
verificarsi del fatto, ex art. 9, l. 1.3.1975, n. 47 (Assini e Mantini 1997,
538).
La normativa è stata abrogata e
sostituita dalla legge quadro in materia di incendi boschivi, l. 22.11.2000, n.
353, che, all’art. 10, inasprisce le sanzioni e ribadisce il vincolo di
inedificabilità decennale.
1. Le
zone boscate ed i pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco non
possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all'incendio per
almeno quindici anni. E’ comunque consentita la costruzione di opere pubbliche
necessarie alla salvaguardia della pubblica incolumità e dell'ambiente. In
tutti gli atti di compravendita di aree e immobili situati nelle predette zone,
stipulati entro quindici anni dagli eventi previsti dal presente comma, deve
essere espressamente richiamato il vincolo di cui al primo periodo, pena la
nullità dell'atto.
Nei
comuni sprovvisti di piano regolatore è vietata per dieci anni ogni
edificazione su area boscata percorsa dal fuoco. E’ inlotre vietata per dieci
anni, sui predetti soprassuoli, la realizzazione di edifici nonché di strutture
e infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive,
fatti salvi i casi in cui detta realizzazione sia stata prevista, in data
precedente l'incendio dagli strumenti urbanistici vigenti a tale data. Sono
vietate per cinque anni, sui predetti soprassuoli, le attività di
rimboschimento e di ingegneria ambientale sostenute con risorse finanziarie
pubbliche, salvo specifica autorizzazione concessa dal Ministro dell'ambiente,
per le aree naturali protette statali, o dalla regione competente, negli altri
casi, per documentate situazioni di dissesto idrogeologico e nelle situazioni in cui sia urgente un intervento per
la tutela di particolari valori ambientali e paesaggistici. Sono altresì
vietati per dieci anni, limitatamente ai soprassuoli delle zone boscate
percorsi dal fuoco, il pascolo e la caccia.
3.
Nel caso di trasgressioni al divieto di pascolo su soprassuoli delle zone boscate percorsi dal fuoco ai sensi del
comma 1 si applica una sanzione amministrativa, per ogni capo, non inferiore a
lire 60.000 e non superiore a lire 120.000 e nel caso di trasgressione al divieto
di caccia sui medesimi soprassuoli si applica una sanzione amministrativa non
inferiore a lire 400.000 e non superiore a lire 800.000.
4.
Nel caso di trasgressioni al divieto di realizzazione di edifici nonché di
strutture e infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività
produttive su soprassuoli percorsi dal fuoco ai sensi del comma 1, si applica
l'art. 20, primo comma, lettera c), della legge 28 febbraio 1985, n. 47. Il
giudice, nella sentenza di condanna, dispone la demolizione dell'opera e il
ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile.
5.
Nelle aree e nei periodi a rischio di incendio boschivo sono vietate tutte le
azioni, individuate ai sensi dell'art. 3, comma 3, lettera f), determinanti
anche solo potenzialmente l'innesco di incendio.
6.
Per le trasgressioni ai divieti di cui al comma 5 si applica la sanzione
amministrativa del pagamento di una somma non inferiore a lire 2.000.000 e non
superiore a lire 20.000.000. Tali sanzioni sono raddoppiate nel caso in cui il responsabile appartenga a una delle
categorie descritte all'art. 7, commi 3 e 6.
7. In
caso di trasgressioni ai divieti di cui al comma 5 da parte di esercenti
attività turistiche, oltre alla sanzione di cui al comma 6, è disposta la
revoca della licenza, dell'autorizzazione o del provvedimento amministrativo
che consente l'esercizio dell'attività.
8. In
ogni caso si applicano le disposizioni dell'art. 18 della l. 8 luglio 1986, n.
349, sul diritto al risarcimento del danno ambientale, alla cui determinazione
concorrono l'ammontare delle spese sostenute per la lotta attiva e la stima dei
danni al soprassuolo e al suolo
(art. 10, l. 22.11.2000, n. 353, mod. art. 4,
173° co., l. 24.12.2003, n. 350).
Per rendere operativa la norma, il
legislatore impone ai comuni l’accertamento dei suoli investiti dall’incendio
nell’ultimo quinquennio.
2. I
comuni provvedono, entro novanta giorni dalla data di approvazione del piano
regionale di cui al comma 1 dell'art. 3, a censire, tramite apposito catasto, i
soprassuoli già percorsi dal fuoco nell'ultimo quinquennio, avvalendosi anche
dei rilievi effettuati dal corpo forestale dello Stato. Il catasto è aggiornato
annualmente. L'elenco dei predetti soprassuoli deve essere esposto per trenta
giorni all'albo pretorio comunale, per eventuali osservazioni. Decorso tale
termine, i comuni valutano le osservazioni presentate ed approvano, entro i
successivi sessanta giorni, gli elenchi definitivi e le relative
perimetrazioni. E’ ammessa la revisione degli elenchi con la cancellazione
delle prescrizioni relative ai divieti di cui al comma 1 solo dopo che siano
trascorsi i periodi rispettivamente indicati, per ciascun divieto, dal medesimo
comma 1
(art.
10, l. 22.11.2000, n. 353).
La giurisprudenza ha in ogni modo
ritenuto che i limiti ed i divieti disposti dalla l. 353/2000 siano applicabili
anche qualora le amministrazioni non abbiano ancora ottemperato agli obblighi
amministrativi di accertamento.
Non appare conforme allo spirito
della norma, ai principi generali dell'ordinamento ed al corretto perseguimento
degli interessi pubblici connessi e desumibili altresì dall'art. 1, l.
353/2000, ritenere che l'operatività dei divieti e, più in generale delle
prescrizioni fondamentali della norma, oltretutto caratterizzati dalla sanzione
penale in caso di violazione, possa essere subordinata all'effettivo
adempimento di un'attività amministrativa di mera certificazione ed
elencazione, quindi dichiarativa e non costitutiva.
Così ragionando, il perseguimento
di principi fondamentali dello Stato sarebbe subordinato, sine die, alla
volontà di organi amministrativi locali operanti non nell'ambito delle proprie
indefettibili prerogative di perseguimento del pubblico interesse per le
rispettive comunità locali ma in sede di mera attività di certificazione
delegata da una legge fondamentale dello Stato.
L'operatività
dei divieti di costruzione di cui all'art. 10, l. 21.11.2000, n. 353, non può
ritenersi subordinata all'effettivo adempimento di un'attività amministrativa
di mera certificazione ed elencazione quale il censimento comunale dei
soprassuoli già percorsi dal fuoco nell'ultimo quinquennio
(T.A.R.
Liguria, sez. I, 21.2.2003, n. 225, FATAR, 2003, 489).
La stessa sentenza ha precisato che
dopo il verificarsi dell’incendio pur a fronte della astratta edificabilità nei
termini - invero ristretti e rispettosi delle peculiarità ambientali del sito -
di cui alla pianificazione preesistente, se all'epoca dell'incendio non era
stata rilasciata alcun permesso di costruire né risultava proposto ovvero
comunque in itinere un piano attuativo, necessario preliminarmente per
la realizzazione di qualsiasi intervento di tale natura in zona, non può essere
autorizzato alcun provvedimento che consenta costruzioni.
Il giudice amministrativo ha
affermato che il richiamo effettuato dall’art. 10, 4° co., l. 353/2000,
all'art. 20, lett c), l. 47/85, non limita l'operatività della norma alle
ipotesi dalla stessa indicate, cioè la lottizzazione abusiva e gli interventi
edilizi nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico,
paesistico, ambientale, in variazione essenziale, in totale difformità o in
assenza del provvedimento autorizzatorio.
Il rinvio operato dalla norma di
cui all’art. 10, 4° co., l. 353 all'art. 20, lett. c), l. 47/1985, è evidentemente
quoad poenam, cioè solo al fine di individuare la sanzione da applicare:
ciò emerge dal fatto che la norma detta autonomamente ed in termini esaustivi
il comportamento oggetto di sanzione, limitandosi a non indicare la pena per la
quale appunto richiama altra ipotesi connotata da elementi di analogia sotto il
profilo generale degli interessi pubblici ambientali tutelati; inoltre, la
natura del rinvio emerge altresì dalla successiva indicazione autonoma delle
sanzioni accessorie, non essendo sufficiente il mero richiamo all'art. 20
suddetto in quanto limitato ai limiti edittali di pena (T.A.R. Liguria, sez. I,
21.2.2003, n. 225, FATAR, 2003, 489).
La giurisprudenza ha precisato che
la norma non può impedire la realizzazione di opere che fossero autorizzabili
in base alla normativa vigente prima della data dell’incendio.
La
disposizione, ex art. 9, 4° co., l. 10.3.1975, n. 47, che vieta l'edificazione
sui soprassuoli boschivi interessati da incendi ed impedisce destinazioni
diverse da quelle in atto prima dell'incendio stesso, mira ad impedire che
l'area possa divenire edificabile per il sol fatto dell'evento incendiario,
onde va interpretata nel senso che tale divieto non si può estendere agli
interventi costruttivi che sarebbero stati consentiti prima di detto evento
(Cons.
Stato sez. V, 15.7.1998, n. 1048, RGE, 1998, I, 1390).
La norma ha vigore a prescindere
dalla presentazione della richiesta di edificare.
Essa può essere invocata nel caso
in cui l’intervento sia consentito dalla normativa di piano precedentemente
all’incendio (Caruso 2004, 139).
In
considerazione del fine perseguito dall'art. 9, l. 28.2.1985, n. 47, il divieto
di edificazione nei soprassuoli interessati da incendi non può essere esteso
agli interventi che sarebbero stati consentiti anche in presenza del bosco
(Cons.
Stato, sez. V, 25.5.1995, n. 832, GI, 1995, III, 1, 609).
Non acquista alcuna rilevanza
l’entità del danno provocato perché il divieto resta in ogni caso in vigore.
Il
divieto di costruzione o di diversa destinazione delle zone boschive distrutte
o danneggiate dal fuoco, posto dall'art. 9, 4° co., l. 1.3.1975, n. 47, è
applicabile anche quanto anteriormente all'insorgenza dell'incendio ed in epoca
non sospetta siano in avanzato iter le pratiche per ottenere
l'autorizzazione ad edificare o sia addirittura già intervenuta la licenza
edilizia, poiché la lettera della norma non consente di attenuare
l'incondizionato divieto di costruzione o di diversa destinazione e la sua ratio
è quella di impedire l'utilizzazione del suolo resa possibile dall'intervenuto
incendio
Il
divieto di edificazione nelle zone boschive distrutte o danneggiate dal fuoco,
posto dall'art. 9, 4° co., l. 1.3.1975, n. 47, opera anche quando il danno sia
limitato e sia possibile la ricostituzione in tempi molto brevi della
vegetazione danneggiata o distrutta
(Cons.
Stato, sez. II, 12.7.1983, n. 339, CS, 1986, I, 1053).
Il divieto opera a prescindere
dalla responsabilità, accertata o meno, del proprietario del fondo colpito
dall’incendio.
Non ha acquista alcun rilievo il
fatto che incendio sia spontaneo o doloso o che esso sia imputabile a soggetti
estranei alla proprietà; il divieto rimane avendo rilevanza solo per il fatto
che si è verificato l’evento.
L'art.
9, 4° co., l. 1.3.1975 n. 47 - il quale dispone che nelle zone boschive
comprese nei piani per la difesa e conservazione del patrimonio boschivo i cui
soprassuoli boschivi siano stati distrutti o danneggiati dal fuoco è vietato
l'insediamento di costruzioni di qualsiasi tipo e non è possibile una
destinazione diversa da quella in atto prima dell'incendio - tende a tutelare
in ogni caso il patrimonio boschivo danneggiato o distrutto dal fuoco, senza
distinguere fra le varie cause che abbiano potuto provocare l'incendio.
Il
predetto divieto opera anche nel caso in cui sia stata accertata la mancanza di
responsabilità del proprietario nella produzione dell'incendio
(Cons.
Stato, sez. II, 12 luglio 1983, n. 339, CS, 1986, I, 1053).
La giurisprudenza non ha ritenuto,
correttamente, il fatto ipotizzato dall'art. 9, l. 1 marzo 1975, n. 47,
soggetto alla depenalizzazione, anche se punito con sola ammenda, in quanto la
norma disciplina la materia urbanistica (Pret. Agropoli, 16.1.1988, GM,
1989, 440).
100. I vincoli
aeronautici.
LEGISLAZIONE
r.d. 30.3.1942, n. 327, artt. 714, 715 - l. 4.2.1963, n. 58, art. 1.
L’art. 714 del c.n., approvato con r.d. 30.3.1942, n. 327, dispone, in vicinanza
degli aeroporti statali e di quelli privati aperti al traffico aereo civile,
delle limitazioni per le costruzioni, le piantagioni arboree a fusto legnoso,
gli impianti di linee elettriche, telegrafiche e telefoniche, le filovie,
funivie e teleferiche, le antenne radio, gli impianti di elevazione, e in
genere per qualsiasi opera che possa ugualmente costituire ostacolo alla
navigazione aerea, sia nelle direzioni di atterraggio che nelle altre
direzioni.
I limiti sono fissati con decreti
del Ministero della difesa o dei trasporti per particolari tipi di aeroporti,
attraverso un procedimento che si articola in due fasi: nella preventiva
approvazione delle direzioni di atterraggio e in un successivo provvedimento di
approvazione di mappe contenenti le zone sottoposte a vincolo.
L'art.
714 bis comma ultimo c. n. - il quale prescrive che le direzioni di atterraggio
negli aeroporti sono determinate in base al sistema orografico e al regime dei
venti nella zona - indica con precisione gli unici elementi che
l'Amministrazione deve acquisire per pervenire ad una determinazione univoca,
che deve essere quella derivante dai dati obiettivi previamente rilevati,
sicché il provvedimento dell'Amministrazione col quale è determinata la
direzione e la lunghezza delle piste ha carattere obbligatorio e non
discrezionale
(T.A.R.
Sicilia, sez. I, Palermo, 15.5.1998, n. 995, T.A.R., 1998, I, 2847).
L'art.
714 bis comma ultimo c. n. prescrive che le direzioni di atterraggio sono determinate
in base al sistema orografico e al regime dei venti nella zona in cui
l'aeroporto è localizzato, indicando, quindi, con precisione gli unici elementi
che l'amministrazione deve acquisire.
Il
provvedimento col quale è determinata la direzione e la lunghezza delle piste
ha carattere obbligatorio e non discrezionale
(Cons.
Stato, sez. IV, 23.1.1986, n. 42, RGA, 1986, 606).
L’art. 715, r.d. 30.3.1942, n. 327,
mod. art. 1, l. 4.2.1963, n. 58, afferma il divieto di realizzare nuove
costruzioni su terreni che si trovino a meno di trecento metri da impianti
aeronautici.
Nelle direzioni di atterraggio
degli aeroporti non possono sorgere manufatti che ostacolino le manovre di
avvicinamento e il successivo atterraggio (Assini e Mantini 1997, 535).
Il sistema dei divieti è articolato
a seconda delle dimensioni dell’aeroporto.
Salve
le diverse limitazioni stabilite per gli aeroporti aperti al traffico
strumentale e notturno, nelle direzioni di atterraggio non possono essere
costituiti ostacoli a distanza inferiore ai trecento metri dal perimetro
dell'aeroporto.
Nelle
stesse direzioni, alla distanza di trecento metri dal perimetro dell'aeroporto
non possono essere costituiti ostacoli che, rispetto al livello medio dei
tratti di perimetro corrispondenti alle direzioni di atterraggio, superino
l'altezza di:
1)
metri dodici, se l'aeroporto ha lunghezza di atterraggio inferiore a metri
milleottanta;
2)
metri dieci, se l'aeroporto ha lunghezza di atterraggio pari o superiore ai
metri milleottanta, ma inferiore a millecinquecento;
3)
metri sette e cinquanta, se l'aeroporto ha lunghezza di atterraggio pari o
superiore ai metri millecinquecento.
Più
oltre, fino a tre chilometri dal perimetro dell'aeroporto, l'altezza indicata
nel numero 1) del precedente comma può essere superata di un metro per ogni
venticinque metri di distanza, e le altezze indicate nei numeri 2) e 3) possono
essere superate, rispettivamente, di un metro per ogni trenta, o per ogni
quaranta metri di distanza. Tali altezze non possono oltrepassare, in ogni
caso, i quarantacinque metri sul livello medio dell'aeroporto.
Nelle
altre direzioni e fino ai trecento metri dal perimetro dell'aeroporto non
possono essere costituiti ostacoli che, rispetto al livello del corrispondente
tratto del perimetro dell'aeroporto, superino l'altezza di un metro per ogni
sette metri di distanza dal perimetro stesso.
Dopo
il terzo chilometro, in tutte le direzioni, cessa ogni limitazione, per gli
aeroporti indicati nel n. 1) del secondo comma; per gli altri, il limite di altezza
di quarantacinque metri sul livello dell'aeroporto può essere superato di un
metro per ogni venti metri di distanza, e cessa ogni limitazione dopo il quarto
chilometro per gli aeroporti indicati nel n. 2) e dopo il quinto per quelli
indicati nel n. 3)
(art. 715, r.d. 30.3.1942, n. 327, mod. art. 1,
l. 4.2.1963, n. 58).
La giurisprudenza ha stabilito la
legittimità del livello medio stabilito con d.m.
A
norma dell'art. 715 c. n., nella fascia da 300 metri a tre chilometri dal
perimetro di un aeroporto non possono essere costruiti, nelle direzioni di
atterraggio, ostacoli di altezza superiore a 45 m. sul livello medio
dell'aeroporto stesso, stabilito con d.m., ai sensi del precedente art. 714
bis.
Nella
specie, per quanto concerne l'aeroporto di Bologna, il d.m. 11.8.1977 ha
fissato il livello medio in metri 36, 2 s.l.m.
(T.A.R.
Emilia Romagna Bologna, sez. I, 11.12.2002, n. 2026).
L’area soggetta a limitazioni deve
essere, quindi, indicata in una mappa che delimita le zone colpite dai divieti,
redatta da parte del Ministero della Difesa.
I due atti esplicano effetti
diversi: l’indicazione delle direzioni di atterraggio è sostanzialmente
ricognitivo di una zona.
Essa è soggetta ad una disciplina
che ha le caratteristiche della generalità, pertanto, non imponendo alcun
vincolo, non è soggetto ad impugnazione.
I
decreti ministeriali che, ai sensi dell'art. 714 bis c. nav., determinano per
ciascun aeroporto o campo di fortuna la direzione e la lunghezza delle piste di
atterraggio, nonché il livello medio sia dell'aeroporto che dei tratti di
perimetro corrispondenti alle direzioni di atterraggio, non costituiscono
provvedimenti immediatamente e autonomamente impugnabili, in ragione del loro
carattere prodromico rispetto ai successivi atti della procedura, cui spetta
fissare in concreto i vincoli, le limitazioni e i divieti ai quali le zone che
circondano gli aeroporti devono essere sottoposte ai fini della sicurezza del
traffico aereo
(T.A.R.
Sicilia, sez. I, Palermo, 15.5.1998, n. 995, T.A.R., 1998, I, 2847).
L’indicazione della zona soggetta a
limitazioni è l’atto impositivo del vincolo; la mappa precisa più
specificatamente i confini delle zone soggette a limitazioni (Fiale 1997, 277).
I
vincoli alla proprietà privata, previsti dagli art. 715 e 715 bis c. nav.,
hanno, quale unico presupposto di operatività, l'operatività e l'esistenza di
un aeroporto, per cui la compilazione dell'apposita mappa delle zone soggette a
limitazioni da parte del Ministero della difesa presenta un valore meramente
ricognitivo, essendo prevista per ragioni essenzialmente pratiche, giacché i
detti vincoli derivano direttamente dalla legge
(T.A.R.
Calabria, sez. Reggio Calabria, 14.11.1998, n. 1480, T.A.R., 1999, I,
355).
Tale localizzazione può essere
soggetta ad opposizione da parte degli interessati.
Il Ministero della difesa decide
sulle opposizioni con provvedimento motivato e dichiara successivamente
esecutiva le mappa con le eventuali modificazioni portate a seguito dei rilievi
presentati.
A tal punto la mappa può dirsi
esecutiva, ex art. 715 quater, r.d. 30.3. 1942, n. 327.
I
vincoli alla proprietà privata previsti dagli artt. 715 e 715 bis c. n. hanno
quale unico presupposto di operatività l'esistenza di un aeroporto, per cui la
compilazione dell'apposita mappa delle zone soggette a limitazioni da parte del
Ministero della difesa di cui agli art. 715 ter e quater presenta un valore
meramente ricognitivo, essendo stata prevista per ragioni essenzialmente
pratiche, vale a dire per evitare che, soprattutto nelle zone di confine fra le
varie fasce in cui si articola la zona di rispetto aeroportuale, si renda di
volta in volta necessario eseguire accertamenti tecnici per stabilire la
sussistenza e la misura del vincolo
(T.A.R.
Sicilia, sez. I, Palermo, 15.5.1998, n. 995, T.A.R. 1998, I, 2847).
101. Il rilascio del
permesso di costruire.
LEGISLAZIONE
r.d. 30.3.1942, n. 327, artt. 715, 715 bis, 715, quinquies.
L'edificabilità delle aree in
prossimità del perimetro degli aeroporti va rapportata alla diversa disciplina,
dettata negli art. 715 e 715 bis del c.n., a seconda che i medesimi siano
aperti - o meno - al traffico strumentale e notturno, o abbiano carattere
militare.
Solo per la tipologia, cui è
potenzialmente connessa una maggiore difficoltà operativa, l'art. 715 bis
impone l'assenza di ostacoli "di qualunque altezza" nei primi
trecento metri dal perimetro dell'aeroporto; per gli aeroporti - come quello di
cui si discute - non a carattere militare e non aperti al traffico strumentale
e notturno, l'art. 715 impone soltanto - nella medesima fascia - l'assenza di
"ostacoli", senza alcun preciso riferimento a limiti di altezza.
La differenza terminologica - non
certo casuale - non può che essere interpretata come imposizione di totale
assenza di costruzioni o elementi strutturali di qualsiasi natura per gli
aeroporti, di cui al citato art. 715 bis, mentre per gli altri - destinati ad
operare prevalentemente in condizioni di "volo a vista" - sembra
logico ritenere che gli "ostacoli", la cui presenza è vietata
dall'art. 715, 1° co., siano costituiti da manufatti non omogenei rispetto al
contesto territoriale - tenuto conto della linea altimetrica, determinata anche
dall'edificazione già assentita - e quindi di intralcio per la navigazione
aerea.
Per
gli aeroporti - come nel caso di specie - non a carattere militare e non aperti
al traffico strumentale e notturno, l'art. 715, c.n., impone soltanto, nella
fascia nei primi trecento metri dal perimetro dell'aeroporto, l'assenza di
"ostacoli" senza alcun preciso riferimento a limiti di altezza, con
la conseguenza che risulta vietata solo la presenza di manufatti non omogenei
rispetto al contesto territoriale, tenuto conto della linea altimetrica,
determinata anche dall'edificazione già assentita.
Fattispecie
relativa all’aeroporto di Rieti il cui p.r.g. non detta preclusioni assolute,
in relazione alla fascia compresa nei trecento metri dal perimetro
dell'aeroporto stesso
(T.A.R.
Lazio, sez. II, 20.2.2002, n. 1226, FATAR, 2002, 546).
Il rilascio del permesso di
costruire costituisce attività vincolata al rispetto della disciplina
urbanistica, ma detta disciplina non può a sua volta prescindere da concrete
verifiche, in ordine al reale stato dei luoghi ed alle possibili linee di
sviluppo del territorio.
In nessun caso, pertanto, sarebbe
giustificabile un diniego del tutto inidoneo a soddisfare la ratio delle
norme, dettate a tutela della sicurezza dei voli (da confermarsi nella
relazione degli esperti dell'ENAC e dell'ENAV), contrastante con la disciplina
urbanistica della zona, dettata a livello di p.r.g. e totalmente incompatibile
con la già avvenuta, irreversibile trasformazione del territorio, secondo linee
di sviluppo pianificate dalla stessa Amministrazione Comunale.
Proprio in sede di pianificazione,
d'altra parte, debbono essere definite modalità edificatorie compatibili con
l'interesse primario per la sicurezza del volo, secondo la ratio applicativa
del più volte citato art. 715 c. n.
Ove in sede di pianificazione il
predetto interesse non sia stato in concreto garantito e la trasformazione dei
luoghi risulti già in atto, appare evidente l'irragionevolezza - rispetto ai
fini perseguiti - del sacrificio dello ius aedificandi di un singolo
privato cittadino.
Il contrasto fra le disposizioni a
garanzia della sicurezza dal volo non può essere legittimato dal rilascio di un
permesso di costruire, che deve ritenersi illegittimo; esso può essere
annullato in via di autotutela o su richiesta di chi ne abbia interesse
dall’amministrazione comunale, salvi i ricorsi giurisdizionale.
E'
illegittima una licenza edilizia che contrasti con le disposizioni a garanzia
della sicurezza dal volo negli aeroporti dettate dall'art. 715-bis c. n.,
modificato dalla l. 4 febbraio 1963 n. 58.
L'interesse
pubblico all'annullamento di una licenza edilizia che contrasti con le
disposizioni di cui all'art. 715 c. nav., posta a garanzia della sicurezza del
volo negli aeroporti è in re ipsa, nell'esigenza di tutelare tale
sicurezza mediante l'eliminazione degli ostacoli che possano rendere pericolose
le operazioni di atterraggio
(T.A.R.
Lazio sez. II, 19.11.1980 n. 983, FA, 1091, I, 109).
Il potere ministeriale di
abbattimento dei manufatti che possano costituire ostacolo al volo non è
sindacabile nel merito.
Il
fatto che gli edifici costruiti intorno al lotto del soggetto richiedente la
concessione edilizia relativa ad un intervento di nuova costruzione di un
fabbricato residenziale in zona limitrofa all'aeroporto militare, ivi compresi
quelli più prossimi al cono di volo, non siano stati demoliti ai sensi
dell'art. 715, quinquies c. n., non implica che tali costruzioni siano ritenute
prive di pericolo per la navigazione, posto che è la legge che opera
direttamente la presunzione di pericolosità e che non sussiste alcuna
discrezionalità in ordine all'apprezzamento di tale elemento
(T.A.R.
Veneto, sez. II, 27.7.2000, n. 1400, DT, 2001, 889).
Il permesso di costruire è soggetto
al parere del competente ufficio del ministero dei trasporti.
L'operatività
della concessione di costruzione rilasciata per l'edificazione in zona di
rispetto aeroportuale è condizionata alla preventiva acquisizione del parere
del competente ufficio del ministero dei trasporti, ai sensi degli art. 714 e
ss. c. n.
(T.A.R.
Lombardia, sez. Brescia, 16.7.1982 n. 219, T.A.R., 1982, I, 2813).
102. I vincoli stradali.
La definizione del centro abitato.
LEGISLAZIONE:
d.lg. 30.4.1992, n. 285, art. 2.
L’art. 2, d.lg. 30.4.1992, n. 285,
che istituisce il nuovo codice della strada, definisce strade le aree ad uso
pubblico destinate alla circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali e
le classifica, con riguardo alle loro caratteristiche costruttive, tecniche e funzionali,
nei seguenti tipi:
A - Autostrade;
B - Strade extraurbane principali;
C - Strade extraurbane secondarie;
D - Strade urbane di scorrimento;
E - Strade urbane di quartiere;
F - Strade locali.
Il successivo regolamento fissa le
fasce di rispetto da tenere facendo riferimento alle classificazioni delle
strade sopra indicate.
Esso integra le disposizioni in
tema di distanze stradali contenute dal d.m. 1.4.1968.
La dottrina considera questo
secondo provvedimento legislativo come completamento e ulteriore specificazione
del primo.
Le nuove prescrizioni portate dal
codice della strada vanno riferite alla diversa funzione di questo secondo
provvedimento.
Il regolamento ha il fine di
rapportare la disciplina della distanza minima a protezione del nastro stradale
con la programmazione urbanistica.
Il codice della strada ha, invece,
la finalità più ampia di perseguire lo scopo della migliore circolazione dei
pedoni, dei veicoli e degli animali sulle strade, perciò le distanze di
rispetto stradale prescritte per le costruzioni devono essere viste sotto
l’aspetto della più sicura fruizione delle strade (Assini e Mantini 1997, 525).
La dottrina rileva come i limiti e
le prescrizioni imposte ai proprietari confinanti siano posti a tutela
dell’integrità del bene strada e della sicurezza della circolazione (Ragazzino
1993, 8. Narducci 2004, 2954).
La determinazione dei vincoli
stradali dipende dal fatto che le vie di comunicazione siano collocate dentro o
fuori del, centro abitato.
Secondo l’interpretazione giurisprudenziale
prevalente la perimetrazione del centro edificato, disposta ai sensi dell'art.
16, l. n. 865 del 1971, è vincolante anche per le distanze minime delle
costruzioni a protezione del nastro stradale, come stabilito dall'art. 1 del
regolamento ministeriale del 1.4.1968, emanato ai sensi dell'art. 19, l.
6.8.1967, n. 765.
La giurisprudenza amministrativa ha
precisato che la possibilità di far riferimento alla nozione di centro abitato
di fatto, al fine di escludere l'operatività del divieto di costruzione lungo
le strade, è subordinata al fatto che l'insediamento urbano preso in
considerazione sia privo di piano regolatore generale o di programma di
fabbricazione.
La
possibilità di far riferimento alla nozione di centro abitato di fatto, al fine
di escludere l'operatività del divieto di costruzione lungo le strade, di cui
all'art. 26 del regolamento di esecuzione del codice della strada di cui al
d.p.r. 16.12.1992, n. 495, è subordinata al fatto che l'insediamento urbano
preso in considerazione sia privo di piano regolatore generale o di programma
di fabbricazione
(T.A.R.
Abruzzo Pescara, 23.1.2003, n. 192, FATAR, 2003, 210. Cons. giust. amm. Reg. Sic.,
30.3.1995, n. 109).
Essa ha, inoltre, precisato che la
deliberazione di perimetrazione del centro abitato ha natura e portata di
strumento urbanistico, con forza normativa secondaria e rilevanza esterna, e
non può, pertanto, essere desunta da una mera situazione di fatto (Cons. St.,
IV, 7.3.1997, n. 211).
E’ stato anche chiarito che è irrilevante
lo spostamento dei cartelli segnaletici di delimitazione di un centro abitato,
che sia stato effettuato di fatto, oppure in seguito a meri verbali di organi
del comune, e non in base a formali delibere degli organi competenti, giacché
la determinazione dei confini di un centro abitato può avvenire solo seguendo
il prescritto procedimento amministrativo (T.A.R. Emilia Romagna, 23.1.1986, n.
16).
La giurisprudenza ha precisato che
la distanza minima, da calcolare sulla base della definizione del ciglio della
strada, ai sensi dell'art. 2 del regolamento d.m. 1.4.1968, ora sost. col
d.p.r. 16.12.1992, n. 495, va integrata con una distanza variabile e da
accertare mi concreto, intercorrente tra il ciglio della strada e la larghezza
della protezione di eventuali scarpate o fossi.
La sua ratio, oltre quella
di consentire l'eventuale ampliamento, è quella di tenere in considerazione il
particolare stato dei luoghi e la concreta pericolosità della strada statale
(Cons. St., sez. V, 7.6.1999, n. 596, CI, 2000, 110).
103. Le distanze dalle
strade.
LEGISLAZIONE:
d.p.r. 16.12.1992, n. 495, artt. 26, 28 - d.p.r. 26.4.1993, n. 147, art. 1, lett. c) -
d.p.r. 16.9.1996, n. 610, art. 24.
Il regolamento di attuazione,
approvato con d.p.r. 16.12.1992, n. 495, all’art. 26, determina le fasce di
rispetto da tenere fuori dai centri abitati (Tamborrino e Cialdini 1994, 310).
1. La
distanza dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare
nell'aprire canali, fossi o nell'eseguire qualsiasi escavazione lateralmente
alle strade, non può essere inferiore alla profondità dei canali, fossi od
escavazioni, ed in ogni caso non può essere inferiore a 3 m.
2.
Fuori dai centri abitati, come delimitati ai sensi dell'art. 4 del codice, le
distanze dal confine stradale, da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle
ricostruzioni conseguenti a demolizioni integrali o negli ampliamenti
fronteggianti le strade, non possono essere inferiori a:
a) 60
m per le strade di tipo A;
b) 40
m per le strade di tipo B;
c) 30
m per le strade di tipo C;
d) 20
m per le strade di tipo F, ad eccezione delle "strade vicinali" come
definite dall'art. 3, comma 1, n. 52 del codice;
e) 10
m per le "strade vicinali" di tipo F.
3.
Fuori dai centri abitati, come delimitati ai sensi dell'art. 4 del codice, ma
all'interno delle zone previste come edificabili o trasformabili dallo
strumento urbanistico generale, nel caso che detto strumento sia suscettibile
di attuazione diretta, ovvero se per tali zone siano già esecutivi gli
strumenti urbanistici attuativi, le distanze dal confine stradale, da
rispettare nelle nuove costruzioni, nelle ricostruzioni conseguenti a
demolizioni integrali o negli ampliamenti fronteggianti le strade, non possono
essere inferiori a:
a) 30
m per le strade di tipo A;
b) 20
m per le strade di tipo B;
c) 10
m per le strade di tipo C.
4. Le
distanze dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare nella
costruzione o ricostruzione di muri di cinta, di qualsiasi natura e
consistenza, lateralmente alle strade, non possono essere inferiori a:
a) 5
m per le strade di tipo A, B;
b) 3
m per le strade di tipo C, F.
5.
Per le strade di tipo F, nel caso di cui al comma 3, non sono stabilite
distanze minime dal confine stradale, ai fini della sicurezza della circolazione,
sia per le nuove costruzioni, le ricostruzioni conseguenti a demolizioni
integrali e gli ampliamenti fronteggianti le case, che per la costruzione o
ricostruzione di muri di cinta di qualsiasi materia e consistenza. Non sono
parimenti stabilite distanze minime dalle strade di quartiere dei nuovi
insediamenti edilizi previsti o in corso di realizzazione.
6. La
distanza dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare per
impiantare alberi lateralmente alla strada, non può essere inferiore alla
massima altezza raggiungibile per ciascun tipo di essenza a completamento del
ciclo vegetativo e comunque non inferiore a 6 m.
7. La
distanza dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare per
impiantare lateralmente alle strade siepi vive, anche a carattere stagionale,
tenute ad altezza non superiore ad 1 m sul terreno non può essere inferiore a 1
m. Tale distanza si applica anche per le recinzioni non superiori ad 1 m
costituite da siepi morte in legno, reti metalliche, fili spinati e materiali
similari, sostenute da paletti infissi direttamente nel terreno o in cordoli
emergenti non oltre 30 cm dal suolo.
8. La
distanza dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare per
impiantare lateralmente alle strade, siepi vive o piantagioni di altezza
superiore ad 1 m sul terreno, non può essere inferiore a 3 m. Tale distanza si
applica anche per le recinzioni di altezza superiore ad 1 m sul terreno
costituite come previsto al comma 7, e per quelle di altezza inferiore ad 1 m
sul terreno se impiantate su cordoli emergenti oltre 30 cm dal suolo.
9. Le
prescrizioni contenute nei commi 1 ed 8 non si applicano alle opere e colture
preesistenti
(art. 26, d.p.r. 16.12.1992, n. 495, mod. art.
24, d.p.r. 16.9.1996, n. 610).
Limiti meno restrittivi sono
imposti per le aree situate fuori dai centri abitati, ma all’interno delle aree
che il piano urbanistico definisce come edificabili dall’art. 28, d.p.r.
16.12.1992, n. 495, rispetto a quelli fissati in carenza di piani urbanistici
(Tamborrino e Cialdini 1994, 314).
Per le strade locali e per quelle
vicinali, infatti, non sono stabilite distanze minime dal confine stradale che
sono determinate dalle stesso strumento urbanistico (Fiale 1997, 280).
1. Le
distanze dal confine stradale all'interno dei centri abitati, da rispettare
nelle nuove costruzioni, nelle demolizioni integrali e conseguenti
ricostruzioni o negli ampliamenti fronteggianti le strade, non possono essere
inferiori a:
a) 30
m per le strade di tipo A;
b) 20
m per le strade di tipo D.
2.
Per le strade di tipo E ed F, nei casi di cui al comma 1, non sono stabilite
distanze minime dal confine stradale ai fini della sicurezza della
circolazione.
3. In
assenza di strumento urbanistico vigente, le distanze dal confine stradale da
rispettare nei centri abitati non possono essere inferiori a:
a) 30
m per le strade di tipo A;
b) 20
m per le strade di tipo D ed E;
c) 10
m per le strade di tipo F.
4. Le
distanze dal confine stradale, all'interno dei centri abitati, da rispettare
nella costruzione o ricostruzione dei muri di cinta, di qualsiasi natura o
consistenza, lateralmente alle strade, non possono essere inferiori a:
a) m
3 per le strade di tipo A;
b) m
2 per le strade di tipo D.
5.
Per le altre strade, nei casi di cui al comma 4, non sono stabilite, distanze
minime dal confine stradale ai fini della sicurezza della circolazione.”
(art. 28, d.p.r. 16.12.1992, n. 495, mod. art.
1, lett. c), d.p.r. 26.4.1993, n. 147).
L’ente gestore può acquisire
bonariamente o con procedura espropriativa gli immobili siti nelle aree di
rispetto.
La giurisprudenza ha stabilito che
il potere regolamentare spetta allo Stato e non può essere demandato ai comuni.
La
disciplina regolamentare della circolazione stradale, ai fini della snellezza
della sicurezza e del traffico spetta allo Stato; pertanto, il regolamento di
attuazione degli art. 26 e 29 del codice della strada approvato con d.lg.
30.4.1992, n. 285, relativo alla disciplina della fasce di rispetto fuori e
dentro l'abitato, non può trasferire, sia pure in parte, la potestà normativa
in materia, ai comuni in sede di regolamentazione urbanistica.
Il
codice della strada prevede distanze di rispetto fuori e dentro il centro
abitato e non consente quindi, al regolamento di attuazione di introdurre la
categoria delle strade fuori del centro abitato, che si trovino in zone
previste come edificabili o trasformabili dallo strumento urbanistico;
pertanto, il regolamento, con interpretazione estensiva della legge, può solo
prevedere, l'applicazione delle norme sui centri abitati alle zone di
espansione previste da strumenti urbanistici attuativi, già approvati ed
esecutivi, che ragionevolmente possono essere considerati centri abitati "in
fieri" salva la deroga, per quel che attiene alle norme sulla velocità
di circolazione, che andranno estese alle dette zone, quando saranno in esse
realizzate le costruzioni
(Cons. St., A. G., 15.4.1993, n. 35, CS,
1993, I, 1541).
Le norme hanno valore di norme
quadro: esse non possono essere derogate dalla legislazione regionale né tanto
meno possono costituire oggetto di concessione in deroga, ora permesso di
costruire.
E'
illegittima la deliberazione con la quale la giunta concede il nulla - osta per
il rilascio, da parte del comune di Isernia, di una concessione edilizia in
deroga, per la costruzione in zona agricola di un edificio da adibire a rimessa
di autobus, stante il parere negativo della USL e il mancato rispetto della
distanza minima di metri 30, fuori da centri abitati, prevista dal regolamento
del nuovo codice della strada
(Corte
Conti, Molise, sez. contr., 12.5.1995, n. 152, RCC, 1995, 104).
La giurisprudenza riconosce un
interesse al procedimento di demolizione anche all’ANAS che ha tipo per
partecipare ad adiuvandum nel procedimento medesimo.
Sotto il profilo processuale detto
dente è considerato controinteressato.
L'azienda
nazionale autonoma della strada (A.N.A.S.), pur non avendo personalità
giuridica, ha una propria autonomia funzionale e finanziaria nell'ambito
dell'amministrazione dei lavori pubblici, sicché nel caso in cui essa si
presenti come controinteressata rispetto ad un ricorso giurisdizionale il
ricorso stesso deve esserle ritualmente notificato.
Nella
specie si tratta di ricorso contro provvedimento prefettizio che ordina la
demolizione di opera edilizia a distanza irregolare dal tracciato di una strada
statale
(Cons. giust. amm. Sicilia, 12.8.1985, n. 112, CS,
1985, I, 1002).
104. Le distanze per gli
edifici preesistenti.
LEGISLAZIONE:
l. 6.8.1967, n. 765, art. 19.
Il rispetto della nuova disciplina
delle distanze è imposto oltre che per i nuovi edifici per le ricostruzioni a
seguito di demolizioni.
Nel caso di demolizione totale si
deve, quindi, rispettare la nuova disciplina delle distanze anche se essa ha ad
oggetto la successiva ricostruzione dell’immobile nelle precedenti volumetrie
(Mengoli 2003, 548).
La dottrina rileva come la norma
abbia valore urbanistico e non possa essere derogata dalla normativa di piano o
dal rilascio del permesso di costruzione in deroga.
E'
illegittima la deliberazione con la quale la giunta concede il nulla - osta per
il rilascio, da parte di un comune (nella specie, Isernia), di una concessione
edilizia in deroga, per la costruzione in zona agricola di un edificio da
adibire a rimessa di autobus, stante il parere negativo della Usl e il mancato
rispetto della distanza minima di metri 30, fuori da centri abitati, prevista
dal regolamento del nuovo codice della strada
(Corte
Conti reg. Molise, sez. contr., 12.5.1995, n. 152, RCC, 1995, fasc. 6,
104).
Le disposizioni in materia di
distanze non hanno valore retroattivo per cui esse non possono avere alcun
effetto per gi edifici preesistenti.
Le opere qualificabili come opere
di manutenzione straordinaria non sono soggette alla disciplina delle distanze
minime a protezione del manto stradale (Fiale 1997).
Le
disposizioni in tema di distanze legali delle costruzioni dal ciglio stradale
di cui all'art. 19, l. 6.8.1967, n. 765, sono riferite alle sole opere dirette
a realizzare una unità immobiliare in tutto o in parte nuova, o comunque,
diversa dalla precedente e non già agli interventi di rifacimento, volti a
conservare all'organismo edilizio gli elementi tipologici formali e strutturali
(Cons. St., sez. IV, 23.12.2002, n. 7275, FACDS,
2002, 3148).
105. I vincoli
autostradali.
LEGISLAZIONE
l. urb., art. 41 septies - l. 24.7.1961, n. 729, art. 9 - d.m. 1.4.1968 - l.
6.8.1967, n. 765, art. 19.
Il vincolo di inedificabilità
imposto dall'art. 9, l. 24.7.1961, n. 729, lungo la fascia di rispetto
autostradale, è rivolto a impedire che la presenza di costruzioni in tale
fascia costituisca un pericolo per la sicurezza del traffico veicolare e
l'incolumità delle persone, ed è inoltre diretto a garantire la disponibilità
di un'area utilizzabile, all'occorrenza, dal concessionario autostradale, per
l'esecuzione di lavori, per l'impianto di cantieri, per il deposito di
materiali e la realizzazione di opere accessorie (T.A.R. Veneto, sez. II,
24.12.2002, n. 6733).
I limiti di edificabilità nella
costruzione di autostrade, secondo la interpretazione giurisprudenziale prevalente,
devono essere rispettati sia all’interno sia all’esterno dei centri abitati
(Narducci 2004, 2955).
La
norma contenuta nell'art. 9, l. 24.7.1961, n. 729, che ha introdotto il divieto
di edificazione lungo i tracciati delle autostrade, non prevede alcuna
distinzione tra costruzioni nell'ambito dei centri abitati ovvero all'esterno
dei medesimi, per questo si deve concludere che le distanze minime previste
dall'art. 9 cit., sono inderogabili anche rispetto alle autostrade correnti
entro i perimetri urbani, a prescindere dalle mere prescrizioni restrittive
previste dall'art. 19, l. 6.8.1967 n. 765, operanti al di fuori del centro
abitato
(T.A.R.
Abruzzo, sez. L'Aquila, 10.5.1996, n. 128, FA, 1996, 3453).
In
tema di distacchi delle costruzioni dalle opere autostradali, l'art. 9 della l.
24.7.1961, n. 729, il quale fissa la distanza minima di venticinque metri,
senza alcuna distinzione fra costruzioni nell'ambito dei centri abitati ovvero
all'esterno dei medesimi, resta applicabile alle autostrade all'interno dei
perimetri urbani anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 19, l. 6.8.1969, n.
765, che, nel demandare la regolamentazione di tali distanze al ministro per i
lavori pubblici, fa esclusivo riferimento alle costruzioni fuori dei centri
abitati
(Cass. civ., sez. II, 1.6.1995, n. 6118, GC,
1995, I, 2682).
Le opere realizzate all'interno
della fascia di rispetto autostradale prevista al di fuori del perimetro del
centro abitato - fascia di sessanta metri - sono ubicate in aree assolutamente
inedificabili e, pertanto, se costruite dopo l'imposizione del vincolo,
rientrano nella previsione di cui all'art. 33, 1° co., lett. d) della l.
28.2.1985, n. 47 e non sono suscettibili di sanatoria.
Tale vincolo di inedificabilità è
configurato come assoluto nel caso di autostrade per le aree situate al di
fuori del centro abitato, perché - ai sensi del d.m. 1.4.1968 - è esclusa ogni
possibilità di deroga alla distanza minima, fissata in sessanta metri.
La fascia di rispetto è, invece,
ridotta a venticinque metri all'interno del perimetro del centro abitato ed è
derogabile a mente dell'articolo 9, 1° co., l. 24.7.1961, n. 729
Il
divieto di costruire ad una certa distanza dalla sede autostradale, posto
dall'art. 9, l. 24 .7.1961, n. 729, e dal successivo d.m. 1.4.1968, non deve
essere inteso restrittivamente e cioè come previsto al solo scopo di prevenire
l'esistenza di ostacoli materiali emergenti dal suolo e suscettibili di
costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla
sicurezza del traffico ed alla sua incolumità delle persone, ma è connesso alla
più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile,
all'occorrenza, dal concessionario, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto
dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere
accessorie, senza vincoli limitativi connessi con la presenza di costruzioni.
Pertanto
le distanze previste dalla norma suddetta vanno rispettate anche con
riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che
costituiscano mere sopraelevazioni, o che, pur rientrando nella fascia, siano
arretrate rispetto alle opere preesistenti
(Cons. St., sez. IV, 18.10.2002, n. 5716, FACDS,
2002, 2368).
In tal senso si è espressa la
giurisprudenza della Corte di cassazione per cui non è suscettibile di
sanatoria, ai sensi della citata legge n. 47 del 1985, la sopraelevazione di
edificio che disti dal ciglio dell'autostrada, all'esterno dei centri abitati,
meno di quanto previsto dal d. m. 1.4. 1968, se la sopraelevazione è stata
realizzata dopo l'imposizione del vincolo autostradale; essa esclude la natura
edificatoria del terreno rientrante nella fascia di rispetto (Cass. civ.,
26.1.2000, n. 841).
Anche la giurisprudenza del
Consiglio di Stato qualifica come inedificabile l'area compresa nella predetta
fascia di rispetto (Cons. St., sez. V, 8.9.1994, n. 968).
Le distanze previste dalla norma
suddetta vanno rispettate anche con riferimento ad opere che non superino il
livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur
rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti
(Cass. civ., sez. II, 1.6.1995, n. 6118. Cass. civ., sez. II, 14.1.1987, n.
193).
La giurisprudenza sottolinea che i
vincoli imposti dalla realizzazione di autostrade, come tutti i vincoli di
rispetto stradale non sono dovuti indennizzi essendo norme generali di
conformazione della proprietà privata.
In
tema di espropriazione, l'inedificabilità dei terreni prospicienti i tracciati
autostradali non è legittimamente indennizzabile tutte le volte in cui il
relativo vincolo risulti conseguenza della collocazione dei terreni stessi
nell'ambito della distanza dal ciglio autostradale previsto dalle disposizioni
di legge di cui agli art. 41 della legge urbanistica del 1942 - come modificato
dall'art. 19 della l. 765 del 1967, dal d.m. 1.4.1968, nonché dall'art. 9 della
l. 729 del 1961 - che fissano fasce di inedificabilità senza indennizzo di
varia misura dalle strade ed autostrade), e dal conseguente vincolo assoluto
imposto da detta normativa, e non già dalle previsioni dei PRG in vigore nella
zona, ovvero delle relative e successive varianti
(Cass.
civ., sez. I, 17.1.2001, n. 556, UA, 2001, 404).
Poiché
il sistema indennitario creato dall'art. 5 bis l. 8.8.1992, n. 359, distingue
rigorosamente aree edificabili ed aree agricole, alle quali sono
rispettivamente applicabili i criteri di cui al comma 1 della stessa
disposizione, e al titolo II della l. 865 del 1971, l'eventuale (limitata)
edificabilità dei suoli agricoli è del tutto irrilevante ai fini indennitari,
posto che i criteri di liquidazione sono impostati esclusivamente sul parametro
del valore agricolo in rapporto alle colture praticate.
Tale
principio, cui va riconosciuto carattere generale, è applicabile in qualsiasi
ambito indennitario connesso all'espropriazione, anche agli effetti dell'art.
46, l. n. 2359 del 1865, ove si lamenti il deprezzamento di fondi agricoli a
causa della realizzazione di un'autostrada, in quanto la fascia di rispetto non
preclude la coltivazione del suolo interessato, e quindi l'utilizzazione
conforme alla sua natura
(Cass. civ., sez. I, 14.5.1998, n. 4848, GCM,
1998, 1027).
Le norme in materia di distanze
dalle autostrade non possono essere derogate dalle normative urbanistiche
regionali e nemmeno dalle norme di attuazione dei piani regolatori comunali
(Fiale 1997, 280).
Le
distanze delle costruzioni dalle strade ed autostrade, prescritte dall'art. 41
septer, l. 17.8.1942, n. 1150, e dal d.m. 1.4.1968, n. 1404, a tutela della
sicurezza della circolazione e delle future esigenze di modifica ed ampliamento
della rete stradale, non possono essere derogate dalla legislazione regionale,
sia per il diverso grado gerarchico di tale fonte, sia per la diversità degli
interessi pubblici perseguiti, che, nel caso della regione, è l'interesse
all'ordinato assetto urbanistico del territorio; pertanto, laddove norme di
legge regionali consentono costruzioni o ampliamenti di costruzione in zone
sottoposte a vincolo stradale, esse possono trovare concreta attuazione solo
laddove le norme statali o singoli provvedimenti della competente
amministrazione statale, consentano deroghe ai limiti di distanze vigenti.
Le
eventuali norme di piano regolatore che disciplinano le edificazioni in tali fasce
vanno intese non come una inammissibile deroga alla normativa statuale, ma come
una previsione a rilevanza meramente urbanistica, che può trovare concreta
attuazione solo laddove le norme statali o singoli provvedimenti della
competente amministrazione statale consentano deroghe ai limiti di distanza
vigenti
(Cons.
Stato, sez. IV, 2.11.1993, n. 958, RAm, 1994, 156).
La giurisprudenza ritiene che la
normativa regionale operi su di un piano parallelo e che, pertanto, essa
coesiste con la normativa statale per cui l’operatore deve rispettare entrambe
le normative per non incorrere nel diniego di permesso di costruire o per non
vedersi annullato il provvedimento già rilasciato.
I
limiti di distanza delle costruzioni dalle strade, imposte da leggi statali
speciali di tutela della rete stradale demaniale, non hanno nulla a che vedere con la competenza primaria ed
esclusiva in materia urbanistica della Provincia Autonoma di Bolzano.
Le
norme urbanistiche possono prevedere pur esse distanze minime delle costruzioni
dalle strade per finalità di tutela dell'abitato e degli abitanti dai pericoli
derivanti dalla circolazione dei veicoli; la normativa speciale statale,
invece, attiene alla tutela sia dell'interesse alla sicurezza della
circolazione stradale e all'incolumità delle persone, sia all'interesse a
disporre di riserva di spazio utilizzabile, all'occorrenza, per l'esecuzione
dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito dei materiali, per la
realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi con la
presenza di costruzioni.
Le
due normative operano, quindi, entrambe in modo concorrente, senza alcun
criterio di prevalenza o di priorità di competenza legislativa, perché poste
ciascuna nel proprio ambito con scopi diversi.
Nella
fattispecie, è applicabile l'art. 9, 1° co., della l. 24.7.1961, n. 729,
risultando, così, illegittimi sia la concessione edilizia relativa ad impianti
pubblici, a distanza inferiore dal nastro stradale da quella fissata dalla
legge, da adibire a campo sosta nomadi, sia gli atti facenti parte della
procedura di espropriazione finalizzati all'acquisizione dell'area occorrente
per la realizzazione dell'intervento edilizio illegittimo
(T.A.R.
Trentino Alto Adige Bolzano, 28.3.2003, n. 107).
106. I vincoli
ferroviari.
LEGISLAZIONE:
l. 20.3.1865, n. 2248, all. f), art. 233 – d.p.r. 11.7.1980, n. 753, artt. 49,
50, 52, 60, 63, 2° co. - d.p.r. 24.7.1977, n. 616, art. 81.
I
vincoli da rispettare lungo le linee ferroviarie, introdotti dall'art. 233, l. 20.3.1865,
n. 2248, all. f), successivamente modificati con l'art. 49, d.p.r. 11.7.1980,
n. 753, impongono per ragioni di sicurezza di tenere una certa distanza
nell’eseguire delle costruzioni, qualora le stesse confinino con le linee
ferroviarie (Assini e Mantini 1997, 533).
Lungo
i tracciati delle linee ferroviarie è vietato costruire, ricostruire o ampliare
edifici o manufatti di qualsiasi specie ad una distanza, da misurarsi in
proiezione orizzontale, minore di metri trenta dal limite della zona di occupazione
della più vicina rotaia.
La
norma di cui al comma precedente si applica solo alle ferrovie con esclusione
degli altri servizi di pubblico trasporto assimilabili ai sensi del terzo comma
dell'art. 1
(art.
49, d.p.r. 11.7.1980, n. 753).
Lungo i tracciati delle ferrovie è
vietato, dall'art. 52, d.p.r. 11 luglio 1980, n. 753, far crescere piante o
siepi ed erigere muriccioli di cinta, steccati o recinzioni in genere ad una
distanza inferiore a metri sei dalla più vicina rotaia.
Determinano
l'applicazione della sanzione comminata dall’art. 63, 2° co., d.p.r. 11.7.1980,
n. 753 non solo l'erezione di un manufatto del tutto nuovo, ma anche la
sostituzione di un manufatto esistente con altro avente caratteristiche
costruttive tali da rientrare in una diversa categoria tra quelle indicate
nell'esemplificativa elencazione della citata norma precettiva o da aggravare,
comunque, la limitazione di visuale.
Nella
specie, una recinzione, costituita da muratura e ringhiera, era stata
impiantata sul posto occupato da una vecchia rete
(Cass. civ., sez. I, 25.9.1996, n. 8452, GBLG,
1997, 4070).
Il divieto decorre dal momento
della comunicazione del progetto di massima ai comuni competenti, ex art. 50,
d.p.r. 11.7.1980, n. 753.
Il
divieto di cui al precedente art. 49 decorre dall'entrata in vigore delle
presenti norme, per le linee ferroviarie esistenti e per quelle il cui progetto
sia stato già approvato, e dalla data di pubblicazione sul Foglio degli annunzi
legali delle singole prefetture competenti per territorio dell'avviso
dell'avvenuta approvazione, per le ferrovie il cui progetto sia approvato
successivamente all'entrata in vigore delle norme stesse, e si applica a tutti
gli edifici e manufatti i cui progetti non siano stati approvati in via
definitiva dai competenti organi alle date suddette.
I
comuni non possono comunque rilasciare concessioni di costruzione entro la
fascia di rispetto di cui al precedente art. 49 dal momento della comunicazione
agli stessi dei progetti di massima relativi alla costruzione di nuove linee
ferroviarie, quando detti progetti, a norma dell'art. 81 del d.p.r. 24 luglio
1977, n. 616, non siano difformi dalle prescrizioni e dai vincoli delle norme o
dei piani urbanistici ed edilizi
(art.
50, d.p.r. 11.7.1980, n. 753).
Una interpretazione riduttiva è
fornita dalla giurisprudenza nel caso in cui i manufatti da realizzare
confinanti con le opere ferroviarie abbiano carattere pubblico, poiché in tal
caso è compito degli enti interessati trovare soluzioni che, in relazione alla
utilità delle opere, sappiano conciliarle con le esigenze della sicurezza.
La
distanza minima di 30 metri che deve intercorrere fra le costruzioni e le linee
ferroviarie non riguarda le opere pubbliche, come risulta dal precedente art.
36, ma soltanto le costruzioni private, dovendosi ritenere che, in caso di
accostamento o sovrappasso fra strade pubbliche e ferrovie, la verifica di
reciproca compatibilità sia rimessa all'accordo fra le autorità competenti
(T.A.R.
Lazio, sez. I, 29.10.1984, n. 977, T.A.R., 1984, 3279).
Con l'art. 49, d.p.r. 11.7.1980, n.
753 il legislatore ha perseguito il fine di ampliare adeguatamente le
cosiddette fasce di rispetto laterali lungo i tracciati delle linee
ferroviarie, già previste dall'art. 233, l. 20.4.1865, n. 2248, all. f), senza
peraltro comprendere nella nuova prescrizione normativa le distanze verticali
relative ai piani di appoggio delle costruzioni insistenti sulle aree poste al
di sopra delle strade ferrate e, quindi, sulle gallerie sottostanti i beni
immobili appartenenti a terzi.
Si deve, tuttora, per quanto
riguarda tali costruzioni, avere riguardo alle condizioni stabilite nel
provvedimento prefettizio di asservimento del sottosuolo (T.A.R. Sicilia, sez.
Catania, 30.9.1985, n. 1158, T.A.R., 1985, 3917).
Spetta allo Stato stabilire la
disciplina delle distanze da osservare nelle costruzioni lungo le linee
ferroviarie.
La materia della sicurezza
ferroviaria, regolata in modo esclusivo dal d.p.r. n. 753 del 1980, non può
considerarsi di competenza della regione, ma rientra, invece, fra le
attribuzioni statali, trattandosi di materia relativa alla polizia
amministrativa, alla sicurezza ed alla regolarità dell'esercizio ferroviario.
Va,
conseguentemente, respinto il ricorso per conflitto di attribuzione sorto fra
l'azienda autonoma delle ferrovie dello Stato e la provincia di Bolzano.
La
provincia di Bolzano rivendica la propria competenza a stabilire tali distanze.
La determinazione delle distanze minime che devono intercorrere fra gli
impianti ferroviari e le costruzioni, civili o pubbliche, laterali alla sede
ferroviaria, non può rientrare nella materia urbanistica e piani regolatori,
che gli artt. 8 n. 5 e 16 st. T.A.A. attribuiscono alla competenza legislativa
esclusiva e alla funzione amministrativa della provincia di Bolzano, rientrando
nella materia della polizia amministrativa relativa alla sicurezza ed alla regolarità
dell'esercizio ferroviario e non all'urbanistica, con cui peraltro
inevitabilmente interferisce, e come tale spettando allo Stato quale submateria
che accede alle materie cui si riferisce l'attività di prevenzione o di
repressione da essa comportata
(Corte
cost., 27.10.1988, n. 999, RGE, 1989, 17).
107. I limiti
nell’applicazione del vincolo.
LEGISLAZIONE:
d.p.r. 11.7.1980, n. 753, artt. 49, 60.
La giurisprudenza ha precisato i
limiti di applicabilità delle norme confermando che esse non sono applicabili
ai tratti in cui la linea ferroviaria non corre all’aperto (Assini e Mantini
1997, 534).
In tal caso le norme non trovano
applicazione in quanto la linea ferroviaria, per il tratto in questione, non
può considerarsi confinante con le proprietà laterali.
Le disposizioni in materia di
distanze legali dalla sede ferroviaria dettate dalla l. 12.11.1968, n. 1202,
che ha modificato l'art. 235, l. 20.3.1865 n. 2248, all. F e l'art. 12, t.u.
approvato con r.d. 9.5.1912, n. 1447, concernono esclusivamente le proprietà
laterali alle strade ferrate, allo scopo di rendere libera la visuale per la
sicurezza della circolazione ferroviaria. Nel caso in cui la strada ferrata
corra in galleria, non è ipotizzabile l'operatività della normativa giacché i
fondi sovrastanti al manufatto ferroviario non possono essere considerati
laterali e non sussiste l'esigenza di assicurare un'ampia visuale, la quale è
preclusa in radice della stessa struttura della galleria
(Cass. civ., sez. II, 28.8.1993, n. 9135, RGE, 1995, I, 158).
L’art. 60, d.p.r. 11.7.1980, n.
753, consente una riduzione del limite delle distanze previa autorizzazione.
Il provvedimento di autorizzazione
è totalmente discrezionale, salvo la facoltà per l’autorità concedente di
specificare i motivi che hanno portato a concedere o negare l’autorizzazione.
Quando
la sicurezza pubblica, la conservazione delle ferrovie, la natura dei terreni e
le particolari circostanze locali lo consentano, possono essere autorizzate
dagli uffici lavori compartimentali delle F.S., per le ferrovie dello Stato, e
dai competenti uffici della M.-.T.-., per le ferrovie in concessione, riduzioni
alle distanze prescritte dagli articoli dal 49 al 56.
I
competenti uffici della M.-.T.-., prima di autorizzare le richieste riduzioni
delle distanze legali prescritte, danno, mediante lettera raccomandata con
avviso di ricevimento, comunicazione alle aziende interessate delle richieste
pervenute, assegnando loro un termine perentorio di giorni trenta per la
presentazione di eventuali osservazioni.
Trascorso
tale termine, i predetti uffici possono autorizzare le riduzioni richieste
(art.
60, d.p.r. 11.7.1980, n. 753).
La giurisprudenza ha ravvisato i
tali vincoli di inedificabilità sono da considerarsi di carattere generale;
essi concretano un modo d'essere della proprietà immobiliare e, in quanto
investono una pluralità indifferenziata di proprietà - in funzione delle
caratteristiche del bene o del rapporto, di norma spaziale, con un'opera o un
bene pubblico.
Essi sono considerati conformativi
e non suscettibili d'indennizzo.
La giurisprudenza ha affermato che
il vincolo di rispetto ferroviario in quanto derogabile ma non derogato,
esclude la possibilità legale di edificazione.
Solo se la deroga è stata
ritualmente approvata vi è la possibilità di esigere un indennizzo rapportato
al valore venale del bene.
Il valore, in tal caso, è pari a
quello riconosciuto dalla possibilità di costruire dichiarata dal provvedimento
amministrativo di deroga.
I
vincoli di inedificabilità generali concretano un modo d'essere della proprietà
immobiliare e, in quanto investono una pluralità indifferenziata di proprietà
(in funzione delle caratteristiche del bene o del rapporto, di norma spaziale,
con un'opera o un bene pubblico) sono considerati conformativi e non
suscettibili d'indennizzo.
Ne
deriva che tali vincoli, se sono inderogabili, incidono sulla qualificazione
del bene; se, invece, sono derogabili (relativi), una volta approvata la deroga
essi incidono sulla valutazione del bene stesso.
La S.C.
ha così cassato la sentenza che aveva qualificato come edificabile un suolo
ricadente in zona classificata come B/2 e ricadente nella fascia ferroviaria di
rispetto di cui all'art. 49 del d.p.r. n. 753 del 1980.
La
riduzione della distanza di rispetto non era stata autorizzata ai sensi
dell'art. 60 dello stesso d.p.r. n. 753 del 1980
(Cass.
civ., sez. I, 4.2.2000, n. 1220).
108. I vincoli di rispetto delle acque
pubbliche.
LEGISLAZIONE: cost. artt. 3 e 24 - c.c. art. 822
- t.u. 25.7.1904, n. 523, art. 96, lett. f) - r.d. 1775/1933, art. 1.
La tutela
del demanio idrico si traduce in un regime di vincoli che è rappresentato da
una normativa che precisa le distanze da osservarsi a rispetto del demanio
idrico (Assini e Mantini 1997, 537).
L’art. 822
c.c. definisce acque pubbliche i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque
dichiarate pubbliche dalle leggi in materia.
L’art. 1,
del r.d. 1775/1933, precisa che sono pubbliche tutte le acque sorgenti, fluenti
e lacuali, anche se artificialmente estratte dal sottosuolo, le quali siano
destinate ad usi di pubblico e generale interesse (Torregrossa 1990, 1).
La
dichiarazione di pubblicità di tutte le acque prevista dall'art. 1 l. 5.1.1994,
n. 36, ha avuto la funzione di spostare il baricentro del sistema delle acque
pubbliche verso il regime di utilizzazione, piuttosto che sul regime di
proprietà, e, di conseguenza, non può essere ad essa correlato un generalizzato
assoggettamento al regime pubblicistico demaniale di ogni superficie su cui
cadano e defluiscano acque meteoriche.
Ai sensi
dell'art. 1, r.d. 11.12.1933, n. 1775, recante approvazione del t.u. di leggi
sulle acque e sugli impianti elettrici, possono essere considerati demaniali
soltanto i suoli interessati dalla presenza di acque che abbiano, o siano suscettibili
di acquistare, attitudine ad usi di pubblico generale interesse
(Cass. civ.,
Sez. U., 27.7.1999, n. 507, DGA, 2000, 394 nota Bruno).
L’art. 96,
del r.d. 25.7.1904, n. 523, prevede il divieto di realizzare ogni opera che
possa limitare il libero deflusso delle acque, come, ad esempio, piantare
alberi o intraprendere qualsiasi movimento del terreno ad una distanza
inferiore a 4 metri o costruire ad una distanza dagli argini minore di 10
metri.
Sono lavori
ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e
difese i seguenti:
f) le
piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del
terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore
di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in
mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le
piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per
gli scavi;
g) qualunque
opera o fatto che possa alterare lo stato, la forma, le dimensioni, la
resistenza e la convenienza all'uso, a cui sono destinati gli argini e loro
accessori come sopra, e manufatti attinenti
(art. 96,
r.d. 25.7.1904, n. 523).
La norma ha
lo scopo di prescrivere una fascia lungo i medesimi canali di bonifica per
consentire le normali opere di ripulitura e manutenzione.
Il divieto
di cui all'art. 96, lett. f), r.d. 25.7.1904, n. 523, è posto per garantire la
tutela degli interessi pubblici indissolubilmente connessi al libero deflusso
delle acque ed all'agevole svolgimento dei lavori di manutenzione di volta in
volta necessari a tale scopo
(Trib. sup.
acque, 29.4.2002, n. 58, FACDS, 2002, 1065).
Essa,
pertanto, si applica anche per gli argini di natura artificiale poiché assume
rilevanza la funzione oggettiva dell’opera.
Il testo
unico sulle opere idrauliche 25.7.1904, n. 523, non fa alcuna distinzione tra
argini naturali ed artificiali.
La suprema
Corte ha altresì osservato: "il fatto poi che vi siano state
autorizzazioni comunali per opere di bonifica agraria, non esonera il
ricorrente dall'osservanza di norme penali aventi peraltro finalità diversa da
quella urbanistica".
Nella
specie, relativa a rigetto di ricorso avverso sentenza di condanna per il reato
di cui all'art. 96, lett. f), citato t.u., per avere l'imputato eseguito scavi
a distanza inferiore a dieci metri dal piede dell'argine di un torrente, era
stata dedotta l'inapplicabilità del divieto di opere nel caso di argine
artificiale
(Cass. pen., sez. III,
5.2.1996, n. 2412, CP, 1997, 1852).
La norma ha
retto alle censure di legittimità costituzionale in quanto la distanza minima
di quattro metri, in carenza di normativa di piano è stata ritenuta congrua
anche quando non sia dimostrata caso per caso la effettiva pericolosità.
E'
manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 cost., la questione
di legittimità costituzionale, esaminata per la prima volta, dell'art. 96,
lett. f), r.d. 25.7.1904, n. 523.
La norma è
denunciata in quanto istituirebbe irragionevolmente una presunzione assoluta di
pericolosità, non tenendo conto che, in taluni casi questa non sussiste, così
impedendo anche la difesa attraverso tale dimostrazione
(Corte
cost., 3.12.1987, n. 471, GC, 1987).
La
giurisprudenza ha ritenuto che la disposizione sia inderogabile.
L'art. 96,
lett. f), r.d. 25.7.1904, n. 523, che fa divieto di erigere e mantenere
qualsiasi costruzione a determinate distanze dal piede degli argini o dalle
sponde dei corsi d'acqua, si riferisce alla costruzione di nuovi fabbricati i
quali, se realizzati abusivamente, non possono essere mantenuti e vanno quindi
demoliti, atteso che il divieto ha carattere inderogabile
(T.A.R.
Toscana, sez. III, 12.2.2003, n. 277, FATAR, 2003, 554).
In caso di
esproprio del terrreno soggetto al vincolo la giurisprudenza ritiene che debba
correspondersi l’indennizzo nella misura relativa ai terreni agricoli.
La sola
esistenza di un fabbricato non afferma la natura edificatoria del terreno
sottoposto al vincolo di inedificabilità previsto dall'art. 96 lett. f, r.d.
523/1904 per i terreni limitrofi a corsi d'acqua demaniale
L'eventuale
e limitata edificabilità di suoli agricoli non rileva a fini indennitari e non
trasforma in edificabile un terreno che tale non è o non può essere
considerato.
Il vincolo
di inedificabilità previsto dall'art. 96, lett. f), r.d. n. 523 del 1904, per i
terreni limitrofi a corsi d'acqua demaniale rende non utilizzabile il criterio
indennitario che l'art. 5, l. 359 del 1992, stabilisce per le aree edificabili,
e comporta l'applicazione, ai fini del calcolo della predetta indennità, della
l. 865 del 1971, richiamata dallo stesso art. 5 bis per le aree non
classificabili come edificabili, essendo esclusa la configurabilità di un tertium
genus tra aree edificabili e aree agricole, senza che l'eventuale
asservimento del terreno ad altro immobile ne determini automaticamente la
qualifica come edificabile
(Cass. civ., sez. I, 14.11.2001, n. 14148, GCM,
2001, 1921. Cass. civ., sez. I, 14.5.1998, n. 4848, GCM, 1998, 1027).
109. I limiti all’applicazione della
normativa.
LEGISLAZIONE: t.u. 25.7.1904, n. 523, art. 96,
lett. f).
Il rigore
dei principi fissati dal t.u. 25.7.1904, n. 523, è stato, comunque, temperato
dall’interpretazione che la ritiene applicabile solo per i lavori relativi ad
opere eseguite dopo l’entrata in vigore della norma.
Il divieto
di costruzione di manufatti a una certa distanza dagli argini dei corsi
d'acqua, contenuto nell'art. 96, lett. f), t.u. 25.7.1904, n. 523, ha carattere
inderogabile.
Il divieto
di costruzione di manufatti ad una certa distanza dagli argini dei corsi
d'acqua, contenuto nell'art. 96, lett. f), t.u. 25.7.1904, n. 523, riguarda,
con riferimento agli interventi di consolidamento e di ristrutturazione, solo i
manufatti costruiti dopo l'entrata in vigore del citato t.u., ed anche quelli
costruiti prima se gli interventi comportino aumento della volumetria o della
sagoma di ingombro
(Trib. sup.
acque, 10.2.1999, n. 31, CS, 1999, II, 255).
Il vincolo
alla proprietà privata non può però spingersi a comprimere diritti acquisiti in
relazione a fabbricati precedentemente realizzati per i quali deve essere
consentita la normale gestione con i relativi interventi manutentori.
L'art. 96,
lett. f), t.u. 25.7.1904, n. 523, che fa divieto di erigere e mantenere
qualsiasi costruzione a determinate distanze dal piede degli argini o dalle
sponde dei corsi d'acqua si riferisce alla costruzione di nuovi fabbricati i
quali, se realizzati abusivamente, non possono essere mantenuti e vanno quindi
demoliti.
Illegittimamente,
pertanto, è negato, in base al citato articolo, il nulla osta al consolidamento
ed alla ristrutturazione di fabbricati già esistenti alla data di entrata in
vigore del t.u. n. 523/1904 e che non comportino aggravamento della situazione
esistente, non modificando né il volume né la superficie occupata dai
fabbricati stessi
(Trib. sup.
acque, 20.10.1988, n. 66, CS, 1988, 1915).
Il discrimen
è dato dalla differenza fra la ristrutturazione e la nuova costruzione.
Mentre
l’intervento conservativo deve essere consentito, anche a distanza inferiore di
quella attualmente consentita, la nuova costruzione deve rispettare le distanze
minime previste.
E'
illegittimo il provvedimento di revoca del nulla-osta all'esecuzione di opere
su una fabbrica esistente a distanza minore di 10 metri dal piede dell'argine
di un corso d'acqua pubblico, ai sensi dell'art. 96, lett. f), t.u. 25.7.1904,
n. 523, adottato nel presupposto che il rinnovo di elementi costitutivi
dell'edificio, senza mutamento della cubatura, della superficie e della sagoma
dell'edificio stesso debba essere considerata nuova costruzione e non già
ristrutturazione di un fabbricato esistente
(Trib. sup.
acque, 6.3.1989 n. 24, CS, 1989, II, 482).
110. I vincoli di rispetto delle acque
per consumo umano.
LEGISLAZIONE
d.p.r. 24.5.1988, n. 236, artt. 4, 6 - d.lg. 18.8.2000, n.
258, artt. 5, 25, 4°, 5° co.
Il
legislatore ha fissano delle limitazioni al diritto del proprietario del fondo
nel quale sono localizzate le aree prospicienti alle zone di captazione di
acque per il consumo umano.
Per
assicurare, mantenere e migliorare le caratteristiche qualitative delle acque
da destinare al consumo umano, sono, infatti, state definite delle aree di
salvaguardia suddistinte in zone di tutela assoluta, zone di rispetto e zone di
protezione.
I
provvedimenti possono essere adottati solo nel caso di acque destinate al consumo
ungano.
Le acque non
fornite attualmente al consumo umano, ma provviste del solo carattere di
potenziale utilizzabilità per scopi potabili, non sono assistite dalla tutela
ex art. 6 d.p.r. 24.5.1988 n. 236 - che, per l'appunto, concerne le acque già
fornite al pubblico, come ben può evincersi dalla formulazione della norma -,
per cui non si può configurare una corrispondente zona di rispetto nel caso di
una mera attività di ricerca di falde acquifere da parte di un comune
(Cons. St., sez. V, 2.4.1996, n. 377, FA,
1996, 1207).
Le zone di
tutela assoluta e le zone di rispetto si riferiscono alle sorgenti, ai pozzi ed
ai punti di presa; le zone di protezione si riferiscono ai bacini imbriferi ed
alle aree di ricarica delle falde, ex art. 5, d.lg. 18.8.2000, n. 258, che
sost. art. 4 d.p.r. 24.5.1988, n. 236.
La zona di
tutela assoluta è costituita dall'area immediatamente circostante le captazioni
o derivazioni: essa deve avere una estensione in caso di acque sotterranee e,
ove possibile per le acque superficiali, di almeno dieci metri di raggio dal
punto di captazione, deve essere adeguatamente protetta e adibita
esclusivamente ad opere di captazione o presa e ad infrastrutture di servizio,
ex art. 25, 4° co., d.lg. 18.8.2000, n. 258.
La zona di rispetto
è costituita dalla porzione di territorio circostante la zona di tutela
assoluta da sottoporre a vincoli e destinazioni d'uso tali da tutelare
qualitativamente e quantitativamente la risorsa idrica captata e può essere
suddivisa in zona di rispetto ristretta e zona di rispetto allargata in
relazione alla tipologia dell'opera di presa o captazione e alla situazione
locale di vulnerabilità e rischio della risorsa. In particolare nella zona di
rispetto sono vietati l'insediamento dei seguenti centri di pericolo e lo
svolgimento delle seguenti attività:
a)
dispersione di fanghi ed acque reflue, anche se depurati;
b) accumulo
di concimi chimici, fertilizzanti o pesticidi;
c)
spandimento di concimi chimici, fertilizzanti o pesticidi, salvo che l'impiego
di tali sostanze sia effettuato sulla base delle indicazioni di uno specifico
piano di utilizzazione che tenga conto della natura dei suoli, delle colture
compatibili, delle tecniche agronomiche impiegate e della vulnerabilità delle
risorse idriche;
d) dispersione
nel sottosuolo di acque meteoriche proveniente da piazzali e strade;
e) aree
cimiteriali;
f) apertura
di cave che possono essere in connessione con la falda;
g) apertura
di pozzi ad eccezione di quelli che estraggono acque destinate al consumo umano
e di quelli finalizzati alla variazione della estrazione ed alla protezione
delle caratteristiche quali-quantitative della risorsa idrica;
h) gestione
di rifiuti;
i)
stoccaggio di prodotti ovvero sostanze chimiche pericolose e sostanze
radioattive;
l) centri di
raccolta, demolizione e rottamazione di autoveicoli;
m) pozzi
perdenti;
n) pascolo e
stabulazione di bestiame che ecceda i 170 chilogrammi per ettaro di azoto
presente negli effluenti, al netto delle perdite di stoccaggio e distribuzione.
é comunque vietata la stabulazione di bestiame nella zona di rispetto
ristretta, ex art. 25, 5° co., d.lg. 18.8.2000, n. 258.
Per gli
insediamenti o le attività preesistenti, ove possibile e comunque ad eccezione
delle aree cimiteriali, sono adottate le misure per il loro allontanamento: in
ogni caso deve essere garantita la loro messa in sicurezza.
L'art. 6,
d.p.r. 24.5.1988, n. 236 il quale stabilisce che, nella zona di rispetto di
pozzi di acque destinate al consumo umano, non possano essere esercitate
attività estrattive, non preclude alla p.a. di aprire nuovi pozzi destinati a
tale consumo nell'area in cui già si trovino cave estrattive, dovendo il
pubblico interesse alla destinazione di risorse idriche al consumo umano
prevalere su quello privato allo sfruttamento delle cave
(Trib. sup.
acque, 17.10.1992, n. 77, CS, 1992, II, 1543).
Le regioni e
le provincie autonome disciplinano, all'interno delle zone di rispetto, le
seguenti strutture od attività:
a)
fognature;
b) edilizia
residenziale e relative opere di urbanizzazione;
c) opere
viarie, ferroviarie ed in genere infrastrutture di servizio;
d) le
pratiche agronomiche e i contenuti dei piani di utilizzazione di cui alla
lettera c ) del comma 5.
7. In
assenza dell'individuazione da parte della regione della zona di rispetto ai
sensi del comma 1, la medesima ha un'estensione di 200 metri di raggio rispetto
al punto di captazione o di derivazione.
Le zone di
protezione devono essere delimitate secondo le indicazioni delle regioni per
assicurare la protezione del patrimonio idrico. In esse si possono adottare
misure relative alla destinazione del territorio interessato, limitazioni e
prescrizioni per gli insediamenti civili, produttivi, turistici, agroforestali
e zootecnici da inserirsi negli strumenti urbanistici comunali, provinciali,
regionali, sia generali sia di settore.
La
giurisprudenza ha definito illegittime la determinazione delle zone di rispetto
senza l’osservanza delle procedure stabilite dalla normativa.
Gli artt. 4
e 6 d.p.r. 24.5.1988, n. 236, stabiliscono un particolare procedimento al fine
dell'individuazione delle aree di salvaguardia, a tutela della salute e
dell'ambiente, e per la determinazione dell'estensione delle zone di rispetto;
pertanto è illegittima la deliberazione regionale che determini, senza
motivazione, l'estensione delle zone di rispetto, senza valutazione della
situazione locale di vulnerabilità e rischio delle risorse
(Trib.
sup.re acque, 27.1.1993, n. 10, CS, 1993, II, 121).
Per la
giurisprudenza prevalente la competenza ad esigere il rispetto della norma è
del sindaco.
Ai sensi
dell'art. 6, d.p.r. 24.5.1988, n. 236, il sindaco è competente ad imporre il
divieto di apertura ed esercizio di cave miniere, ai soggetti titolari dei
mappali compresi nel raggio di duecento metri rispetto al punto di captazione
di acque destinate al consumo umano, trattandosi di un atto meramente
ricognitivo della situazione di fatto, determinata dalla norma statale, e non
di delimitare una zona di raggio superiore o inferiore ai duecento metri
(T.A.R.
Veneto, sez. II, 5.101996, n. 1612, FA, 1997, 1164).
La
giurisprudenza ha respinto le censure di illegittimità costituzionale,
ritenendo che i beni per la loro naturale destinazione che comprime le facoltà
del proprietario non siano soggetti ad indennizzo.
È
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt.
5 e 6 d.p.r. 24.5.1988, n. 236 - che dettano prescrizioni dettagliate per la
salvaguardia delle risorse idriche stabilendo l'estensione di zone di tutela
assoluta - sollevata con riferimento agli art. 3, 42, 43 e 44 cost., in quanto
la disciplina ivi prevista non configura un'ipotesi di espropriazione, sia per
la natura dei limiti imposti che non privano necessariamente di contenuti
economici il diritto alla proprietà, sia per il collegamento del regime di
tutela a caratteristiche intrinseche dei terreni (presenza di risorse idriche)
che li rendono per loro natura suscettibili di essere utilizzati per superiori
finalità di interesse pubblico
(Trib.
sup.re acque, 14.12.1994, n. 69, CS, 1994, II, 1958).
111. I vincoli di rispetto delle
distanze dalle farmacie.
LEGISLAZIONE l. 2.4.1968 n. 475, art. 1, 4° co.
- l. 8.11.1991, n. 362, art. 1.
Altri
vincoli sono disposti per garantire l’esercizio di attività economiche che
possono essere compromesse dal sovraffollamento delle stesse ove esse sono già
presenti.
Le norme
impediscono in tal modo il proliferare di alcune attività, anche se tale
criterio non appare in sintonia col principio di libera concorrenza che ispira
l'esercizio dei commerci nella Comunità Europea.
Per
razionalizzare il servizio farmaceutico, che la dottrina definisce come
servizio privato sotto la direzione pubblica, sono stati individuati due
criteri uno relativo alla popolazione l’altro relativo alla distanza fra le
sedi delle farmacie (Landi 1967, 848).
Il numero
delle autorizzazioni è ora stabilito in modo che vi sia una farmacia ogni 5.000
abitanti nei comuni con popolazione fino a 12.500 abitanti e una farmacia ogni
4.000 abitanti negli altri comuni, ex art. 1, l. n. 475 del 1968.
Ai sensi
dell'art. 1, 2° co., l. 362 del 1991, l'istituzione di una nuova sede
farmaceutica si giustifica esclusivamente in base al rapporto tra numero di
farmacie e popolazione, senza necessità di tenere conto della particolare
distribuzione della popolazione sul territorio, poiché quest'ultima valutazione
attiene alla delimitazione degli ambiti territoriali di pertinenza.
Non è
necessario prendere in considerazione la prevedibilità di nuovi insediamenti o
spostamenti di popolazione poiché a tali evenienze sopperisce la specifica
revisione della pianta organica
(T.A.R.
Marche, 12.3.2001, n. 293, RDF, 2001, 1000).
In caso di
trasferimento, il nuovo locale, indicato nell'ambito della stessa sede compresa
nel territorio comunale, deve essere situato ad una distanza dagli altri
esercizi non inferiore a 200 metri.
L'obbligo di
rispettare la distanza minima di 200 metri nella ubicazione delle farmacie,
previsto dall'art. 1, 4° co., l. 475/1968, come sostituito dall'art. 1, l. n.
362/1991, può essere derogato unicamente per comprovati motivi di forza
maggiore.
In tal caso
l'amministrazione che autorizza il trasferimento della farmacia a una distanza
inferiore a quella prevista dalla legge deve verificare in maniera rigorosa e
restrittiva la causa di forza maggiore che giustifica la deroga della distanza
legale minima e, così, sia la necessità assoluta e oggettiva del rilascio dei locali
in cui è ubicata la farmacia, sia la impossibilità oggettiva e assoluta di
trovare nuovi locali ubicati nel rispetto della distanza legale minima: la
mancanza anche di uno solo di questi presupposti rende illegittimo il
provvedimento autorizzatorio
(Cons.
Stato, sez. IV, 12.12.1997, n. 1414, RGFfarm 1999, f. 49, 51).
L’utilizzo
dei resti che siano pari almeno al 50% dei parametri è affidato alla
discrezionalità della amministrazione competente.
L'art. 1 l.
475 del 1968, mod. art. 1, l. 362 del 1991, dopo aver indicato il criterio
demografico che autorizza l'apertura di una farmacia (una ogni 5.000 o 4.000
abitanti, in relazione ai vari comuni la cui consistenza della popolazione sia
inferiore o superiore 12.500 abitanti), dispone al comma 3 che la popolazione
eccedente rispetto agli indicati parametri è computata, ai fini dell'apertura
di una farmacia, qualora sia pari ad almeno il 50% dei parametri stessi.
In
conformità a tale disposizione, l'utilizzabilità dei cosiddetti resti per
l'istituzione di una nuova sede farmaceutica nel territorio comunale sulla base
di una scelta discrezionale della p.a. insindacabile dal giudice se non per
evidenti vizi logici e irrazionalità
(T.A.R.
Toscana, sez. I, 18.12.2002, n. 3380).
La distanza
è misurata per la via pedonale più breve tra soglia e soglia delle farmacie, ex
art. 1, 4° co., l. n. 475/1968, sost. ex art. 1, l. n. 362/1991.
Le regioni e
le province autonome di Trento e di Bolzano, quando particolari esigenze
dell'assistenza farmaceutica in rapporto alle condizioni topografiche e di
viabilità lo richiedono, possono stabilire, in deroga al criterio sopra
esaminato, un limite di distanza per il quale la farmacia di nuova istituzione
disti almeno 3.000 metri dalle farmacie esistenti anche se ubicate in comuni
diversi.
Tale
disposizione si applica ai comuni con popolazione fino a 12.500 abitanti e con
il limite di una farmacia per comune.
Con tale
disposizione il legislatore ha voluto aggiungere al parametro del dato numerico
della popolazione - quale criterio per la determinazione del numero delle
farmacie per ciascun Comune - anche la considerazione delle condizioni
topografiche e di viabilità consentendo l'istituzione di un'altra farmacia,
distante almeno 3000 metri da quelle esistenti, in funzione del soddisfacimento
di particolari esigenze dell'assistenza farmaceutica locale.
La ratio
sottesa a tale norma è la stessa posta alla base della programmazione e della
revisione delle piante organiche delle sedi farmaceutiche, da individuare più
che nella esigenza di evitare la proliferazione delle sedi farmaceutiche, a
salvaguardia delle condizioni economiche dell'esercizio commerciale, nella
diversa esigenza di assicurare la più ampia e razionale copertura di tutto il
territorio nazionale nell'interesse della salute dei cittadini.
La
giurisprudenza ritiene necessario e sufficiente che ricorrano quattro
condizioni perché si possa legittimamente derogare al criterio principale, che
è, appunto, quello correlato alla consistenza della popolazione locale, per la
revisione delle piante organiche farmaceutiche.
Ai sensi
dell'art. 104, del r.d. 27.7.1934, n. 1265, perché si possa legittimamente
derogare al criterio principale per la revisione delle piante organiche
farmaceutiche, che è quello correlato alla consistenza della popolazione locale
(stabilito dall'art. 1, l. n. 475 del 1968, come sostituito dall'art. 1, l. 362
del 1991), è necessario e sufficiente che ricorrano quattro condizioni: che si
tratti di un comune con popolazione fino a 12.500 abitanti; che sussistano
particolari esigenze dell'assistenza farmaceutica locale in rapporto alle
condizioni topografiche di viabilità; che la farmacia di nuova istituzione
disti almeno 3000 metri dalle farmacie esistenti, anche se ubicate in comuni
diversi; che il criterio della distanza non sia stato già utilizzato per
istituire altre sedi farmaceutiche nel medesimo comune
(T.A.R.
Lombardia Milano, sez. I, 23.11.2000, n. 6580, FA, 2001, 926. Corte.
Cost., 9.1.1996 n. 4).
La deroga è
soggetta all’esame del giudice amministrativo sotto il profilo della
ragionevolezza, ma non del merito.
In presenza
di tutti i presupposti vincolanti per l'istituzione di una farmacia aggiuntiva
secondo il criterio topografico, ex art. 104 t.u.l.s. – quali la popolazione
non superiore a 12.500 abitanti e la distanza superiore a 3000 metri - in
deroga agli ordinari parametri demografici, la valutazione relativa alle
"particolari esigenze dell'assistenza farmaceutica, in rapporto alle
condizioni topografiche e di viabilità" appartiene alla sfera della più
ampia discrezionalità amministrativa, che il Giudice amministrativo può
censurare (con maggiore o minor rigore a seconda del numero complessivo di
abitanti del Comune e della rilevanza della deroga attuata) sotto l'esclusivo
profilo della manifesta irragionevolezza ed incongruità
(T.A.R. Umbria,
24.3.2000, n. 281, RDFa, 2000, 571).
Spesso la
deroga è utilizzata per motivi contingenti, relativi anche alla stessa
disponibilità di sedi idonee.
Costituisce
ipotesi di forza maggiore legittimante la deroga della distanza minima tra
esercizi farmaceutici l'obbligo del farmacista di rilasciare, per finita
locazione e non per morosità, i locali precedentemente occupati e l'obiettiva
impossibilità di reperire altri locali idonei entro la distanza legale minima
(T.A.R.
Liguria, sez. II, 3.9.1998, n. 674, RDFa, 1999, 54).
La
giurisprudenza ammette il ricorso avverso il provvedimento di deroga alla
giustizia amministrativa al fine di valutare la possibilità di richiedere la
rimessa in pristino solo dopo che si pervenga all’annullamento dell’atto
amministrativo.
In tal caso
al giudice ordinario è preclusa l’azione relativa al rispetto delle distanze
essendo riconnessa alla valutazione nel merito del provvedimento
amministrativo.
E'
ammissibile il ricorso del titolare della farmacia limitrofa avverso il
provvedimento di autorizzazione al trasferimento dei locali della farmacia
confinante in deroga al limite di distanza di cui all'art. 1 l. n. 475 del
1968, atteso che dalla rimozione di tale provvedimento potrebbe derivare il
ripristino della distanza legale.
(Cons. Stato, sez. IV, 24.10.1997, n. 1234, RDFarm,
1998, 267).
112. I vincoli di rispetto degli
elettrodotti.
LEGISLAZIONE
d.p.c.m. 23.4.1992, artt. 4, 5, 7 - l. 21.2.2001, n. 36,
artt. 4, 2° co., 8, 9 - d.p.c.m 8.7.2002, GU, 29.8.2003 n. 199, art. 5 -
d.p.c.m 8.7.2002, GU, 29.8.2003 n. 200, artt. 3 e 4.
Il d.p.c.m.
23.4.1992 fissa le distanze di rispetto dagli elettrodotti dagli ambienti
destinati all’abitazione e alle attività industriali o commerciali a tutela
della salute, ponendo un limite alla concessione dell’autorizzazione.
Il d.p.c.m.
23.4.1992 stabilisce le distanze da tenere in rapporto alla potenza delle
linee.
Con
riferimento alle linee elettriche aeree esterne a 132 kV, 220 kV e 380 kV, si
adottano, rispetto ai fabbricati adibiti ad abitazione o ad altra attività che
comporta tempi di permanenza prolungati, le seguenti distanze da qualunque
conduttore della linea:
linee a 132 kV >= 10 m
linee a 220 kV >= 18 m
linee a 380
kV >= 28 m
Per linee a
tensione nominale diversa, superiore a 132 kV e inferiore a 380 kV, la distanza
di rispetto viene calcolata mediante proporzione diretta da quelle sopra
indicate.
Per linee a
tensione inferiore a 132 kV restano ferme le distanze previste dal decreto
interministeriale 16 gennaio 1991.
Per
eventuali linee a tensione superiore a 380 kV le distanze di rispetto saranno
stabilite dalla commissione di cui al successivo art. 8.
La distanza
di rispetto dalle parti in tensione di una cabina o da una sottostazione
elettrica deve essere uguale a quella prevista, mediante i criteri sopra
esposti, per la più alta tra le tensioni presenti nella cabina o sottostazione
stessa
(art. 5,
d.p.c.m. 23.4.1992).
L’imposizione
del rispetto dei limiti massimi di esposizione da tenere nei confronti dei
campi elettrici fissati dal d.p.c.m. 23.4.1992 è sufficiente ai fini della
legittimità dell'atto autorizzativo che approva il tracciato dell'elettrodotto,
e non giustifica il ricorso a provvedimenti cautelari.
In presenza
del rispetto del d.p.c.m. 23.4.1992 - che prevede i limiti di esposizione ai
campi elettromagnetici degli elettrodotti ad alta tensione, recependo - al pari
del d.p.r. 27.4.1992 concernente la Via - quelli indicati in via prudenziale,
dalle più autorevoli organizzazioni scientifiche internazionali e nazionali -
va respinto il ricorso volto alla sospensione della realizzazione di una linea
in base a presunti pericoli per la salute umana
(T.A.R.
Lombardia sez. II, Milano, 3.11.1994, n. 618, RGEnel, 1995, 954).
Il
provvedimento ha cercato di porre fine alla disputa sulla tutela del diritto
alla salute per effetto dell’esposizione a campi elettrici magnetici ed
elettromagnetici che, peraltro, la giurisprudenza ha riconosciuto, in via
inibitoria, al fine di interrompere la realizzazione di nuovi impianti qualora
sia dimostrata la loro pericolosità.
La tutela
giudiziaria del diritto alla salute in confronto della p.a. può essere
preventiva e dare luogo a pronunce inibitorie se, prima ancora che l'opera
pubblica sia messa in esercizio nei modi previsti, sia possibile accertare,
considerando la situazione che si avrà una volta iniziato l'esercizio, che
nella medesima situazione è insito un pericolo di compromissione per la salute
di chi agisce in giudizio.
Nella
specie, l'Enel era stato autorizzato a costruire un elettrodotto a distanza di
circa 30 metri da un'abitazione, il cui proprietario chiese che fosse accertata
la pericolosità dell'opera ed il danno derivante alla salute per l'esposizione
ai campi elettromagnetici, con conseguente risarcimento del danno costituito
dalla diminuita abitabilità dell'immobile.
La Suprema
Corte, sulla base dell'enunciato principio di diritto, ha cassato la sentenza
del merito, che aveva respinto la domanda sul presupposto che l'elettrodotto
era stato costruito sulla base di provvedimenti legittimi e non impugnati e
che, peraltro, esso non era ancora entrato in funzione, sicché era impossibile
accertare la situazione di pericolo che si sarebbe generata una volta intervenuta
la messa in esercizio
(Cass. civ.,
sez. III, 27.7.2000, n. 9893, D&G, 2000, f. 37, 48, nota Rossetti).
L’attività
cautelare è limitata anche dai procedimenti di risanamento, che sono
dilazionati nel tempo fino al 2004, e che impediscono di fatto la possibilità
di tutela.
Nei tratti
di linee elettriche esistenti dove non risultano rispettati i limiti di cui
all'art. 4 e le condizioni di cui all'art. 5 dovranno essere individuate azioni
di risanamento. Entro diciotto mesi dall'entrata in vigore del presente
decreto, gli esercenti degli elettrodotti dovranno presentare al Ministero
dell'ambiente una relazione contenente i criteri generali di intervento e i
criteri di priorità scelti, basati anche su parametri oggettivizzabili quali
individui esposti per km, valori di dosi cumulative e simili.
Nei
successivi dodici mesi gli esercenti dovranno presentare i progetti delle
tratte di elettrodotti interessate al risanamento. Entro sessanta giorni dalla
pubblicazione del presente decreto, i Ministeri dell'ambiente, della sanità,
dell'industria, del commercio e dell'artigianato e dei lavori pubblici dovranno
definire un accordo procedimentale per la valutazione dei suddetti progetti di
risanamento ai fini del rilascio delle autorizzazioni alla costruzione così come
disciplinate dal testo unico 11 dicembre 1933, n. 1175.
Nel progetto
di risanamento oltre agli interventi necessari va indicato il programma
cronologico.
I programmi
di risanamento debbono essere completati entro il 31.12.2004
(art. 7,
d.p.c.m. 23.4.1992).
La norma non
ha risposto in termini qualitativi alle attese e con la l. 21.2.2001, n.
36, si è, pertanto, cercato di rispondere all’esigenza di fornire un’adeguata
regolamentazione della materia.
La dottrina
precisa, peraltro, che l’efficacia della normativa è condizionata in modo
rilevante dal contenuto dei decreti di attuazione e dai controlli che saranno
effettuati (Ramacci 2001, 26).
Successivamente
sono stati emanati in data 8.7.2002 i dd.pp.cc.mm. di attuazione che abrogano i
precedenti decreti (Ramacci 2003, 27).
Il d.p.c.m
8.7.2002, GU, 29.8.2003 n. 199, ha riferimento alle frequenze comprese
fra i 100 khz e i 300 ghz, il d.p.c.m 8.7.2002, GU, 29.8.2003 n. 200, fa
riferimento alle frequenze di rete di 50 hz.
Entrambi i
decreti definiscono i limiti di esposizione, i valori di attenzione, gli
obiettivi di qualità e i parametri per la previsione di fasce di rispetto per
gi elettrodotti, ex art. 4, 2° co., l. 21.2.2001, n. 36.
Il d.p.c.m
8.7.2002, GU, 29.8.2003 n. 199, dopo avere fissato nell’allegato b) i
valori di attenzione e gli obiettivi di qualità nel caso di esposizione ad
impianti che generano frequenze comprese fra i 100 khz e i 300 ghz, impone
all’art. 5 la riduzione a conformità nel caso di superamento di valori
indicati.
La norma è
però in bianco in quanto non fissa né termini né sanzioni.
Parimenti il
d.p.c.m 8.7.2002, GU, 29.8.2003 n. 200, dopo avere fissato agli artt. 3
e 4 i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità nel caso di esposizione
ad impianti che generano frequenze di rete di 50 hz.
Anche in tal
caso la norma è in bianco in quanto non fissa né la riduzione in conformità né
le relative sanzioni, limitandosi a fissare, all’art. 6, i parametri per la
determinazione delle fasce di rispetto
La norma è
però in bianco in quanto non fissa né termini né sanzioni.
Le regioni
devono definire le modalità per il rilascio delle autorizzazioni alla
installazione degli impianti, ex art. 8, l. 21.2.2001, n. 36, e, soprattutto,
definire i piani di risanamento che devono contenere il programma cronologico
di attuazione in cui devono essere indicati gli interventi prioritari sulle
situazioni esposte a più elevati livelli di inquinamento elettromagnetico, ex
art. 9, l. 21.2.2001, n. 36.
113. La disciplina regionale
integrativa alla luce delle decisioni della Corte costituzionale.
LEGISLAZIONE: cost. art. 117, 3° co. - l. cost. 18.10.2001 n. 3, art. 3.
La
giurisprudenza costituzionale si è posta il problema della legittimità della
legislazione regionale che innovi in materia di distanze fra edifici e le linee
elettriche.
In un primo
tempo la Corte ha sostenuto la legittimità della legislazione regionale che
fissi standard più rigidi di quelli imposti dal legislatore nazionale
L'art. 1 l.
reg. Veneto riapprovata il 29.7.1997, che impone all'ente elettrico nazionale
valori di campo magnetico estremamente più rigidi di quelli prescritti dal
d.p.c.m. 23.4.1992 per gli elettrodotti a linea aerea, con tensione da 132 Kw
in su, quando sorvolino aree destinate agli strumenti urbanistici a nuove
costruzioni residenziali, scolastiche e sanitarie, si mantiene all'interno
della potestà legislativa regionale in materia di sanità e urbanistica
(quest'ultima intesa in termini di governo del territorio e di protezione
dell'ambiente secondo la definizione dell'art. 80 d.p.r. 24.7.1977, n. 616).
Essa non
lede competenze legislative statali, anche perché non tende a vanificare, ma
semmai ad accrescere, gli obiettivi di tutela della salute perseguiti a livello
nazionale
(Corte cost.
30.9.1999, n. 382, RGE, 1999, 1184).
Successivamente
il contrasto fra la normativa regionale e le norme dettate dalla legge quadro
36/2001 è stato analizzato alla luce dei principi fissati dalla l. cost.
18.10.2001 n. 3, art. 3.
Le materie
che rientrano nella tutela della salute, nell’ordinamento della comunicazione
nella produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia e nel
governo del territorio rientrano nella sfera della potestà legislativa
concorrente delle regioni a statuto ordinario, ex art. 117, 3° co. cost.; esse,
pertanto, sono caratterizzate dai soli principi fondamentali stabiliti dalle
leggi dello Stato.
Con
riferimento agli standard di protezione dall’inquinamento elettromagnetico,
l’art. 3, l. 36/2001, distingue i limiti di esposizione da quelli di attenzione
e gli obiettivi di qualità.
I limiti di
esposizione non devono essere superati in alcuna condizione di contatto con la
popolazione.
I valori di
attenzione non devono essere superati a titolo di cautela nelle case e nelle
scuole o nei luoghi adibiti a permanenze prolungate.
Gli
obiettivi di qualità riguardano i valori di campo che sono affidati allo Stato
e i criteri localizzativi che sono attribuiti alla competenza regionale.
Mentre lo
Stato ha la competenza di fissare le soglie di esposizione, la Regione può
disciplinare autonomamente l’uso del territorio in funzione della
localizzazione degli impianti, stabilendo le ulteriori misure e prescrizioni
dirette a ridurre il più possibile l’impatto negativo degli impianti sul
territorio (Busia 2003, 87).
La
determinazione dei valori soglia oltre a proteggere la salute dei cittadini
mira a consentire la realizzazione degli impianti e delle reti rispondenti a
rilevanti interessi nazionali, come quelli che fanno riferimento alla
distribuzione dell’energia elettrica e allo sviluppo dei sistemi di
telecomunicazione.
Proprio per
proteggere tali interessi la legge quadro ha fissato di attribuire allo Stato
la fissazione dei limiti di esposizione.
Per questo
la determinazione dei valori soglia a livello nazionale non è derogabile dalle
regioni nemmeno in senso più restrittivo.
Essa deve
essere considerata come il punto di equilibrio fra le esigenze contrapposte di
evitare al massimo l’impatto delle emissioni elettromagnetiche e di realizzare
impianti necessari al paese.
La
competenza delle Regioni, essendo concorrente, è vincolata ai principi generali
fissati dallo Stato.
Diverso è il
problema su chi debba decidere sulle procedure di localizzazione.
In detta
materia le capacità delle regioni e degli enti locali di regolare autonomamente
l’uso del territorio si riespande, con l’unico limite del rispetto delle
esigenze della pianificazione nazionale e degli impianti e con il vincolo di
non impedire od ostacolare ingiustificatamente l’insediamento degli stessi.
La
competenza regionale riconosciuta dalla legge quadro 36/2001 per la
individuazione dei siti di trasmissione degli impianti per la telefonia mobile,
degli impianti radioelettrici e degli impianti per la radiodiffusione attiene
solo alla indicazione di obiettivi di qualità non consistenti in valori di
campo, ma in criteri di localizzazione, standard urbanistici, prescrizioni ed
incentivazioni all’uso della migliore tecnologia disponibile, o alla cura
dell’interesse regionale e locale dell’uso del territorio, sia pure nel quadro
di vincoli che derivano dalla pianificazione nazionale delle reti e dei
relativi parametri tecnici, nonché dai valori soglia stabiliti dallo Stato
(Corte cost. 1.10.2003, n. 307, GD, 2003,
n. 42,, 81).
114. La differenza fra i vincoli
imposti ex lege ed i vincoli di piano. La mancanza
dell’indennizzabilità.
LEGISLAZIONE
l. urb., art. 40 - l. 19.11.1968, n. 1187, art. 5.
La normativa
speciale in materia di vincoli comprende le norme che regolano la sicurezza
nella circolazione sia essa aerea, stradale o ferroviaria; le disposizioni
dettate per disciplinare la costruzione di impianti destinati alla
realizzazione di particolari beni di consumo come, ad esempio, la captazione di
acque; le norme che tutelano i beni di interesse naturistico e il patrimonio
artistico; le disposizioni sugli impianti pericolosi per la salute dei
cittadini; le norme, infine, destinate a tutelare la diffusione di certi beni o
servizi.
I vincoli
imposti per legge Hanno la funzione di acclarare la natura particolare del bene
o di conformarla regolando le possibili forme di intervento disciplinando
l’esercizio del diritto del proprietario al fine di salvaguardare le esigenze
pubbliche.
Essi devono
disporre, pertanto, una disciplina omogenea per le varie tipologie di beni.
La
giurisprudenza ritiene, pertanto, che essi non siano indennizzabili non avendo
natura ablatoria a differenza dei vincoli di piano.
In tema di
imposizione di vincoli urbanistici, il legislatore non è tenuto a disporre
indennizzi quando i modi di godimento e i limiti imposti direttamente dalla
legge ovvero mediante il completamento di un particolare procedimento
amministrativo riguardino intere categorie di beni secondo caratteristiche loro
intrinseche, con carattere di generalità ed in modo obiettivo.
I limiti non
ablatori normalmente posti nei regolamenti urbanistici o nella pianificazione
urbanistica e relative norme tecniche, riguardanti altezza, cubatura,
superficie coperta, distanze, zone di rispetto, indici di fabbricabilità,
limiti e rapporti per zone territoriali omogenee e simili, sono connaturali
alla proprietà
(Corte
cost., 20.5.1999, n. 179, AUE, 1999, 395, nota Gisondi).
I vincoli di
piano hanno l’effetto di togliere alla proprietà la possibilità di esercitare
lo ius aedificandi e pongono la proprietà nella situazione di
compressione in rapporto ad un provvedimento amministrativo che oggettivamente
affievolisce le facoltà del proprietario. Essi devono essere congruamente
motivati in relazione al sacrificio imposto alla proprietà.
E'
illegittima la revisione del piano regolatore generale che pone un vincolo
preordinato all'espropriazione privo di sufficiente specificazione in ordine al
servizio localizzabile nell'area interessata
(T.A.R.
Piemonte, sez. I, 25.2.1998, n. 62, RGE, 1998, 449).
L’art. 40
della l. urb. ha posto il principio della non indennizzabilità dei vincoli di
piano per non negare in radice il potere conformativo della proprietà
(Centofanti 2003 (3), 78).
Il problema,
infatti, non consiste nel potere di vincolare le aree a determinate
destinazioni, ma nel perequare la differenza di valore che si determina per
effetto delle norme di piano sugli immobili, in relazione alle loro differenti
possibilità di intervento edilizio.
Nessun
indennizzo è dovuto per le limitazioni ed i vincoli previsti dal piano
regolatore generale nonché per le limitazioni e per gli oneri relativi
all'allineamento edilizio delle nuove costruzioni.
Non è dovuta
indennità neppure per la servitù di pubblico passaggio che il Comune creda di
imporre sulle aree di portici delle nuove costruzioni e di quelle esistenti.
Rimangono a
carico del Comune la costruzione e manutenzione del pavimento e la
illuminazione dei portici soggetti alla predetta servitù
(art. 40, l. urb., mod. art. 5, l. 19.11.1968,
n. 1187).
La proprietà
non subisce, peraltro, delle menomazioni funzionali circa l’esercizio del
diritto.
Non vi è
alcuna compressione fino all’espletamento della procedura ablatoria.
Il
proprietario utilizza il bene e si assume ogni responsabilità riguardo la sua
gestione.
L'assoggettamento
di un bene ad un vincolo preordinato all'espropriazione non implica alcun
immediato spossessamento, né tampoco la cessazione di tutte le facoltà e le
responsabilità ad esso connesse - vicende, queste, che si potranno verificare
solo se e in quanto si verificherà l'ipotizzata ablazione - per cui il
proprietario è tenuto ad adempiere agli oneri che la pubblica amministrazione
impone sul bene stesso, prima o indipendentemente dalla procedura
espropriativa.
Nella specie,
è legittimo l'ordine di un comune al proprietario affinché questi provveda
all'ordinaria manutenzione di una strada privata, a nulla rilevando che la
nuova destinazione urbanistica di zona stabilisca la futura espropriazione
della strada per la costruzione di opere di viabilità pubblica
(Cons. St., sez. V, 27.2.1998, n. 199, FA,
1998, 440).
Il vincolo è
soggetto a risarcimento solo qualora sia posto a tempo indeterminato o venga
reiterato, vedi Cap. IV, n. 50.
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