1.1
PARTE TERZA I
VINCOLI DI PIANO ED ESPROPRIAZIONE
CAPITOLO VIII
La dichiarazione di pubblica
utilità e l’indennità di espropriazione.
SOMMARIO:
115. La pianificazione urbanistica e l’espropriazione.
116.
La dichiarazione esplicita di pubblica utilità.
117.
La dichiarazione implicita di pubblica utilità.
118.
I termini.
119.
La proroga dei termini.
119.1.
L’annullamento della dichiarazione di p.u. Effetti.
120.
La cessione bonaria.
120.1.
Il corrispettivo dell’atto di cessione. L’area edificabile. La costruzione
edificata.
120.2.
L’area non edificabile. La coltivazione da parte del proprietario.
121.
L’indennità di esproprio per le aree edificabili.
122.
Le possibilità legali ed effettive di edificazione.
123.
L’indennità di esproprio per aree non edificabili.
124.
Il calcolo dell’indennità per area edificata.
115. La pianificazione
urbanistica e l’espropriazione.
LEGISLAZIONE: l. 17.8.1942, n. 1150, artt. 7, 18
- l. 359/1992, art. 15 - l. 109/1994, art. 37 bis.
La dottrina tradizionalmente
inquadra come limite alla proprietà privata ogni provvedimento pianificatorio
che è visto come limitazione al pieno esercizio dello ius aedificandi
(Mengoli 2003, 35).
Un indirizzo dottrinale, seguito
anche da un filone giurisprudenziale significativo, capovolge i termini del
problema, verificando come un ordinato assetto del territorio possa essere
considerato anche come forma di valorizzazione della stessa proprietà.
Un immobile collocato in una zona
dotata di pubblici servizi, di opere di urbanizzazione, facilmente accessibile
è sicuramente più appetibile di un altro sito in zona non urbanizzata.
Il valore economico dell’immobile
subisce un evidente incremento per il conseguente accrescimento della sua
rendita di posizione.
Diversa è, chiaramente, l’ipotesi
in cui la pianificazione acclara quella che è una vocazione naturale
dell’immobile, come nel caso delle zone agricole.
La
destinazione agricola di un fondo è espressiva della suddivisione del
territorio comunale in zone omogenee, operata dallo strumento urbanistico
secondo le prescrizione dell'art. 7, l. 17.8.1942, n. 1150, e del d.m. 2.4.1968
n. 1444, e, come tale, costituisce non già una particolare limitazione delle
facoltà dominicali private, bensì una statuizione pianificatoria, attraverso
cui la p.a. conforma il contenuto del diritto di proprietà onde renderlo
compatibile con la migliore tutela di un ordinato assetto urbanistico e degli
interessi ambientali.
(Cons. St., sez. V, 7.8.1996, n. 881, FA,
1996, 2286).
La sequenza logica non sempre si
traduce, tuttavia, in un comportamento perequato rispetto alla proprietà
edilizia a causa della discrezionalità che l’amministrazione ha nella scelta
delle aree da espropriare, per l’attuale incertezza legata al criterio di indennizzo
dell’edificabilità delle aree e per la mancata soluzione di alcune
problematiche legate soprattutto ai vincoli di piano.
La discrezionalità amministrativa
caratterizza l’intero sistema in quanto il procedimento ablatorio non sempre si
pone come atto obbligatorio, ma può essere facoltativo o ammettere la
sostituzione dell’intervento dell’amministrazione con quello di altri soggetti.
Non esiste uno stretto rapporto fra
disegno programmatorio esercitato dai piani urbanistici generali ed
espropriazione, salvo scarse eccezioni, come, ad esempio, nel caso del piano di
zona per l’edilizia economico popolare.
L’acquisizione al demanio delle
aree inserite nel piano è elemento essenziale per la sua attuazione e per
l’acquisizione delle aree necessarie all’esecuzione delle opere pubbliche.
L’espropriazione è facoltativa,
qualora la pubblica amministrazione intervenga direttamente per
l’urbanizzazione delle aree di espansione (Mengoli 2003, 592).
L’amministrazione difficilmente
realizza tale tipo di espropriazione, in quanto le risorse finanziarie sono
indirizzate prevalentemente ad interventi stabiliti dalla pianificazione
attuativa:
In
conseguenza dell'approvazione del piano regolatore generale i comuni, allo
scopo di predisporre l'ordinata attuazione del piano medesimo, hanno facoltà di
espropriare entro le zone di espansione dell'aggregato urbano di cui al n. 2
dell'art. 7 le aree inedificate e quelle su cui insistano costruzioni che siano
in contrasto con la destinazione di zona ovvero abbiano carattere provvisorio.
(art.
18, l. 17.8.1942, n. 1150).
L’amministrazione ha, come unico
obbligo, quello di quantificare la spesa occorrente:
Allorquando
il comune deve deliberare circa l'espropriazione delle aree private è richiesta
una relazione finanziaria di massima delle spese occorrenti.
La
relazione finanziaria non costituisce più elemento essenziale per l'adozione
del p.r.g. potendo anche sopravvenire in un successivo momento allorquando,
cioè, il comune deve deliberare circa l'espropriazione delle aree private ex
art. 18, l. 17.8.1942, n. 1150
(T.A.R.
Campania, sez. Salerno, 10.7.1991, n. 232, T.A.R. 1991, I, 3144).
L’espropriazione è sostitutiva
dell’intervento dei privati nei casi in cui questi non concorrano a realizzare
i lavori previsti dai piani attuativi.
Il mancato adeguamento dei privati
alla pianificazione esecutiva può comportare la possibilità che le opere
vengano realizzate dalla amministrazione comunale attraverso una
espropriazione, che, però, è eventuale e sostitutiva del mancato intervento privato.
In tal caso l’espropriazione non
ha, in ogni modo, funzione sanzionatoria - nei confronti dei privati che non
hanno attuato spontaneamente alle disposizioni di piano – ma deve considerarsi
esplicazione del potere pubblico di intervenire nell’esecuzione delle opere
previste dalla pianificazione urbanistica.
L’espropriazione è, invece,
obbligatoria nel caso di realizzazione d’opere pubbliche.
L’espropriazione è, ancora,
obbligatoria qualora sia prevista l’acquisizione delle aree al patrimonio
indisponibile del comune e la loro relativa urbanizzazione.
Successivamente, le aree sono
assegnate, salva la realizzazione diretta degli interventi da parte del comune
- secondo i procedimenti stabiliti dalla legge di riserva - a coloro che
operano sulla base di convenzionamento, come nel caso di interventi edilizi
realizzati in piano di zona.
Lo schema che vede lo strumento
urbanistico attuato attraverso il procedimento ablatorio è legato al principio
dominante che considera l’opera pubblica come parte necessaria del demanio o
quanto meno del patrimonio indisponibile.
Dalla crescente esigenza di
privatizzazione, tesa alla riduzione dell’intervento pubblico al fine di
ottenere, attraverso il ricorso al libero mercato, una riduzione dei costi,
deriva un nuovo istituto che consente ad un operatore privato la realizzazione
e la gestione di opere pubbliche attraverso un trasparente meccanismo di gara,
vedi art. 37 bis l. 109/1994 (Cianflone e Giovannini 1999, 169).
La norma non precisa se l’area su
cui deve realizzarsi l’opera debba essere o meno di proprietà
dell’amministrazione aggiudicatrice.
Trattandosi d’opere inserite nella
programmazione triennale, sembra del tutto conforme ai principi generali
ritenere che il promotore possa ipotizzare nel progetto anche il costo relativo
al procedimento espropriativo.
Appare, a mio avviso, una mancanza
della normativa quella di non avere previsto la possibilità di delega al
promotore del procedimento ablatorio come già avviene ad esempio, nell’ipotesi
prevista dall'art. 15 della l. 359/1992.
La legge, in tal caso, pur
trasformando l’ENI in società per azioni, ha conservato, a favore delle s.p.a.
derivanti dalla trasformazione di enti pubblici economici, le attribuzioni già
spettanti in materia espropriativa agli enti originari, legittimando la
dichiarazione di pubblica utilità ex lege relativamente ad opere
intraprese da parte di soggetti di diritto privato.
.
116. La dichiarazione
esplicita di pubblica utilità.
LEGISLAZIONE:
d.p.r. 8.6.2001, n. 327, art. 16 - d.lg. del 27.12.2002, n. 302, art. 1, 1°
lett. o).
La dichiarazione di pubblica
utilità costituisce un subprocedimento necessario che definisce una
qualificazione giuridica del bene, rendendolo oggetto del procedimento
ablatorio (Centofanti 2003 (3), 213).
Essa come abbiamo visto non è
contenuta negli strumenti di pianificazione generale.
Essa, però, è portata ex lege,
oltre che negli strumenti di pianificazione comunale attuativa, da singoli atti
in esecuzione di realizzazione di opere pubbliche da parte del comune.
La dichiarazione di pubblica
utilità può essere sollecitata dal soggetto anche privato che è interessato
alla realizzazione dell’opera pubblica, predisponendo gli elaborati previsti
dall’art. 16, d.p.r. 8.6.2001, n. 327.
1. Il
soggetto, anche privato, diverso da quello titolare del potere di approvazione
del progetto di un'opera pubblica o di pubblica utilità, può promuovere
l'adozione dell'atto che dichiara la pubblica utilità dell'opera. A tale fine,
egli deposita pressa l'ufficio per le espropriazioni il progetto dell'opera,
unitamente ai documenti ritenuti rilevanti e ad una relazione sommaria, la
quale indichi la natura e lo scopo delle opere da eseguire, nonché agli eventuali
nulla osta, alle autorizzazioni o agli altri atti di assenso, previsti dalla
normativa vigente. (L)
(Art. 16, d.p.r. 8.6.2001, n. 327. d.lg. del
27.12.2002, n. 302, art. 1, 1° lett. o).
La dichiarazione di pubblica
utilità può essere emanata in conformità a diversi atti formali purché l’opera
prevista sia conforme alle previsioni dello strumento urbanistico o della sua
variante (Saturno e Stanzione 2002, 183. Conti 2003, 258).
La corrispondenza fra
pianificazione urbanistica e dichiarazione di pubblica utilità deve essere
piena.
Il potere conformativo attribuito
ai piani urbanistici non consente una localizzazione contrastante con la
zonizzazione senza un preventivo adeguamento delle disposizioni di piano:
E’
illegittima la dichiarazione di pubblica utilità di un’opera localizzata in
zona con destinazione urbanistica con essa contrastante in conseguenza della
mancata adozione della variante di piano regolatore
(T.A.R.
Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 8.1.1997, n. 4, T.A.R., 1997, 1010).
In tal caso l’amministrazione
comunale deve procedere a variare lo strumento urbanistico (Caringella, De
Marzo, De Nictolis e Maruotti 2002 165).
117. La dichiarazione
implicita di pubblica utilità.
LEGISLAZIONE: d.p.r. 8.6.2001, n. 327, art. 12,
1° co. - d.lg. 27.12.2002, n. 302, art. 1, 1° co. lett. i).
L’art. 12, 1° co., d.p.r. 8.6.2001,
n. 327, contempla fra gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica
utilità: l’approvazione del progetto definitivo dell’opera pubblica, il piano
particolareggiato, il piano di lottizzazione, il piano di recupero urbano, il
piano di ricostruzione, il piano delle aree da destinare a insediamenti
produttivi e il piano di zona. Essa è implicita; la dichiarazione non deve
essere espressamente dichiarata in quanto portata ex lege.
Il t.u. espr. riprende quanto
affermato dalle disposizioni normative in materia di pianificazione, che
attribuiscono efficacia di dichiarazione di pubblica utilità all’approvazione
degli strumenti urbanistici attuativi.
La stessa dizione legislativa ammette
che la elencazione degli atti da cui si intende disposta la dichiarazione di
pubblica utilità è meramente esemplificativa (Volpe 2001, 70).
Gli
atti che comportano la dichiarazione di pubblica utilità
1. La
dichiarazione di pubblica utilità si intende disposta:
a)
quando l'autorità espropriante approva a tale fine il progetto definitivo
dell'opera pubblica o di pubblica utilità, ovvero quando sono approvati il
piano particolareggiato, il piano di lottizzazione, il piano di recupero, il
piano di ricostruzione, il piano delle aree da destinare a insediamenti
produttivi, ovvero quando è approvato il piano di zona;
b) in
ogni caso, quando in base alla normativa vigente equivale a dichiarazione di
pubblica utilità l'approvazione di uno strumento urbanistico, anche di settore
o attuativo, la definizione di una conferenza di servizi o il perfezionamento
di un accordo di programma, ovvero il rilascio di una concessione, di una
autorizzazione o di un atto avente effetti equivalenti. (L)
2. Le
varianti derivanti dalle prescrizioni della conferenza di servizi, dell'accordo
di programma o di altro atto di cui all'articolo 10, nonché le successive
varianti in corso d'opera, qualora queste ultime non comportino variazioni di
tracciato al di fuori delle zone di rispetto previste ai sensi del decreto del
Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 753, nonché ai sensi del decreto
ministeriale 1 aprile 1968, sono approvate dall'autorità espropriante ai fini
della dichiarazione di pubblica utilità e non richiedono nuova apposizione del
vincolo preordinato all'esproprio. (L)
3.
Qualora non sia stato apposto il vincolo preordinato all'esproprio la
dichiarazione di pubblica utilità diventa efficace al momento di tale
apposizione a norma degli articoli 9 e 10. (L)
(art. 12, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, sost. art. 1,
1° co. lett. i), d.lg. 27.12.2002, n. 302).
Tale effetto non è riconosciuto
agli strumenti urbanistici generali, ma solo a quelli attuativi, ai quali è
espressamente attribuita tale qualità al momento della loro approvazione,
ovvero a quei provvedimenti cui tale effetto giuridico sia riconosciuto
espressamente dalla legge.
La
dichiarazione di pubblica utilità dell'opera, oltre ad essere contenuta in un
espresso provvedimento amministrativo, può risultare implicitamente, non da una
mera situazione di fatto, ma dall'esistenza di una disposizione di legge che
attribuisca a determinati provvedimenti amministrativi diretti ad altri fini -
come l'approvazione del progetto dell'opera pubblica o il rilascio di autorizzazioni
o concessioni, ovvero l'approvazione di un piano urbanistico di terzo livello,
piano particolareggiato, p.e.e.p., piano di lottizzazione ed altri,- lo stesso
valore della dichiarazione di pubblica utilità
(Cass. civ., sez. I, 11.6.1993, n. 6546, GCM,
1993, 1024).
118. I termini.
LEGISLAZIONE: l. 25.6.1865, n. 2359, art. 13 -
d.p.r. 8.6.2001, n. 327, art. 13, 1° co. - d.lg. 302/2002, art. 1, 1° co.,
lett. l).
Il
limite all’emanazione della dichiarazione di pubblica utilità è la decadenza
del vincolo quinquennale dall’approvazione dello strumento urbanistico
generale, ex art. 13, 1° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327.
Se manca l’espressa determinazione
del termine di esecuzione del decreto di esproprio, esso può essere eseguito
entro il termine di cinque anni, decorrente dalla data in cui diventa efficace
l’atto che dichiara la pubblica utilità dell’opera.
1. Il
provvedimento che dispone la pubblica utilità dell'opera può essere emanato
fino a quando non sia decaduto il vincolo preordinato all'esproprio. (L) 2. Gli
effetti della dichiarazione di pubblica utilità si producono anche se non sono
espressamente indicati nel provvedimento che la dispone. (L)
(art.
13, d.p.r. 8.6.2001, n. 327).
Il provvedimento che comporta la
dichiarazione di pubblica utilità può stabilire il termine entro il quale il
decreto di esproprio deve essere eseguito.
Manca nel testo legislativo la
distinzione fra termine relativo alle espropriazioni e termine relativo ai
lavori che caratterizzava la dizione dell’art. 13, l. 25.6.1865, n. 2359.
L'indicazione
dei termini di inizio ed ultimazione delle espropriazioni e dei lavori è
prerogativa dell'atto con il quale l'amministrazione esplicita per la prima
volta, in modo inequivoco, l'intenzione di esercitare il potere ablatorio sugli
immobili, e cioè dell'atto con il quale viene approvato il progetto esecutivo.
Si deve ritenere che soltanto in questo momento si effettua quel necessario
concreto raffronto tra opera pubblica e strumento urbanistico in virtù del
quale l'immobile prescelto viene asservito al procedimento espropriativo ed a
cui è coessenziale la limitazione temporale dell'effetto ablatorio tipico della
dichiarazione di pubblica utilità, nonché soltanto in questo momento dovranno
essere indicati i mezzi finanziari per far fronte all'esecuzione dell'opera
(T.A.R.
Emilia Romagna Bologna, sez. I, 8.1.1997, n. 4, FA, 1997, 2081).
Con l’entrata in vigore del nuovo
t.u. espr. p.u. viene meno la necessità
di indicare i termini,
distintamente, per le due attività, la cui mancanza comportava, nella
precedente disciplina la dichiarazione di illegittimità.
E'
illegittimo il decreto di approvazione del progetto implicante dichiarazione di
pubblica utilità privo della predeterminazione dei termini di inizio e
conclusione dei lavori, nonché dei termini delle espropriazioni
(T.A.R.
Sicilia sez. I, 3.7.2001, n. 1327, FA, 2001).
E'
illegittima la dichiarazione di pubblica amministrazione che contenga solo il
termine d'inizio e di ultimazione dei lavori e non anche, distintamente, i
termini d'inizio e fine delle espropriazioni, atteso che l'art. 13, l.
25.6.1865, n. 2359, prescrive l'indicazione specifica e distinta dei due tipi
di termine. Nell'atto che si dichiari un'opera di pubblica utilità saranno
stabiliti i termini, entro i quali dovranno cominciarsi e compiersi le
espropriazioni ed i lavori.
E’
illegittima l'approvazione del progetto di un'opera pubblica, ex art. 1, 1°
co., l. n. 1 del 1978, che non fissi i suddetti termini
(Cons.
Giust. Amm. Sicilia, sez. giurisd., 28.1.1998, n. 21, FA, 1998, 1147).
L’apposizione del termine per le
operazioni espropriative è facoltativa, per cui la mancanza dell’indicazione
della durata del procedimento non è motivo di illegittimità della procedura.
3.
Nel provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera
può essere stabilito il termine entro il quale il decreto di esproprio va
eseguito. (L)
4. Se
manca l'espressa determinazione del termine di cui al comma 3, il decreto di
esproprio può essere emanato entro il termine di cinque anni, decorrente dalla
data in cui diventa efficace l'atto che dichiara la pubblica utilità
dell'opera. (L)
(art. 13, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, mod. art. 1,
1° co., lett. l), d.lg. 302/2002).
La norma è vista dalla dottrina in
maniera assolutamente positiva, poiché destinata a ridurre il contenzioso tanto
più che l’opera sorge su area già acquisita dall’ente espropriante, per cui i
tempi di realizzazione non devono più essere rapportati all’urgenza dichiarata
dell’opera.
Da un
lato non hanno più rilevanza i termini di inizio e di conclusione dei lavori:
in base alla riforma l’opera è realizzata sull’area oramai espropriata (quando
già vi è stata l’immissione nel possesso), sicché (salve le norme sulla
retrocessione) i tempi di realizzazione dell’opera non riguardano
l’espropriato.
Dall’altro
lato neppure rileva il termine di inizio dell’ultima fase del procedimento
espropriativo: l’unica prescritta formalità (la determinazione dell’indennità
provvisoria) può essere effettuata anche in prossimità della scadenza del
termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità
(Caringella,
De Marzo, De Nictolis e Maruotti 2002, 149).
La normativa, secondo quanto
richiesto dalla giurisprudenza, è adeguata a quanto richiesto nei casi di
dichiarazione implicita di pubblica utilità.
Per le aree interessate dalla
pianificazione attuativa il limite è la relativa scadenza dei piani, che è ad
esempio, decennale per il piano particolareggiato.
In tali casi la legge espressamente
fissa dei termini di efficacia per la durata dello stesso piano tanto da
escludere che il procedimento ablatorio debba tassativamente stabilire dei
termini essendo essi già fissati dalla norma.
L'art.
13, l. 25.6.1865, n. 2359, in materia di apposizione di termini iniziale e
finale sia dei lavori che delle espropriazioni, non è applicabile alle
espropriazioni conseguenti ai piani di zona per l'edilizia economica e
popolare, essendo sostituito ed assorbito dalle disposizioni che delimitano nel
tempo ope legis l'efficacia dei piani stessi.
In
altri termini la durata legale dell'efficacia del p.e.e.p. assolve, da sola,
alle esigenze cui, in altro contesto, sopperiscono i termini di cui all'art.
13, sicché appare superflua l'imposizione di specifici termini ai singoli atti
espropriativi, che possono intervenire durante tutto il periodo di vigenza dei
piani
(Cons. St., sez. IV, 24.10.1997, n. 1228, UA,
1998, 201. Cons. St., sez. IV, 17.4.1998, n. 645, FA, 1998, 1034. Cons. St., sez. IV, 16.10.1998, n. 1313, RGE,
1999, 330).
Viene richiesta unicamente
l’indicazione del termine finale, premesso che il termine iniziale è
determinato automaticamente fino alla scadenza della possibilità di emettere la
dichiarazione di pubblica utilità.
119. La proroga dei
termini.
LEGISLAZIONE:
cost. art. 42 - l. 25.6.1865, n. 2359, art. 13 - d.p.r. 8.6.2001, n. 327, art.
13, 5° co..
L’art. 13, 5° co., d.p.r. 8.6.2001,
n. 327, consacra il principio fissato dalla giurisprudenza che consente la
proroga dei termini nei casi di forza maggiore e per altre giustificate
ragioni.
5.
L'autorità che ha dichiarato la pubblica utilità dell'opera può disporre la
proroga dei termini previsti dai commi 3 e 4 per casi di forza maggiore o per
altre giustificate ragioni. La proroga può essere disposta, anche d'ufficio,
prima della scadenza del termine e per un periodo di tempo che non supera i due
anni. (L)
(art.
13, d.p.r. 8.6.2001, n. 327).
I requisiti
della proroga sono tassativi; essa deve essere disposta prima della scadenza
del termine e non avere durata maggiore dei due anni. Vale sempre il termine quinquennale disposto
dall’art. 13, 4° co., d.p.r. 327/2001, che prevede l'emanazione del decreto di
esproprio entro il quinquennio dalla data di approvazione dell’atto che
dichiara la pubblica utilità
La giurisprudenza ha in precedenza
ammesso la proroga dei termini che doveva essere, secondo i principi generali,
congruamente motivata e approvata prima della scadenza.
E’ stato affermato che i termini
possono essere prorogati per i casi di forza maggiore e per altri motivi
indipendenti dalla volontà dell'espropriante, ma sempre fissando la relativa
scadenza; l'inadeguata motivazione è fonte di illegittimità del relativo
provvedimento.
I
termini possono essere prorogati per i casi di forza maggiore e per altri
motivi indipendenti dalla volontà dell'espropriante, ma sempre fissando la
relativa scadenza; l'inadeguata motivazione è fonte di illegittimità del
relativo provvedimento.
Non
può ammettersi una proroga implicita del termine per l'espropriazione, da
desumersi dalla sola proroga del termine per l'inizio ed il compimento dei
lavori
(Cons. St., sez. IV, 21.7.1997, n. 724, CS,
1997, 1008. Cons. St., sez. IV, 8.10.1985, n. 416, RGE, 1986, 189).
Solo in presenza di un accertato
sopravvenuto evento che abbia rappresentato un obiettivo impedimento al
completamento del procedimento ablatorio si può giustificare la proroga che
rappresenta altrimenti una ingiustificata ulteriore compressione al diritto dei
proprietari.
La proroga dei termini già scaduti
è illegittima poiché essa è in conflitto col principio costituzionale, fissato
dall’art. 42 cost., che prevede per la proprietà solo limiti a tempo determinato
o comunque oggetto di indennizzo.
E’, invece, esclusa la possibilità
di regolarizzazione di un provvedimento nel quale sia omessa l'indicazione dei
termini per l'inizio e il compimento dei lavori e delle procedure
espropriative.
L'atto
di approvazione del progetto dell'opera, in cui la dichiarazione di pubblica
utilità è implicita deve prevedere i termini, iniziali e finali, per
l'esecuzione dei lavori ed il compimento della procedura espropriativa, la cui
indicazione è imposta dall'art. 13, l. 25. 6.1865, n. 2359, senza possibilità
di successive indicazioni a sanatoria, al fine garantistico di non lasciare il
privato indefinitamente esposto alla vicenda ablatoria
(Cons. St., A. P., 26.8.1991, n. 6, RAm,
1991, 1800. Con. St., sez. IV, 15.4. 1997,
n. 395, FA, 1997, 1069. Cass. civ., Sez. U., 4.3.1997, n. 1907, RGE,
1997, 504).
L’atto amministrativo può
naturalmente essere rinnovato.
In tal caso la dichiarazione di
pubblica utilità deve contenere una nuova indicazione dei termini svincolati da
quelli originari; il suo rinnovo impone la riproduzione di tutti gli atti
successivi alla precedente dichiarazione, secondo l'ordine logico del
procedimento espropriativo, ma non anche di quelli precedenti.
La
reiterazione nelle forme di legge della dichiarazione di pubblica utilità
scaduta, ai sensi dell'art. 13, 3° co., l. 25.6.1865, n. 2359, deve avvenire
mediante il nuovo svolgimento del procedimento amministrativo strumentale alla
detta dichiarazione per tenere conto sia delle determinazioni di tutti gli organi
amministrativi legittimati ad interloquire, sia dell'attuale assetto dei luoghi
e degli eventuali mutamenti sopravvenuti alla dichiarazione divenuta inefficace
per scadenza dei termini
(Cons. St. sez. IV, 22.3.2001, n. 1683, GI,
2001, 1967).
Nel caso
di rinnovazione della dichiarazione di pubblica utilità, deve essere nuovamente
determinata ed offerta l'indennità provvisoria di espropriazione
(Trib.
sup. acque, 29.11.1997, n. 84, CS, 1997, II, 1829. Cons. St., sez. IV,
14.7.1997, n. 715, FA, 1997, 1941).
119.1. L’annullamento
della dichiarazione di p.u. Effetti.
LEGISLAZIONE:
l. 3.1.1978, n. 1, art. 1.
Il procedimento che dispone la
dichiarazione di p.u. è automaticamente impugnabile, senza necessità di
attendere il successivo decreto di espropriazione, la mancata impugnazione nei
termini rituali del provvedimento ne preclude le successive censure.
La
dichiarazione di pubblica utilità di un'opera (anche quando derivi
dall'approvazione del progetto esecutivo) è un provvedimento che lede i
proprietari delle aree interessate in quanto conferisce a tali aree il
carattere specifico di bene assoggettato al procedimento espropriativo,
condizione essenziale per la successiva espropriazione; pertanto non si tratta
di un atto meramente preparatorio ma di un provvedimento immediatamente lesivo
che va impugnato entro i consueti termini decadenziali
(T.A.R.
Trentino Alto Adige, sez. Trento, 14.6.2001, n. 407. T.A.R. Trentino Alto
Adige, sez. Trento, 2.5.2000, n. 141, CI, 2000, 1591).
Il ricorso è teso ad acclarare la
legittimità del procedimento di esproprio nella fase programmatoria che deve
essere seria ed attendibile.
E'
illegittima l'espropriazione di aree di proprietà privata non occorrenti alle
attuali esigenze di pubblico interesse ma finalizzate ad obiettivi di là da
venire per i quali non sussiste allo stato alcuna progettazione neppure di
larga massima e tanto meno l'impegno delle necessarie risorse finanziarie
(T.A.R.
Piemonte, sez. II, 4.4.1997, n. 180, FA, 1997, 3150).
Nell’impugnazione non si può
censurare il merito del provvedimento a meno che il vizio si manifesti nella
assoluta carenza di logicità delle scelte effettuate dall’amministrazione.
La
scelta delle aree da espropriare è rimessa all'apprezzamento della pubblica
amministrazione e non è sindacabile in sede di giurisdizione di legittimità,
salvo che il giudice non consideri l'illogicità ovvero l'inutilità ictu
oculi della scelta effettuata
(Cons. St., sez. IV, 14.7.1997, n. 715, CS,
1997, I, 1002).
La giurisprudenza ammette la
possibilità di verificare la disponibilità finanziaria dell’amministrazione al
fine della realizzazione dell’opera.
L'accertamento
da parte del giudice amministrativo dell'esistenza della necessaria copertura
finanziaria per la realizzazione di un'opera pubblica, desumibile
dall'imputazione della spesa in bilancio e dall'indicazione dello strumento per
il reperimento della somma, tende a verificare la possibilità o meno per la
p.a. di procedere all'esecuzione del progetto posto alla base della
dichiarazione di pubblica utilità
(Cons. St., sez. IV, 2.2.1998, n. 147, FA,
1998, 332).
Gli effetti dell’annullamento della
dichiarazione di pubblica utilità si riflettono sugli atti successivi del
procedimento che perdono di conseguenza efficacia, anche se non sono stati
impugnati.
La dichiarazione di pubblica
utilità dichiarata illegittima non può essere sanata, con effetti ex tunc,
mediante l'eliminazione dei vizi dai quali era affetta al momento della sua
emanazione.
L'annullamento
in sede giurisdizionale della dichiarazione di pubblica utilità dell'opera ha
effetti caducanti e non già invalidanti sugli atti ablatori successivamente
assunti, quali il decreto di occupazione o il decreto di espropriazione, anche
se non impugnati
(T.A.R.
Abruzzo, Pescara, 10.4.1997, n. 172, FA, 1997, 3214).
Il termine di impugnazione della
dichiarazione di pubblica utilità differisce a seconda che essa provenga ex
lege o sia esplicita.
Qualora venga approvato uno
strumento urbanistico la dichiarazione implicita di pubblica utilità deve
essere impugnata avendo a riferimento i termini per la approvazione, mentre nel
caso di dichiarazione esplicita il termine decorre dal momento della notifica
del provvedimento.
Il
termine per l'impugnazione, in ipotesi di dichiarazione di p.u. implicita -
approvazione del progetto di opera pubblica ai sensi e per gli effetti
dell'art. 1, l. 3.1.1978, n. 1 - non può che discendere dal momento della
effettiva e piena conoscenza dell'esistenza dell'atto deliberativo dichiarativo
della p.u. (e dell'indifferibilità ed urgenza delle opere), non già dalla sua
pubblicazione in quanto i proprietari espropriandi sono destinatari diretti e
determinati dell'atto che introduce la procedura ablatoria e vanno considerati,
quindi, soggetti direttamente contemplati nell'atto o provvedimento nel senso
di cui all'art. 2, r.d. 17.8.1907, n. 642
(T.A.R.
Puglia, sez. I, Bari, 30.5.1997, n. 375, FA, 1998, 555).
120. La cessione bonaria.
LEGISLAZIONE:
l. 865/1971, art. 12 - l. 10/1977, art. 4, 1° co., 14 - l. urb. 1150/1942, art.
5.
Il procedimento ablatorio può
concludersi con un contratto che sostituisce il procedimento, qualora
l’espropriando stipuli con l’amministrazione la cessione bonaria del bene,
ovvero con il procedimento ablatorio che porta ad una determinazione
contenziosa dell’indennità.
Le norme che determinano
l’indennità di esproprio sono fondamentali per comprendere i criteri che
regolano la misura dell’indennità da corrispondere in presenza di vincoli di
piano, vedi Cap. IV, n. 51.
L’art. 12, l. 865/1971, mod. art.
4, 1° co., l. 10/1977, ha disposto che il proprietario espropriando, entro
trenta giorni dalla notifica dell’avviso con cui è comunicato l’ammontare
dell’indennità provvisoria, ha diritto di convenire con l’espropriante la
cessione volontaria degli immobili per un prezzo non superiore al 50%
dell’indennità provvisoria.
L’importo, come si vede, non è
fissato in maniera precisa dal legislatore (Centofanti 2003 (3) 232).
Tale disposizione normativa ha
fatto sollevare dei dubbi sulla facoltà dell’amministrazione espropriante di sottrarsi
alle richieste dell’espropriando, qualora queste - pur rientrando nei limiti
fissati - siano state giudicate eccessive.
Rarissime sono le decisioni che
ritengono piena la discrezionalità dell’amministrazione di determinare
l’importo dell’indennità da offrire.
La
maggiorazione del 50% dell'indennità provvisoria prevista dall'art. 14, l.
28.11977, n. 10, non costituisce un diritto potestativo del soggetto
espropriato; pertanto, l'amministrazione, ove, tenuto conto che l'indennità
provvisoria va commisurata al valore dell'area e delle costruzioni che vi
insistono, ritenga che la detta indennità maggiorata del 50% non sia
conveniente, può rifiutare la cessione volontaria e dare seguito alla procedura
espropriativa
(Cons. St., sez. II, 23.1.1980 n. 212, RGE,
1982, I, 144).
La giurisprudenza precedente
all’entrata in vigore del t.u. espr., invece, sostiene l’obbligo
dell’amministrazione di giungere alla cessione ritenendo il limite imposto dal
legislatore come fonte di un diritto per l’espropriando.
La
denuncia da parte dell'espropriando di omissioni o vizi della fase
procedimentale successiva all'offerta dell'indennità provvisoria e concernenti
la determinazione dell'indennità definitiva in sede amministrativa, che si
siano tradotti in un impedimento all'esercizio della facoltà di convenire la
cessione volontaria del bene a norma dell'art. 12 della l. 22.10.1971, n. 865,
si ricollega a posizioni di diritto soggettivo, stante la stretta connessione
delle regole procedimentali che si assumono violate con la determinazione della
indennità e con il presupposto legittimante il potere ablativo della
amministrazione, e spetta quindi alla giurisdizione del giudice ordinario, nel
cui potere rientra il sindacato incidentale sulla legittimità dell'operato
dell'amministrazione
(Cass. civ., Sez. U., 29.11.1986, n. 7080, GCM,
1986).
La dottrina è su tali posizioni;
essa ritiene fondamentale la scelta del legislatore di fissare nel triplo
l’ammontare dell’indennità di cessione volontaria nel caso in cui l'area sia di
proprietà del coltivatore diretto, senza possibilità di deroga.
La
dizione adoperata dal legislatore, secondo cui l’espropriando ha diritto di
convenire la cessione volontaria per un prezzo superiore del 50% dell’indennità
provvisoria, non contiene un riferimento ad un importo rigidamente
predeterminato.
La
norma in esame se da un lato attribuisce al proprietario la facoltà di
convenire la cessione volontaria, dall’altro lato, non sembra lasciare alcun
dubbio per una contrattazione fra espropriante ed espropriato nella misura
della maggiorazione, ovvero sulla possibilità di non concedere nessun
incremento sulla somma offerta
(Leone
e Marotta 1997, 373).
L’impostazione
è ribadita dall’art. 45, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, che predetermina in maniera
chiara l’ammontare del corrispettivo (De Marzo 2002, 189).
La norma, come afferma il Consiglio
di Stato, mira ad estendere per quanto è possibile la figura della cessione
volontaria per evidenti intenti deflativi (Cons. Stato, AG, par. 29.3.2001).
Se il proprietario accetta la
determinazione della indennità provvisoria, l’amministrazione espropriante è
obbligata a concludere l'accordo di cessione del bene.
9. Il
beneficiario dell'esproprio ed il proprietario stipulano l'atto di cessione del
bene qualora sia stata condivisa la determinazione della indennità di
espropriazione e sia stata depositata la documentazione attestante la piena e
libera proprietà del bene. Nel caso in cui il proprietario percepisca la somma
e si rifiuti di stipulare l'atto di cessione del bene, può essere emesso senza
altre formalità il decreto di esproprio, che dà atto di tali circostanze, e può
esservi l'immissione in possesso, salve le conseguenze risarcitorie
dell'ingiustificato rifiuto di addivenire alla stipula.
(art. 20, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, sost. art. 1,
lett. r), d.lg. del 27.12.2002, n. 302).
La dottrina inquadra tale atto come
un contratto pubblico, classificandolo come ausiliario al provvedimento
amministrativo, poiché, in tal caso, il provvedimento amministrativo ablatorio
rimane solo eventuale, ossia se ne fa ricorso unicamente nel caso di mancata
stipulazione della cessione.
Qualora l'accordo bonario non si
perfezioni il procedimento riprende il suo iter dall'ultimo atto ossia
l’amministrazione procede al pagamento delle indennità accettate ed al deposito
delle altre indennità presso la Cassa Depositi e Prestiti.
Il proprietario ha il diritto
soggettivo di essere invitato all'accordo bonario, ma lo deve esercitare, pena
la decadenza, nei termini fissati.
L'accordo sostituisce il successivo
procedimento amministrativo poiché la pubblica amministrazione realizza il suo
scopo non tanto attraverso la sua potestà autoritativa, ma attraverso un
accordo con il destinatario soggetto passivo dell'azione amministrativa.
La riscossione dell'indennità di
espropriazione in base a cessione volontaria comporta la preclusione di ogni
pretesa sia riguardo al prezzo del terreno ceduto sia in relazione al degrado
della parte residua del terreno sia, infine, per quanto attiene ad ulteriori
ripercussioni patrimoniali sfavorevoli sull'attività lavorativa interrotta
dall'azione espropriativa, salva l'azione di rescissione in caso di abuso dello
stato di bisogno del privato (Trib. sup.re acque, 14.10.1992, n. 74, CS,
1992, II, 1541).
La dottrina evidenzia la
contraddittorietà del fatto di consentire la cessione volontaria di un bene già
oggetto del decreto di esproprio.
Sembra
si sia trattato di un lapsus calami: infatti, non pare possibile cedere
un bene che già sia stato espropriato, in quanto il proprietario ha perduto
disponibilità e titolarità sul bene in questione, viceversa, sembra che la
finalità dell’estensore della norma sia stata quella di consentire al
proprietario espropriato di non perdere i benefici derivanti dall’accettazione
dell’indennità, consentendogli di concordare l’ammontare della stessa fin
quando non sia eseguito il decreto di esproprio
(Leone
2001, 309).
Le ragioni di celerità
procedimentali e di rinuncia ad eventuali ricorsi giurisdizionali sembrano
superate con l’emanazione del decreto di esproprio.
120.1. Il corrispettivo
dell’atto di cessione. L’area edificabile. La costruzione
edificata.
LEGISLAZIONE:
d.p.r. 6.6.2001, n. 380, artt. 30, 31, 3° co. - d.p.r. 8.6.2001, n. 327, artt. 37,
38, 45, 2° co., lett. a), b) - d.lg. 27.12.2002, n. 302, art. 1, 1° co., lett.
mm).
I benefici economici sono previsti
dall’art. 45, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, che fissa la determinazione del
corrispettivo dell’accordo di cessione in relazione a quattro situazioni nelle
quali può trovarsi l’area oggetto del procedimento ablatorio:
1) area edificabile;
2) costruzione edificata;
3) area non edificabile;
4) area non edificabile coltivata
direttamente dal proprietario.
La classificazione è tassativa e,
pertanto, non è da ravvisarsi un criterio di determinazione diverso da quelli
previsti nei quali deve farsi rientrare necessariamente ogni ipotesi possibile.
Per ogni situazione il legislatore
stabilisce un diverso criterio di determinazione del corrispettivo.
2. Il
corrispettivo dell'atto di cessione:
a) se
riguarda un'area edificabile, è calcolato ai sensi dell'articolo 37, senza la
riduzione del quaranta per cento;
b) se
riguarda una costruzione legittimamente edificata, è calcolato nella misura
venale del bene ai sensi dell'articolo 38;
c) se
riguarda un'area non edificabile, è calcolato aumentando del cinquanta per
cento l'importo dovuto ai sensi dell'articolo 40, comma 3;
d) se
riguarda un'area non edificabile, coltivata direttamente dal proprietario, è
calcolato moltiplicando per tre l'importo dovuto ai sensi dell'articolo 40,
comma 3. In tale caso non compete l'indennità aggiuntiva di cui all'articolo
40, comma 4. (L)
3.
L'accordo di cessione produce gli effetti del decreto di esproprio e non li
perde se l'acquirente non corrisponde la somma entro il termine concordato. (L)
4. Si
applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del capo X. (L)
(art. 45, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, mod. art. 1,
1° co., lett. mm), d.lg. 27.12.2002, n. 302).
1) Il beneficio di maggiore effetto
si realizza nel caso di cessione di area edificabile.
Nel caso di accettazione del valore
dell’indennità non ha luogo la riduzione del 40% che segue alla mancata
accettazione dell’indennità provvisoria proposta, ex art. 45, 2° co., lett. a),
d.p.r. 8.6.2001, n. 327.
L’accettazione
consente di ottenere un beneficio diretto sulla formula che determina
l’indennità di esproprio.
L’indennità
di espropriazione di un’area edificabile è determinata, infatti, ex art. 37,
d.p.r. 8.6.2001, n. 327, nella misura pari all’importo, diviso per due e
ridotto del quaranta per cento, equivalente alla somma del valore venale del
bene e del reddito dominicale netto, rivalutato ai sensi degli artt. 24 ss.,
d.lg. 22.12.1986, n. 917, e moltiplicato per dieci.
2) Nell’ipotesi di indennizzo riguardante
una costruzione legittima, compete il valore venale della costruzione, ex art.
45, 2° co., lett. b), d.p.r. 8.6.2001, n. 327.
La norma riproduce il criterio per
la determinazione dell’indennizzo di esproprio previsto dall’art. 38, d.p.r.
8.6.2001, n. 327, che, nel caso di espropriazione di un’area edificata, fissa
l’indennità in misura pari al valore venale dell’immobile.
La dottrina rileva che non vi è
incentivo nella cessione volontaria di costruzioni perché il corrispettivo è
identico a quello che si ottiene subendo il decreto di esproprio (Caringella,
De Marzo, De Nictolis e Maruotti 2002, 662).
La soluzione appare armonica al
sistema legislativo vigente anche se il criterio è inidoneo a rappresentare un
reale incentivo alla cessione bonaria, visto che le conseguenze economiche per
l’espropriato sono uguali a quelle previste dal calcolo dell’indennità di
esproprio (Cons. Stato, AG, par., 29.3.2001).
La disposizione conferma
implicitamente l’interpretazione dell’art. 12, l. 865/1971; essa sosteneva che
la parola immobili, usata dal legislatore, era da riferirsi alle sole aree
edificabili o agricole e non alle costruzioni (Forlenza 2001, 83).
Il criterio espressamente prevede
la legittimità della costruzione ossia essa deve essere edificata sulla base di
un idoneo provvedimento abilitativo, o quanto meno deve essere stata oggetto di
condono edilizio.
In ogni caso l’art. 37, 3° co.,
d.p.r. 6.6.2001, n. 380, esclude tassativamente che debba corrispondersi
l’indennità per le costruzioni costruite abusivamente.
Le opere abusive non oggetto di
condono devono essere, infatti, acquisite al patrimonio del comune attraverso
il procedimento disposto dall'art. 7 della l. 47/1985, sost. art. 31, d.p.r.
6.6.2001, n. 380.
Oggetto del provvedimento di
acquisizione sono le opere abusivamente eseguite su terreni sottoposti a
vincolo di inedificabilità e le opere eseguite in totale difformità dalla
concessione, ora permesso di costruire, che comportano la realizzazione di un
organismo edilizio diverso da quello indicato nel provvedimento o che abbia
subito varianti cosiddette essenziali rispetto al progetto approvato, così come
determinato dalle regioni.
Sono oggetto di acquisizione,
inoltre, le aree lottizzate senza autorizzazione, ai sensi dell’art. 30, d.p.r.
6.6.2001, n. 380.
L'oggetto dell'acquisizione, in
carenza di concessione, può comprendere l'area di pertinenza per una estensione
che raggiunga fino a dieci volte la complessiva superficie abusivamente
realizzata, ex art. 31, 3° co., d.p.r. 6.6.2001, n. 380.
Se l’area deve essere acquisita
ovviamente non può essere ceduta dal proprietario a fronte di un impegno
finanziario per l’amministrazione procedente.
Né, in pratica, l’ipotesi è
possibile poiché l’amministrazione comunale è tenuta alla repressione
dell’abusivismo in tempi perentori che non possono essere successivi
all’intervento contro l’abusivismo.
120.2. L’area non
edificabile. La coltivazione da parte del proprietario.
LEGISLAZIONE: d.p.r. 8.6.2001, n.
327, artt. 40, 1° co., 45, 2°, lett. c),
d), 3° co., - d.lg. 27.12.2002, n. 302, art. 1, 1° co., lett. mm).
Le ipotesi di area non edificabile
impongono un indennizzo diverso a seconda che l’area sia coltivata o meno da
parte del proprietario.
3) Nel caso di indennizzo
riguardante un’area non edificabile, il valore agricolo, di cui all’art. 40,
d.p.r. 8.6.2001, n. 327, è aumentato del 50 per cento, ex art. 45, 2° co.,
lett. c), d.p.r. 8.6.2001, n. 327, mod. art. 1, 1° co., lett. mm., d.lg.
27.12.2002, n. 302.
Ove l’area comprenda anche dei
fabbricati la dottrina ritiene che questi vadano valutati considerando il loro
valore venale senza alcuna maggiorazione, per non contrastare con l’ipotesi
precedentemente esaminata.
Nell’esame
di questa norma è stato rilevato che essa non potrebbe trovare applicazione in
caso di aree sulle quali insistono manufatti, come l’art. 40, d.p.r. 8.6.2001,
n. 327, ammette. Se non si facesse applicazione del valore venale, a norma
entrerebbe in contrasto con la lett. b) dell’art. 45.
Tuttavia,
l’esistenza di manufatti non rende le aree legalmente edificabili, mentre
sembra che la previsione di cui alla lett. b) aspiri a codificare
l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, sempre che sussista il
requisito legale dell’edificabilità dell’area – che nella specie implica essenzialmente
la regolarità della costruzione – esclude l’indennizzabilità dei fabbricati
dall’ambito di applicazione dell’art. 5 bis, l. 359/1992. In conclusione, se
l’area ceduta non è legalmente qualificabile come edificabile, il corrispettivo
va determinato alla stregua del valore agricolo, ex art. 40, 1° co., d.p.r.
8.6.2001, n. 327, o del valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura
prevalente nella zona, tenendo conto dei manufatti sempre che siano stati
legittimamente realizzati, ex art. 40, 2° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327
(Caringella,
De Marzo, De Nictolis e Maruotti 2002, 662).
4) Nel caso di indennizzo
riguardante un’area non edificabile coltivata dal proprietario, il valore
agricolo è moltiplicato per tre, ex art. 45, 2° co., lett. d), d.p.r. 8.6.2001,
n. 327.
L’importo dovuto ai sensi dell’art.
40, 1° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327, è pari al valore agricolo del fondo.
La dottrina nota la differenza
della dizione legislativa dal precedente art. 17, l. 865/1971, che,
disciplinando la stessa fattispecie, fissava come indennizzo il valore agricolo
medio.
In
tema di espropriazione per pubblica utilità, la triplicazione dovuta in caso di
cessione dell'immobile al proprietario che sia anche coltivatore diretto del
fondo, ex art. 17, 1° co., l. 865 del 1971, deve essere applicata sulla sola
indennità dovuta per il terreno e calcolata con il criterio tabellare di cui
all'art. 16, l. 865 del 1971.
(Cass.
civ., sez. I, 8.8.2001, n. 10930, GCM, 2001, 1569).
Essa propone una interpretazione correttiva
in tal senso della norma.
L’art. 17, l. 865/971, indicava che
l’indennità provvisoria doveva essere determinata dalla commissione, ex art.
16, 4° co., l. 865/971, facendo riferimento al valore agricolo medio, nel
precedente anno, dei terreni considerati liberi da vincoli di contratti agrari,
corrispondente al tipo di coltura in atto nell’area da espropriare.
Mentre,
pertanto, nel sistema della l.865/1971, la triplicazione assumeva come base di
computo il valore agricolo medio, l’art. 45, 2° co., lett. d), d.p.r. 8.6.2001,
n. 327, triplica l’importo dovuto ai sensi dell’art. 40, 1° co., che ha
riguardo al valore agricolo tout court.
Il
che ci sembra finisce per realizzare, prima ancora che un incentivo
sproporzionato per l’espropriato, una sicura (e a nostro avviso non consentita)
innovazione sostanziale dei criteri indennitari
(Caringella,
De Marzo, De Nictolis e Maruotti 2002, 663).
L’art. 45, 3° co., d.p.r. 8.6.2001,
n. 327, ha inteso rafforzare gli effetti dell’accordo di cessione affermando
testualmente che sono gli stessi del decreto di esproprio.
Sicuramente il legislatore ha
esagerato in quanto gli effetti ablatori della cessione volontaria si
realizzano anche qualora, dopo l’accettazione del proprietario, l’espropriante
non versi il corrispettivo concordato, mentre è noto che il decreto di
esproprio non può essere emanato senza che esso dia conto del deposito
dell’indennità a fronte della mancata accettazione da parte del soggetto
passivo del procedimento, anche se la dottrina dubita che la norma sia in linea
con i principi generali.
Se da
un punto di vista sostanziale si avverte l’opportunità di assoggettare ad una
regolamentazione tendenzialmente uniforme gli effetti del decreto di esproprio
e quelli della cessione volontaria, tenuto conto della causa specifica di
quest’ultima, dal punto di vista formale è dubbio che l’intervento del d.p.r.
327/2001, sia in linea con i limiti del potere normativo attribuito al governo
(De
Marzo 2002, 192).
Il parere del Consiglio di Stato
giustifica pienamente la scelta normativa che rafforza gli effetti
dall’adesione del proprietario; essa dimostra che ogni suo diritto si sposta
sul pagamento del corrispettivo.
L’art.
45, 3° co., d.p.r. 327/2001, intende evitare le questioni, sorte in dottrina ed
in giurisprudenza, sulla natura dell’accordo e sull’esperibilità dell’azione di
risoluzione dell’accordo nel caso di inadempimento, con la distinzione degli
aspetti pubblicistici da quelli attinenti al pagamento della somma dovuta
(Cons.
St., par. 29.3.2001).
L’interpretazione giurisprudenziale
è stata invece sinora contraria riconoscendo addirittura in caso di mancato
pagamento una azione restitutoria non solo nei confronti dell’espropriante, ma
anche del terzo che abbia ricevuto il bene dall’amministrazione.
Si pensi ad esempio ad un’area di
piano di zona assegnata ad una cooperativa senza che sia stato pagato il
corrispettivo all’espropriato.
L'annullamento
di un accordo di cessione nell'ambito di procedura espropriativa di un
determinato bene, per errore in ordine ai criteri legali di determinazione del
corrispettivo, integra una situazione di indebito oggettivo, fonte autonoma di
obbligo restitutorio, che prescinde dal titolo annullato, ed impone, in caso di
alienazione del bene dell'ente espropriante a un terzo, ai sensi dell'art. 2038
c.c., l'accertamento della buona fede dell'accipiens indipendentemente
dal giudicato di annullamento basato sull'errore bilaterale.
Nella
specie, si è ritenuto che l'errore dell'amministrazione comunale
nell'applicazione dei criteri per l'indennità di esproprio non escluda che
l'ignoranza sia dipesa da mala fede, tenuto conto dell'importanza rivestita
dalla questione delle espropriazioni per le amministrazioni comunali, e dunque
della necessaria conoscenza delle fonti legislative
(Cass.
civ., sez. I, 17.4.1993, n. 4553, FI, 1994, I, 1752).
121. L’indennità di
esproprio per le aree edificabili.
LEGISLAZIONE: d.lg. 22.12.1986, n. 917, art. 24
- l. 359/1992, art. 5 bis
-
d.p.r. 8.6.2001, n. 327, artt. 32, 37, 1° e 2° co.
Il d.p.r. 8.6.2001, n. 327,
determina il sistema del calcolo dell’indennità, seguendo le indicazioni
giurisprudenziali che hanno dichiarato incostituzionale il sistema di
indennizzo basato sul valore agricolo medio formulato dalla l. 865/1971
(Centofanti 2003 (3) 295).
Rimane, quindi, la distinzione,
introdotta in via provvisoria dall’art. 5 bis della l. 359/1992, fra aree
edificabili e aree non edificabili.
L’indennità
di espropriazione di un’area edificabile è determinata nella misura pari
all’importo, diviso per due e ridotto del quaranta per cento, equivalente alla
somma del valore venale del bene e del reddito dominicale netto, rivalutato ai
sensi degli artt. 24 ss., d.lg. 22.12.1986, n. 917, e moltiplicato per dieci,
art. 37, d.p.r. 8.6.2001, n. 327.
1.
L'indennità di espropriazione di un'area edificabile è determinata nella misura
pari all'importo, diviso per due e ridotto nella misura del quaranta per cento,
pari alla somma del valore venale del bene e del reddito dominicale netto,
rivalutato ai sensi degli artt. 24 e seguenti del decreto legislativo
22.12.1986, n. 917, e moltiplicato per dieci. (L)
(art.
37, 1° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327).
La Corte costituzionale non ha
accolto la dichiarazione di incostituzionalità della riduzione del 40% fissata dall'art.
5 bis, 1° e 2° co., l. 8.8.1992, n. 359, nella parte in cui impone
l'abbattimento del 40% dell'indennità di espropriazione per il solo fatto
dell’instaurazione del giudizio teso alla determinazione dell’indennità, vedi
par. prec.
La norma, invece, prevede che la
riduzione non si applichi, oltre che nel caso di accettazione dell’indennità da
parte dell’espropriando, qualora la cessione non sia stata conclusa per fatto
non imputabile al proprietario o perché a questo sia stata offerta una indennità
provvisoria che, attualizzata, risulti inferiore agli otto decimi di quella
determinata in via definitiva.
2. La
riduzione di cui al comma 1 non si applica se sia stato concluso l'accordo di
cessione o se esso non sia stato concluso per fatto non imputabile
all'espropriato o perché a questi sia stata offerta una indennità provvisoria
che, attualizzata, risulti inferiore agli otto decimi di quella determinata in
via definitiva. (L)
(art.
37, 2° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327).
Rimane la riduzione dell’indennità
nei limiti della dichiarazione ICI.
Principio fondamentale in materia
di indennità di espropriazione, dettato dall'art. 42, l. 25.6.1865, n. 2359,
ora sost. art. 32, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, è che l’indennità deve rimanere
insensibile al fenomeno dell'espropriazione e non può, quindi, risentire né
degli aumenti né delle diminuzioni di valore del terreno, dipendenti proprio
dall'espropriazione o dall'esecuzione dell'opera pubblica costituente titolo
per l'esproprio.
1.
Salvi gli specifici criteri previsti dalla legge, l'indennità di espropriazione
è determinata sulla base delle caratteristiche del bene al momento dell'accordo
di cessione o alla data dell'emanazione del decreto di esproprio, valutando
l'incidenza dei vincoli di qualsiasi natura non aventi natura espropriativa e
senza considerare gli effetti del vincolo preordinato all'esproprio e quelli
connessi alla realizzazione dell'eventuale opera prevista, anche nel caso di
espropriazione di un diritto diverso da quello di proprietà o di imposizione di
una servitù. (L)
2. Il
valore del bene è determinato senza tenere conto delle costruzioni, delle
piantagioni e delle migliorie, qualora risulti, avuto riguardo al tempo in cui
furono fatte e ad altre circostanze, che esse siano state realizzate allo scopo
di conseguire una maggiore indennità. Si considerano realizzate allo scopo di
conseguire una maggiore indennità le costruzioni, le piantagioni e le migliorie
che siano state intraprese sui fondi soggetti ad esproprio dopo la
comunicazione dell'avvio del procedimento. (L)
3. Il
proprietario, a sue spese, può asportare dal bene i materiali e tutto ciò che
può essere tolto senza pregiudizio dell'opera da realizzare. (L)
(art.
32, d.p.r. 8.6.2001, n. 327).
Il valore deve essere determinato
con riferimento alla data del decreto di espropriazione, senza tenere conto
degli incrementi derivanti dalla presenza di infrastrutture, opere od impianti
realizzati o da realizzare appunto per l’esecuzione dell'opera cui
l'espropriazione stessa è preordinata (Cass. civ., sez. I, n. 798/1990)
Quanto al momento temporale cui si
deve fare riferimento per la determinazione dell'indennità, bisogna aver
riguardo al valore venale del terreno all’epoca dell'espropriazione, depurato
dalla quota di esso che, sempre in quel momento, sia da attribuire alla
presenza di opere o di infrastrutture realizzate o da realizzare per
l'esecuzione dell'opera pubblica.
Non è tanto rilevante, ai fini
della detrazione, il costo in sé delle opere, quanto l'aumento di valore del
fondo determinatosi, alla data di riferimento, a seguito della loro esecuzione.
Anche a volere considerare la spesa
per le opere medesime, in quanto ritenuta specularmente corrispondente
all'aumento di valore avuto dal fondo, il costo da considerare non può essere
che quello determinatosi alla data del decreto di espropriazione.
In
tema di criteri per la determinazione dell'indennità d'espropriazione, il
tenore letterale dell'art. 5 bis della l. 359 del 1992 nella parte in cui
prevede che ai fini della valutazione dell'edificabilità delle aree si deve
fare riferimento "al momento dell'apposizione del vincolo preordinato
all'esproprio" intende solo riaffermare il principio dell'irrilevanza del
vincolo espropriativo ai fini dell'accertamento del valore del bene.
Esso,
pertanto, non opera uno spostamento nel tempo del momento al quale bisogna aver
riguardo per determinare il valore del bene; momento che resta fissato in
quello dell'emissione del decreto d'espropriazione - non del decreto
d'occupazione - siccome bisogna tenere conto delle caratteristiche dell'area
espropriata allorquando il proprietario ne è privato, senza che possano avere
influenza gli aumenti o le diminuzioni del valore del suolo dipendenti
dall'espropriazione o dalla realizzazione dell'opera pubblica, vedi Corte cost.
n. 283 e 442 del 1993
(Cass. civ., sez. I, 15.1.2000, n. 425, GCM,
2000, 69).
122. Le possibilità
legali ed effettive di edificazione.
LEGISLAZIONE: l. 359/1992, art. 5 bis, 3° co. -
d.p.r. 8.6.2001, n. 327, art. 37, 3° e 4° - d.lg. 302/2002, art. 1, 1° co.,
lett. ee), n. 1.
Il legislatore non ha risolto con
l’art. 5 bis, 3° co., l. 359/1992, il problema del riconoscimento della qualità
edificatoria alla edificabilità legale, ossia alla possibilità di edificare
prevista dagli strumenti urbanistici, o alla edificabilità di fatto ossia alla
possibilità di edificazione valutata in rapporto all’esistenza nella zona delle
principali infrastrutture (Caringella e De Marzio 1997, 39).
Ove il piano regolatore o il
programma di fabbricazione o altri strumenti equivalenti prevedano l'edificabilità
della zona in cui è ubicato l'immobile, siffatta destinazione legale è
sufficiente ad imprimere allo stesso detta qualità (Cass. civ., sez. I,
19.9.2000, n. 12408, GCM, 2000, 1956).
La qualifica è attribuita
indipendentemente da ogni valutazione delle condizioni di fatto, che assumono
rilevanza nella sede di determinazione dell’indennità di esproprio, quali, ad
esempio, le particolari caratteristiche dell’area - ossia la posizione nella
quale essa si colloca nel contesto urbano, le prescrizioni in materia di
distanze da costruzioni od opere pubbliche - il rispetto stradale e l’esistenza
di opere di urbanizzazione.
Sotto il profilo temporale non vi è
dubbio che l’edificabilità debba essere rapportata alla disposizione di piano
vigente al momento del procedimento di esproprio:
Premesso
che il momento di riferimento per la determinazione dell'indennità di esproprio
è quello della data del decreto di esproprio, agli effetti della
classificazione del suolo come edificabile o non edificabile, e dell'individuazione
della normativa applicabile, va tenendo conto della disciplina urbanistica
all'epoca vigente.
Ne
consegue l'irrilevanza della pregressa approvazione di un piano di
lottizzazione, ove l'amministrazione abbia adottato in prosieguo differenti scelte
urbanistiche, delle quali deve tenersi conto, se vigenti alla data del decreto
di esproprio
(Cass. civ., sez. I, 2.9.1998, n. 8702, GCM,
1998, 1834).
Il
criterio dell'edificabilità di fatto ricorre in difetto della disciplina
legale, in assenza cioè di un vigente piano regolatore generale o in caso di
decadenza del vincolo quinquennale.
In
tema di espropriazione per pubblica utilità, ai fini della valutazione
dell'edificabilità di un'area, le possibilità legali ed effettive di
edificazione previste dall'art. 5 bis, l. 359 del 1992 non devono e non possono
logicamente coesistere, avendo il suddetto articolo prospettato invece due
distinte situazioni.
Una,
principale, in cui l'edificabilità deriva dall'esistenza di una
regolamentazione legale dell'assetto urbanistico, dalla cui osservanza discende
la condizione di legalità, e l'altra, secondaria, relativa alle aree comprese
in comuni sprovvisti di strumento urbanistico e situate fuori dal perimetro del
centro edificato, dove l'edificabilità può essere valutata solo di fatto
secondo gli indici elaborati dalla giurisprudenza e dalla tecnica estimatoria.
Pertanto,
anche in seguito all'art. 5 bis, l. n. 359 del 1992, può essere valutata
l'edificabilità di fatto di un'area, purché, pur in assenza di uno strumento
urbanistico adottato o approvato, tale edificabilità risulti comunque
compatibile con le generali scelte urbanistiche
(Cass. civ., sez. I, 17.9.1997, n. 9242, GCM,
1997, 1732).
Anche
il il t.u. espr. ribadisce che l’area si intende edificabile se sussistono
possibilità legali ed effettive di edificazione, valutandone le caratteristiche
oggettive.
3. Ai
soli fini dell'applicabilità delle disposizioni della presente sezione, si
considerano le possibilità legali ed effettive di edificazione, esistenti al
momento dell'emanazione del decreto di esproprio o dell'accordo di cessione. In
ogni caso si esclude il rilievo di costruzioni realizzate abusivamente. (L)
4.
Salva la disposizione dell'articolo 32, comma 1, non sussistono le possibilità
legali di edificazione quando l'area è sottoposta ad un vincolo di
inedificabilità assoluta in base alla normativa statale o regionale o alle
previsioni di qualsiasi atto di programmazione o di pianificazione del
territorio, ivi compresi il piano paesistico, il piano del parco, il piano di
bacino, il piano regolatore generale, il programma di fabbricazione, il piano attuativo
di iniziativa pubblica o privata anche per una parte limitata del territorio
comunale per finalità di edilizia residenziale o di investimenti produttivi,
ovvero in base ad un qualsiasi altro piano o provvedimento che abbia precluso
il rilascio di atti, comunque denominati, abilitativi della realizzazione di
edifici o manufatti di natura privata. (L)
(art.
37, d.p.r. 8.6.2001, n. 327).
Le caratteristiche
dell’edificabilità di fatto sono valutate in base alle effettive possibilità di
edificazione fino alla redazione del regolamento demandato al Ministero delle
infrastrutture e trasporti, art. 37, 5° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327, mod. art.
1, 1° lett. ee), n. 1.
In carenza di regolamento valgono i
criteri interpretativi fissati dalla giurisprudenza.
5. I
criteri e i requisiti per valutare l'edificabilità di fatto dell'area sono
definiti con regolamento da emanare con decreto del Ministro delle
infrastrutture e trasporti. (L)
6.
Fino alla data di entrata in vigore del regolamento di cui al comma 5, si
verifica se sussistano le possibilità effettive di edificazione, valutando le
caratteristiche oggettive dell'area. (L)
(art. 37, 5° e 6° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327,
- d.lg. 302/2002, , art. 1, 1° co., lett. ee), n. 1).
Le
possibilità legali di edificazione non sussistono qualora l’area sia sottoposta
a inedificabilità assoluta in base alla normativa o ad un atto di
pianificazione territoriale, art. 37, 4° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327.
L’area può appartenere solo a
queste due categorie: o è edificabile o non lo è.
Ne consegue che non può essere
classificata come edificabile un'area che gli strumenti urbanistici non
preordinati alla espropriazione assoggettino a vincolo di inedificabilità, o
alla quale gli stessi attribuiscano destinazione agricola, dovendo, in tal
caso, la relativa indennità di espropriazione essere determinata secondo il
criterio agricolo.
L’edificabilità deve essere esclusa
in presenza di vincoli d'inedificabilità ovvero di destinazione agricola
contemplati dagli strumenti urbanistici.
L'art. 5 bis, 3° co., della l. n.
359 del 1992, introduce il precetto che non può essere classificata come
edificabile un'area che gli strumenti urbanistici non preordinati
all'espropriazione - come un piano regolatore generale - assoggettino a vincolo
di inedificabilità, ad esempio a verde pubblico o a zona agricola,
precludendone in tal modo le possibilità legali di edificazione.
Il
carattere edificatorio del fondo espropriato non è desumibile dalla mera
edificabilità di fatto, occorrendo che questa si armonizzi con la edificabilità
di diritto, e deve essere escluso in presenza di vincoli di inedificabilità,
ovvero di destinazione agricola, contemplati dagli strumenti urbanistici.
La
Suprema corte ha così cassato la sentenza del giudice di merito che aveva
ritenuto l'area edificabile, nonostante essa fosse destinata dagli strumenti
urbanistici a zona agricola o di servizio, senza tenere quindi conto del
contestuale criterio dell'edificabilità di diritto
(Cass.
civ., sez. I, 11.12.1996, n. 11037, FI, 1997, 814. Cass. civ., sez. I,
10.4.1998, n. 3717, GCM, 1998, 784. Cass.
civ., sez. I, 16.5.1998, n. 4921, GCM, 1998, 1052).
123. L’indennità prevista
per le aree non edificabili.
LEGISLAZIONE: d.p.r. 8.6.2001, n. 327, art. 40,
41, 4° co. - d.lg. 302/2002, art. 1, 1° co., lett. ee), n. 1.
Sono considerate come aree non
edificabili, oltre alle aree agricole, quelle colpite da vincolo di
inedificabilità assoluta - quelle, ad esempio, destinate a verde nel piano
regolatore generale anche qualora ad esse sia attribuito un modesto indice di
fabbricazione per la realizzazione di strutture di servizio al verde. Tale
qualifica riveste secondo la giurisprudenza, un’area che sia espropriata per la
realizzazione di un parco comunale, con progetto approvato, costituente vincolo
preordinato all'esproprio (Cass. civ., sez. I, 16.11.2000, n. 14851, GCM,
2000, 2343).
I terreni non legalmente
edificabili, anche se suscettibili di una utilizzazione differente da quella
agricola, devono essere valutati secondo parametri omogenei a quelli adottati
per i terreni agricoli, non potendosi più sostenere, a seguito dell'intervento
della Corte costituzionale con la sentenza n. 261 del 1997, la esistenza di un tertium
genus, oltre quelli delle aree edificabili e delle aree agricole.
Sono
considerate come aree non edificabili quelle colpite da vincolo di
inedificabilità assoluta, oltre che le aree agricole, quelle, ad esempio,
destinate a verde nel piano regolatore generale anche qualora ad esse sia
attribuito un modesto indice di fabbricazione per la realizzazione di strutture
di servizio al verde, che sia espropriata per la realizzazione di un parco
comunale, con progetto approvato, costituente vincolo preordinato all'esproprio
(Cass. civ., sez. I, 16.11.2000, n. 14851, GCM, 2000, 2343).
Non
assume, di per sé, alcun rilievo la circostanza che i terreni non legalmente edificabili,
originariamente compresi, in base agli strumenti urbanistici, nella Zona E
agricola, abbiano successivamente ottenuto, in sede di variante al p.r.g.,
l'attribuzione della destinazione urbanistica Fb attrezzature di interesse
comprensoriale, nel caso che tali attrezzature non siano idonee a far sorgere
possibilità legali di edificazione, in assenza, tra l'altro, di un piano
comunale particolareggiato
(Cass. civ., sez. I, 15.2.2000, n. 1684, GCM,
2000, 342).
Qualora l'area espropriata non sia
integralmente compresa nella zona omogenea di espansione urbana, rientrando
parzialmente nella contigua zona a destinazione agricola, non può riconoscersi,
valorizzando la situazione di fatto, anche per quest'ultima porzione il
carattere decisamente edificatorio.
La giurisprudenza afferma che la
zonizzazione degli strumenti urbanistici conforma il diritto di proprietà delle
aree comprese nelle differenziate zone omogenee, anche in funzione della
capacità edificatoria dei suoli.
Ai
fini della determinazione dell'indennità di espropriazione, non può essere
riconosciuta l'edificabilità di un'area (valutata in rapporto a speciali
condizioni di fatto) in contrasto con la disciplina urbanistica che neghi una
tale utilizzazione del suolo, soccorrendo il criterio dell'edificabilità di
fatto soltanto in difetto della disciplina legale, in assenza cioè di un
vigente piano regolatore generale
(Cass. civ., sez. I, 9.6.2000, n. 7874, GC,
2000, 1258).
L’art. 40, d.p.r. 8.6.2001, n. 327,
distingue, nell’ambito delle aree non edificabili, quelle coltivate dalle
altre.
1.
Nel caso di esproprio di un'area non edificabile, l'indennità definitiva é
determinata in base al criterio del valore agricolo, tenendo conto delle
colture effettivamente praticate sul fondo e del valore dei manufatti edilizi
legittimamente realizzati, anche in relazione all'esercizio dell'azienda
agricola, senza valutare la possibile o l'effettiva utilizzazione diversa da
quella agricola. (L)
2. Se
l'area non è effettivamente coltivata, l'indennità è commisurata al valore
agricolo medio corrispondente al tipo di coltura prevalente nella zona ed al
valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati. (L)
3. Il
criterio di cui al comma 2 si applica anche per la determinazione
dell'indennità provvisoria. (L)
5.
Nei casi previsti dai commi precedenti, l'indennità è aumentata delle somme
pagate dall'espropriato per qualsiasi imposta relativa all'ultimo trasferimento
dell'immobile. (L)
(art. 40, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, art. 1, 1°
co., lett. gg), n. 1. d.lg. 302/2002).
Quelle non coltivate sono
indennizzate con una somma pari al valore agricolo medio corrispondente al tipo
di coltura effettivamente praticato.
Nel caso di aree coltivate
l’indennità è stabilita sulla base del valore agricolo con riferimento delle
colture effettivamente praticate.
In tal caso si deve tenere conto
del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati per l’esercizio
dell’azienda agricola.
Riprendendo il disposto dell’art.
15, l. 865/1971 la nuova disposizione determina il valore agricolo con
riferimento al valore della azienda oggetto del provvedimento di esproprio,
correttivo da sempre evidenziato dalla giurisprudenza soprattutto in rapporto
alle ipotesi di esproprio parziale.
La
dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla dell'art. 16, l. 865
del 1971, mod. art. 14, l. 10 del 1977 - Corte cost. n. 5 del 1980 - nella
parte in cui imponeva il criterio del valore agricolo medio dei terreni a
prescindere dalla loro destinazione economica, non comporta che, in caso di
espropriazione di terreni ad effettiva destinazione agricola, la relativa
indennità debba quantificarsi automaticamente in misura pari al prezzo di
mercato del fondo ed al suo valore venale, dovendo essa invece essere
commisurata, ai sensi del combinato disposto degli artt. 15 e 16 della citata
l. 865 del 1971 (cui si riferisce, ancora, l'art. 5 bis, 4° co., l. 359 del
1992), al valore agricolo del fondo medesimo, quale si determina sia in base
alla media dei valori, nell'anno solare precedente il provvedimento ablativo,
dei terreni ubicati nell'ambito della medesima regione agraria nei quali siano
praticate le stesse colture in opera nel fondo espropriato, sia in relazione
all'incidenza dell'espropriazione nei riguardi dell'azienda agricola della quale
il fondo è elemento
(Cass. civ., sez. I, 14.3.2001, n. 3662, GCM,
2001, 473).
Anche
dopo la sentenza della corte costituzionale n. 5 del 30.1.1980, che ha
dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 15, 5°, 6° e 7° co., l.
22.10.1971, n. 865, la disciplina legislativa in ordine ai criteri per la
determinazione dell'indennità definitiva per l'espropriazione dei terreni a
destinazione agricola rimane fissata non solo nell'art. 15 della menzionata l.
n. 865 del 1971, ma anche nel successivo
art. 16, come modificato dall'art. 14 della l. 28.1.1977, n. 10, in quanto le
disposizioni contenute nelle due norme risultano complementari ed inscindibili
e concorrono a fissare la disciplina per le dette espropriazioni.
Dalle
fonti normative così individuate discende che l'indennità per le espropriazioni
delle quali si tratta non è automaticamente pari al prezzo di mercato del fondo
agricolo ed al suo valore venale, ma è invece commisurata al valore agricolo
del fondo, ossia al valore determinato sulla base dei parametri costituiti sia
dal valore medio (cioè ottenuto sulla media dei valori concretamente
individuati), nell'anno solare precedente al provvedimento ablativo, dei
terreni ubicati nell'ambito della medesima regione agraria, nei quali erano
praticate le stesse colture in opera nel fondo espropriato, sia dall'incidenza
dell'espropriazione nei riguardi dell'azienda agricola della quale il fondo è
elemento, ivi compresa la diminuzione di valore dell'area residuata dopo
l'espropriazione, che costituisce un pregiudizio dell'azienda
(Cass. civ., sez. I, 21.7.1992 n. 8797).
Il nuovo disposto dell’art. 40,
d.p.r. 8.6.2001, n. 327, non richiama, al primo comma, il concetto di valore
agricolo medio esplicitato, invece, per le aree non coltivate e nell’art. 41,
4° co., d.p.r. 8.6.2001, n. 327, per quanto riguarda le determinazione della
commissione provinciale.
La dottrina non ritiene possibile
l’interpretazione letterale della norma perché essa introduce il valore venale
dei terreni e sottolinea la necessità di ricorrere, come correttivo al valore
agricolo medio, alla valutazione dell'importanza economica dell’esercizio
dell’azienda.
Due
sono le strade ermeneutiche praticabili:
a)
pensare che nel caso di aree coltivate si debba procedere da parte dell’organo
deputato alla stima dell’indennità ad una valutazione specifica del valore
agricolo della coltura concretamente praticata, oltre che dell’azienda nel suo
complesso, così finendosi per applicare alle aree effettivamente agricole il
parametro del valore venale nel senso stretto;
b)
ovvero reputare, in conformità alla giurisprudenza consolidata che, ferma
restando la valutazione in concreto dell’azienda agricola, il valore agricolo,
anche in caso di area effettivamente coltivata, debba essere quello medio
accertato dalla commissione di cui al vecchio art. 16, l. 865/1971, sost. art.
41, d.p.r. 8.6.2001, n. 327, sulla base delle rilevazioni dell’anno solare
precedente in rapporto alla colture effettivamente praticate – parametro ora
evocato dall’art. 40, 4° co., per l’indennità aggiuntiva al coltivatore
diretto.
Detta
ultima soluzione appare più convincente, sia perché più rispettosa dei limiti
del t.u. sia perché consente di meglio armonizzare l’indennità spettante
all’espropriato e quella aggiuntiva di pertinenza del coltivatore diretto.
Si
deve soggiungere che l’esigenza di adeguare la stima all’effettivo pregiudizio
patito dal soggetto passivo pare adeguatamente soddisfatta mercé la ricordata
verifica dello spessore economico dell’azienda agricola
(Caringella,
De Marzo, De Nictolis e Maruotti 2002, 520).
Si deve tenere conto, inoltre, del
valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati per l’esercizio
dell’azienda agricola.
La
giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del t.u. espr. ha confermato
che il sistema di determinazione dell’indennizzo è chiuso fra due posizioni
estreme: o l’area è agricola o è edificabile.
Nel
sistema di disciplina della stima dell'indennizzo espropriativo introdotto
dall'art. 5 bis della l. 359 del 1992, caratterizzato dalla rigida dicotomia,
che non lascia spazi per un tertium genus, tra aree edificabili
(indennizzabili in percentuale del loro valore venale) ed aree agricole o non
classificabili come edificabili (tuttora indennizzabili in base a valori
agricoli tabellari, ex legge n. 865 del 1971.
Un'area
va ritenuta edificabile quando, e per il solo fatto che, come tale, essa
risulti classificata al momento dell'apposizione del vincolo espropriativo
dagli strumenti urbanistici, secondo un criterio di prevalenza o
autosufficienza della edificabilità legale.
La
cosiddetto edificabilità di fatto rileva esclusivamente in via suppletiva - in
carenza di strumenti urbanistici - ovvero, in via complementare ed integrativa,
agli effetti della determinazione del concreto valore di mercato dell'area
espropriata, incidente sul calcolo dell'indennizzo
(Cass. Civ., Sez. U., 23.4.2001, n. 172, RGE,
2001, I, 853).
124. Il calcolo
dell’indennità per area edificata.
LEGISLAZIONE: l. 865/1971, art. 16, 9° co. -
d.p.r. 8.6.2001, n. 327, art. 38.
L’art. 16, 9° co., l. 865/1971,
distingueva fra valore dell’area, computata secondo il valore agricolo, ed il
valore dell’edificio calcolato al valore venale.
La giurisprudenza fornisce una
interpretazione differente, valutando complessivamente il valore del manufatto
con quello del terreno, poiché riscontra la difficoltà di tenere distinta la
valutazione del suolo nell’ambito di una costruzione già edificata.
I
manufatti insistenti sul fondo occupato non possono essere assimilati alle
"aree edificabili" menzionate nell'art. 5 bis, l. 8.8.1992, n. 359,
ai fini dell'applicazione dei criteri estimativi posti dalla norma in
questione; sicché l'indennità ad essi relativa va determinata, a norma
dell'art. 16, l. 22.10.1971, n. 865, in misura corrispondente al loro effettivo
valore.
Nella
specie si tratta di un fabbricato rurale e dei relativi muri di recinzione
(Cass.
civ. sez. I, 4.11.1998, n. 11058, AUE, 2000, 168).
Il
criterio di determinazione dell'indennità di esproprio, di cui all'art. 5 bis,
l. 8.8.1992, n. 359, non è applicabile all'area di sedime di un fabbricato
(abbattuto per la costruzione dell'opera pubblica) ed al cortile interno, che a
questo da' luce ed aria e non costituisce pertinenza, ma va commisurato al
valore venale complessivo dell'edificio, a norma dell'art. 39, l. 25.6.1865, n.
2359
(Cass.
civ., sez. I, 10.7.1998, n. 6718, FI, 1999, I, 1230).
L’art. 38, d.p.r. 8.6.2001, n. 327,
nel caso di espropriazione di una area edificata determina l’indennità in
misura pari al valore venale dell’immobile.
1.
Nel caso di espropriazione di una costruzione legittimamente edificata,
l'indennità è determinata nella misura pari al valore venale. (L)
(art.
38, d.p.r. 8.6.2001, n. 327).
Tale criterio vale qualora la
costruzione sia stata realizzata con regolare concessione, ora permesso di
costruire (Saturno e Stanzione 2002, 371).
In caso contrario l’indennità è
determinata solo con riferimento al valore dell’area secondo il principio prima
vigente.
La
giurisprudenza ha definito i criteri di indennizzo nel caso di edificio di
interesse storico artistico ritenendo che esso debba essere calcolato con
riferimento al valore di mercato di beni che abbiano simili caratteristiche e
che si trovino nelle stesse situazioni di manutenzione.
Nel
caso in cui l'espropriazione cada su un edificio di valore storico e artistico,
la determinazione del valore venale dell'immobile espropriato, ai sensi
dell'art. 39, l. 25.6.1865, n. 2359, non può essere operata con riferimento al
criterio del valore meramente ipotetico che l'immobile acquisterebbe all'esito
di una sua ristrutturazione e destinazione ad usi produttivi, detratte le spese
a ciò necessarie, ma occorre far riferimento al valore di mercato del bene
nelle condizioni in cui esso si trova al momento dell'espropriazione avendo
riguardo alla valutazione attribuita a beni con caratteristiche simili, e -
cioè - ad edifici antichi in stato di notevole degrado ed insuscettibili di
qualsiasi destinazione senza l'esecuzione di rilevanti lavori di ripristino
(Cass.
civ., sez. I, 30.3.1998, n. 3320, GC, 1998, I, 2849).
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