CAPITOLO IX La
tutela giurisdizionale.
SOMMARIO:
125. La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nel d. lg. 80/1998.
126. I
problemi di costituzionalità. La l. 205/2000.
127.
L'interesse ad impugnare.
128.
L’impugnazione del silenzio dell’amministrazione nel caso di vincolo decaduto.
129. La
tutela penale.
130. La
pianificazione privata in contrasto col vincolo di piano. La lottizzazione
abusiva
130.1. La
valutazione autonoma del reato di lottizzazione abusiva.
131. La
realizzazione di costruzioni in variazione essenziale e in totale difformità o
in assenza di permesso
di costruire in zone
vincolate.
132. L’abuso
d’ufficio.
133. Il
rilascio di provvedimenti autorizzatori contro le disposizioni di piano.
134.
L’omessa vigilanza sull'attività edilizia.
135. Il
reato di omissione di atti d’ufficio.
136. La
giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche per violazioni ai
vincoli imposti dal regime delle acque pubbliche.
125. La giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo nel d. lg. 80/1998.
LEGISLAZIONE: l. 15.3.1997, n. 59, art. 11, 4°
co., lett. g) - d. lg. 80/1998, art. 34.
Le
controversie relative ad atti, provvedimenti e comportamenti della pubblica
amministrazione in materia di urbanistica ed edilizia sono attribuite dal d.
lg. 80 del 1998, all’art. 34, alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.
Tutti gli
aspetti dell’uso del territorio, ai sensi del 2° co., art. 34 del d. lg.
80/1998, rientrano nella materia urbanistica (Caringella, De Marzo, Della Valle
e Garofoli 2000, 258).
L’ampliamento
della sfera della giurisdizione amministrativa deriva dalla definizione del
contenuto della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
La riforma
della giurisdizione amministrativa è stata oggetto di delega al governo.
La
contestuale estensione della giurisdizione del giudice amministrativo alle
controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali, ivi
comprese quelle relative al risarcimento del danno, in materia edilizia,
urbanistica e di servizi pubblici, prevedendo altresì un regime processuale
transitorio per i procedimenti pendenti
(art. 11, 4° co., lett. g), l. 15.3.1997, n.
59).
La riforma
ha delineato i caratteri della nuova giurisdizione esclusiva in materia di
pubblici servizi, di urbanistica ed edilizia e di espropriazione ed occupazione
d’urgenza.
Qualora,
infatti, il giudice amministrativo sia investito della giurisdizione esclusiva
sulla controversia, egli può disporre il risarcimento del danno ingiusto, anche
attraverso la reintegrazione in forma specifica (Forlenza 1998, 111).
Non è più
necessario adire il giudice ordinario dopo avere ottenuto l’annullamento del
provvedimento da parte del giudice amministrativo.
Il giudice
amministrativo può disporre il risarcimento anche mediante il semplice rinvio a
dei criteri, sulla base dei quali l’amministrazione pubblica o il gestore del
pubblico servizio devono proporre all’avente titolo il pagamento di una somma
entro un congruo termine.
E’ evidente
che, ove si tratti di impugnative aventi ad oggetto un provvedimento omissivo,
il risarcimento potrà essere commisurato anche in relazione ai tempi di
emanazione del provvedimento stesso.
In mancanza
di un accordo è ammesso il ricorso in ottemperanza, previsto dall'art. 24, 1°
co., n. 4, r.d. 26.6.1924, n. 1054, per richiedere la somma dovuta.
In tale
eventualità appare evidente che le spese debbano essere addebitate, in caso di
ulteriore omissione o di mancato rispetto delle modalità fissate dal giudice
amministrativo, all’amministrazione soccombente.
La
determinazione del risarcimento comporta la possibilità dell’assunzione di
mezzi di prova, ed in particolare della consulenza tecnica di ufficio,
rimanendo esclusi l’interrogatorio formale ed il giuramento, incompatibili con
un giudizio sugli atti dell’amministrazione.
I mezzi di
prova devono essere evidentemente utilizzati in relazione alle esigenze di
celerità e di concentrazione del giudizio amministrativo.
I diritti
patrimoniali consequenziali non sono più riservati alla giurisdizione del
giudice ordinario. Questi sono attratti nell’orbita del giudice amministrativo,
risparmiando al ricorrente un ulteriore processo.
Rimangono
riservate al giudice ordinario le questioni pregiudiziali concernenti lo stato
e la capacità dei privati individui, salvo la capacità di stare in giudizio e
la risoluzione dell’incidente di falso (Forlenza 1998, 111).
La
giurisprudenza ha precisato il riparto della giurisdizione in via transitoria
fra il giudice amministrativo ed il giudice ordinario.
Nelle
materie già devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo la
competenza a conoscere il risarcimento del danno è del giudice amministrativo
se la domanda è proposta successivamente al 23.4.1998, data di entrata in
vigore del d. lg. 80/1998; essa è, invece, del giudice ordinario per le
richieste avanzate in data antecedente l’entrata in vigore del suddetto d. lg.
80/1998, dopo che sia stato disposto l’annullamento del provvedimento dal
giudice amministrativo.
Sussiste la
giurisdizione del giudice amministrativo a decidere della controversia sul
risarcimento de danno provocato da un illegittimo ordine di demolizione di
opere edilizie poi annullato con sentenza antecedente al 1.7.1998
(T.A.R.
Calabria, Reggio Calabria, 10.3.1999, n. 307, GD, 1999, n. 23, 94).
Nelle nuove
materie devolute alla giurisdizione esclusiva del T.A.R. a norma degli artt. 33
e 34, d. lg. 80/1998 la competenza sull’azione di risarcimento è del giudice
amministrativo solo se la relativa azione è proposta successivamente al 30.6.1998
ossia a partire dalla data della devoluzione della giurisdizione esclusiva al
giudice amministrativo (Giunta 1999, 102).
126. I problemi di costituzionalità. La
l. 205/2000.
LEGISLAZIONE: cost. art. 76 - l. 15.3.1997, n.
59, art. 11, 4° co., lett. g) - d. lg. 80/1998, artt. 33, 34 - l. 205/2000, art. 7.
La Corte
cost. 292/2000, ha dichiarato incostituzionale l’art. 33 del d. lg. 80/1998,
per eccesso di delega.
L'art. 33,
1° co., d.lg. n. 80 del 1998, deve essere dichiarato costituzionalmente
illegittimo nella parte in cui, eccedendo i limiti della delega, ha devoluto
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutta la materia dei
pubblici servizi, e non si è limitato ad estendere la giurisdizione
amministrativa - nei limiti in cui essa, in base alla disciplina vigente, già
conosceva di quella materia sia a titolo di legittimità che in via esclusiva -
alle controversie concernenti i diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese
quelle relative al risarcimento del danno.
La
dichiarazione di illegittimità costituzionale coinvolge anche l'art. 33, 2°
co., che ha specificato in via esemplificativa il contenuto dell'ampliato
ambito della giurisdizione esclusiva, nonché l'art. 33, 3° co., il quale -
modificando l'art. 5, l. 1034 del 1971 - comportava (conformemente alla
previsione di una giurisdizione esclusiva su tutta la materia dei servizi
pubblici) l'effetto di sottrarre le concessioni di servizi, già oggetto di
giurisdizione esclusiva, all'applicazione dell’art. 5, 2° co., che faceva salva
la giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria per le controversie
concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi
(Corte cost.
17.7.2000, ord. n. 292, FI, 2000, I, 2393, nota Travi).
L’art. 34,
d.lg. 80 del 1998, è stato successivamente sostituito da un provvedimento
legislativo, l’art. 7, l. 205/2000, per superare le censure di illegittimità
costituzionale avanzate dalla Corte.
Sono state
sollevate, comunque, ulteriori eccezioni di legittimità costituzionale
sull’art. 34, 1° co., d.lg. 31.3.1998, n. 80, pur dopo la modifica effettuata
dalla l. 205/2000, in riferimento all’art. 76 cost. per eccessivo potere
rispetto alla delega conferita dall’art. 11, 4 co., lett. g), l. 15.3.1997, n.
59.
Non è
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt.
34, 1° e 2° co., e 35, 1° co., del d.lg. n. 80 del 1998, in riferimento agli
artt. 76 e 77, 1° co., cost., per eccesso rispetto alla delega conferita dall'art.
11, 4° co., lett. g), della l. 59 del 1997.
Infatti, il
combinato disposto dei citati articoli del d.lg. n. 80 del 1998 non si limita,
in attuazione della menzionata delega, ad estendere alle controversie aventi
diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese quelle relative al
risarcimento del danno, la giurisdizione generale di legittimità o esclusiva
già spettante al giudice amministrativo in materia di edilizia ed urbanistica,
ma istituisce una nuova figura di giurisdizione esclusiva e piena, che
abbraccia l'intero ambito delle controversie aventi ad oggetto atti,
provvedimenti e comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia
urbanistica ed edilizia
(Cass. civ.,
Sez. U., 21.6.2001, ord. n. 8506, CG, 2001, 1049 nota Carbone).
La Suprema
Corte ha stabilito che gli atti devono essere rimandati al giudice remittente
affinché siano valutati nuovamente, alla luce dell’art. 7, l. 21.7.2000, n.
205.
Deve essere
ordinata la restituzione degli atti al giudice rimettente, perché riesamini, alla
luce dell'art. 7 della sopravvenuta l. 21.7.2000, n. 205, la rilevanza delle
questioni di legittimità dell'art. 34, d.lg. 31.3.1998 n. 80, censurato, per
violazione dell'art. 76, cost., nella parte in cui ha sottratto alla
giurisdizione del giudice ordinario ed ha devoluto alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo le controversie su diritti soggettivi - diversi da
quelli indennitari - conseguenti alla tenuta, da parte della p.a., di
comportamenti materiali nell'ambito di procedure espropriative finalizzate alla
gestione del territorio
(Corte cost.
23.1.2001, ord. n. 17, UA, 2001, 499 nota Conti).
I giudici
rimettenti hanno riproposto le questioni di legittimità, considerando che il
problema se il giudizio deve essere attribuito o meno alla giurisdizione del
giudice ordinario va risolto, ai sensi dell’art. 5, c.p.c., secondo la
normativa vigente al momento della proposizione della domanda, vale a dire
secondo l’art. 34, d.lg. 80/1998 nel testo originario, e non secondo quello
riportato successivamente dall’art. 7, l. 205/2002 citata.
Il giudice
ha ritenuto, infatti, che l’art. 34 del d.lg. n. 80 del 1998, nel testo
originario, poiché attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo le controversie concernenti gli atti, i provvedimenti ed i
comportamenti della pubblica amministrazione in campo urbanistico ed edilizio e
soprattutto quelle inerenti il risarcimento del danno derivante da occupazione
appropriativa, ha violato i criteri stabiliti dalla legge di delega.
Essa ha
previsto, infatti, nell’ambito dell’urbanistica e dell’edilizia, l’estensione
della giurisdizione amministrativa alle controversie aventi ad oggetto diritti
patrimoniali consequenziali, comprendendo pure quelle inerenti al risarcimento
del danno, ma non ha stabilito una nuova giurisdizione esclusiva.
La consulta
ha ribadito una diversa interpretazione secondo la quale l’art. 7 della l. 205
del 2000, sostituendo gli artt. 33, 34, 35, d.lg. n. 80 del 1998, non solo ha
modificato la natura di tali norme, facendole diventare leggi in senso formale
e quindi affrancandole dal vizio di eccesso di delega in base al quale la Corte
cost., 292/2000, aveva dichiarato incostituzionale l’art. 33 del d.lg., ma ha
anche stabilito direttamente la giurisdizione per i giudizi sopra menzionati.
Secondo tale
interpretazione, pertanto, la giurisdizione sarebbe, nella specie, stabilita
dall’art. 34 nel nuovo testo del d.lg., che è norma con natura di legge formale
e che non può, quindi, essere sottoposta a questione di legittimità
costituzionale per eccesso di delega (Corte cost., 10.4.2002, n. 123, GD,
n. 23, 60).
Tale
passaggio logico è criticato dalla dottrina, poiché lo stesso legislatore ha
espresso la non retroattività dell’art. 7, l. 205/2000 (Andreis 2002, 655).
La dottrina
riconosce alla decisione della Corte costituzionale l’effetto di chiudere ogni
questione relativa alle controversie sorte nelle more dell’entrata in vigore
della l. 205/2000, pur non riscontrando delle carenze nelle motivazioni della
decisione.
La soluzione
alla quale perviene la Corte costituzionale con l’ordinanza 123/2002, solleva
numerose perplessità.
Appare del
tutto evidente, per un verso, come la Corte abbia voluto chiudere
definitivamente ogni possibile questione di diritto intertemporale posta dalle
vicende collegate agli artt. 33-35 del d. lg. 80/198; d’altra parte,
l’eventuale giudizio di illegittimità costituzionale dell’art. 34 nel testo
previgente alla l. 205/2000, avrebbe dovuto avere ad oggetto, paradossalmente,
una norma non più in vigore
(Forlenza
2002 (2), 63).
127. L'interesse ad impugnare.
LEGISLAZIONE:
l. urb., art. 31 - d.p.r. 6.6.2001, n. 380, art. 136.
L'art. 31
della l. urb. estendeva a chiunque la legittimazione a ricorrere avverso i
provvedimenti di concessione:
Chiunque può
prendere visione, presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei
relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia
in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le
prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di
esecuzione
(art. 31, 9°
co., l. urb.).
La norma modifica
il principio generale di diritto amministrativo secondo il quale un
provvedimento può essere impugnato solamente dal destinatario o da chi ne abbia
un interesse
Si accoglie
apparentemente, nella nostra materia, una sorta di azione popolare urbanistica
(Mengoli
2003, 1055).
L'interpretazione
giurisprudenziale ha sostanzialmente limitato il contenuto della norma, poiché
il termine “chiunque” è stato considerato come equivalente alla forma
impersonale
Va esclusa
la legittimazione del ricorrente ad impugnare atti di rilevanza urbanistica, in
quanto "cittadino residente nel centro storico", giacché tale
legittimazione va riconosciuta soltanto a coloro che si trovino in una
particolare situazione di fatto in quanto possessori di beni nella stessa via o
quartiere, e, comunque, residenti in una zona localizzata in modo tale da
risentire direttamente del danno eventualmente determinato dal nuovo
insediamento edilizio
(Cons. St., sez. IV, 12.3.2001, n. 1382, FA,
2001, 367).
Legittimati
ad impugnare la concessione edilizia sono tutti coloro che si trovano in una
situazione di stabile collegamento, che può derivare da un titolo di proprietà
ovvero da un rapporto contrattuale di locazione, con la zona in cui si intende
realizzare la costruzione, purché facciano valere un interesse di carattere
urbanistico quale è quello dell'osservanza delle prescrizioni relative alla
zona con la quale sussiste il collegamento
(Cons. St., sez. V, 15.6.1988, n. 393, CS,
1988, 653).
Accogliendo
tale interpretazione l’art. 136, t.u. ed., ha provveduto ad abrogare con la sua
entrata in vigore tale disposizione.
128. L’impugnazione del silenzio dell’amministrazione nel caso di vincolo
decaduto.
LEGISLAZIONE: l. 19.11.1968, n. 1187, art. 2, 1° co. - l. 7.8.1990, n. 241,
art. 2 - l. 6.12.1971, n. 1034, art. 21 bis - l. 21.7.2000, n. 205, artt. 2, 7.
La
giurisprudenza prevalente considera illegittimo il silenzio serbato
dall'amministrazione comunale sull'istanza presentata dal proprietario di lotti
di tipicizzare l'area di proprietà, priva di disciplina urbanistica a seguito
di decadenza del vincolo precedentemente imposto da un piano.
A seguito
della decadenza del vincolo imposto su di un’area dal piano regolatore generale
viene a mancare una disciplina urbanistica della zona.
Il vincolo
di piano, infatti, decade dopo il quinquennio nel caso non intervenga a
disciplinare la zona vincolata né un piano di lottizzazione né un piano
particolareggiato.
L'art. 2, 1°
co., l. 19.11.1968, n. 1187, stabilisce che le indicazioni di piano regolatore
generale, nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettano i
beni stessi a vincoli preordinati all'espropriazione od a vincoli che
comportino l'inedificabilità, perdono ogni efficacia qualora entro cinque anni
dalla data di approvazione del piano regolatore generale non siano stati
approvati i relativi piani particolareggiati od autorizzati i piani di
lottizzazione convenzionati
(T.A.R.
Basilicata, 27.12.2002, n. 1044).
Atteso che i
Comuni sono obbligati a dotarsi di uno strumento urbanistico generale che copra
l'intero territorio, la situazione di inedificabilità conseguente alla
sopravvenuta inefficacia di talune destinazioni di piano è stata ritenuta per
sua natura provvisoria, essendo destinata a durare fino all'obbligatoria
integrazione del piano (o del programma di fabbricazione), divenuto
parzialmente inoperante.
Il Comune,
dunque, alla scadenza del vincolo potrebbe anzitutto determinarsi a reiterarlo,
con adeguata motivazione (Corte cost. 20.5.1999, n. 179).
Se,
tuttavia, non si attiva, mediante la reiterazione o, più in generale, mediante
una rinnovata regolamentazione urbanistica dell'area, il privato che vi abbia
interesse può promuovere gli interventi sostitutivi della Regione oppure agire
in via giurisdizionale, seguendo il procedimento del silenzio rifiuto.
Il
proprietario inciso dal vincolo decaduto può diffidare il Comune a ritipizzare
l'area di loro proprietà secondo le disposizioni di zona previste per gli
appezzamenti circostanti.
Stante
l'obbligo dell'intimato Comune di provvedere, è illegittimo il silenzio da esso
serbato sulla formale diffida e messa in mora ritualmente notificata tramite
ufficiale giudiziario
(T.A.R.
Basilicata, 27.12.2002, n. 1044).
Il silenzio
serbato dall'Amministrazione sulla predetta domanda è illegittimo per
violazione dell'art. 2, l. 7.8.1990, n. 241.
Il Comune,
alla scadenza del termine quinquennale di durata del vincolo, è obbligato ad
assegnare una nuova disciplina urbanistica alla zona che ne è sprovvista, con
conseguente illegittimità del comportamento omissivo serbato.
Il ricorso
deve pertanto essere accolto, peraltro solo nei limiti dell'affermazione
dell'obbligo per il Comune di provvedere sull'istanza presentata dai
ricorrenti.
Il giudizio
disciplinato dall'art. 21 bis, l. 6.12.1971, n. 1034, introdotto dall'art. 2,
l. 21.7.2000, n. 205, è diretto ad accertare se il silenzio serbato da una
Pubblica amministrazione sull'istanza del privato violi l'obbligo di adottare
il provvedimento esplicito richiesto con l'istanza stessa, con la conseguenza
che il giudice, a prescindere dalla natura vincolata o meno del provvedimento
de quo, non può sostituirsi all'Amministrazione in alcuna fase del giudizio, ma
può (e deve) accertare esclusivamente se il silenzio sia illegittimo o no,
imponendo all'Amministrazione, nel caso di accoglimento del ricorso, di
provvedere sull'istanza entro un termine assegnato (Cons. St., AP, 9.1.2002, n.
1).
L'amministrazione
comunale, ex art. 21 bis, l. 1034 del 1971, deve concludere il procedimento,
per la parte di propria competenza, entro il termine assegnato dalla notifica
e/o dalla comunicazione in via amministrativa della sentenza di condanna.
La
giurisprudenza ritiene infondata la richiesta di nominare sin dalla sentenza di
condanna ad adempiere il commissario ad acta, atteso che l’art. 21 bis,
l. 1034 del 1971, subordina detta nomina all'inottemperanza all'ordine del
giudice di provvedere e, comunque, previa richiesta delle parti che devono
preventivamente accertare il mancato adempimento dell’amministrazione
all’obbligo di provvedere (Cons. St., V Sez., 17 aprile 2002 n.2023).
La
dichiarazione di illegittimità del silenzio non comporta l’accoglimento della
richiesta di risarcimento danni, qualora il ricorrente non alleghi alcuna prova
del pregiudizio effettivamente subito per effetto degli provvedimenti
dichiarati illegittimi (T.A.R. Lecce, sez. II, 25.11.1999, n. 789. T.A.R.
Marche 7.10.1999, n. 1068).
Ai fini dell'ammissibilità
dell’azione per risarcimento dei danni davanti al giudice amministrativo, ai
sensi dell'art. 7, l. 21.7.2000, n. 205, l'accertamento della illegittimità
dell'atto adottato dall'amministrazione, da cui dipende la lesione
dell'interesse legittimo, è presupposto necessario, ma non sufficiente, per la
configurazione di una responsabilità.
Il
ricorrente deve, necessariamente, fornire la prova dell'esistenza di un danno
(Cons. St., sez. V, 6.8.2001 n.4239. Cons. St., sez. V, 11.7.2001, n. 3863. Cons.
St., sez. VI, 26.4.2000, n. 2490. Cons. St., sez. V, 14.1.2000, n. 244. T.A.R.
Napoli 12.6.2001, n. 2713. T.A.R. Lazio, sez. I, 23.9.1999, n. 2838).
129. La tutela penale.
LEGISLAZIONE:
l. 47 del 1985, art. 20, lett. c) - d.p.r. 6.6.2001, n. 380, art. 44, lett. c).
La normativa
urbanistica prevede una specifica contravvenzione disciplinata dall’art. 20,
lett. c), l. 47 del 1985, sost. art. 44, lett. c), d.p.r. 6.6.2001, n. 380, per
sanzionare i comportamenti contrari alle disposizioni che impongono vincoli di
piano.
Essa prevede
due distinte fattispecie: la prima è quella della lottizzazione abusiva, la
seconda è quella relativa alla realizzazione di costruzioni in variazione
essenziale e in totale difformità o in assenza di concessione edilizia, ora
permesso di costruire, nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico,
archeologico, paesistico e ambientale.
In entrambe
le ipotesi è previsto l’arresto fino a due anni e l’ammenda da euro 15.493, a
euro 51.645 (Italia 2002, 520).
130. La pianificazione privata in
contrasto col vincolo di piano. La lottizzazione abusiva.
LEGISLAZIONE:
l. 47 del 1985, art. 18 - d.p.r. 6.6.2001, n. 380, art. 30.
La
contravvenzione di lottizzazione abusiva viene definita facendo riferimento alla
definizione di lottizzazione data dall'art. 30 del d.p.r. 6.6.2001, n. 380.
Si ha
lottizzazione cosiddetta materiale quando vengono iniziate opere che comportino
la trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni in violazione delle
prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o adottati; si ha, invece,
lottizzazione negoziale quando tale trasformazione venga attuata attraverso il
frazionamento o la vendita o atti equivalenti del terreno in lotti, che
denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio (Centofanti
2002 (2), 147).
La
violazione delle leggi vigenti si realizza in varie fattispecie per cui, ad
esempio, si deve ritenere che sussista il reato nel caso di lottizzazione
realizzata in comuni privi di piano regolatore generale o programma di
fabbricazione.
Il reato di
lottizzazione abusiva si configura non soltanto quando esiste la necessità di
attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale, attraverso la
redazione di un piano esecutivo e la stipula di una convenzione lottizzatoria
adeguata alle caratteristiche dell'intervento di nuova lottizzazione, ma anche
allorquando detto intervento non potrebbe in ogni caso essere realizzato
perché, per le sue connotazioni obiettive, si pone in contrasto con previsioni
di zonizzazione e/o di localizzazione dello strumento generale di
pianificazione che non possono essere modificate da piani urbanistici
attuativi.
La Suprema
Corte, nell'annullare con rinvio sentenza di assoluzione per insussistenza del
fatto, ha osservato che questo è il punto fondamentale trascurato dalla
sentenza impugnata, poiché i giudici di merito - in relazione alla previsione
incriminatrice dell'art. 18, l. 28.2.1985, n. 47, - avrebbero dovuto valutare
se, nella fattispecie in esame, si sia o meno di fronte alla predisposizione di
un appezzamento di terreno agricolo ad una plurima edificazione residenziale,
ed una valutazione siffatta avrebbero dovuto operare tenendo conto della già
avvenuta realizzazione di due villette dotate di piscine, della cessione a
terzi di una di esse e di una porzione frazionata di suolo, nonché della
progettata costruzione di una terza unità abitativa: il tutto comportante
anzitutto la necessità di un raccordo viario con la strada pubblica più vicina
e di spazi da destinare a pubblici parcheggi
(Cass. pen., sez. III, 19.9.1996, n. 11249, CP,
1998, 1224).
Il reato di
lottizzazione abusiva è reato progressivo che giunge a compimento solo con
l'ultimazione delle costruzioni, sicché anche quando le attività di
edificazione siano portate a termine da persone diverse da quelle che hanno
proceduto alla lottizzazione, la permanenza cessa solo quando l'intero
programma di lottizzazione viene attuato e cioè all'epoca di ultimazione della
ultima opera, sia essa una costruzione abusiva o un'urbanizzazione primaria o
secondaria.
Conseguentemente
solo da tale momento può computarsi il termine necessario per la prescrizione
del reato (Cass. pen., sez. III, 8.11.1995, n. 12212, CP, 1998, 618.
Cass. pen., sez. III, 15.10.1997, n. 11436, UA, 1998, 202 nota Ferraro).
La
giurisprudenza ha precisato che il reato di lottizzazione abusiva sussiste
anche in mancanza di iniziative di tipo edificatorio.
E’
sufficiente la cosiddetta lottizzazione negoziale che si verifica quando la
trasformazione urbanistica dei terreni avvenga: 1) attraverso il frazionamento
degli stessi; a) attraverso la vendita dei suoli; 3) attraverso atti
equivalenti alla vendita. A tal fine è sufficiente anche la vendita di un solo
lotto (Cass. pen., sez. III, 8.2.1994, GP, 1994, II, 735).
L'art. 18,
l. 28.2.1985, n. 47, configura la lottizzazione negoziale allorché la
trasformazione urbanistica sia predisposta attraverso il frazionamento e la
vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per una serie di indici,
denuncino in modo non equivoco la loro destinazione a scopo edificatorio.
130.1. La valutazione autonoma del reato
di lottizzazione abusiva.
LEGISLAZIONE:
l. 1150/1942
art. 28.
Le Sezioni
Unite della Cassazione penale hanno precisato che non è corretto affermare che
il reato di lottizzazione possa dirsi sussistere unicamente qualora manchi il
provvedimento autorizzativo finale e non pure qualora, in presenza di tale
autorizzazione, si accerti la violazione di altre norme urbanistiche.
L’art. 28,
l. 1150/1942 prevede la necessaria redazione del piano di lottizzazione che
deve essere conforme alla normativa edilizia e agli standard urbanistici
vigenti.
Tale piano,
quale piano di attuazione, deve di regola conformarsi alle norme, prescrizioni,
e previsioni dello strumento urbanistico generale di cui costituisce
applicazione.
Qualora il
piano di lottizzazione si discosti dalla pianificazione generale, esso può
essere approvato in variante al p.r.g.
La procedura
di variante deve obbligatoriamente essere posta in essere, poiché gli atti di
pianificazione urbanistica esecutiva assolvono alla funzione di consentire una
più razionale utilizzazione del territorio nell'ambito delle scelte operate dal
piano urbanistico sovraordinato.
A tali
scelte deve necessariamente conformarsi il rilascio della autorizzazione a
lottizzare da cui scaturisce la facoltà dei proprietari di richiedere il
rilascio del permesso di costruire per dare esecuzione al progetto
L'identificazione
del reato di lottizzazione abusiva, malgrado la presenza di un'autorizzazione
emessa in base all'art. 28, l. 17.8.1942, n. 1150, nel testo modificato
dall'art. 8, l. 6.8.1967, n. 765, non postula alcuna disapplicazione del provvedimento
amministrativo, ma presuppone l'accertamento del fatto concreto in rapporto
alla fattispecie astratta descrittiva del reato, prescindendo da qualunque
giudizio sull'autorizzazione.
La
descrizione normativa del reato di lottizzazione abusiva impone al giudice un
riscontro diretto di tutti gli elementi che concorrono a determinare la
condotta criminosa, che, giusta il disposto dell'art. 18, 1° co., l. 28.2.1985,
n. 47, non è soltanto quella effettuata in assenza di autorizzazione ma
principalmente quella contrastante con le prescrizioni degli strumenti
urbanistici e delle leggi statali e regionali
(Cass. pen., Sez. U., 8.2.2002, n. 5115, RGE,
2002, 844).
Il reato di
lottizzazione è a consumazione alternativa, potendo realizzarsi sia per difetto
di autorizzazione sia per il contrasto della stessa con le prescrizioni degli
strumenti urbanistici, sussistendo in capo ai soggetti che partecipano al piano
di lottizzazione l'obbligo di controllare la conformità dell'intera
lottizzazione e/o delle singole opere alla normativa urbanistica ed alle
previsioni di pianificazione, ed atteso che l'interesse protetto dalla l.
28.2.1985, n. 47, non è soltanto quello di assicurare il controllo preventivo
da parte della p.a., ma altresì quello di garantire che lo sviluppo urbanistico
si realizzi concretamente in aderenza all'assetto risultante dagli strumenti
urbanistici
(Cass. pen., sez. III, 29.1.2001, n. 11716, CP,
2003, 244).
Un altro
l’indirizzo sicuramente minoritario esclude l’abusività della lottizzazione
ogniqualvolta la stessa sia autorizzata dall’autorità amministrativa senza che
al giudice penale sia consentito disapplicare l’atto amministrativo, a meno che
questo non sia o inesistente o invalido (Cass. pen., sez. III, 4.6.2001).
131. La realizzazione di costruzioni
in variazione essenziale e in totale difformità o in assenza di permesso di
costruire in zone vincolate.
LEGISLAZIONE: l. 47/1985, art. 20, lett. b) e c)
- l. 431/1985, art. 1 sexies - d.p.r. 6.6.2001, n. 380, art. 44, lett. c).
Il reato di
cui all'art. 20, lett. c), l. 28.2.1985, n. 47, sost. art. 44, lett. c), d.p.r.
6.6.2001, n. 380, prevede che le costruzioni siano realizzate in variazione
essenziale e in totale difformità o in assenza di permesso di costruire in
violazione del vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale
(Cass. pen., sez. III, 30.3.2000, n. 6104, RP, 2001, 179).
La
giurisprudenza ha precisato che il giudice del merito, qualora affermi
l'esistenza di un vincolo, deve specificamente motivare, indicando la categoria
alla quale lo stesso appartiene e gli elementi di fatto e di diritto su cui
fonda la decisione di condanna.
Nella
specie, relativa ad annullamento con rinvio di sentenza di condanna, la Suprema
Corte ha osservato che l'esistenza del vincolo è ritenuta implicitamente, senza
alcuna precisazione del tipo di vincolo e della fonte di prova, dalla quale il
medesimo risulterebbe (Cass. pen., sez. III, 26.5.1995, n. 8507, CP,
1998, 231).
La
giurisprudenza sottolinea la gravità di detto reato rispetto alle altre
fattispecie previste dall'art. 20, lett. c), l. 28.2.1985, n.
47, sost. art. 44, lett. c), d.p.r. 6.6.2001, n. 380.
L’illecito
all'art. 20, lett. c), l. 28.2.1985, n. 47, presenta sotto il profilo
strutturale un elemento superiore rispetto a quello di cui all'art. 20, lett.
b), l. 28.2.1985, n. 47, cioè la violazione del vincolo, e tale requisito è
stato fissato dal legislatore poiché la condotta disciplinata viene ad incidere
in modo rilevante non soltanto sull'assetto del territorio, ma sull'intero
ambiente: la violazione determina un vulnus alle condizioni di vita
della popolazione ivi residente, della quale altera le condizioni soggettive ed
oggettive di vita, la cui protezione è costituzionalmente statuita dall'art. 9;
tale illecito comporta una lesione del paesaggio, che va considerato anche una
risorsa, non soltanto naturalistica, ma anche economica, poiché rappresenta
fonti di introiti per la collettività
(Cass. pen., sez. III, 13.10.1997, n. 10392, CP,
1999, 263).
Le ipotesi
di reato sono tra loro autonome.
La
fattispecie di cui all'art. 20 lett. c) della l. 26.2.1985, n. 47, relativa
alla realizzazione di costruzioni in variazione essenziale e in totale
difformità o in assenza di concessione in zone vincolate, costituisce ipotesi
autonoma di reato, rispetto a quelle di cui alle lett. a) e b), dello stesso
art. 20 e non circostanza aggravante
(Cass. pen., sez. III, 11.2.1994, CP,
1995, 1038).
Negli
immobili esistenti, ma costruiti senza permesso di costruire, fino a quando non
sia sanata la illiceità, non possono essere compiuti interventi di
completamento edilizi.
La
realizzazione, in zona rientrante nel Parco dell'Alto Garda, di una baracca in
lamiera in assenza di concessione integra il reato di cui all'art. 20, lett.
c), della l. 47/1985, ma non anche la fattispecie sanzionata dall'art. 1
sexies, della l. 431 del 1985
(Pret.
Brescia, 15.10.1993, GM, 1994, 357).
La
fattispecie è distinta ed autonoma rispetto al reato che si configura per
mancata autorizzazione relativa a lavori su beni ambientali prevista dall’art.
1 sexies, l. 431/1985, sost. art. 163, d.lg. 490/1990 (Centofanti 2002 (2)
167).
Nell'ipotesi
in cui sia costruito un pontile sottraendo terraferma al mare, il banchinamento
così realizzato viola il vincolo imposto dall'art. 1 della l. 8.8.1985, n. 431
a tutela dei territori costieri compresi in una fascia di profondità di
trecento metri dalla linea di battigia.
E' pertanto
configurabile il reato di cui all'art. 20, lett. c), della l. 28.2.1985, n. 47
(Cass. pen., sez. III, 26.2.1993, MPC,
1993, 35).
132. L’abuso d’ufficio.
LEGISLAZIONE:
c.p. art. 323, 1° e 2° co. - l. 234/1997, art. 1.
Il reato di
abuso d’ufficio è contemplato dall’art. 323 del c.p., mod. art. 1, l. 234 del
1997.
Il reato è
configurabile solo qualora il comportamento del pubblico uffciale o
dell’incaricato di pubblico servizio concretizzi un danno.
Esso può
consistere nell’avere procurato a sé o ad altri un ingiusto vantaggio
patrimoniale o nell’avere causato ad altri un danno ingiusto.
Salvo che il
fatto non costituisca un più grave reato il pubblico ufficiale o l’incaricato
di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in
violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in
presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi
prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio
patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la
reclusione da sei mesi a tre anni.
La pena è
aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante
gravità
(Art. 323 c.p., mod. art. 1, l. 234 del 1997).
La ratio
della l. 234 del 1997 è di limitare l’ambito di applicabilità dell’art. 323 del
c.p., al fine di evitare abusi dell’abuso, attraverso una precisa
determinazione del fatto punibile.
La modifica
è stata richiesta da più parti, per porre un freno al dilagare delle
incriminazioni per abuso d’ufficio e, di conseguenza, al moltiplicarsi dei
procedimenti penali, che spesso, inoltre, si concludono con l’assoluzione
dell’imputato.
Il
legislatore ha ritenuto necessario dare certezza all’azione amministrativa; i
ritardi, o addirittura i blocchi di attività, soprattutto nei settori
subordinati alla discrezionalità della pubblica amministrazione, erano
attribuiti al terrore della firma, provocato dall’eccesso di interventi del
potere giudiziario nell’ambito della pubblica amministrazione.
Interpretando
la dizione precedente di cui all'art. 323, 2° co., c.p., la giurisprudenza ha
precisato il contenuto del vantaggio patrimoniale, affermando che per
l'integrazione del reato di abuso di ufficio è necessario che il vantaggio
avuto dall'agente risulti apprezzabile in termini patrimoniali.
Il vantaggio
deve avere un connotato di intrinseca patrimonialità, essendo irrilevante che
esso possa essere rivolto o strumentalizzato dal soggetto favorito a conseguire
utilità valutabili solo indirettamente sotto l'aspetto patrimoniale.
La mera
eventualità della natura patrimoniale del vantaggio non è idonea a
caratterizzare, teleologicamente, con certezza e concretezza, il dolo specifico
dell'autore della condotta (Cass. pen., sez. VI, 19.1.1996, GP, 1997,
II, 157).
Il
legislatore nel delineare la nuova fattispecie, dà carattere di concretezza ad
una condotta da ritenersi punibile, individuandone gli aspetti tipici ed
evitando così abusi ed eccessi nell’interpretazione giurisprudenziale.
L’elemento
del dolo che prima è stato elemento essenziale ora perde la sua consistenza.
Il nuovo
abuso d’ufficio è un reato di danno.
Non si
tratta più, quindi, del contenuto del dolo specifico, consistente
nell’avvantaggiare sé o altri o nel danneggiare qualcuno.
L’abuso non
patrimoniale mantiene rilevanza penale solo qualora sia arrecato un danno ad
altri intenzionalmente; è abrogato, invece, il tipo di abuso che mira a
procurare un vantaggio non patrimoniale, rendendo così particolarmente
difficili i controlli sui cosiddetti microabusi.
Il reato di
abuso d’ufficio è stato modificato dal legislatore da delitto a consumazione
anticipata e a dolo specifico a delitto di evento.
Il reato non
sussiste più quando si manifesta solo l’intenzione di avvantaggiare o di
danneggiare, ma esso consiste nell’effettiva produzione di un vantaggio o di un
danno.
Tale
vantaggio, inoltre, deve essere patrimoniale; ne consegue che l’abuso si
concretizza solo se l’imputato ha procurato a sé o ad altri un beneficio
economicamente valutabile.
Qualora,
pertanto, si tratti di abuso volto a procurare un ingiusto vantaggio non
patrimoniale - ai sensi dell’abrogato art. 323, 1° co., c.p. - si verifica una
vera e propria abolitio criminis e, quindi, comportamenti di questo tipo
non costituiscono più reato e debbono cessare gli effetti penali delle condanne
ad essi relative.
133. Il rilascio di provvedimenti
autorizzatori contro le disposizioni di piano.
LEGISLAZIONE: c.p. art. 323 - l. 10/1977, art. 4
- l. 47 del 1985, art. 20, lett. c) - d.p.r. 6.6.2001, n. 380, art. 12: 133.
L’abuso
d’ufficio può consistere nel rilascio di provvedimenti autorizzatori in
contrasto con la normativa di piano.
Affinché la
violazione di legge o di regolamento possa integrare, insieme con gli altri
elementi richiesti dall'art. 323, c.p., il delitto di abuso di ufficio
occorrono due presupposti.
Il primo di
essi è che la norma violata non sia genericamente strumentale alla regolarità
dell'attività amministrativa, ma vieti puntualmente il comportamento
sostanziale del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio.
Il secondo
presupposto è che l'agente violi leggi e regolamenti che di questi atti abbiano
i caratteri formali ed il regime giuridico, non essendo sufficiente un
qualunque contenuto materialmente normativo della disposizione trasgredita.
Il permesso
di costruire inefficace perché subordinato all'autorizzazione paesaggistica,
anche se adottato in violazione di legge, non avendo prodotto alcun effetto,
non dà luogo all'evento del reato di abuso di ufficio, non ipotizzabile neppure
nella forma tentata perché non sussiste nella specie la prova dell'elemento
soggettivo.
La
giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del t.u. ed. richiede, infatti,
che dalla condotta derivi una lesione effettiva del bene giuridico e non la
mera messa in pericolo. Manca, inoltre, nella fattispecie il conseguimento
dell'ingiusto vantaggio patrimoniale quale conseguenza diretta e voluta del
rilascio della concessione ad aedificandum (Cass. pen., sez. VI,
30.4.1999, n. 12928, CP, 2001, 1458, nota Condemi. Cass. pen., sez. VI,
26.3.1999, n. 8631, CP, 2000, 2246).
Integra il
delitto di abuso d'ufficio, trattandosi di condotta che viola specifiche norme
di legge, il rilascio da parte del sindaco, ora responsabile del procedimento,
di un permesso di costruire, contraria alle disposizioni del vigente piano
regolatore.
Se è vero
che il piano regolatore non può equipararsi al regolamento richiamato dallo
stesso art. 323 c.p., la condotta sopra descritta viola direttamente la legge,
e precisamente le norme della l. 1150 del 1942, che statuisce che i pareri e
gli atti del pubblico ufficiale in relazione a domande di concessione edilizia
debbano essere conformi a quanto previsto dai piani regolatori; in tal caso,
infatti, il provvedimento amministrativo svolge una funzione integrativa
rispetto agli elementi normativi del fatto
(Cass., pen., sez. V, 31.1.2001, UA,
2001, 459).
L'art. 4, l.
10 del 1977, ora sost. art. 12, d.p.r. 380/2001, impone alla p.a. comunale di
conformarsi alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali - primo fra
tutti, il p.r.g., -, nel rilasciare le concessioni edilizie.
La condotta
del pubblico ufficiale che rilasci una concessione edilizia, in violazione
delle disposizioni urbanistiche comunali, integra un'ipotesi di violazione di
legge, rilevante ai fini e per gli effetti dell'art. 323 c.p.
Si deve
ritenere responsabile del reato di cui all'art. 323 c.p.- l'assessore comunale
delegato dal sindaco che, nella sua qualità, abbia abusato del suo ufficio,
rilasciando una concessione edilizia relativa all'edificazione di un immobile
su un suolo destinato a verde agricolo e per una volumetria superiore
all'indice di edificabilità consentito dal piano comprensoriale, a tal fine
ritenendo asserviti al vincolo altri fondi non contigui, situati in zone
opposte del territorio comunale e distanti diversi chilometri rispetto
all'erigendo fabbricato.
(Cass. pen.,
sez. VI, 16.10.1998, n. 1354, DPP, 1999, 1005, nota Vipiana. Cass. pen.,
sez. VI, 14.3.2000, n. 6247, RGPL, 2000, 800).
Il rilascio
del permesso di costruire in violazione dello strumento urbanistico generale -
che subordinava l'utilizzazione delle aree in causa alla previa formazione
dello strumento attuativo – lede i principi fissati dalla legge urbanistica che
prescrivono la conformità del provvedimento autorizzatorio alle previsioni
dello strumento urbanistico in vigore nel territorio comunale.
La condotta
illecita del sindaco che violi le disposizioni di piano lede il combinato
disposto degli artt. 1 e 4, l. 28.1.1977, n. 10, e 31, l. 17.8.1942, n. 1150.
Detta
condotta si configura, senza che si possa ritenere violato il principio di
stretta legalità vigente in materia penale, come violazione di legge in quanto
le prescrizioni di piano alle quali detta legge si richiama rappresentano solo
dei presupposti di fatto della violazione della legislazione su richiamata in
materia di concessione edilizia, violazione che integra un elemento costitutivo
della fattispecie di cui all'art. 323 c.p.
(Cass. pen.,
sez. VI, 6.10.1999, n. 13794, CP, 2001, 838).
Integra gli
estremi del reato di abuso di ufficio, secondo la formulazione di cui all'art.
1, l. 16.7.1997, n. 234, il comportamento dell'amministratore comunale che
rilasci autorizzazioni in precario per la realizzazione di manufatti non
connotati dal requisito della provvisorietà o da quello della pertinenzialità.
Il rilascio
di autorizzazioni in precario configurano non solo la violazione della
normativa in tema di rilascio di autorizzazioni gratuite, ex artt. 48, l.
5.8.1978, n. 457, e 7, l. 94/1982, avuto, soprattutto, riguardo al carattere
non precario delle opere, ma anche ex art. 4, l. 28.1.1977, n. 10, che, a
fronte del dovere di chi voglia edificare di munirsi della concessione
edilizia, prevede il dovere dell'organo comunale competente di provvedere a
norma di legge, in conformità delle previsioni degli strumenti urbanistici e
dei regolamenti edilizi
(Cass. pen.,
sez. VI, 4.4.1999, n. 6274, CP, 2000, 2244. Cass. pen., sez. VI,
11.5.1999, n. 8194, CP, 2000, 350, nota Gambardella).
134. L’omessa vigilanza sull'attività
edilizia.
LEGISLAZIONE:
c.p. art. 323 - l. 47/1985, art. 4 - d.p.r. 6.6.2001, n. 380, art. 27.
L’abuso
d’ufficio può consistere nell’omessa vigilanza sull'attività edilizia.
La
giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del t.u. ed. afferma che il
sindaco, che dolosamente ometta di adottare i provvedimenti necessari ad
assicurare il rispetto delle norme urbanistiche comunali, ex art. 4, l. 47 del
1985, sost. art. 27 d.p.r. 380/2001, risponde del reato di abuso di ufficio, ex
art. 323 c.p. (Cass. pen., sez. VI, 15.2.2001, n. 6192, RGPL, 2001,
613).
135. Il reato di omissione di atti
d’ufficio.
LEGISLAZIONE: c.p. art. 328, 1°, 2° co. - l.
86/1990, art. 16 - l. 192/1998, art. 2, 12° co.
Nel reato di
omissione di atti d’ufficio incorrono gli amministratori che non esercitano la
dovuta vigilanza sugli abusi edilizi.
In tal caso
si rientra nell’ipotesi di cui all’art. 328, 1° co., del c.p., poiché l’atto di
controllo è atto che per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di
ordine pubblico o di igiene o sanità deve essere compiuto senza ritardo, come
recita l’art. 328, c.p., mod. dall’art. 16, l. 86/1990.
I solleciti
regionali non integrano il reato da parte del sindaco.
Non integra
il reato, di omissione di atti d'ufficio, ai sensi dell'art. 328, 2°, c.p., la
mancata ottemperanza da parte del sindaco alle sollecitazioni dell'assessorato
regionale territorio e ambiente in ordine agli interventi repressivi e sanzionatori
di violazioni edilizie commesse nel territorio comunale, giacché entrambe le
amministrazioni coinvolte sono tenute ad una collaborazione nell'assicurare la
vigilanza sull'attività edilizia, non potendosi ravvisare in capo
all'assessorato regionale un interesse giuridicamente qualificato nei confronti
dell'amministrazione comunale.
Nella
specie, si trattava di reiterate richieste affinché il sindaco disponesse la
demolizione di fabbricati abusivi
(Cass. pen.,
sez. VI, 28.2.2001, FI, 2001, II, 461).
Per la
giurisprudenza può integrare il reato l’omettere di emanare un ordine di
demolizione sia nel caso di un procedimento di autotutela sei nel caso di
annullamento di provvedimento autorizzativo.
L'ordine di
demolizione di un immobile abusivamente realizzato costituisce, per
l'amministrazione comunale, un atto dovuto. Ne consegue che esso non può
considerarsi viziato per il solo fatto che, in presenza di abusi plurimi, sia
stato adottato soltanto nei confronti di alcuni dei costruttori, potendo tale circostanza
rilevare unicamente sotto il profilo della responsabilità penale degli
amministratori comunali per omissione di atti d'ufficio.
(Trib. Roma,
28.4.2000, Grom, 2000, 371).
In caso di
annullamento di una concessione edilizia da parte del T.A.R. l'emanazione, da
parte del sindaco, dell'ordine di demolizione della costruzione abusiva
costituisce atto dovuto per ragioni di giustizia, il cui compimento deve quindi
avvenire "senza ritardo" ai sensi dell'art. 328, 1° co., c.p.
Deve
pertanto ritenersi consumato il reato previsto da tale disposizione normativa
quando l'adempimento in questione, in assenza di un termine stabilito nella
decisione del giudice amministrativo, sia procrastinato oltre la data della
prima riunione della giunta comunale dopo il ricevimento formale della notizia
di detta decisione ed il decorso dei termini per l'eventuale impugnazione;
tempi, questi, da ritenere ragionevolmente esauribili, al massimo, in 180
giorni.
È invece da
escludere che il momento consumativo del reato possa essere individuato in
quello in cui il sindaco cessa dalla sua carica, atteso che una tale
interpretazione potrebbe legittimare sine die il rifiuto di compiere
l'atto d'ufficio per tutto il tempo della durata in carica del pubblico
ufficiale
(Cass. pen.,
sez. VI, 26.5.1999, n. 9400, RP,1999, 990).
Il reato può
realizzarsi anche per denuncia di un terzo.
Il
denunciante deve diffidare il responsabile del procedimento, ora competente in
luogo del sindaco, ad esercitare la vigilanza a mezzo raccomandata con ricevuta
di ritorno, diffidandolo espressamente ad esercitare i suoi doveri di controllo
pena la trasmissione della querela alla procura della repubblica, ai sensi
dell’art. 323, 2° co., c.p.
Il reato si
concretizza qualora chi compete la vigilanza, dopo trenta giorni dalla diffida
non abbia dato caso ad atti sanzionatori quanto meno sospensivi dei
comportamenti che realizzano l’abuso edilizio.
Dopo la
divisione delle funzioni fra organi tecnici e politici con l’attribuzione delle
funzioni esecutive ai dirigenti, il soggetto attivo del reato è il responsabile
dell’ufficio che deve vigilare sull’attività edilizia. Il sindaco semmai può
rispondere di omessa vigilanza sull’attività degli uffici.
L'art. 6, l.
127 del 1997, modificando l'art. 51, l. 142 del 1990, attribuisce al
responsabile del competente ufficio o servizio dell'ente locale le attribuzioni
amministrative in materia di rilascio di provvedimenti autorizzatori o
concessori, mentre, per i provvedimenti sanzionatori nella stessa materia,
analoga attribuzione di competenza esclusiva si rinviene nell'art. 2, 12° co.,
l. 192 del 1998.
Il sindaco,
conseguentemente, risulta del tutto privo di competenza al riguardo e non può
legittimamente avocare la trattazione di pratiche edilizie, salva l'ipotesi di
inerzia od omissione di atti d'ufficio, che peraltro nella fattispecie non si
riscontra
(T.A.R.
Emilia Romagna Parma, 25.2.2002, n. 139, FATAR, 2002, 465).
136. La giurisdizione del Tribunale
superiore delle acque pubbliche per violazioni ai vincoli imposti dal regime
delle acque pubbliche.
LEGISLAZIONE:
r.d. 11.12.1933, n. 1775, artt. 48, 68, 140, 143 - d.p.r. 8.6.2001, n. 327,
art. 49.
A norma
dell'art. 143, r.d.
11.121933, n. 1775,
appartengono alla cognizione diretta del Tribunale superiore delle acque
pubbliche, fra l'altro, i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per
violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi
dall'amministrazione in materia di acque pubbliche.
La
giurisprudenza ha sempre interpretato la norma nel senso che, per ricadere
nella cognizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche in unico grado,
il ricorso deve rivolgersi contro un provvedimento della p.a. che incide
direttamente sul regime delle acque pubbliche (Cass. civ., Sez. U. n.
3894/1991).
La
discriminazione fra la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque
pubbliche e quella del giudice amministrativo si realizza in base al principio
che il provvedimento amministrativo deve, comunque, riferirsi ad un'opera o ad
un'attività necessaria per l'utilizzazione delle acque pubbliche e che la
situazione soggettiva dedotta in giudizio sia di interesse legittimo (Cass.
civ., Sez. U. n. 1542/1989).
La
giurisprudenza ha ritenuto che l'adozione di un provvedimento, che anche indirettamente,
si propone di tutelare il corretto deflusso delle acque va sottoposto alla
giurisdizione del tribunale superiore, ai sensi dell'art. 143 del r.d.
11.12.1933, n. 1775.
Il tribunale
superiore delle acque è altresì competente qualora sussista la necessità di una
speciale autorizzazione per la rimozione del vincolo che osta alla
realizzazione di qualsiasi costruzione nelle zona vincolata, perché prossima ad
un corso d'acqua.
In base
all'art. 96, lett. f), r.d. 25.7.1904, n. 523, che vieta le costruzioni a
distanza inferiore a 10 metri dal corso d'acqua, si rende necessaria una
speciale autorizzazione per la rimozione del vincolo, con la conseguenza che la
controversia relativa ad un provvedimento, che anche indirettamente, si propone
di tutelare il corretto deflusso delle acque, va sottoposta alla giurisdizione
del Trib. Sup. Acque Pubbl., ai sensi dell'art. 143, r.d. 11.12.1933 n. 1775
(T.A.R.
Piemonte, sez. I, 31.5.2002, n. 1142, FATAR, 2002, 1496. Cass. civ.,
S.U. 9.11.1998, n. 11274. Trib. Sup. acque pubbl. 24.11.1997, n. 78. T.A.R.
Molise, 5.7.1995, n. 181).
Il tribunale
superiore delle acque pubbliche ha giurisdizione nei casi tassativamente
stabiliti dall’art. 140 del r.d. 11.12.1933, n. 1775.
Sono
devolute le controversie intorno alla demanialità delle acque; circa i limiti
dei corsi e dei bacini, loro alveo e sponde; ai diritti relativi alle
derivazioni o utilizzazioni di acqua pubblica (Cass. civ., Sez. U., 22.12.1987,
n. 9562, FA, 1988, 3151).
La materia
delle acque pubbliche indicata nell'art. 143, r.d. 11.12.1933, n. 1775,
include, oltre ai fatti ed atti relativi al sorgere, al decorso ed
all'utilizzazione delle acque pubbliche sotto l'aspetto quantitativo e
distributivo - ed alle opere idrauliche inerenti - anche il governo e
l'utilizzazione delle acque stesse sotto l'aspetto qualitativo secondo l'uso a
cui sono destinate.
La
giurisprudenza ha affermato che si tratta di acque pubbliche anche nell’ipotesi
di derivazione o captazione d'acqua che soddisfa un interesse pubblico,
interesse che sarebbe frustrato se non si potesse impedire il rischio
d'inquinamento, essendo ovvio che il Comune non può distribuire per il consumo
umano acqua inquinata.
Si verte in
tema di acque pubbliche, con conseguente competenza giurisdizionale del
tribunale superiore delle acque a conoscere delle relative controversie,
qualora sia impugnato il provvedimento con il quale la p.a. inibisca
determinate attività e destinazioni di un'area del raggio di 200 metri attorno
ai pozzi (in aree di proprietà privata) dai quali il comune deriva acqua
destinata al consumo umano, cioè acqua potabile trasportata dall'acquedotto
comunale
(Cass. civ., Sez. U., 4.8.1992, n. 9242, GC,
1993, I, 1005).
Sono altresì
devolute le controversie riguardanti: la occupazione totale o parziale dei
fondi e le relative indennità, da ultimo disciplinate dall’art. 49, d.p.r.
8.6.2001, n. 327, in conseguenza dell'esecuzione o manutenzione di opere
idrauliche, di bonifica e derivazione o utilizzazione di acque; le indennità
per espropriazione dei diritti esclusivi di pesca sulle acque del demanio
marittimo ed idrico; gli indennizzi derivanti dai danni provocati da modifiche
fatte dallo Stato per motivi di pubblico interesse in materia di acque
pubbliche, ai sensi dell'art. 48, r.d. 11.12.1933, n. 1775; le controversie
relative al riparto provvisorio e definitivo delle spese sostenute dai consorzi
obbligatori fra privati per l'utilizzazione delle acque pubbliche, ai sensi
dell'art. 68, r.d. 11.12.1933, n. 1775.
La
controversia tra il concessionario avente diritto all'utilizzazione dell'acqua
pubblica ed il privato proprietario del fondo asservito per il passaggio
dell'acqua stessa, in ordine al mancato rispetto delle distanze legali tra la condotta
del concessionario e la costruzione eretta sul suo fondo dal privato e che sia
causa della riduzione della utilitas del fondo dominante, spetta alla
competenza del giudice ordinario e non del tribunale regionale delle acque
pubbliche, atteso che non comporta alcuna questione sulla natura delle acque,
sul diritto del concessionario ad utilizzarle e sulle modalità di uso dalle
stesse, ma attiene esclusivamente alla legittimità della costruzione viciniore
secondo le norme del codice civile in tema di rapporti di vicinato o di servitù
(Cass. civ., sez. II, 17.3.1995, n. 3107, GCM,
1995, 631).
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