Corte di Cassazione Penale
Sentenza n. 20366 del 2015
Sentenza n. 20366 del 2015
La Corte, ha delineato i limiti entro cui
stare per non far scattare l’ipotesi di reato prevista dagli articoli 594 e 595
del codice penale.
Con la prima delle due sentenze che si
riportano in questo articolo ovvero la n. 16712/2014 la Corte di Cassazione ha
esaminato un caso relativo a insulti pubblicati sul famoso social network
indirizzati a una persona anche senza scriverne il nome e letti da una cerchia
ristretta di amici.
La frase che ha portato la vicenda dal
mondo virtuale di internet a quello reale delle aule dei tribunali è la
seguente : “attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di collega sommamente
raccomandato e leccaculo…” a cui va aggiunta un’espressione volgare rivolta
alla moglie del collega.
Nel primo grado di giudizio il giudice
riscontrava nelle suddette frasi un’offesa tale da ledere la reputazione del
destinatario delle stesse e, pertanto, il Tribunale militare di Roma
pronunciava una sentenza di condanna a tre mesi di reclusione militare per
diffamazione pluriaggravata nei confronti dell’imputato.
In Appello, la Corte militare di Roma ,
invece, pronunciava una sentenza di assoluzione poichè dette frasi erano
leggibili soltanto da una stretta cerchia di soggetti e non dagli altri utenti
del social network.
Il Procuratore Generale però evidenziava
che la pubblicazione di quelle frasi offensive erano poste a conoscenza da
parte di più “soggetti indeterminati iscritti al social network e che chiunque,
collega o conoscente dell’imputato, avrebbe potuto individuare la persona
offesa“.
Pertanto, la Corte di Cassazione, prima
sezione penale, con la sentenza in commento, ha riconosciuto che la frase fosse
“ampiamente accessibile, essendo
indicata sul cosiddetto “profilo” e l’identificazione della persona offesa
favorita dall’avverbio “attualmente” riferita alla funzione di comando
rivestita“.
Il reato
di diffamazione non richiede il dolo specifico” ma la “consapevolezza di pronunciare
una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a
conoscenza anche soltanto di due persone“.
I giudici
di secondo grado non hanno adeguatamente indicato le ragioni logico-giuridiche
per le quali il limitato numero delle persone in grado di identificare il
soggetto passivo della frase a contenuto diffamatorio determini l’esclusione
della prova della volontà dell’imputato di comunicare con più persone in grado
di individuare il soggetto interessato“.
Anche quest’anno la Cassazione si è
occupata di insulti sui Facebook ma questa volta i protagonisti della vicenda
sono quattro ragazzi che, per i loro commenti negativi pubblicati su un articolo,
sono finiti sotto processo penale.
Nel caso di specie la Corte di Piazza
Cavour ha prosciolto gl iimputati per la genericità delle parole dagli stessi
utilizzate che non permettevano di individuare in maniera specifica le persone
lese.
Il
caso, nonostante la pronuncia di non luogo a procedere del giudice dell’udienza
preliminare, finiva lo stesso dentro le aule del Palazzaccio ma la Corte, con
la sentenza n. 20366 del 2015 considerando non consumata la diffamazione
per l’assenza di “alcuna correlazione tra i commenti apparsi su Facebook e gli
autori dell’articolo“,
assolveva definitivamente gli imputati.
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