Corte di Cassazione Sezione III Civile
Sentenza 5 maggio – 29 settembre 2015, n. 19211
Sentenza 5 maggio – 29 settembre 2015, n. 19211
Con sentenza del 25/10/2011 la Corte d’Appello di
Firenze, in parziale accoglimento del gravame ha dichiarato la concorrente
responsabilità del sig. P.R. (nella misura del 15%) e del sig. B.R. (nella
misura del 85%) nella causazione del sinistro stradale avvenuto a (OMISSIS) ,
allorquando alla guida delle rispettive autovetture quest’ultimo non
ottemperava all’obbligo di dare la precedenza al primo, che peraltro non aveva
rispettato il limite di velocità e non aveva impegnato l’incrocio con prudenza.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito
il P. propone ora ricorso per cassazione, affidato a 2 motivi, illustrati da
memoria.
Resiste con controricorso la società Assicurazioni
Generali s.p.a..
L’altro intimato non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
Con entrambi i motivi il ricorrente denunzia
“insufficiente e/o incongrua” motivazione su punti decisivi della controversia,
in relazione all’art. 360, 1 co. n. 5, c.p.c..
Si duole che la corte di merito abbia immotivatamente
disatteso le conclusioni del CTU nominato in sede di gravame, non considerando
correttamente l’incapacità lavorativa specifica.
Lamenta che il giudice del gravame ha fatto
“riferimento alle tabelle in uso a quel tempo nei Tribunali, senza indicare
quali tabelle e di quali tribunali si tratti”, omettendo di fare applicazione
delle Tabelle di Milano, la cui adozione avrebbe condotto “ad un risultato di
molto superiore in punto di quantum pari a circa Euro 120.000”.
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in
quanto connessi, sono in parte fondati, e vanno accolti nei termini e limiti di
seguito indicati.
Come questa Corte ha avuto più volte modo di affermare,
del danno non patrimoniale (diversamente da quello patrimoniale) il ristoro
pecuniario non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione,
imponendosene pertanto la valutazione equitativa Valutazione equitativa che è
diretta a determinare “la compensazione economica socialmente adeguata” del
pregiudizio, quella che “l’ambiente sociale accetta come compensazione equa”
(v. Cass., 7/6/2011, n. 12408).
Subordinata alla dimostrata esistenza di un danno
risarcibile certo (e non meramente eventuale o ipotetico) (cfr., da ultimo,
Cass., 8/7/2014, n. 15478. E già Cass., 19/6/1962, n. 1536) e alla circostanza
dell’impossibilità o estrema difficoltà (v. Cass., 24/5/2010, n. 12613. E già
Cass., 6/10/1972, n. 2904) di prova nel suo preciso ammontare, attenendo
pertanto alla quantificazione e non già all’individuazione del danno, la
valutazione equitativa deve essere condotta con prudente e ragionevole
apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, considerandosi in
particolare la rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza
sociale e i vari fattori incidenti sulla gravità della lesione.
Come avvertito anche in dottrina, l’esigenza di una
tendenziale uniformità della valutazione di base della lesione non può d’altro
canto tradursi in una preventiva tariffazione della persona, rilevando aspetti
personalistici che rendono necessariamente individuale e specifica la relativa
quantificazione nel singolo caso concreto (cfr. Cass., 31/5/2003, n. 8828).
Il danno non patrimoniale non può comunque essere
liquidato in termini puramente simbolici o irrisori o comunque non correlati
all’effettiva natura o entità del danno (v. Cass., 12/5/2006, n. 11039; Cass.,
11/1/2007, n. 392; Cass., 11/1/2007, n. 394), ma deve essere congruo.
Per essere congruo, il ristoro deve tendere, in
considerazione della particolarità del caso concreto e della reale entità del
danno, alla maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento (v.
Cass., 30/6/2011, n. 14402)
Alla stessa stregua di quanto si verifica
relativamente al danno patrimoniale [il quale com’è noto si scandisce in danno
emergente e lucro cessante, e ciascuna di queste “categorie” o “sottocategorie”
è a sua volta compendiata da una pluralità di voci o aspetti o sintagmi, quali
ad esempio, avuto riguardo al danno emergente, il mancato conseguimento del
bene dovuto o la perdita di beni integranti il proprio patrimonio, il c.d.
fermo tecnico, le spese (di querela per l’avvocato difensore, per il C.T.,
funerarie, ecc.); ovvero, con riferimento al lucro cessante, la perdita della
clientela, la irrealizzazione di rapporti contrattuali con terzi, il discredito
professionale, la perdita di prestazioni alimentari o lavorative, la perdita
della capacità lavorativa specifica, aspetti (o voci) che ovviamente non
ricorrono tutti sempre e comunque in ogni ipotesi di illecito o di
inadempimento, e il cui ristoro dipende dalla verifica della loro sussistenza,
con conseguente differente entità del quantum da liquidarsi al
danneggiato/creditore nel singolo caso concreto: v., da ultimo, Cass.,
14/7/2015, n.14645], attesa la diversità ontologica degli aspetti (o voci) di
cui si compendia la categoria generale del danno non patrimoniale è necessario
che essi, in quanto sussistenti e provati, vengano tutti risarciti, e nessuno
sia lasciato privo di ristoro (v., da ultimo, Cass., 12/6/2015, n. 12211).
Nella giurisprudenza di legittimità si è per altro
verso sottolineato che il principio della integralità del ristoro subito da
quest’ultimo non si pone invero in termini antitetici bensì trova correlazione
con il principio in base al quale il danneggiante/debitore è tenuto al ristoro
solamente dei danni arrecati con il fatto illecito o l’inadempimento a lui
causalmente ascrivibile, l’esigenza della cui tutela impone anche di evitarsi
duplicazioni risarcitorie (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., 14/9/2010, n.
19517), che si configurano ( solo ) allorquando lo stesso aspetto (o voce)
viene computato due o più volte, sulla base di diverse, meramente formali,
denominazioni, laddove non sussistono in presenza della liquidazione dei
molteplici e diversi aspetti negativi causalmente derivanti dal fatto illecito
o dall’inadempimento e incidenti sulla persona del danneggiato/creditore.
Duplicazioni risarcitorie si hanno pertanto solo
allorquando lo stesso aspetto (o voce) viene computato due o più volte, sulla
base di diverse, meramente formali, denominazioni, laddove non sussistono in
presenza della liquidazione dei molteplici e diversi aspetti negativi
causalmente derivanti dal fatto illecito o dall’inadempimento e incidenti sulla
persona del danneggiato/creditore.
In tema di liquidazione del danno non patrimoniale, al
fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato ovvero sia stato
erroneamente sottostimato, rileva non già il “nome” assegnato dal giudicante al
pregiudizio lamentato dall’attore (“biologico”, “morale”, “esistenziale”), ma
unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice (v. Cass.,
23/1/2014, n. 1361 v. anche, da ultimo, Cass., 13/8/2015, n. 16788).
Si ha, pertanto, duplicazione di risarcimento solo
quando il medesimo pregiudizio sia liquidato due volte, sebbene con l’uso di
nomi diversi (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., 6/4/2011, n. 7844. In tal
senso deve intendersi invero anche quanto affermato anche da Cass., Sez. Un.,
16/2/2009, n. 3677: “Il c.d. danno esistenziale… costituisce solo un ordinario
danno non patrimoniale, che non può essere liquidato separatamente sol perché
diversamente denominato”).
È invero compito del giudice accertare l’effettiva
consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli,
individuando quali ripercussioni negative sul valore persona si siano
verificate, e provvedendo alla relativa integrale riparazione (v. Cass.,
13/5/2011, n. 10527; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).
Le Sezioni Unite del 2008 avvertono che i patemi
d’animo e la mera sofferenza psichica interiore sono normalmente assorbiti in
caso di liquidazione del danno biologico, cui viene riconosciuta “portata
tendenzialmente onnicomprensiva”.
In tal senso è da intendersi la statuizione secondo
cui la sofferenza morale non può risarcirsi più volte, allorquando essa non
rimanga allo stadio interiore o intimo ma si obiettivizzi, degenerando in danno
biologico o in danno esistenziale.
In presenza di una liquidazione del danno biologico
che contempli in effetti anche siffatta negativa incidenza sugli aspetti
dinamico-relazionali del danneggiato, è correttamente da escludersi la
possibilità che, in aggiunta a quanto a tale titolo già determinato, venga
attribuito un ulteriore ammontare a titolo (anche) di danno esistenziale.
Analogamente deve dirsi allorquando la liquidazione
del danno morale sia stata espressamente estesa anche ai profili relazionali
nei termini propri del danno esistenziale (cfr. Cass., 15/4/2O10, n. 9040, ove
si è ravvisato essere indubbio che il giudice del merito, nel liquidare il
“danno morale” dei genitori per la morte del figlio all’esito di sinistro
stradale, avesse nel caso tenuto in considerazione anche la “perdita del
rapporto parentale”, sottolineando non assumere al riguardo “rilievo il nomen
iuris adottato dal giudice e dalle parti” bensì “i tipi di pregiudizio che
vengono complessivamente risarciti nella liquidazione del danno non
patrimoniale da fatto configurabile come reato”; Cass., 16/9/2008, n. 23275).
Laddove siffatti aspetti relazionali non siano stati
invece presi in considerazione (del tutto ovvero secondo i profili
peculiarmente connotanti il c.d. danno esistenziale), dal relativo ristoro non
può invero prescindersi.
I criteri di valutazione equitativa, la cui scelta ed
adozione è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, devono essere
dunque idonei a consentire la c.d. personalizzazione del danno (v. Cass.,
16/2/2012, n. 2228; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., 29/3/2007, n.
7740; Cass., 12/6/2006, n. 13546), al fine di addivenirsi ad una liquidazione
congrua, sia sul piano dell’effettività del ristoro del pregiudizio che di
quello della relativa perequazione – nel rispetto delle diversità proprie dei
singoli casi concreti – sul territorio nazionale (v. Cass., 13/5/2011, n.
10528; Cass., 28/11/2008, n. 28423; Cass., 29/3/2007, n. 7740; Cass.,
12/7/2006, n. 15760).
Ne consegue che la liquidazione di un ammontare che si
prospetti non congruo rispetto al caso concreto, in quanto irragionevole e
sproporzionato per difetto o per eccesso (v. Cass., 31/8/2011, n. 17879), e
pertanto sotto tale profilo non integrale, il sistema di quantificazione
verrebbe per ciò stesso a palesarsi inidoneo a consentire al giudice di
pervenire ad una valutazione informata ad equità, legittimando i dubbi in
ordine alla sua legittimità.
Com’è noto, in tema di risarcimento del danno non
patrimoniale da sinistro stradale valida soluzione si è ravvisata essere invero
quella costituita dal sistema delle tabelle (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408;
Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. V. altresì Cass., 13/5/2011, n. 10527).
Le tabelle, siano esse giudiziali o normative, sono
uno strumento idoneo a consentire al giudice di dare attuazione alla, clausola
generale posta all’art. 1226 c.c. (v. Cass., 19/5/1999, n. 4852).
Tale sistema costituisce peraltro solo una modalità di
calcolo tra le molteplici utilizzabili.
Lo stesso legislatore, oltre alla giurisprudenza, ha
fatto ad esse espressamente riferimento.
In tema di responsabilità civile da circolazione
stradale, il d.lgs. n. 209 del 2005 ha introdotto la tabella unica nazionale
per la liquidazione delle invalidità c.d. micropermanenti.
Già anteriormente era stato previsto (con D.M. 3
luglio 2003, e a far data dall’11 settembre 2003) un regime speciale per il
danno biologico lieve o da micropermanente (fino a 9 punti).
In assenza di tabelle normativamente determinate, come
ad esempio per le c.d. macropermanenti e per le ipotesi diverse da quelle
oggetto del suindicato decreto legislativo, il giudice fa normalmente ricorso a
tabelle elaborate in base alle prassi seguite nei diversi tribunali (per
l’affermazione che tali tabelle costituiscono il c.d. “notorio locale” v. in
particolare Cass., 1 giugno 2010, n. 13431.
Preso atto che le Tabelle di Milano sono andate nel
tempo assumendo e palesando una “vocazione nazionale”, in quanto recanti i
parametri maggiormente idonei a consentire di tradurre il concetto dell’equità
valutativa, e ad evitare (o quantomeno ridurre) – al di là delle diversità
delle condizioni economiche e sociali dei diversi contesti territoriali –
ingiustificate disparità di trattamento che finiscano per profilarsi in termini
di violazione dell’art. 3, 2 co., Cost., questa Corte è pervenuta a ritenerle
valido criterio di valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. delle lesioni di
non lieve entità (dal 10% al 100%) conseguenti alla circolazione (v. Cass.,
7/6/2011, n. 12408; Cass., 30/6/2011, n. 14402).
Essendo l’equità il contrario dell’arbitrio, la
liquidazione equitativa operata dal giudice di merito è sindacabile in sede di
legittimità ( solamente ) laddove risulti non congruamente motivata, dovendo di
essa “darsi una giustificazione razionale a posteriori” (v. Cass., 7/6/2011, n.
12408 ).
Si è al riguardo per lungo tempo esclusa la necessità
per il giudice di motivare in ordine all’applicazione delle tabelle in uso
presso il proprio ufficio giudiziario, essendo esse fondate sulla media dei
precedenti del medesimo, e avendo la relativa adozione la finalità di
uniformare, quantomeno nell’ambito territoriale, i criteri di liquidazione del
danno (v. Cass., 2/3/2004, n. 418), dovendo per converso adeguatamente
motivarsi la scelta di avvalersi di tabelle in uso presso altri uffici (v.
Cass., 21/10/2009, n. 22287; Cass., 1/6/2006, n. 13130; Cass., 20/10/2005, n.
20323; Cass., 3/8/2005, n. 16237).
Essendo la liquidazione del quantum dovuto per il
ristoro del danno non patrimoniale inevitabilmente caratterizzata da un certo
grado di approssimazione, si escludeva altresì che l’attività di
quantificazione del danno fosse di per sé soggetta a controllo in sede di
legittimità, se non sotto l’esclusivo profilo del vizio di motivazione, in
presenza di totale mancanza di giustificazione sorreggente la statuizione o di
macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o di radicale
contraddittorietà delle argomentazioni (cfr., da ultimo, Cass., 19/5/2010, n.
12918; Cass., 26/1/2010, n. 1529). In particolare laddove la liquidazione del
danno si palesasse manifestamente fittizia o irrisoria o simbolica o per nulla
correlata con le premesse in fatto in ordine alla natura e all’entità del danno
dal medesimo giudice accertate (v. Cass., 16/9/2008, n. 23725; Cass., 2/3/2004,
n. 4186; Cass., 2/3/1998, n. 2272; Cass., 21/5/1996, n. 4671).
La Corte Suprema di Cassazione è peraltro recentemente
pervenuta a radicalmente mutare tale orientamento.
La mancata adozione da parte del giudice di merito
delle Tabelle di Milano in favore di altre, ivi ricomprese quelle in precedenza
adottate presso la diversa autorità giudiziaria cui appartiene, si è ravvisato
integrare violazione di norma di diritto censurabile con ricorso per cassazione
ai sensi dell’art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c. (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408, e,
conformemente, Cass., 22/12/2011, n. 28290).
Si è quindi al riguardo ulteriormente precisato che i
parametri delle Tabelle di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del
giudice di merito ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, ovvero
quale criterio di riscontro e verifica di quella di inferiore ammontare cui sia
diversamente pervenuto, sottolineandosi che incongrua è la motivazione che non
dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una quantificazione che,
avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata
rispetto a quella cui l’adozione dei parametri esibiti dalle dette Tabelle di
Milano consente di pervenire (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402).
Orbene, la corte di merito ha nell’impugnata sentenza
invero disatteso i suindicati principi.
A tale stregua, la corte di merito ha liquidato il
danno alla salute con l’impiego di Tabelle diverse da quelle di Milano senza
adeguatamente motivare al riguardo (v. Cass., 29/6/2011, n. 14402, e,
conformemente, Cass., 18/11/2014, n. 24473), e senza renderne invero nemmeno
nota la provenienza, a tale stregua rendendo pertanto non controllabili i criteri
di relativa elaborazione (cfr. Cass., 6/3/2014, n. 5253).
Ai fini della liquidazione, anziché utilizzare,
trattandosi di debito di valore, i parametri vigenti al momento della propria
decisione [v. Cass., 23/1/2014, n.1361; Cass., 17/4/2013, n.9231; Cass.
11/5/2012, n. 7272] ha fatto altresì erroneamente “riferimento temporale” alla
data della “sentenza di primo grado (aprile 2001)”.
Dell’impugnata sentenza, assorbita ogni ulteriore e
diversa questione, va pertanto disposta la cassazione in relazione, con rinvio
alla Corte d’Appello di Firenze, che in diversa composizione procederà a nuovo
esame, facendo dei suindicati disattesi principi applicazione.
Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle
spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie p.q.r. il ricorso. Cassa in
relazione l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di
cassazione, alla Corte d’Appello di Firenze, in diversa composizione.
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