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L’azione
amministrativa. I principi costituzionali.
La pubblica
amministrazione, intesa come il complesso degli organi dello Stato e degli enti
pubblici, agisce attraverso le norme di azione amministrativa per perseguire
gli interessi pubblici (Sandulli A. M.
Manuale di
diritto amministrativo, 1989, 9).
L’amministrazione è titolare,
quindi, del potere decisionale che deve essere esercitato secondo il principio
dell’imparzialità e che deve essere teso a garantire il buon andamento della
gestione della cosa pubblica, secondo quanto affermato dall’art. 97 della
costituzione.
La norma afferma che i pubblici
uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati
il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.
Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari.
Secondo la dottrina l’imparzialità rappresenta il potere–dovere dell’amministrazione di valutare e ponderare gli interessi emergenti nell’ambito del procedimento che per taluni autori devono essere gestiti in modo che la posizione dell’amministrazione e dei privati risulti paritaria ossia che i soggetti siano posti sullo stesso piano
Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari.
Secondo la dottrina l’imparzialità rappresenta il potere–dovere dell’amministrazione di valutare e ponderare gli interessi emergenti nell’ambito del procedimento che per taluni autori devono essere gestiti in modo che la posizione dell’amministrazione e dei privati risulti paritaria ossia che i soggetti siano posti sullo stesso piano
Il buon andamento è definito
dalla dottrina come la necessità che l’azione amministrativa raggiunga il
perseguimento dell’interesse pubblico con il miglior grado di efficienza.
Imparzialità e buon andamento non
andrebbero considerati come principi distinti, ma come due facce di una stessa
medaglia, come una endiadi che articola un concetto unitario di legalità. (Cassese
S. (a cura di) Diritto amministrativo generale, 2000, I, 955).
L’art. 1, l. 241/1990,mod. art.
7, l.69/2009, ribadisce che l’azione amministrativa deve inoltre ispirarsi ai
principi di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità edi trasparenza nonché a quelli che derivano
dall’ordinamento comunitario.
L’azione amministrativa è,
dunque, vincolata sia al raggiungimento degli scopi sia al rispetto di
parametri meramente formali.
I principi cui l’azione
amministrativa deve ispirarsi non attengono, secondo la vecchia
classificazione, al tradizionale schema di stretta legalità (competenza,
riscontro normativo, finalità prevista dalla legge) ma concernono anche aspetti
che finiscono per investire i contenuti sostanziali dell’azione medesima, in
quanto si richiede che l’azione amministrativa sia semplice, economica e
trasparente (Bassani M., La
riforma del procedimento amministrativo: l’aggiornamento di cui alla
l.11.2.2005, n.15, allarga i margini del sindacato di legittimità sugli atti
della p.a., in Nuova Rass,. 2005, 442).
Il potere si articola sulla base
delle attribuzione delle funzioni, secondo quanto disposto dalla norma che
regola l’azione amministrativa.
L’organo monocratico rappresenta
la figurazione più semplice dell’esercizio del potere.
L’organo monocratico può essere
il legale rappresentante dell’amministrazione oppure può anche essere il
funzionario cui è attribuito il potere di manifestare la volontà
dell’amministrazione.
L’organo collegiale rappresenta
una costruzione più complessa del potere, poiché la volontà
dell’amministrazione è soggetta al procedimento amministrativo che disciplina
le modalità con le quali l’organo manifesta legittimamente la sua volontà.
Altre volte l’esercizio del
potere vede, nella fase decisoria, la presenza di più enti che devono
articolare la loro volontà in modo che essa possa fondersi nell’atto ultimo,
dando vita ad un provvedimento complesso.
Se il procedimento si articola
con la partecipazione di un maggior numero di soggetti si manifesta la
possibilità che l’inerzia di taluno di essi condizioni l’emanazione del
provvedimento finale.
Altro problema è
quello della imputabilità dei comportamenti di tali organi alla amministrazione
che attiene alla sfera della responsabilità interna (Giannini M.S., Diritto
amministrativo, 1988, 148).
A fronte dell’obbligo di azione
amministrativa secondo i principi sopra enunciati dalla costituzione è del
tutto non classificabile il comportamento omissivo della p.a.
La dottrina definisce silenzio la
mancata risposta della pubblica amministrazione alla richiesta di chi attende
da essa un provvedimento amministrativo.
Esso acquista a seconda delle
ipotesi formulate dal legislatore e dalla giurisprudenza un particolare
significato giuridico.
Poiché detto comportamento è
piuttosto frequente nella pratica la normativa ha formulato delle fattispecie
nelle quali anche un atteggiamento silente dell’amministrazione può avere degli
effetti giuridici al fine di permettere che l’attività condizionata da un
provvedimento possa avere luogo.
La dottrina ha considerato il
silenzio come l’omissione di qualsiasi comportamento.
Esso non può assumere di per sé
alcun significato né positivo né negativo (qui tacet neque negat, neque
utique fatetur). Affinché il silenzio possa assumere un determinato
significato, costituendo, quindi, una manifestazione tacita dalla quale si possa
desumere la volontà dell’amministrazione, deve ricorrere una delle seguenti due
ipotesi: 1) che la legge gli attribuisca un valore positivo o negativo 2) che esso
si verifichi in circostanze tali da conferirgli il significato di un atto
concludente (Virga P., Il provvedimento amministrativo, 1968, 182).
Di per sé stesso il silenzio non
esprime alcun significato giuridico.
L’interprete deve ricercare nelle
norme il valore che il legislatore dà per ogni singolo procedimento al
comportamento silente dell’amministrazione
Il silenzio non è
espressivo di alcuna volontà: non è un atto, ma un semplice fatto, al quale
l’ordinamento può ricondurre determinate conseguenze che possono consistere
anche nella produzione degli effetti tipici dell’atto non emanato (Cassese S.
(a cura di) Diritto amministrativo , op.cit., 2000, I, 974).
Il procedimento per dare valenza
al silenzio è dunque tipico.
Gli effetti del silenzio
dell’autorità amministrativa che deve emanare il provvedimento su richiesta di
parte o d’ufficio sono disciplinati dal t.u. 3/1957 e dalla l. 241/1990.
Il silenzio acquista rilevanza
nella fase preparatoria, ex l.
241/1990.
Gli effetti del silenzio dell’autorità preposta a
risolvere le controversie - ossia nel sistema dei ricorsi amministrativi -
trova, invece, disciplina nella l. 1199/1971 e nel d.lgs. 104/2010 (Gallo C.E.
Il codice del
processo amministrativo:. una prima lettura, in Urb. app.
2010, 1013).
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